venerdì 17 dicembre 2010

TONI NEGRI: È possibile essere comunisti senza Marx?

È possibile essere comunisti senza Marx? È evidente che sì.

Ciò non toglie che mi capiti spesso di discuterne con compagni e con intellettuali sovversivi di differenti estrazioni. Soprattutto in Francia – e le considerazioni che seguono riguardano essenzialmente la Francia. Debbo comunque confessare che spesso mi annoio a ragionare su questi argomenti, ci son linee troppo diverse e contraddizioni che raramente son condotte a confrontarsi con verifiche o soluzioni sperimentali. Si tratta spesso di confrontarsi con retoriche che astrattamente affrontano la pratica politica. E tuttavia, talora, ci si scontra con posizioni che negano addirittura che ci si possa dichiarare comunisti se si è marxisti. Da ultimo, ad esempio, un importante studioso – che pure aveva sviluppato nel passato le ipotesi del “maoismo” più radicale – mi diceva che, se ci si attenesse al marxismo rivoluzionario, che prevedeva il “deperimento dello Stato”, la sua “estinzione”, dopo la conquista proletaria del potere, e certo non ha realizzato questa finalità, non ci si potrebbe più dichiarare “comunisti”. Obiettavo che è come dire che il cristianesimo è falso perché il Giudizio Universale non è arrivato nei tempi prossimi, previsti dall’Apocalisse di Giovanni, e la “resurrezione dei morti” non la si è proprio vista! Ed aggiungevo che nell’epoca del disincantamento, la fine del secolo mondano per i cristiani e la crisi della escatologia socialista equivocamente sembrano giacere sotto la stessa coperta, meglio, subire eguali ingiunzioni epistemologiche – però, del tutto fallaci. È certo infatti che il cristianesimo è falso – ma io credo che lo sia per tutt’altre ragioni. E se anche il comunismo è falso, non lo è certo perché la speranza escatologica non si è in questo caso realizzata: non dico infatti che essa non fosse infatti implicita nella premessa, ma solo che molte delle “profezie” (meglio, dei dispositivi teorici) del comunismo marxiano si sono realizzate, al punto che oggi è ancora impossibile – senza Marx – affrontare il problema della lotta contro lo schiavitù del capitale. Proprio per questo, probabilmente, sarebbe importante ritornare dal cristianesimo a Cristo e dal comunismo a Marx…

E allora? Non si è data l’estinzione dello Stato, in Russia e in Cina lo Stato è divenuto onnipotente ed il comune è stato organizzato (e falsificato) nelle forme del pubblico: lo statalismo ha quindi vinto e, sotto quest’egemonia, non il comune ma un capitalismo burocratico sommamente centralizzato si è imposto. Tuttavia a me sembra che attraverso le grandi esperienze rivoluzionarie comuniste del secolo ventesimo, l’idea di una “democrazia assoluta”, e di un “comune degli uomini”, sia stata dimostrata possibile. Ed intendo la “democrazia assoluta” come un progetto politico che si costruisce oltre la democrazia “relativa” dello Stato liberale, e dunque come l’indice di una radicale rivoluzione contro lo Stato, di una pratica di resistenza e di costruzione del “comune” contro il “pubblico”, del rifiuto dell’esistente e dell’esercizio della potenza costituente da parte della classe dei lavoratori sfruttati.

Qui interviene la differenza. Qualunque sia stata la conclusione, il comunismo (quello che si è mosso secondo l’ipotesi marxista) si è provato (anche senza realizzarsi) attraverso un insieme di pratiche che non sono solo aleatorie, non solo transitorie: si è trattato di pratiche ontologiche. La questione, dunque, se si possa esser comunisti senza essere marxisti, dovrebbe prima di tutto confrontarsi con la dimensione ontologica del comunismo, con la determinazione materialista di questa ontologia, con i suoi residui effettivi, con l’irreversibilità di quel episodio nella realtà e nel desiderio collettivo degli uomini. Il comunismo è una costruzione, ci ha appreso Marx, un’ontologia, cioè la costruzione di una nuova società da parte dell’uomo produttore, del lavoratore collettivo, attraverso un agire che si rivela efficace perché è diretto all’accrescimento dell’essere.

Questo processo si è aleatoriamente dato, quest’esperienza si è parzialmente realizzata. Il fatto che sia stata sconfitta, non dimostra che sia impossibile: anzi è effettualmente mostrato che essa è possibile. Molti milioni di uomini e di donne hanno operato e pensato, lavorato e vissuto dentro questa possibilità. Nessuno nega che l’epoca del “socialismo reale” abbia ceduto a, e sia stata attraversata da, orribili derive. Ma sono esse tali da avere determinato un annullamento di quell’esperienza, da aver tolto quell’accrescimento dell’essere che il realizzarsi del possibile e la potenza dell’evento rivoluzionario avevano costruito? Se ciò fosse avvenuto, se il negativo che ha pur pesantemente intaccato la vicenda del “socialismo reale”, avesse prodotto una prevalente distruzione dell’essere, l’esperienza del comunismo sarebbe scivolata via e si sarebbe dispersa nel nulla. Ma questo non è avvenuto. Il progetto di una “democrazia assoluta”, l’istanza di costruire il “comune degli uomini” restano attrattivi, intatti nel nostro desiderio e nella nostra volontà. Non dimostra forse questa permanenza, questo materialismo del desiderio, la validità del pensiero di Marx? Non è perciò difficile, se non impossibile, essere comunisti senza Marx?

All’obiezione sullo statalismo che “necessariamente” deriverebbe dalle pratiche marxiste, occorre dunque rispondere riarticolando la nostra analisi: assumendo cioè che l’accumulazione dell’essere, il progredire della “democrazia assoluta”, l’affermazione della libertà e dell’uguaglianza, passano attraverso e subiscono incessantemente soste, interruzioni, catastrofi – ma che quest’accumulazione è più forte dei momenti distruttivi che pur conosce. Questo processo infatti non è finalistico, teleologico e neppure è una mossa di filosofia della storia: non lo è perché quest’accumulazione di essere che pur vive attraverso le vicende storiche, non è un destino e neppure una provvidenza, ma è la risultante, l’intersezione di mille e mille pratiche e volontà, trasformazioni e metamorfosi che hanno costituito i soggetti. Quella storia, quest’accumulazione sono prodotti delle singolarità concrete (che la storia ci mostra in azione) e produzioni di soggettività. Noi le assumiamo e le descriviamo a posteriori. Non c’è nulla di necessario, tutto è contingente ma concluso, tutto è aleatorio ma compiuto, nella storia che raccontiamo. Nihil factum infectum fieri potest: c’è forse filosofia della storia laddove i viventi desiderano solo continuare a vivere e per ciò esprimono dal basso una teleologia intenzionale della vita? La “volontà di vivere” non risolve i problemi e le difficoltà del vivere ma ci si presente nel desiderio come urgenza e potenza di costituzione del mondo. Se vi sono discontinuità e rotture, esse si rivelano nella continuità storica – una continuità sempre frastagliata, mai progressiva – ma neppure globalmente, ontologicamente catastrofica. L’essere non può mai essere totalmente distrutto.

Altro tema: quell’accumulazione di essere costruisce del comune. Il comune non è una finalità necessaria – è bensì un aumento dell’essere perché l’uomo desidera essere molteplicità, stabilire relazioni, essere moltitudine – non potendo star da solo, soffrendo soprattutto la solitudine. In secondo luogo, quell’accumulazione di essere non sarà neppure identità né origine: è essa stessa un prodotto di diversità e di consensi/contrasti fra singolarità, articolazione di costruzioni linguistiche e di determinazioni storiche, frutto di incontri e scontri. Va qui soprattutto sottolineato che il comune non si presenta come l’universale. Può contenerlo ed esprimerlo, ma non vi si riduce, è più esteso e temporalmente dinamico. L’universale si può predicare di ogni e di tutti gli individui. Ma il concetto di individuo autosussistente è contraddittorio. Non c’è individualità ma solo relazione di singolarità. Il comune ricompone l’insieme delle singolarità. Questa differenza del comune dall’universale è qui assolutamente centrale: Spinoza la definì quando, alla generica vuotezza dell’universale e all’inconsistenza dell’individuo, oppose la concreta determinazione delle “nozioni comuni”. Universale è ciò che nell’isolamento, nella solitudine, ogni soggetto può pensare; comune è invece quello che ogni singolarità può costruire, costituire ontologicamente a partire dal fatto che ogni singolarità è molteplice ma determinata concretamente nella molteplicità, nella comune relazione. L’universale è detto del molteplice, mentre il comune è determinato, è costruito attraverso il molteplice e qui specificato. L’universalità considera il comune come un astratto e lo immobilizza nel corso storico: il comune sottrae l’universale all’immobilità e alla ripetizione. E lo costruisce invece concretamente.

Ma tutto questo presuppone l’ontologia. Ecco dunque dove il comunismo ha bisogno di Marx: per impiantarsi nel comune, nell’ontologia. E viceversa. Senza ontologia storica non c’è comunismo.

Si può essere comunisti senza essere marxisti? Diversamente dal “maoismo” francese, che non ha mai frequentato Marx (ma su questo ritorneremo), Deleuze e Guattari ad esempio furono comunisti senza essere marxisti, ma lo furono in maniera estremamente efficace, fino al punto che si favoleggiò di un Deleuze autore, in punctuo mortis, di un libro intitolato “La grandeur di Marx”. Deleuze e Guattari costruiscono il comune attraverso degli agencements collectifs e un materialismo metodologico che li avvicina al marxismo ma li tiene distanti dal socialismo classico, e comunque da ogni ideale organico di socialismo e/o statalistico di comunismo. Sicuramente Deleuze e Guattari si dichiararono tuttavia comunisti. Perché? Perché, senza essere marxisti, furono implicati in quei movimenti di pensiero che si aprivano continuamente alla pratica, alla militanza comuniste. In particolare, il loro materialismo fu ontologico, il loro comunismo si sviluppò sui mille plateaux della pratica trasformativa. Mancava loro la storia, quella positiva che certo spesso può aiutare nel produrre e nel comprendere la dinamica della soggettività (in Foucault, questo dispositivo è finalmente reintegrato nell’ontologia critica): talora tuttavia la storiografia positivista, certo, ma talora la storia può essere iscritta all’interno della metodologia materialista, senza quegli orpelli cronologici e quell’eccessiva insistenza sugli eventi, tipica di ogni Historismus – e appunto ciò che avviene in Deleuze-Guattari. Insisto sulla complementarietà di materialismo e ontologia perché la storia (che nella prospettiva tanto dell’idealismo classico quanto del positivismo era certo ricalcata dalla filosofia, ma per finalizzarla ad ipostasi politiche o etiche e così a negarne la dimensione ontologica) può, invece, essere talora tacitamente ma efficacemente sussunta – quando l’ontologia costituisca dispositivi particolarmente forti, come avveniva in Deleuze-Guattari. Non bisogna infatti dimenticare che il marxismo non vive solo nella scienza ma piuttosto si svolge dentro esperienze “situate”: il marxismo è spesso rivelato dai dispositivi militanti.

Diversamente van le cose quando, ad esempio, si confronti il nostro problema (comunismo/marxismo, storia/ontologia) alle numerose varianti del socialismo utopistico, soprattutto a quello di derivazione “maoista”. Nell’esperienza francese del “maoismo” si assistette al diffondersi di una specie di “odio per la storia”, che – qui consistete la sua spaventosa deficienza – rivelava un estremo disagio quando si trattasse di produrre obiettivi politici. Così, infatti, evacuando la storia, si evacuava non solo il marxismo ma anche la politica. Paradossalmente si ripeteva, nella direzione opposta, quello che era avvenuto in Francia nel periodo della fondazione della scuola degli “Annales” di Marc Bloch e di Lucien Febvre: in quell’occasione il marxismo venne introdotto nella discussione filosofica attraverso la storiografia. E la storiografia divenne politica!

Altrettanto vale per il socialismo utopistico: si deve riconoscere che, in talune delle sue esperienze (fuori dalle varianti maoiste), esso ha offerto connessioni materialiste di ontologia e storia – non sempre, ma sovente. Si pensi solo – per quel che riguarda l’esperienza francese – ai formidabili contributi di Henri Lefebvre. Si tratterà allora di comprendere se e fino a che punto, dentro questo variare di posizioni diverse, emergono talora posizioni che (in nome dell’universalità del progetto politico proposto) si oppongono alla praxis ontologica – negando, ad esempio, la storicità di categorie come l’“accumulazione originaria” e proponendo di conseguenza l’ipotesi di un comunismo come pura restaurazione, immediata, dei commons, oppure svalutando le metamorfosi produttive che configurano variamente la “composizione tecnica” della forza lavoro (che è vera e propria produzione materialista di soggettività nella relazione fra rapporti produttivi e forze produttive), riconducendo in maniera radicale alla natura umana (sempre uguale, sub forma arithmeticae) l’origine della protesta comunista, ecc. ecc.: si tratta evidentemente di una riedizione ambigua dell’idealismo nella sua figura trascendentale.

Per esempio: in Jacques Rancière abbiamo recentemente visto accentuarsi i dispositivi che negano ogni connessione ontologica di materialismo storico e comunismo. La prospettiva dell’emancipazione del lavoro si sviluppa infatti, nella sua ricerca, in termini di autenticità della coscienza, assumendosi conseguentemente la soggettività in termini individuali, e quindi togliendo di mezzo – proprio prima di cominciare – ogni possibilità di chiamare comune la produzione di soggettività. Inoltre l’azione emancipatrice si stacca qui da ogni determinazione storica e proclama la sua indipendenza dalla temporalità concreta: la politica, per Rancière, è un’azione paradossale che stacca il soggetto dalla storia, dalla società, dalle istituzioni, pur quando, senza quella partecipazione (quell’inerenza che può essere radicalmente contraddittoria), il soggetto politico non sarebbe neppure predicabile. Il movimento di emancipazione, la “politica” perdono così ogni caratteristica di antagonismo, non in astratto ma sul terreno concreto delle lotte, e le determinazioni dello sfruttamento non si vedono più e (parallelamente) non costituisce più problema l’accumulazione del potere nemico, della “polizia” (sempre presentata in una figura indeterminata, non quantitate signata). Quando il discorso di emancipazione non riposa sull’ontologia, diviene utopia, sogno individuale e lascia il tempo che trova.

Siamo così entrati in medias res, al punto di chiederci se (dopo il sessantotto) ci sia mai stato un comunismo collegato al marxismo in Francia. C’è stato certamente (e permane) nelle due varianti dello stalinismo e del trotzkismo, l’una e l’altra ormai partecipanti di una storia lontana ed esoterica. Quando invece si viene alla filosofia del ’68, qui il rifiuto del marxismo è radicale. Vogliamo riferirci essenzialmente alle posizioni di Badiou, che godono di una certa popolarità.

Una breve precisazione. Quando Rancière, nelle immediate adiacenze del ’68, sviluppava (dopo aver partecipato alla comune lettura de “Il Capitale”) una critica pesante delle posizioni di Althusser, e metteva in luce come nella critica dell’umanesimo marxista (che solo dopo il ’68 – con un certo ritardo, dunque! – si apriva in Althusser alla critica dello stalinismo) permanessero in realtà gli stessi presupposti intellettualisti dell’“uomo di partito” e l’astrazione strutturalista del “processo senza soggetto” – aveva ragione da vendere. Ma non si dovrebbe oggi, da parte di Rancière sollevare la stessa critica nei confronti di Badiou? Anche per Badiou infatti è solo l’indipendenza della ragione, la sua garanzia di verità, la sistematicità di un’autonomia ideologica – è solo a queste condizioni che si determina la definizione del comunismo. “N’est-ce pas, sous l’apparance du multiple, le retour à une vieille conception de la philosophie supérieure?” – si chiedono Deleuze-Guattari. È quindi molto difficile capire dove stiano per Badiou le condizioni ontologiche del soggetto e della rottura rivoluzionaria. Per lui, infatti ogni movimento di massa costituisce una performance piccolo borghese, ogni lotta immediata, del lavoro materiale o cognitivo, di classe o del “lavoro sociale”, è qualcosa che mai toccherà la sostanza del potere – ogni allargamento della capacità collettiva di produzione dei soggetti proletari non sarà altro che un allargamento del loro assoggettamento alla logica del sistema – quindi, l’oggetto è inarrivabile, il soggetto indefinibile, a meno che la teoria non lo produca, a meno di disciplinarlo, di adeguarlo alla verità e di innalzarlo all’evento – oltre la pratica politica, oltre la storia. Ma tutto questo è ancor poco rispetto a quello che ci aspetta se seguiamo il pensiero di Badiou: ogni quadro di lotta, specificamente determinato, gli sembra (se la teoria e l’esperienza militante gli attribuiscono una potenza di sovversione) solo un’allucinazione onirica. Insistere ad esempio sul “potere costituente” sarebbe per lui sognare la trasformazione di un immaginario “diritto naturale” in una potenza politica rivoluzionaria. Solo un “evento” può salvarci: un evento che sia fuori da ogni esistenza soggettiva che sappia determinarlo e da ogni pragmatica strategica che ne rappresenti il dispositivo. L’evento per Badiou (la crocifissione di Cristo e la sua resurrezione, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.) è sempre definito a posteriori, è dunque un presupposto e non un prodotto della storia. Di conseguenza, paradossalmente, l’evento rivoluzionario esiste senza Gesù, senza Robespierre, senza Mao. Ma, privato di una logica interna di produzione dell’evento, come si potrà mai distinguere l’evento da un oggetto di fede? Badiou, in realtà, si limita con ciò a ripetere l’affermazione mistica, normalmente attribuito a Tertulliano: “credo quia absurdum” – credo, cioè, perché è assurdo. Qui l’ontologia viene spazzata via. Ed il ragionamento comunista è ridotto o a un colpo di matto o a un business dello spirito. Per dirla tutta, ripetendo Deleuze-Guattari: “l’événement lui-même apparaît (selon Badiou), moins comme une singolarità que comme un point aléatoire séparé qui s’ajout ou se soustrait au site, dans la trascendance du vide ou la vérité comme vide, sans qu’on puisse décider de l’appartenance de l’événement à la situation dans laquelle se trouve son site (l’indécidable). Peut-être en revanche y a-t-il une intervention comme un jet de dé sur le site qui qualifie l’événement et le fait entrer dans la situation, une puissance de « faire » l’événement”.

Ora, si comprendono facilmente alcuni dei presupposti di queste posizioni teoretiche (che comunque partono da una sofferta e condivisa autocritica di pratiche rivoluzionarie trascorse). Si trattava, infatti, in primo luogo, di distruggere ogni riferimento alla storia di un “socialismo reale”, sconfitto, sì, ma sempre e comunque infarcito di premesse dogmatiche e di un’organica disposizione al tradimento. In secondo luogo, si voleva evitare di stabilire qualsiasi relazione fra le dinamiche dei movimenti sovversivi e i contenuti e le istituzioni dello sviluppo capitalistico. Giocare con questi, dentro/contro, come la tradizione sindacale proponeva, aveva infatti prodotto corruzione del desiderio rivoluzionario ed illusione delle volontà in lotta. Ma trarre da questi giusti obiettivi critici la conseguenza che ogni tentativo politico, tattico e strategico di ricostruzione di una pratica comunista e la fatica di questo esercizio, siano esclusi dalla prospettiva di liberazione; che non possa darsi un progetto costituente, né alcuna presa trasformativa dentro la dimensione materiale, immediatamente antagonista delle lotte; e che ogni tentativo di render conto delle forme attuali del dominio, in qualsiasi modo esso si sviluppi, sia comunque subordinato ed assorbito dal comando capitalistico; che infine ogni riferimento alle lotte all’interno di un tessuto biopolitico, a lotte – dunque – che considerino in una prospettiva materialistica le articolazioni del Welfare, non rappresentino altro che un rigurgito vitalista – bene, tutto questo ha un solo significato: la negazione della lotta di classe. E ancora: secondo l’“estremismo” badiousiano, il progetto del comunismo non può darsi se non in maniera privativa e dentro forme di sottrazione dal potere, e la nuova comunità non potrà che essere il prodotto dei senza comunità (come d’altra parte sostiene Rancière). Quello che offende, in questo progetto, è la purezza giansenista che esso esibisce: ma quando le forme dell’intelligenza collettiva sono a tal punto disprezzate – perché ogni forma d’intelligenza prodotta nella storia concreta degli uomini è ricondotta alla logica del sistema di produzione capitalista – allora, non c’è più niente da fare. O, meglio, resta da riaffermare l’osservazione sopra già fatta, e cioè che la pragmatica materialista (quella che abbiamo conosciuto fra Machiavelli e Nietzsche, fra Spinoza e Deleuze), quel movimento che vale esclusivamente per sé stesso, quel lavoro che rinvia solo alla propria potenza, quell’immanenza che si concentra sull’azione e sull’atto di produzione di essere – è in ogni caso più comunista di ogni altra utopia che abbia un rapporto schizzinoso con la storia ed incertezze formali con l’ontologia.

Noi non crediamo dunque possibile parlare di comunismo senza Marx. Certo, il marxismo va profondamente, radicalmente riletto e rinnovato. Ma anche questa trasformazione creativa del materialismo storico può avvenire seguendo le indicazioni di Marx – arricchendolo con quelle che derivano dalle correnti “alternative” vissute nella modernità, da Machiavelli a Spinoza, da Nietzsche a Deleuze-Foucault. E se Marx studiava le leggi di movimento della società capitalista, ora si tratta di studiare le leggi del lavoro operaio, meglio, dell’attività sociale tutta intera, e della produzione di soggettività dentro la sussunzione della società nel capitale e l’immanenza della resistenza allo sfruttamento sull’orizzonte globale. Oggi non basta più studiare le leggi del capitale, bisogna lavorare all’espressione della potenza della ribellione dei lavoratori ovunque. Sempre seguendo Marx: quello che ci interessa “è il lavoro non come oggetto ma come attività; non come valore esso stesso ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, il lavoro è la ricchezza generale come sua possibilità, che si conferma nell’attività come tale. Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività”. Ma come cogliere il lavoro in questo modo, e cioè non come oggetto sociologico ma come soggetto politico? Questo è il problema, questo è l’oggetto dell’inchiesta. Solo risolvendo questo problema possiamo parlare di comunismo – se è necessario (e quasi sempre lo è) sporcandoci le mani. Tutto il resto è chiacchiera intellettualista.

fonte: UniNomade

Tratto da: controlacrisi.org

lunedì 13 dicembre 2010

iRS scontri politici per la supremazia deviano su accuse e insinuazioni alla persona .. malattia infantile dei movimenti?





NO ALL'OSCURANTISMO DELL'EVO!!

sayli vaturu

.. in questi ultimi tempi abbiamo a che fare con situazioni non molto decorose per i movimenti che si battono per l'indipendenza della terra Sarda..

accade che sono sovraesposti gli atteggiamenti, e sotto molti aspetti difettosi, come, ad esempio i comportamenti tra soggetti indipendentisti, ognuno nel proprio movimento soffre o ha sofferto una sorta di ingiusta "perscutatio humanae" (mobbing)..

.. non fosse altro per le posizioni politiche divergenti dal pensiero più o meno unico che vige dentro i gruppi ed i movimenti che si richiamano all'indipendentismo?

L'aspetto deleterio di questi comportamenti da pettegolucci più che da politici, è il fatto che dal confronto politico, se non accettato o maldigerito, si passa velocemente al discredito ed all'infamia della persona..

questo atteggiamento dimostra ritrosia all'apertura e all'ascolto dell'altro che lo si vede come diverso, quando ritenuto non inquadarabile dentro schemi, allora si persegue senza limite.. questi metodi ritengo siano arcaici desueti e obsoleti, ma, ricordano molto i modi di fare e gli atteggiamenti del vecchio "comintern" del PCUS,

..infatti è l'idea sotto accusa poichè non è inquadrabile dentro la visione politica del movimento che si dichiara a suo dire, superiore o di maggioranza , e questo avviene all'interno dei soggetti che formano il CN (Consiglio Natzionale) ove è ritenuta una abiura pensare diverso, invece che una varietà plurale di idee e azione politica....

Segnali negativi e di grande antagonismo all'inconosciuto mondo della moltitudine da parte di movimenti indipendentisti, esso è percepito in senso negativo invece che la partecipe attività dei molti, e ciò si è evidenziato con la "Marcia pro s'indipendentzia" del 27 novembre scorso, in tale infatti e stata occasione per alzare un dibattito di forte critica dell'evento... forte contraddizione(?)... la verità sarà oggetto di discussione futura sulla storia della nostra terra..

..ora , invece, siamo alla evidente divisione all'interno del movimento indipendentista di iRS, si evince che ciò che è latente in questo movimento è motivo di agitazione per altri.. e i motivi peraltro sono gli stessi ovunque, la mancanza di etica nelle relazioni politiche e personali tra patrioti/e..

Stiamo vivendo momenti difficili, dobbiamo compattarci e riconoscerci annusandoci e avendo cura di non rovinare nessun soggetto a motivo di gelosie e vanagloriosa ambizione personale, il confronto deve essere sulle idee e non più sulla logica partitica o di giuramenti obsoleti, inadeguati al confronto basato su una giusta visione ideale e non ideologica..

chiediamoci che visione abbiamo del futuro, come ci dobbiamo inventare nell'intento del futuro natzionale e come mobilitarci per dare speranza ai giovani patrioti/e.

Per patria si intende : terra dei nostri padri, perchè non rispettare tale concetto con determinazione e passare sopra le ambizioni personali, e non diamo vivacità all'idea indipendentista?

Dobbiamo agire con onestà intelletuale e porre le basi per un'etica che sia base di rispetto per tutti i diritti personali e della dignità della persona,

... se così ci comportiamo allora verrà spontaneo attenersi al senso di appartenenza alla comunità sarda e a un destino comune , con una stessa lingua e tradizione e una storia da acclamare e sostenere, tra le giovani generazioni per dar loro, un motivo di rivendicazione pragmatico e istintuale.

Se ragioniamo in termini di stato , abbiamo modo di superare le divisioni personali e politiche e dare vita ad un progetto politico articolato e vincente per il superamento dell'attuale stato di cose coloniale per la liberazione della nostra natzione.

Dobbiamo dare speranza di un futuro (sperantzia de libertadi) che sia di felice convivenza sebbene nella decrescita economica, dobbiamo esprimere una logica che nulla ha a che vedere con la logica della crescita infinita e dello sfruttamento perenne delle cose e dei soggetti, determinando una nuova aria di pura libertà, così sicuramente decideremo e avremo ragione del futuro della nostra terra!

sa defenza



video con assemblea a Abbasanta
http://www.ventirighe.it/index.php?option=com_seyret&Itemid=533&task=videodirectlink&id=313




Ultima ora. Il Comunicato finale dell'Assemblea

Oggi 12 dicembre si è riunita ad Abbasanta, Hotel “Su Baione”, l'Assemblea Generale ufficialmente indetta il 24 ottobre 2010 dagli Organi del movimento. Erano presenti tra attivisti, sostenitori e simpatizzanti circa 300 persone.
L'Assemblea si è svolta in maniera regolare e ha deliberato, in virtù delle ultime vicende, di riportare la discussione sulla situazione attuale nelle assemblee territoriali con l'idea di riaprire il movimento alla più ampia partecipazione di attivisti, sostenitori e simpatizzanti in modo da coinvolgere tutti gli strati della società sarda. L'obiettivo di questa fase è quello di allargare la vita del movimento, riproponendo la progettualità in larga misura mancata nell'ultimo anno, nella convinzione che solo la partecipazione possa rilanciare l'unità e l'attività politica che da sempre ha contraddistinto iRS. Erano assenti i componenti dell'Esecutivo coinvolti nei fascicoli dissecretati. Essendosi sottratti al confronto, non è quindi stato possibile chiarire la loro posizione, si ritengono pertanto sospesi e diffidati dall'uso del simbolo o di qualsiasi altro riferimento al movimento politico organizzato iRS.
La prossima Assemblea Generale si svolgerà il 9 di Gennaio 2011.

L'indipendentismo di iRs: un rischio per molti. Conferenze stampa, comunicati, riunione convocate e poi disdette da chi le aveva convocate, le vicende del movimento indipendentista di iRS sono in prima pagina. Oggi si è consumata, nei fatti, una rottura del movimento. Una fase per l’indipendentismo sardo si è definitivamente chiusa. Dopo anni di battaglie, spesso solitarie, il movimento fondato anche da Gavino Sale e che tanti consensi anche elettorali aveva raccolto proprio alle ultime amministrative, è stato lacerato da una “scissione” ai più incomprensibile, ma chiara nei documenti che sono stati svelati proprio dal Presidente Gavino Sale (neo Assange di un Wikilearks sardo). Un’azione di disvelamento, di trasparenza, che ha consentito a tutti di conoscere ciò che si “tramava” da lungo tempo all’interno del movimento indipendentista. La tentazione di “impadronirsi” di un simbolo, di un logo e di eliminare lo stesso Sale, uno dei leader storici di iRS, è stata più forte delle ragioni di rafforzare con un serrato confronto politico l’azione del movimento. Mai era successo in Sardegna che un gruppo indipendentista, su una linea di forti rivendicazioni e di denuncia dei mali storici della “dipendenza” e di una “falsa autonomia” riuscisse anche a cogliere importanti risultati elettorali e ad entrare, dalla porta principale del voto democratico, nelle Istituzioni locali. Un risultato tanto evidente che ha attivato paradossalmente un meccanismo distruttivo e lacerante. Inspiegabile. Una forza giovane, decisa, determinata, guidata da un leader dalla forte personalità, radicata nei territori, è stata vittima di un oscuro “complotto” le cui trame, oggi è chiaro, erano disegnate da tempo, forse sin dall’indomani delle ultime regionali. Il nome, il simbolo, la credibilità di iRs, soprattutto tra le giovani generazioni, erano un bel boccone da “inglobare”, forse da “normalizzare”. Dietro apparenti ragioni organizzative (chi decide? e cosa decide?) sono stati attivati comportamenti dirompenti. La domanda ancora senza risposta è perché si è giunti a questo punto. Quali le ragioni politiche di uno scontro così aspro e così duro. Questioni di leadership? Di linea politica? Questioni, se fossero realmente queste, risolvibili solo con un confronto politico che però non si è svolto. La stessa assemblea odierna di Abbasanta poteva essere l’occasione per farlo, ma chi ha lanciato le accuse complottando si è ritirato sottraendosi al confronto e invocando ruoli inesistenti nei fatti. Quindi ritorna la domanda perché? Tentiamo una risposta. La creatura era cresciuta, faceva ombra, poteva diventare un riferimento sempre più forte per i sardi, soprattutto in una fase politica dove si dovrebbe riscrivere lo Statuto, proporre e disegnare un moderno federalismo, rivendicare l'applicazione delle leggi esistenti in materia di entrate. Insomma in una fase dove proprio i temi sollevati da iRS sono di stretta attualità: federalismo, autonomia o indipendenza? Questi i temi del confronto politico oggi in Sardegna. La creatura quindi dava fastidio. Andava depotenziata, riportata a più miti consigli, magari trasformata in un tradizionale “partito” dove spesso chi decide non rende mai conto a nessuno delle scelte fatte e se lo fa, lo fa solo dopo, quando è troppo tardi per rimediare. Tentiamo ancora una risposta. Indebolire la creatura magari per rinvigorire neonate liste elettorali - fallite alla verifiche del voto- e gruppi politici che parlavano di “indipendentismo” con nomi e simboli che richiamavano il fascino del “rosso” e dei “4 mori”, ma che, per come erano nate nel chiuso di qualche stanza, non avevano realizzato quei risultati che i promotori si auspicavano. I fatti di questi giorni rivelano che iRS è stata in questi ultimi mesi oggetto di un’Opa (interna ed esterna) da parte di chi, rifiutando ogni confronto aperto e pubblico era desideroso di appropriarsi, a tutti i costi anche tramando, di un soggetto “vincente” contando sulle rivalità interne e sui contrasti sempre presenti anche nei piccoli gruppi politici. Ma anche i complotti, per riuscire, seguono delle regole: la prima delle quali è la riservatezza. “Si fa, ma non si dice” è il credo di certa politica sempre più invisa da tanti. Caduta quella "segretezza", tutto il castello crolla, perché c’è sempre qualche “manina” che con un clic svela i misteri e le trame o che magari manda un CD con documenti “inconfessabili”. Prima o poi succede. E’ successo alla potente America di Obama, immaginatevi da noi!
La cronaca della giornata
Un’assemblea nazionale “circolare”, per “guardarsi in faccia”, nessuna Presidenza, nessun palco per gli oratori. Inizia così con una modifica anche logistica della sala riunioni dell’Hotel Su Baione di Nuraghe Losa di Abbasanta, l’assemblea nazionale del movimento indipendentista iRS. Una trasformazione simbolica di ciò che intendono i militanti del Movimento: una organizzazione senza vertici di tipo “partitico”, senza “comitati centrali”, ma al contrario un movimento organizzato capace di includere singoli militanti, gruppi di simpatizzanti, pezzi della società sarda in un ambito libero, dove la discussione è finalizzata allo scopo da tutti condiviso: l’indipendenza come condizionare per la libertà dei sardi. Ed è stato questo il filo conduttore dei partecipanti all’assemblea già indetta oltre due mesi fa e confermata proprio ieri anche dal gruppo dei “scissionisti” ma inaspettamente da loro stessi disdetta a notte fonda e oggi disertata. Il gruppo ha organizzato in fretta e fuori un’altra assemblea a Cagliari, rifiutando ogni confronto con l’Assemblea generale. Una “diserzione” che, nei commenti dei militanti di iRS è stata duramente criticata ed ha costituito per molti un motivo in più di riflessione su quanto accaduto. Nonostante questo, oltre duecento sono stati i militanti convenuti per discutere e valutare le iniziative da intraprendere dopo la denuncia di “un complotto” ordito, all’insaputa dei militanti di iRS, da un gruppo di “scissionisti” che puntava ad acquisire il totale controllo del movimento indipendentista. La denuncia, anticipata ieri in una conferenza stampa dal Presidente Gavino Sale, (vedi il video sulla nostra web tv) è stata l’antipasto della riunione odierna. Sono state proiettate le “slide” dei numerosi documenti che, con un Cd, erano stati recapitati direttamente nei giorni scorsi proprio a Sale da un partecipante (al momento anonimo) al gruppo degli “scissionisti” che ben conosceva quindi ciò che si stava tramando. Nel Cd sono contenute le missive che alcuni componenti dell’esecutivo nazionale si erano scambiati e nelle quali si delineavano gli scopi e le finalità del gruppo. Tra questi anche la copia della richiesta di “brevettare” il nome e il simbolo di iRS per avere così il pieno controllo non solo politico, ma anche formale del Movimento.
”Irs siamo noi e siamo in tanti, noi abbiamo il simbolo, gli attivisti e i sostenitori. Gli scissionisti sono una minoranza riunita a Cagliari”. Gavino Sale in apertura di riunione, riassume senza fronzoli la guerra interna che rischia di dilaniare il Movimento degli indipendentisti sardi e strappa la standing ovation al popolo di Irs che affolla la sala conferenze dell'Hotel Baione di Abbasanta.
”Irs riparte da qui - spiega Sale ai fedelissimi arrivati da tutta la Sardegna - e riparte con le porte e le finestre aperte: qui finalmente si respira aria pulita, qui c'e' il presidente eletto democraticamente e questa e' l'assemblea ufficiale di Irs”. Se le parole di Sale infiammano l'assemblea, le slide con la selezione delle e-mail che proverebbero 'il complotto' per far fuori uno dei fondatori del Movimento provocano sdegno e perfino sgomento in sala. In particolare quelle di una dirigente del Movimento che senza mezzi termini si chiede se non sia il caso di augurarsi la scomparsa di Sale per mano di Dio o magari se non sia preferibile la fine lenta del 'dittatore' in un letto di ospedale. Sale spiega che sono 6.800 le mail che documentano le trame dei suoi oppositori per cacciarlo dal movimento che aveva fondato, ma non chiude loro la porta in faccia, perche' “iRS e' un movimento inclusivo e dividersi quando si ha il 4% dei consensi elettorali e' ridicolo”. Con i giornalisti e nel suo intervento all'Assemblea Sale affronta anche la questione delle presunte pressioni esterne: “non ho la prova cartacea - spiega - ma e' sempre successo ogni volta che l'indipendentismo e' cresciuto. Noi siamo l'ala movimentista vera e quando siamo andati a toccare gli interessi forti (banche, grande industria e altri), sono arrivati i colpi, ma iRS oggi e' diventato maggiorenne ed e' uno e indivisibile”.
Gli interventi dei militanti confermano e rafforzano l'indipendentismo di iRS.
Claudia Arru del Medio Campidano: "solo oggi capisco le difficoltà che ho vissuto in questi ultimi mesi. Oggi ne capisco le ragioni: iRS non è un partito, non ci sono “cariche”, non ci sono “generali” che danno ordini: iRS è un movimento dove tutti possono partecipare e dove siamo tutti sullo stesso piano. E’ questa la forza di iRS, tanti, diversi, ma uniti nella lotta per l’indipendentismo".
Andrea Fredda della “regione” di Sassari: “siamo un insieme di diversità che si sono ritrovate nel lavoro comune di iRS, che si confrontano, discutono e che sono militanti veri e non “utenti” del web, dove magari chi ha le password magari ti cancella. Esistiamo perché ci confrontiamo senza gerarchie e senza “ordini” da eseguire”.
Nello Gardenia coordinatore di iRS di Sassari: “iRS è un progetto di cambiamento, un grande contenitore per tutta la sardegna e per i sardi. Un progetto politico unitario e con tante pluralità: è questa la ricchezza politica ed umana di questo movimento”.
Placido Cherchi di Oschiri. Un anziano militante che ha sottolineato come "l’invidia rimane sempre la malattia dei sardi” di chi “ha lo sguardo obliquo”, di chi "preferisce il muretto a secco al confronto aperto e leale". "Ho la certezza anche morale- ha aggiunto-che i documenti illustrati oggi sono veri e riflettono comportamenti dai quali dobbiamo diffidare e che dobbiamo condannare. Nessuna “pacificazione” sarà possibile con chi trama nell’ombra e non rende note le posizioni politiche". "Mi sembra- ha aggiunto- di vivere altri tempi quando l’ubbidienza era una virtù e il “centralismo democratico” un metodo per imporre, senza alcun confronto “la linea” da tenere". Anche sulle “aperture” al confronto Cherchi è stato netto raccomandando “cautela” perché le cose successe sono gravi e dannose per tutti.
Anche Bettina Pitzurru era sconcertata. Ha raccontato la sua storia personale di militante di iRS in quel di Cagliari, le sue difficoltà come coordinatrice del movimento “Abba libera” contro i disegni di privatizzazione dell’acqua in Sardegna: lasciata sola perché “prima ti rubano l’anima poi il resto”. "Difficile, ha aggiunto, ricucire con chi ti vuole eliminare. La stesso questione della “parità di genere” in un movimento dove le donne sono parte rilevante di iRS è stata osteggiata e spesso- ha concluso- i miei interventi censurati e nascosti". "Il web non è la democrazia- ha aggiunto- è uno strumento, ma non potrà mai sostituire il confronto e il lavoro quotidiano di ciascuno di noi" .
Gli scissionisti di Cagliari, confermano “Sale è fuori e noi andiamo avanti”.
Quello che resta dell’esecutivo di iRS oggi nell’ Assemblea da loro convocata a Cagliari, dopo aver rinunciato a partecipare a quella di Abbasanta, ha deciso l'espulsione e ha diffidato Gavino Sale a parlare a nome di IRS.
La spaccatura all'interno del movimento indipendentista sardo, ratificata oggi, e' avvenuta dopo che Sale, uno dei leader del movimento, ha denunciato ieri, in una conferenza stampa, un complotto per delegittimarlo e farlo fuori da IRS. “Sale ha reso noto i contenuti alla stampa di un plico anonimo mentre avrebbe dovuto parlarne all'interno dell'iRS, affrontare il problema all'interno - hanno spiegato gli attivisti nell'assemblea - in questo modo non ha riconosciuto gli organi dell'IRS, la struttura, e si e' autoescluso. Ne prendiamo atto e da oggi Sale non fa piu' parte del movimento fondato nel 2003”. La riunione di Cagliari ha confermato oggi anche la data, il 2 gennaio, in cui si terra' l'Assemblea nazionale elettiva dei nuovi organi che guideranno il movimento. E' probabile però che l'assemblea del 2 gennaio costituisca un nuovo gruppo perchè la questione del nome e del simbolo di iRS, alla luce di quanto detto da Gavino Sale nell'assemblea di Abbasanta dei militanti di iRS e i documenti presentati costituiscono un problema di non poco conto, anche sul piano legale, per il gruppo riunitosi oggi a Cagliari.




seguono comunicati di SNI iRS di CA ed di altre pubblicazioni





SCONTRO DENTRO IRS - FERMIAMOCI A RIFLETTERE

Lo scontro all’interno di IRS è ormai evidente e forse non riconducibile, nessuno più di SNI può capire quanto le divisioni interne all’indipendentismo siano il maggiore impedimento a che la proposta indipendentista passi dal condivisibile al delegabile.
Quel tipo di catarsi, SNI lo ha già vissuto nel 2002, quando in seguito ad una spaccatura interna, meno violenta, acque IRS.
I protagonisti furono gli stessi che oggi si stanno scontrando dentro IRS, i tre Frantziscu e Gavino Sale, che non si vollero confrontare con il coordinatore nazionale uscente Bustianu Cumpostu, disertarono il Congresso Nazionale del 2002 e preferirono frazionare l’indipendentismo, che fino ad allora si era riconosciuto unitariamente in SNI.
Per anni si sono fatte le gare di indipendentismo, beccandoci come i polli di Renzo, tra SNI e IRS.
In questa gara inutile e dannosa, il sottoscritto, che si può dire ha “allevato” sia i tre giovani Frantziscu che Gavino, si è vista persino tolta la patente da indipendentista e conferita d’ufficio quella da autonomista.
La stessa storia l’ha vissuta, più volte, il PSd’Az, storia di frazionismi che parte dai Rosso Mori di Lussu e arriva ai Rosso Mori di Muledda e Zuncheddu.
Eppure l’indipendentismo, l’anelito di libertà di una nazione oppressa, l’esaltazione di un valore alto come quello della libertà, applicato non solo agli individui ma anche ai popoli, dovrebbe esser un collante forte a sufficienza per tenere uniti militanti e dirigenti che per quel anelito di libertà si organizzano e lottano.
Potremo deresponsabilizzarci dando la colpa alla maledizione di Carlo V, portare avanti la frantumazione fino scomposizione dell’atomo e trasformare l’indipendentismo in una nota di colore da inserire nelle guide turistiche della Sardegna, al posto del banditismo.
Che fare allora?
Fermiamoci a riflettere per capire genesi ed obiettivi dell’indipendentismo, stabilire una scala di valorizzazione con al quale misurare le sfere personali, quelle di partito e quelle collettive, valutare il nostro agire e prendere atto che finché non renderemo affidabile e delegabile il progetto indipendentista i sardi continueranno a credere all’inganno italiano.
Certo, l’indipendentismo è figlio di un popolo, e riflette i mille colori del popolo, ma è frutto di un atto d’amore collettivo.
Noi indipendentisti siamo germogli e semi di quel atto d’amore, abbiamo dei doveri, siamo nati per restituire la dignità e la sovranità al nostro popolo non per cercare nell’indipendentismo predelle sulle quali portare in alto la nostra sfera personale o quella di partito.
FERMIAMOCI A RIFLETTERE, CON MODESTIA PERSONALE, MA CON ORGOGLIO DI FUNZIONE, APRIAMO DA SUBITO UN CONFRONTO TRANQUILLO SUL DA FARE, FACIAMO DEL 2011 “S’ANNU DE SA SARDIGNA LIBERA” E INIZIAMO UNA SERIE DI CONGRESSI ITINERANTI PER ARREJONARE CON IL NOSTRO POPOLO.
Un sincero augurio a tutto IRS affinché superi quanto prima questo momento di sofferenza.
Nugolo 13/12/2010

BUSTIANU CUMPOSTU

Sardigna Natzione Indipendentzia




Assemblea Nazionale iRS

iRS Comunicato Assemblea Nazionale 12 dicembre 2010
Cagliari 12 dicembre 2010
“L’Esecutivo Nazionale, gli attivisti e i sostenitori di iRS hanno preso atto della gravissima violazione della democrazia e dell’organizzazione interna da parte di Gavino Sale. Consci che non basta riunire poche decine di conoscenti per poter affermare di essere iRS, l’assemblea eletta e l’esecutivo in carica oggi a Cagliari hanno deliberato, con una maggioranza di otto regioni su nove, che non può stare nel movimento chiunque rifiuti di riconoscere e riconoscersi nel processo di democratizzazione interna.
Pur addolorati per le illegittime riunioni che Gavino Sale, nonostante i fermi richiami dell’esecutivo, insiste rabbiosamente a convocare confondendo gli animi dei meno informati, gli organi ufficiali riuniti in assemblea hanno valutato la gravità non solo dei suoi comportamenti a danno di iRS, ma anche la leggerezza con cui sono stati diffusi in queste riunioni contenuti privati di mail spacciate come appartenenti ad alcuni attivisti. Contro questo reato è stata già avviata la procedura di tutela legale in ogni sede, nella quale iRS si riserva di costituirsi parte civile. Fuori dall’ambito legale, l’assemblea ha preso atto della completa inaffidabilità politica dell’uomo Gavino Sale, disposto a qualunque bassezza pur di fermare il cambiamento.
L’assemblea garantisce a quanti hanno sinora dato fiducia al progetto di iRS che il lavoro continuerà con l’impegno di sempre, e per questo conferma le date calendarizzate per l’elezione del nuovo esecutivo e l’approvazione del nuovo statuto”.


La deriva Corsa di iRS

http://gianfrancopintore.blogspot.com/


Gianfranco Pintore

Quel che sta accadendo in questi giorni in iRS non è il dramma privato di un centinaio di suoi attivisti, è quello di migliaia di giovani che hanno speso energie e intelligenza e passione per costruire il movimento che avrebbe dovuto portare la Sardegna all'indipendenza. E si trovano di fronte a una deriva Corsa nel peggiore dei casi o, nel migliore, dentro una commedia che ricorda da vicino il Nekrasov di Jean Paul Sartre.
In Corsica, il movimento indipendentista – oggi passabilmente unito – ha attreversato per anni la tragedia, tale perché ci sono stati anche morti ammazzati, della lotta fratricida e delle scissioni a catena con la nascita di micro organizzazioni. La commedia di Jean Paul Sartre si svolge, con toni più soft, negli ambienti dell'indipendentismo ucraino ma con esiti simili, anche questi fatti di scissioni molecolari e di reciproche scomuniche.
I giornali sardi hanno descritto e continuano a descrivere l'oggetto del contendere fra i due gruppi, quello di Gavino Sale e quello che fa capo alla segreteria, per altro dimissionaria. Gli scambi di feroci accuse e il minacciato ricorso alla magistratura per derimere i contrasti, soprattutto per chi ne legge sui giornali, hanno per chi li osserva dall'esterno poca importanza. E certo non invogliano a simpatizzare per l'una o per l'altra fazione. Il problema che semmai interessa tutti noi, o almeno quanti di noi hanno in mente un processo di autodeterminazione della Sardegna, è questo: il modo in cui iRS si è andato costruendo è indifferente rispetto agli esiti di questi giorni?
Una struttura piramidale, fatta di elettori, simpatizzanti, membri candidati, iscritti cooptati in gran misura dai dirigenti può trasformarsi in una associazione democratica? E che modello di democrazia può essere quello in cui i dirigenti scelgono, in tutto o in gran parte, coloro che dovranno scegliere i gruppi dirigenti? Mi è capitato di leggere qualche giorno fa un vibrante articolo di Michela Murgia in difesa di una fazione contro quella di Sale. “La sua [di Gavino Sale] proposta di allargare smisuratamente il numero dei votanti mira infatti a ribaltare gli equilibri interni dando diritto di voto a persone impreparate che non hanno la minima idea di cosa abbia voluto dire nell’ultimo anno cercare di arginare le sue derive personalistiche, giocate spesso in spregio di ogni decisione comune.”
Solo le persone “preparate” (in che cosa e da chi?), quelle che sono andate a catechismo, hanno il diritto di voto? La Chiesa pretende che chi fa la cresima sia indottrinato alla scelta che vuol fare. È naturale, ma la Chiesa non si dà arie di organizzazione democratica. C'è piuttosto un'idea di setta nelle parole della scrittrice che, è vero, è solo una simpatizzante, non parla a nome di iRS. Il fatto è che quanti hanno titolo a parlare per quel movimento sono stati zitti, autorizzando chi osserva da fuori a pensare che quella espressa da Murgia sia l'idea del gruppo dirigente.
Del resto, le due assemblee delle contrapposte anime di iRS, ad Abbasanta a favore di Sale e a Cagliari a favore della segreteria, sono la dimostrazione plastica di due concetti di vita democratica. Sale ha riunito, pubblicamente e davanti alle telecamere, i suoi sostenitori, due o trecento persone. Gli attivisti, un centinaio, si sono riuniti a porte chiuse. Nella assemblea pro Sale è venuta alla luce l'esistenza di una struttura informatica, diciamo così, riservatissima a cui ha accesso solo un molto ristretto gruppo di militanti. Questo gruppo si è scambiato, fidando sulla riservatezza, mail di fuoco contro Gavino Sale per prepararne l'ostracismo. Il testo di queste comunicazioni è stato reso pubblico nell'assemblea di Abbasanta ed è disponibile nel sito Ventirighe.
Dall'altra parte, l'imbarazzo per questa brutta pagina di lotta intestina è stato vinto con la minaccia di denuncia alla magistratura della violazione di corrispondenza privata. Inconsapevolmente denunciando una natura settaria e piramidale di iRS, all'interno del quale solo pochi eletti hanno il diritto a conoscere i termini di una battaglia politica interna e di parteciparvi.
Non ci può essere alcuna soddisfazione nel vedere in quanto è successo la conferma di dubbi e preoccupazioni per la deriva che appariva evidente e che in molti abbiamo denunciato, con grande affetto per le migliaia di giovani che credevano di aver trovato in iRS un luogo in cui coltivare le proprie passioni politiche e culturali. C'è invece la speranza che il loro patrimonio di idee non si disperda in quella che a me appare sempre più una deriva Corsa.

venerdì 10 dicembre 2010

Gli studenti bloccano il paese

Migliaia di persone hanno manifestato il 30 novembre contro la riforma dell’università. Il testo è passato alla camera, ma il governo sembra sempre più in difficoltà


Mariangela Paone e Lucia Magi,

El País, Spagna

Prima è stata la volta della Francia, poi della Gran Bretagna e adesso dell’Italia. Come è già successo a Parigi e a Londra, il malessere sociale che attraversa l’Europa a causa delle riforme e dei tagli promossi dai governi dei paesi colpiti dalla crisi economica è sfociato il 30 novembre a Roma nella più grande protesta studentesca degli ultimi anni. Migliaia di studenti sono scesi in piazza nelle principali città italiane contro la riforma del sistema universitario voluta dal ministro della pubblica istruzione Mariastella Gelmini e per ribellarsi alle politiche del governo Berlusconi.


Nelle settimane precedenti la protesta ha raggiunto i monumenti che simboleggiano la cultura italiana: gli studenti hanno occupato pacificamente il Colosseo e la Torre di Pisa. Il 30 novembre, invece, hanno bloccato il traffico sulle strade e occupato i binari di diverse stazioni ferroviarie.

Secondo l’Unione degli universitari, alle proteste hanno partecipato 400mila persone. Da Torino a Palermo, da Venezia a Napoli, le manifestazioni hanno mandato in tilt molte città italiane. A Bologna ci sono stati degli scontri tra la polizia e gli studenti all’ingresso della stazione. A Milano tre stazioni della metropolitana sono rimaste chiuse per alcune ore.


“Blocchiamo il paese”, era lo slogan urlato dagli studenti mentre in parlamento si discuteva della riforma. Il disegno di legge è anche un nuovo banco di prova per la stabilità del governo, che non gode più dell’ampia maggioranza ottenuta alle politiche del 2008. La decisione del presidente della camera Gianfranco Fini di uscire dal Popolo della libertà – che aveva fondato insieme a Silvio Berlusconi – per formare il gruppo autonomo Futuro e libertà (Fli), ha messo in difficoltà il governo alla camera, dove il 14 dicembre sarà votata la siducia contro il premier. Lo stesso giorno in senato si voterà una mozione di fiducia.


Roma militarizzata

La riforma, che prevede tagli alle borse di studio e alla ricerca nelle università pubbliche, è stata approvata nella tarda serata del 30 novembre con 307 voti a favore e 252 contro. Ora deve essere approvata dal senato. I sostenitori di Fini avevano annunciato che avrebbero sostenuto il disegno di legge, ma la debolezza della maggioranza è sembrata evidente quando il governo è stato battuto su due emendamenti, approvati con i voti di Fli.


E mentre la riforma universitaria si trasformava in una prova generale per misurare le forze dei diversi gruppi parlamentari, fuori gli studenti si scontravano con la polizia, che aveva creato un cordone di sicurezza intorno a piazza Montecitorio. In via del Corso, una delle strade centrali della capitale, la polizia ha caricato gli studenti che lanciavano pietre e bottiglie. L’intervento delle forze dell’ordine è stato duramente criticato dall’opposizione. “La stragrande maggioranza degli studenti e dei ricercatori si è mossa in modo pacifico”, ha detto Pier Luigi Bersani, leader del Partito democratico. “Non ho mai visto Roma così. Se si è arrivati a livelli così alti di tensione è per l’irresponsabilità del governo”.


Il governatore della Puglia e presidente di Sinistra ecologia libertà, Nichi Vendola, si è spinto oltre e ha parlato di clima “cileno”. Il ministro dell’interno, Roberto Maroni, ha giustificato le misure di sicurezza (bisognava “garantire l’ordine pubblico”) e ha accusato l’opposizione di strumentalizzare la protesta. Berlusconi, dal canto suo, ha risposto così ai giovani che stavano protestando contro la riforma: “Gli studenti veri sono a casa a studiare, quelli che protestano sono dei centri sociali o fuori corso”. Gli studenti si sono dati appuntamento attraverso Facebook e Twitter, usati per organizzare le proteste in tutte le città. “Paralizziamo il paese per paralizzare questo progetto che toglie soldi all’istruzione pubblica”, era lo slogan che rimbalzava in dalla mattina presto dal Duomo di Milano alle piazze di Napoli, ancora sporche per l’ennesima emergenza riiuti. u sb

mercoledì 8 dicembre 2010

La fine dell’unione

L’Europa ha smesso di essere un progetto vivo e proiettato nel futuro. Ormai è dominata dalle regole dell’economia

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEivWwa-Gl48X8pgYa0hzlDshVJUF-jd5aAElnqfmFCZ4MEzYKomwO5orEufyb268RIXr4nYhnsVJKgrh8BlgWS63kjAFiQzY5vUQ_OY9JR9U_s5RebSXHEXD5WuHi09FnIs3MSrFAHa7Bx-/s1600/36180.jpg

Thomas Steinfeld,

Süddeutsche Zeitung, Germania

L’opinione Il carattere complesso dell’Unione europea, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza della sua contraddizione di fondo

Alla base dell’Unione europea c’è una contraddizione: ognuno dei suoi stati membri, anche la Germania, è troppo piccolo per poter essere competitivo nel mondo globalizzato. Per riuscirci, i paesi europei si sono dovuti unire e hanno dovuto creare un mercato comune per le loro aziende. È una regola che vale per tutti gli stati dell’Ue.

Ogni paese ha rinunciato a una parte della sua sovranità, e lo ha fatto per il suo interesse. In questo modo è nata una comunità in cui i diversi membri sono alleati e allo stesso tempo concorrenti tra loro. Il carattere complesso dell’Unione, la sua sconfinata burocrazia, sono la conseguenza di questa contraddizione, che per cinquant’anni è sembrata a tutti tollerabile. Questa gigantesca costruzione, però, sembra arrivata alla fine del suo percorso: due stati membri, la Grecia e l’Irlanda, hanno già smesso di essere tali perché ormai sono troppo deboli per restare in piedi da soli. Altri due, il Portogallo e la Spagna, rischiano di fare la stessa fine. È probabile che l’Unione europea non si sfalderà, ma di certo non sarà più quella che conosciamo da cinquant’anni.

Finora l’Europa è sempre stata un’idea: il progetto di una coesistenza costruita accordo dopo accordo, ma che non ha mai perso il suo carattere utopico. Anzi, al di là dei calcoli utilitaristici, sono stati proprio il sogno, i continui riferimenti al futuro, a tenere insieme l’impalcatura europea. Così la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, nata nel 1950 per iniziativa di sei paesi, con gli anni si è allargata, attraverso il Trattato di Roma e quello di Maastricht, fino all’integrazione di Romania e Bulgaria nel 2007.

Tuttavia, il progetto più importante – e l’espressione più evidente della contraddizione europea – è stato l’euro: una moneta unica senza un’economia unica. Se oggi si vuole davvero salvarlo, bisogna risolvere la contraddizione di cui abbiamo detto. A questo punto è possibile che l’Europa faccia un passo importante, e fino a poco tempo fa non pianificato, verso l’unione economica. Nella storia ci sono diversi esempi di imprese simili, costate tutte tempo e violenza.

Forse oggi l’Unione europea, sempre più dominata da vincoli e regole, si trova di fronte a uno scenario del genere. Cultura e rivolta Il progetto dell’Europa unita è sempre stato caratterizzato da una certa dose di idealismo. Per questo gli europei hanno sviluppato un rapporto molto stretto con la cultura. Oltre la politica simbolica delle strette di mano tra capi di stato, dei gemellaggi tra le città e della valorizzazione delle radici storiche, anche la produzione culturale ha permesso all’Europa di alimentare una visione unitaria di sé.

Ma quando è stato che questo impulso ha smesso di avere effetti concreti? E perché? È fondamentale notare che oggi questo tipo di politica non basta più a superare la contraddizione di base dell’Unione, che si potrebbe risolvere con la creazione di uno spazio economico comune nel rispetto delle sovranità nazionali. Se la Grecia e l’Irlanda vengono messe sotto tutela, se interi paesi s’impoveriscono perché non riescono a pagare i debiti, allora la vera protagonista dei rapporti tra gli stati europei non è più la cultura comune ma l’economia con le sue regole. Queste regole, che non sono rappresentabili con gli strumenti dell’arte, pongono le basi dell’autoritarismo e delle rivolte individuali.

Il romanzo di Soi Oksanen Purgatorio (2008), il ritorno al leninismo nei testi di Slavoj Žižek e il libro francese L’insurrezione che viene sono già espressioni di una coscienza della rivolta che non fa distinzione tra destra e sinistra perché parla di differenze esistenziali e non politiche, di un “dentro” e di un “fuori”. Le manifestazioni in Grecia e in Gran Bretagna dimostrano che questa rivolta non rimarrà sul piano puramente estetico. Mentre peggiorano le condizioni di vita nei paesi più deboli dell’Unione, ed è sempre più evidente che in futuro si affermerà come soggetto politico sovrano solo chi è in grado di creare ricchezza (cioè pochissimi paesi, tra cui la Germania), le critiche si trasformano in proteste che nessuno ascolta.

Certo, per tanto tempo l’unità europea è stata un progetto civilizzatore e, fatta eccezione per la ex Jugoslavia, da 65 anni in Europa non ci sono più guerre. Ma ormai anche questo progetto sembra in crisi. I greci, che ino a poco tempo fa provavano simpatia per i turisti tedeschi, oggi non nascondono l’astio verso chi gli ha venduto frigoriferi e automobili. I tedeschi, invece, vedono nei greci soprattutto quelli che dilapidano i loro soldi. E gli irlandesi temono che la Germania possa “acquistare” il loro paese. Tutto questo dimostra non solo che l’intero progetto europeo alla fine riguarda soprattutto il denaro, ma che tutti i discorsi sulla cultura comune sono una sovrastruttura ideologica nel senso marxista del termine.

Del resto, non era stato proprio il marxismo ad affermare che l’economia è l’unico potere reale? Oggi molti condividono quest’idea, anche se nel loro pensiero non c’è traccia di marxismo. E i pochi da cui ci si aspetterebbe un giudizio su una situazione molto intricata, come Jürgen Habermas, con le loro critiche sull’“apatia delle élite politiche” forniscono interpretazioni di ordine psicologico. Oggi, però, non possiamo accontentarci di questo. Come un tempo si proponeva di fare la filosoia, dobbiamo formulare un giudizio nuovo sulla nostra epoca. ◆

lunedì 6 dicembre 2010

I catalani scelgono i nazionalisti conservatori.. Trionfo annunciato

El Pais Spagna

I catalani scelgono i nazionalisti conservatori..

Zoom Foto

I nazionalisti di Convergència i Unió (CiU) sono tornati al governo della Catalogna. Visti i risultati, Artur Mas potrà governare da solo o ricorrere ad accordi a geometria variabile, come quelli fatti dal premier José Luis Rodríguez Zapatero al parlamento di Madrid. Il leader di CiU, però, dovrà afrontare una situazione complicata. La crisi, che ha finito per mettere in difficoltà i socialisti, lo obbligherà a fare dei tagli impopolari, e la recessione frenerà parte delle sue iniziative. Tanto per cominciare, prima di prendere decisioni difficili, Mas aspetterà il risultato delle politiche del 2012. In questo modo rimanderà fino al 2013 la proposta di un nuovo accordo economico con il governo centrale.


Per adesso sia i socialisti sia i popolari hanno respinto il patto fiscale proposto da CiU, ma dopo il 2012 le cose potrebbero cambiare. Le posizioni dei nazionalisti catalani rispecchiano la domanda di sovranità che arriva dalla società. Mas ha deciso di non promuovere un referendum per l’indipendenza, ma cercherà comunque di raggiungere degli obiettivi graduali. I catalanisti hanno ricevuto un grande slancio politico anche dalle manifestazioni autonomiste del 10 luglio, organizzate per protestare contro la bocciatura del nuovo statuto catalano da parte della corte costituzionale. Sconfitti ed estromessi dal governo, i socialisti del Psc dovranno invece affrontare un percorso molto diicile. Il leader José Montilla potrebbe abbandonare il parlamento catalano per guidare la transizione del partito dall’interno, anche se ha dichiarato che al prossimo congresso non si ricandiderà alla guida del Psc.


Resta da vedere se i catalanisti daranno battaglia e se la corrente più vicina a Zapatero li seguirà. Secondo i sondaggi, inoltre, il Psc va incontro a una nuova batosta alle comunali di Barcellona. Il rischio è che il partito perda il suo ruolo di cerniera tra la Catalogna e Madrid. La debolezza dei socialisti fa il paio con l’insuccesso di Esquerra republicana (Erc), che ha perso la metà dei deputati. L’avventata proposta di tenere un referendum sull’indipendenza nella prossima legislatura non ha convinto gli elettori, che si sono spostati verso CiU. Gli altri voti persi da Erc sono andati al partito indipendentista di Joan Laporta, Solidaritat: i suoi quattro deputati andranno a formare il gruppo misto con i tre eletti di Ciutadans. Le urne, ifnine, hanno dissipato le preoccupazioni sull’ingresso in parlamento del partito xenofobo Plataforma per Catalunya, che non ha ottenuto neanche un seggio.

El País, Spagna

http://www.sanatzione.eu/wp-content/archivio_media/uploads/2010/11/Manifestada-in-Barcellona-URN-Sardinnya.jpg

Trionfo annunciato

José Antich,

La Vanguardia, Spagna


I risultati delle elezioni regionali del 28 novembre stravolgono la mappa politica della Catalogna e confermano quello che i sondaggi avevano già indicato: il ritorno dei nazionalisti di Convergència i Unió (CiU) al governo della Generalitat e il crollo del Partito socialista catalano (Psc). Dopo sette anni di governo tripartito – guidato dal Psc e nato per allontanare dal potere CiU, che aveva governato la regione dal 1980 al 2003 – il leader nazionalista Artur Mas può tirare un sospiro di sollievo: la traversata nel deserto è finita.

La capacità di resistenza del nazionalismo conservatore, anche nei momenti più difficili della storia della democrazia spagnola, è stata straordinaria. La vittoria di CiU è rappresentata dai 62 seggi conquistati, sei in meno della maggioranza assoluta, mentre il vero sconfitto è il governatore uscente José Montilla.


L’esito del voto segna una svolta nella storia del socialismo catalano, che ha ottenuto il peggior risultato di sempre: 28 seggi e il 18 per cento dei voti. In vista delle comunali di maggio a Barcellona e a Girona, entrambe città governate dal Psc, le prospettive del partito di Montilla non sono confortanti. Gli altri sconfitti sono i due partner del Psc nel governo tripartito, Esquerra republicana e Iniciativa per Catalunya Verds. I popolari, invece, che non hanno mai avuto troppo successo tra i catalani, hanno due motivi per essere soddisfatti: sono di nuovo la terza forza della regione e con 18 seggi hanno ottenuto il miglior risultato di sempre in Catalogna.



El País Numero di seggi

del nuovo parlamento autonomo della Catalogna

CiU (nazionalisti catalani) 62

Partito socialista catalano (Psc) 28

Partito popolare catalano (Ppc)18

Iniciativa per Catalunya Verds 10

Esquerra republicana 10

Solidaritat 4

Ciutadans 3

domenica 5 dicembre 2010

Sardegna, l'isola che affonda

Carlo Lania
ilmanifesto




Qualcuno già la chiama l'isola ciambella, ma il paragone non ha proprio niente di dolce. Ciambella perché la crisi economica sta svuotando da tempo il centro della Sardegna spingendo i suoi abitanti prima verso le coste e poi, se proprio va male, a emigrare oltre il mare, in «continente» o all'estero. Da qui l'idea di una regione che, proprio come il celebre dolce, ha la polpa - il lavoro, la gente, la possibilità di un futuro - tutto intorno e il vuoto al centro. Una situazione resa sempre più pesante dalla crisi che da anni investe le industrie dell'isola e alla quale oggi si è aggiunta anche quella dell'agricoltura con i pastori sardi, soffocati dal prezzo troppo basso a cui sono costretti a vendere il latte, che per la prima volta si organizzano e scendono per le strade scontrandosi con la polizia. Senza parlare del turismo, ricchezza stagionale che però non incide sul Pil sardo per più del 7%. «La rivolta dei pastori è solo l'ultimo segnale, il classico campanello d'allarme. Se continua così il futuro rischia di essere molto ma molto pesante per la sopravvivenza stessa della Sardegna», dice visibilmente preoccupato Ignazio Ganga, segretario della Cisl di Nuoro, una delle province maggiormente colpite dalla crisi. Gli operai dell'Alcoa e quelli della Vynils di Porto Torres, divenuti ormai famosi per per aver trasformato l'Asinara nell'isola dei cassintegrati, sono infatti solo la classica punta di un iceberg sotto il quale disoccupazione, abbandono scolastico ed emigrazione sono all'ordine del giorno. Una situazione che preoccupa fortemente anche gli industriali ma di fronte alla quale la Regione Sardegna guidata da Ugo Cappellacci sembra incapace di reagire.

Ex fabbriche oggi centri commerciali
A girarla d'estate, con le spiagge affollate e i traghetti che sfornano ogni giorno decine di migliaia di turisti, la Sardegna sembra tutto tranne che una regione sull'orlo del collasso. Basta però lasciarsi alle spalle i villaggi turistici e addentrarsi un po' nell'entroterra oppure nelle aree storicamente a tradizione industriale come il Sulcis, perché il paesaggio cambi brutalmente. Al posto degli stabilimenti balneari ci sono altri stabilimenti, ex capannoni industriali ormai da tempo abbandonati alle erbacce in mezzo a strade scarsamente illuminate e piene di buche, oppure trasformati in centri commerciali. Sono il quadro di una disfatta rappresentata dalla fuga delle imprese straniere che pure in passato avevano scelto di investire sull'isola. Non a caso, quando devono dare i numeri dell'attuale crisi, i sindacati non esitano a parlare di un vero bollettino di guerra. «A livello regionale oggi contiamo 214.000 disoccupati, oltre a 90 mila precari, il che fa segnare un tasso di disoccupazione regionale sempre in salita e che oggi si attesta al 16,1% - prosegue Ganga -. Si tratta di cifre terribili, che evidenziano come in Sardegna una famiglia su cinque, pari al 18%, ha avuto almeno un componente che ha perso il posto di lavoro».

Eppure non è stato sempre così. In passato l'isola ha rappresentato un punto di interesse notevole per chi, anche dall'estero, era interessato a fare investimenti. A favore dei sardi giocavano alcuni fattori determinati come, ad esempio, l'assenza sull'isola di una malavita organizzata tipica di altre regioni del sud. «Ma anche grandi spazi a disposizione per la costruzione degli impianti, una collocazione strategica nel Mediterraneo e per di più con la possibilità di poter contare a Cagliari di un porto merci secondo solo a quello di Gioia Tauro. Per non parlare di una manodopera molto spesso altamente specializzata e di una superstrada, la Carlo Felice, non sottoposta ad alcun pedaggio», spiega Ganga. Tutti elementi che facevano pendere la bilancia a favore di futuri investimenti ma che col tempo nulla hanno potuto contro due fattori decisamente negativi come il costo dei trasporti gomma-nave e i costi dell'energia. Due croci per le imprese, che hanno cominciato a disinvestire. Un processo che sembra inarrestabile. Qualche esempio? La Unilever è una multinazionale agroalimentare olandese specializzata nella produzione di gelati (compresi marchi famosi come Algida). Un anno e mezzo fa ha chiuso lo stabilimento di Cagliari e trasferito la produzione prima nel napoletano e in seguito, pare, in Turchia. L'impianto, moderno ed efficiente, è stato smontato e portato via dall'isola. Dove invece sono rimasti e finiti in mobilità 120 operai più altri 250 con contratto a tempo determinato. La stessa cosa l'hanno fatta i danesi del gruppo Rokwool che a Iglesias producevano isolanti termici (lana di vetro). Anche in questo caso si trattava di un impianto all'avanguardia che negli anni non ha mai avuto né dato problemi. Nonostante questo nell'estate di un anno fa il gruppo decide di interrompere la produzione, smantellare l'impianto e trasferirlo in Serbia. Risultato: 120 operai diretti più altri 80 dell'indotto finiscono in mobilità. Ancora: l'Euroallumina, del gruppo russo Rusal, il secondo al livello mondiale per la raffinazione dell'alluminio. Stavano a Portoscuso, nel Sulcis, quando nel marzo del 2009 decidono di chiudere. Il motivo: i costi troppo alti. Lo stabilimento chiude ufficialmente il 19 marzo del 2009 mettendo in cassa integrazione in deroga i suoi 400 operai più altri 300 metalmeccanici impiegati nell'indotto. E si potrebbe continuare.

Se però si vuole capire cosa rappresentano davvero le dismissioni industriali per la Sardegna bisogna andare nella piana di Ottana, nel nuorese. Le due torri di quello che una volta era il petrolchimico dell'Enichem svettano nel cielo come un monumento alla crisi. Se non fosse per il nucleo di industrie che eroicamente resiste proprio nell'ex area del petrolchimico le due ciminiere sarebbero come una gigantesca porta sul vuoto. Negli anni '80, periodo di massimo sviluppo dell'area, al petrolchimico lavoravano 2.756 operai, più un altro migliaio impiegato nell'indotto tra lavori di manutenzione e appalti (oggi in tutto sono appena 352), tutti residenti nei paesi che si affacciano nella pianura. Il primo colpo serio all'occupazione lo assesta la crisi petrolifera, poi è tutta una discesa fino ai primi anni '90 quando l'Enichem comincia le prime dismissioni e vende pezzi dello stabilimento a privati. Nel tentativo di mettere un argine alla crisi nel 1998, con il governo Prodi, si dà avvio ai contratti d'area che grazie soprattutto a un finanziamento pubblico di 300 miliardi di vecchie lire porta nella zona 29 nuove imprese. «Un'esperienza durata pochi anni e che oggi ha strascichi giudiziari, con molte aziende sotto inchiesta», racconta Salvatore Ghisu, presidente del consorzio industriale di Ottana e sindaco di Borore, uno dei paesi della piana. Delle 29 imprese arrivate attratte dai finanziamenti, solo due o tre sono ancora attive, e non a caso si tratta di ditte locali. Per il resto i finanziamenti hanno fatto gola soprattutto ad alcuni gruppi del nord Italia che, chi in perfetta buona fede e chi no, hanno deciso di approfittare della situazione. «Chi è venuto n Sardegna lo ha fatto soprattuto per tre motivi», spiega Ignazio Ganga. «C'è chi è venuto, ha costruito l'impianto e poi ha smontato tutto e portato i macchinari al Nord. Oppure c'è chi ha tentato il passaggio da artigiano a piccola impresa industriale. Infine c'è chi ha tentato un vero investimento che, salvo rare eccezioni, si è rivelato un fallimento. Il risultato è che la maggior parte di queste aziende non ha retto la sfida industriale».

Oggi, a pochi anni di distanza dalla fine di quell'esperienza, la piana di Ottana è dominata da una sfilza di capannoni abbandonati al loro destino, al punto da rappresentare un vero cimitero industriale.
Non tutto però è negativo. A resistere come un fortino assediato in mezzo ai 1.700 ettari dell'area industriale di Ottana c'è infatti un piccolo nucleo di aziende decise a combattere la crisi.

Un ex bocconiano a Ottana
Una parte del petrolchimico è stato infatti venduta dall'Enichem a Paolo Clivati, un giovane imprenditore lombardo che oggi, in società con la thailandese Indorama ha dato vita alla Ottana Polimeri, azienda addetta alla lavorazione del Pet. Qui si producono le bottiglie di plastica usate, per fare un esempio, dalla Coca Cola, ma anche i vasetti per gli yogurt della Danone. Da poco Clivati, un ex bocconiano trasferitosi in Sardegna, ha ricominciato ad assumere, anche se, spiegano i sindacati, in realtà si limita a riassumere i figli degli operai che vanno in pensione. Sempre Clivati è proprietario dell'ex centrale elettrica dell'Enichem e in società con la municipalizzata energetica di Bolzano e Merano lo scorso 16 marzo ha firmato un accordo con la regione Sardegna per la realizzazione a Ottana del polo delle energie rinnovabili, che prevede tra l'altro anche la realizzazione di due parchi a energia solare, uno fotovoltaico classico e uno con la tecnologia solare termodinamica, la stessa sperimentata proprio in Sardegna dal premio Nobel Carlo Rubbia che poi l'ha però realizzata in Spagna. Infine ci sono gli americani di Lorica, una multinazionale specializzata nella lavorazione di pelli sintetiche. Sono loro, sempre per fare un esempio, a produrre il tessuto per la tuta di Valentino Rossi, mentre recentemente hanno incassato una commissione per la produzione di 11 sellerie destinate alla Ferrari. Imprese di prestigio, che da sole non bastano però a cambiare la situazione. «Se non ci fossero loro il tentativo di risalire la china sarebbe disperato», ammette Ghisu che come consorzio industriale sta lavorando con la confindustria nuorese a un progetto (non a caso chiamato «Fenice») che prevede incentivi alle imprese che decideranno di tornare a investire nella piana di Ottana. «Un progetto serio - ci tiene a precisare Ghisu - destinato agli imprenditori intenzionati a entrare nei vecchi stabilimenti creati e abbandonati negli anni scorsi». Anche in questo caso sono previsti dei finanziamenti ma minimi, proprio per evitare il ripetersi di quanto accaduto con i contratti d'area. «Si valorizzeranno alcuni aspetti - assicura Ghisu - per rendere l'area di Ottana più competitiva attraverso una politica di agevolazioni che abbatta i costi di energia e trasporti».
E nel frattempo? Nel frattempo si tira la cinghia sperando che la crisi attenui i suoi colpi. Perché gli effetti sociali provocati fino a oggi sono devastanti. Su una popolazione di 1.600.000 abitanti, circa 400.000 vivono sotto la soglia di povertà, che equivalgono a circa 100.000 famiglie (dato Istat 2009). Per quanto riguarda il ricorso alla cassa integrazione, solo nel nuorese tra il 2007 e il 2008 c'è stato un aumento del 38% delle richieste che sono così passate da 960.000 ore a 2.600.000. La stessa cosa è avvenuta tra il 2009 e il 2010. Questa volta l'aumento è stato del 32% e le ore di Cig sono passate da 2.600.000 a 3.432.000, il 40% dell'intero plafond di ammortizzatori sociali destinati alla Sardegna. Ma l'aspetto più drammatico è rappresentato forse dai dati sull'emigrazione. A fuggire dalla Sardegna non sono infatti solo le imprese straniere, ma gli stessi sardi, specie i più giovani. 15.000 persone in meno fra il 2001 e il 2008, pari al 9% dell'intera popolazione secondo l'Istat, che attribuisce la scelta di andare via a un mix di fattori come la paralisi di ogni attività economica, il tasso di natalità ridotto quasi a zero, l'assenza di lavoro, la chiusura e il ridimensionamento dei presidi pubblici, l'esodo verso altre zone dell'isola. «In pratica è come se in questi ultimi anni fossero scomparsi tre piccoli comuni», commenta amaro Ganga. Nella provincia di Nuoro gli abitanti in meno sono 5.148, di cui 3.150 sono emigrati negli ultimi quattro anni.
Interi paesi, che spesso non hanno più di 1.000-2.000 abitanti. hanno visto andare via i propri giovani senza possibilità di fermarli: in otto anni Macomer ha perso 363 abitanti, Orune 352, Bolotana 337, Bitti 332, Desulo 331. E nelle altre province, sempre secondo i dati Istat, non va meglio, con il Sassarese che ha perso 3.406 residenti, la provincia di Oristano 3.083, quella di Cagliari 1.093, l'Ogliastra 997, il Medio Campidano 749, Olbia/Tempio 345, il Sulcis -Iglesiante 215.
«Siamo un sistema ingessato dal collasso del sistema produttivo», dice sconsolato Giovanni Matta, segretario regionale della Cisl. «Nell'industria e non solo. L'agricoltura è indebitata per il 50% della sua capacità produttiva, il turismo nonostante i proclami non va oltre il 7% del Pil regionale e il grosso dell'occupazione è determinato dai servizi, pubblica amministrazione in testa».

«La Regione? Incapace a reagire»
Di fronte a tutto questo la Regione Sardegna sta a guardare, apparentemente incapace di reagire alla crisi. Eppure non sarebbero certo i soldi per gli investimenti che mancherebbero. Il 3 agosto del 2009 è stato firmato il piano attuativo regionale che avrebbe permesso di utilizzare 2,350 miliardi di euro da investire in infrastrutture. Tremonti però non ha mai messo i soldi e adesso il ministro Fitto chiede che il piano venga rimodulato. Allo stesso modo restano fermi 2,3 miliardi di euro di fondi europei e 1,2 miliardi di euro del Piano per lo sviluppo rurale (Prs). Soldi che potrebbero essere utilizzati per rilanciare l'economia dell'isola e che invece rischiano di andare persi. Il futuro è affidato alla costruzione del gasdotto che dovrebbe portare il gas dall'Algeria alla Toscana attraversando tutta la Sardegna. Un progetto importante, che potrebbe ridurre notevolmente i costi energetici ridando ossigeno e nuove speranze di sviluppo all'industria nazionale e straniera. Peccato che i tempi di realizzazione, previsti inizialmente per il 2012, siano già slittati al 2015. «La regione è in liquidazione», denuncia Matta. «Siamo in mano a una classe dirigente che non riesce a esprimere un obiettivo verso cui guardare. Negli anni 50 e 60 l'obiettivo era trasformare una società agricola in industrializzata, e in parte è stato centrato. Oggi invece si fa difficoltà a concordare una visione unitaria per la Sardegna che ha bisogno impellente di integrarsi con il modello nazionale. Il pegno, altrimenti, è di essere condannati alla marginalità».

MILA disoccupati, ai quali vanno aggiunti altri 90 mila precari. Su una popolazione di 1.600.000 persone. E un tasso di disoccupazione che tocca il 16%

giovedì 2 dicembre 2010

Sì a «Black Shark», ordigno da 87,5 milioni


ilmanifesto.it/
di Manlio Dinucci
Chi ha detto che le fabbriche sono in crisi e che il governo non fa niente? La Wass di Livorno va a gonfie vele: negli ultimi tre anni ha assunto cento persone, tutte altamente specializzate, portando il totale a 500, più 1000-1200 nell'indotto. La Wass (Whitehead Alenia Sistemi Subacquei del Gruppo Finmeccanica) ha stabilimenti anche a Genova e Pozzuoli e unità di lavoro a La Spezia e Taranto. I suoi prodotti sono molto richiesti anche all'estero: l'azienda ha clienti in 38 paesi. Il fiore all'occhiello della Wass è il Black Shark (Squalo Nero): un sofisticato siluro pesante di ultima generazione. La crisi non ha colpito la Wass - spiega la nota di bilancio - perché «operando con enti governativi non abbiamo risentito della congiuntura negativa». In altre parole, perché il governo italiano, come quelli di altri paesi, mentre taglia le spese in tutti i settori civili, continua ad aumentare la spesa militare, acquistando (col denaro pubblico) nuovi armamenti e creando nuove infrastrutture militari. La Commissione difesa della Camera ha appena approvato, dopo quella del Senato, l'acquisizione del nuovo siluro pesante per sommergibili U-212A. Si tratta di una evoluzione dello Squalo Nero, prodotta dalla Wass a un costo stimato di 87,5 milioni di euro (che, come di solito avviene, alla fine risulterà maggiore).Grazie a questa maxi-commessa la Wass potrà potenziare la ricerca e sviluppo. A tal fine ha stipulato un accordo con la Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, il cui Centro di ricerca sulla robotica marina si è insediato allo Scoglio della Regina a Livorno, grazie ai finanziamenti europei dei Piuss (Piani integrati di sviluppo urbano sostenibile) ottenuti dal Comune. La convenzione - stipulata nel dicembre 2009 tra il Comune di Livorno, la Scuola Sant'Anna e la Wass - stabilisce che la Scuola mette a disposizione della Wass le proprie conoscenze e attrezzature scientifiche, mentre la Wass mette a disposizione della Scuola i propri laboratori e impianti di sperimentazione. In tal modo, avvalendosi della ricerca universitaria, la Wass può produrre armamenti ancora più sofisticati. E, fornendo un contributo finanziario alla Scuola Sant'Anna, dà impulso ad altre ricerche utilizzabili per applicazioni militari, mentre in generale si stanno riducendo i finanziamenti pubblici all'università e alla ricerca. Grazie a questa convenzione, ha dichiarato il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi (Pd), i saperi si intrecciano finalmente con l'industria, facendo fare alla nostra città un nuovo salto di qualità che la proietta nel futuro. Sarà quindi ora orgoglioso che l'industria bellica Wass, forte dei saperi della Scuola Sant'Anna, fabbricherà a Livorno nuovi e ancora più micidiali siluri pesanti. Essi sono solo una parte della lista della spesa approvata dalle Commissioni difesa di Camera e Senato. Essa comprende, oltre ai siluri pesanti, una unità navale di supporto subacqueo per incursori (125 milioni di euro), un sistema di acquisizione obiettivi controcarro (200 milioni), mortai di nuova generazione (22 milioni), dieci elicotteri (200 milioni), una nuova rete di comunicazioni Nato (236 milioni) e l'Hub militare di Pisa (63 milioni). In totale, circa 934 milioni di euro, che sicuramente lieviteranno. Fondi che saranno ricavati attraverso nuovi tagli alle spese sociali, compresi i contributi pubblici all'editoria, la cui drastica riduzione rischia di far tacere anche la nostra voce. Lo Squalo Nero è già stato lanciato per affondarci.

LE INDUSTRIE DI MORTE SONO SEMPRE MOLTO ATTIVE ECONOMICAMENTE E MAI IN DEFICIT, LA CRUDELTA' UMANA NON HA FINE, E I GOVERNI CHE USANO TALI ARMI SONO INDECENTI E ANTIETICI, QUESTO SONO LA MAGGIORANZA DEGLI STATI MONDIALI E PER QUESTO MERITANO DI ESSERE DISTRUTTI, ELIMINATI PER SEMPRE!!
Immagine: MU90/Impact ALWT

Whitehead Alenia Sistemi Subacquei (WASS) è azienda leader a livello mondiale nel settore dei Sistemi Subacquei, riconosciuta per la sua eccellenza nell'Ingegneria dei Sistemi Integrati.

Prendendo il nome dall'inventore del siluro Robert Whitehead, la Società è entrata a far parte di Finmeccanica dall'inizio dell'anno 1995.
WASS, con stabilimenti a Livorno, Genova e Napoli, impiega ingegneri altamente qualificati che sono responsabili della progettazione, sviluppo, produzione e marketing dei propri prodotti:

  • Siluri Pesanti : BLACK-SHARK e A184 Mod.3
  • Siluri Leggeri : MU90 e A244/S Mod.3, tramite la propria partecipazione (50%) nel consorzio EuroTorp assieme a DCNS (26&) e Thales (24&)
  • Sistemi di Contromisure Anti Siluro per Sommergibili e Navi di Superficie
  • Sistemi di Sorveglianza Subacquea e Sonar


I prodotti WASS sono stati selezionati e messi in servizio da svariate Marine di tutto il mondo.
In particolare, il Siluro Pesante di ultima generazione, il BLACK-SHARK, vero e proprio fiore all'occhiello della Ditta, è già stato integrato con pieno successo a bordo di una vasta gamma di sommergibili equipaggiati con diversi tipi di Combat Systems.

Più di 100 siluri sono in fase di produzione e di consegna per varir importanti Marine distribuite in tre diversi continenti.

Inoltre, grazie ad un Dipartimento di Supporto Logistico dedicato, WASS fornisce, a costi competitivi, un efficace e completo supporto tecnico post-vendita in grado di soddisfare i bisogni specifici di ogni singolo cliente per tutta la durata operativa dei Sistemi.

lunedì 29 novembre 2010

IL FUTURO HA MARCIATO AL MIO FIANCO

“Agisci come se già fossi libero”
- P.L.Wilson -



Paola Alcioni SA CANTADORA

IL FUTURO HA MARCIATO AL MIO FIANCO



Valentina.....

Si amici miei, il futuro ha marciato al mio fianco nella Prima Giornata Per l’Indipendenza della Sardegna.
Sotto la pioggia, accanto a me.
Il suo nome è Valentina, il suo nome è Giovanni.

Si dice che la poesia o la letteratura in genere, nascano da un ripiegamento doloroso, e che non si abbia invece tempo per la scrittura, quando ci si gode una gioia.
La si gode e basta.
Vero, ma... svanita l’adrenalina, il dopo si nutre di nuovo di parole, perché la gioia non è gioia fino in fondo se non la raccontiamo a noi e agli altri, verbalizzando, riprendendoci trionfalmente in mano il diritto di nominazione.
La mia gioia, sabato, potevo chiamarla col nome dei molti amici che ho abbracciato, alcuni venuti da lontano, altri da molto lontano, pro sa Die de s’Indipendentzia.
Altri ancora da lontanissimo.
O con il nome di coloro che fisicamente si sono affaccendati intorno all’organizzazione della Marcia qui, o che lo hanno fatto collaborando da lontano, ma efficacemente.
Cari, carissimi amici tutti: niente unisce più di una condivisione di questo segno. Niente affratella più di un ricordo come questo. Nessuna semina può fare a meno di due mani che si stringono.
Perché l’unità è il lievito che la nostra gente aspetta per poter impastare il “Pane di via”, che serbato “in bértula” accompagnerà la nostra transumanza definitiva verso la libertà.

Grazie, grazie a tutti, mi viene da dire ora.
Ma in realtà è la mia terra che ringrazia...

Est sa terra mia Sardìnnia chi torrat gràtzias, pesendi artus is burtzus suus incadenaus e a pustis torrendi a s’abetu e a su dolu, fintzas chi s’at a imberiai su tzérriu: “Sardìnnia...” “Lìbera!!!” chi at acumpangiau dònnia passu de sa Màrcia e chi tambeni s’arretumbat in s’ànima e in su sànguni.

E a lungo, a lungo risuonerà quel grido e quell’emozione, dentro tanti di noi.

Potevo chiamarla con mille nomi, la mia gioia, sabato.
Ma oggi a voi la racconto con il nome di Valentina e Giovanni, perché devo a loro un’emozione grande che mi ha spalancato l’anima.

Quando sono arrivata al piazzale della Fiera, Giovanni l’ho trovato intento ad allestire il camion, che inalberava quattro grandi bandiere della nostra Natzione.
Riservato come sempre, mi è venuto incontro per un abbraccio, ma si vedeva che era concentrato, che stava prendendo tutto molto sul serio, ma che se lo stava anche godendo, come un momento importante.

Quando Valentina, la mia giovanissima patriota, ci ha raggiunto, non era attesa.
Ma nella gioia dell’abbraccio che ci ha unito, era contenuto un lunghissimo discorso di speranza.
A tutti, in misura più o meno grande, la decisione di venire a questa marcia è costata.
Ciascuno di noi ha dovuto vincere resistenze, difficoltà oggettive, ostilità e circostanze non facili.
Per alcuni è stata una decisione veramente sofferta.
Per altri un luminoso momento di presa salda sulle redini del proprio destino.

Valentina e Giovanni sabato, per me, erano il simbolo di tutti noi che eravamo alla marcia, ed era anche la dimostrazione che i nostri limiti e le difficoltà possono essere superati se ci rendiamo conto di possedere in noi stessi una risorsa grande che si chiama libertà.

Così come - in fondo - chi mancava senza giustificato motivo, era simbolo di quella parte di popolo che aspetta gli ordini, di quella che non rinuncia alle comodità, di quella che non si mette in gioco e che pensa al suo orticello; di quella dallo sguardo corto e dalla supina convinzione che delegare è bello, senza sapere che il meccanismo della delega è assolutamente apocrifo all’idea di democrazia assoluta; di quella dell’ossequio ad un vertice, del capo chino, dello sguardo fisso al solco segnato dall’aratro altrui.

Ma noi abbiamo marciato anche per quella parte della nostra gente; mai contro quella ma – ahimé – nonostante quella.

In quel momento Giovanni, Valentina ed io non ce ne rendevamo conto, ubriachi per la gioia di esserci. Ma in realtà un testimone, in quell’attimo, è passato di mano.
Perché io ho portato alla Marcia lo striscione nel quale era contenuta l’affermazione di principio che ha guidato tutto il mio agire fin’ora.
Ma loro la stavano mettendo in pratica.
Perché Valentina, marciando al mio fianco, stava già agendo come se fosse libera; stava decidendo per sé stessa; stava usando del diritto di autodeterminarsi, e lo stava portando con sé come una bandiera.
Perché Giovanni, decidendo di esserci e dare una mano, ha agito come se la cosa lo riguardasse, lo riguardasse direttamente.

Sono orgogliosa d’aver lavorato per questa Marcia.
In un prossimo articolo, parlerò di ciascuna delle meravigliose persone che ho conosciuto in questa meravigliosa esperienza di condivisione.

Sono orgogliosa d’aver avuto intorno gente che ha agito come se già fosse libera.
Ma ancor più, lo sono per avere avuto al fianco due giovani che non si fermeranno là dove i miei passi dovranno purtroppo fermarsi, perché le foglie devono cadere, in autunno, per divenire humus e senso di nuove fioriture.

Ma non si fermeranno, po bona sorti, Valentina e Giovanni. E insieme a giovani come loro, porteranno le speranze nostre per questa terra e per la mia gente oltre, verso il futuro.

“SARDINNIA...”
“LIBERAAA!!!!”
Sa Cantadora


Giovanni


Vaturu

► Potrebbe interessare anche: