mercoledì 13 aprile 2011

Noam Chomsky: sulla Libia e sulle crisi che si stanno dischiudendo

Stephen Shalom
Michael Albert
tlaxcala
traduzione
Curzio Bettio


Quali sono le motivazioni degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali, nei termini più generali? Cioè, quali sono ad ampio raggio le motivazioni e i temi che si possono quasi sempre riscontrare nella formulazione delle scelte politiche degli Stati Uniti, non importa quale parte del mondo venga presa in esame? Andando più nello specifico, ma ancora a largo spettro, quali sono le motivazioni e i temi che informano la politica usamericana in Medio Oriente e nel mondo arabo? Infine, quali sono secondo lei gli obiettivi più immediati della politica degli Stati Uniti nella situazione attuale in Libia?

Un modo utile per affrontare la questione è chiedersi quali NON sono le motivazioni degli Stati Uniti. Ci sono alcuni buoni modi per scoprirlo.

Uno è quello di leggere la letteratura professionale sulle relazioni internazionali: abbastanza comunemente, il contenuto di questa letteratura di politica è “tutto ciò che politica non è”; questo è un argomento interessante che ora non desidero affrontare.
Un altro metodo, molto valido ora, è quello di ascoltare i leader e i commentatori politici. Supponiamo che dichiarino che il motivo per una azione militare sia umanitario. Di per sé, questo non ci procura informazioni: praticamente ogni ricorso alla forza è giustificato in questi termini, anche da parte dei peggiori mostri - che possono, a sproposito, anche convincersi che ciò che stanno affermando corrisponda alla verità.
Hitler, per esempio, può avere creduto davvero di stare assumendo il controllo della Cecoslovacchia per porre fine ad un conflitto etnico, di stare arrecando alla sua gente i vantaggi di una civiltà avanzata, e che invadeva la Polonia per dare un taglio al “terrore selvaggio” dei Polacchi.

I fascisti Giapponesi, scatenandosi in Cina, probabilmente facevano credere che stessero lavorando disinteressatamente per creare un “paradiso terrestre” e per proteggere la popolazione che stava soffrendo a causa dei “banditi cinesi.”
Anche Obama potrebbe aver creduto a ciò che ha pronunciato nel suo discorso presidenziale del 28 marzo scorso, sulle motivazioni umanitarie per l’intervento contro la Libia.
Lo stesso vale per i commentatori e gli analisti politici.

Esiste, comunque, un test molto semplice per determinare se le dichiarazioni di nobile intento possono essere prese sul serio: gli autori delle dichiarazioni invocano l’intervento umanitario e la “responsabilità di dovere proteggere” le vittime generate dai loro stessi crimini, o quelle dei loro clienti?
Ad esempio, nel 2006, Obama aveva invocato una “no-fly zone” nel corso dell’invasione del Libano da parte di Israele, omicida e distruttiva, sostenuta dagli Stati Uniti, in assenza di un qualche credibile pretesto? O si era, invece, vantato con orgoglio nel corso della sua campagna presidenziale di avere appoggiato una risoluzione del Senato che sosteneva quell’invasione, e pretendeva una punizione di Iran e Siria per avere impedito l’aggressione?
Fine della discussione!

In effetti, quasi tutta la letteratura sull’intervento umanitario e sul diritto di proteggere, scritta e parlata, svanisce a fronte di questo test semplice e adeguato.
Al contrario, su quali siano in realtà le motivazioni si discute raramente, e si deve andare a richiamare la memoria documentale e storica per scoprirle, e questo vale per qualsiasi Stato.
Quali sono allora le motivazioni degli Stati Uniti? Ad un livello molto generale, l’evidenza sembra dimostrarmi che non sono cambiate molto da quando sono stati intrapresi studi di pianificazione ad alto livello durante la Seconda guerra mondiale.
I pianificatori del tempo di guerra davano per scontato che gli Stati Uniti sarebbero emersi dalla guerra in una posizione di dominio schiacciante, e richiesero la creazione di una Grande Area in cui gli Stati Uniti avrebbero conservato un “potere indiscusso”, con “supremazia militare ed economica”, mentre al tempo stesso si assicuravano la “limitazione di ogni esercizio di sovranità” da parte degli Stati che potevano interferire con i loro progetti globali.

La Grande Area prevedeva di includere l’emisfero occidentale, l’Estremo Oriente, l’Impero britannico (che comprendeva le riserve energetiche del Medio Oriente), e la gran parte possibile dell’Eurasia, almeno il suo centro industriale e commerciale nell’Europa occidentale.
Risulta del tutto evidente dal materiale documentale che “il Presidente Roosevelt puntava all’egemonia degli Stati Uniti sul mondo del dopoguerra”, per citare la valutazione accurata del (giustamente) autorevole storico britannico della diplomazia Geoffrey Warner.

E più significativamente, i precisi progetti del periodo bellico furono presto attuati, come possiamo leggere nei documenti declassificati degli anni successivi, e osservare questo nella pratica. Naturalmente, le circostanze sono cambiate, e, al presente, le tattiche si sono adeguate di conseguenza, ma i principi di base restano abbastanza stabili.

Per quanto riguarda il Medio Oriente – “l’area strategicamente più importante del mondo”, in una frase di Eisenhower - le preoccupazioni principali sono state, e rimangono, le sue incomparabili riserve di energia. Il controllo di queste avrebbe prodotto “il controllo sostanziale del mondo”, come osservato in un primo tempo dall’influente consigliere liberale A.A. Berle.
Queste preoccupazioni restano molto raramente sullo sfondo delle vicende che interessano questa regione.

In Iraq, ad esempio, come le dimensioni della sconfitta degli Stati Uniti non potevano più a lungo essere dissimulate, la bella retorica è stata sostituita da dichiarazioni veritiere sugli obiettivi della politica statunitense. Nel novembre 2007, la Casa Bianca diffondeva una Dichiarazione di Principi che insisteva sul fatto che l’Iraq doveva concedere alle forze militari statunitensi accesso a tempo indeterminato, e doveva privilegiare gli investitori usamericani. Due mesi più tardi, il presidente informava il Congresso che egli avrebbe dovuto ignorare una legislazione che poteva limitare lo stazionamento permanente delle forze armate degli Stati Uniti in Iraq o “il controllo degli Stati Uniti sulle risorse petrolifere dell'Iraq”- richieste a cui gli Stati Uniti hanno dovuto rinunciare poco dopo, di fronte alla resistenza irachena, così come avevano dovuto rinunciare agli obiettivi precedenti.

Sebbene il controllo sul petrolio non sia l’unico fattore che influenza la politica per il Medio Oriente, comunque da questo attualmente si possono ricavare utili indicazioni.
In un paese ricco di petrolio, a qualsiasi dittatore affidabile è concessa di fatto libertà di azione. Nelle ultime settimane, per esempio, non vi è stata alcuna reazione quando la dittatura saudita ha usato una forza imponente per prevenire qualsiasi segno di protesta.
Lo stesso in Kuwait, quando piccole manifestazioni sono state immediatamente schiacciate.
E in Bahrain, quando le forze guidate dai Sauditi sono intervenute per proteggere il monarca, appartenente alla minoranza sunnita, dalle richieste di riforme invocate dalla repressa popolazione sciita. Le forze di governo non solo hanno fracassato la tendopoli in Piazza Perla – la Tahrir Square del Bahrain - ma hanno perfino abbattuto il monumento alla “Perla”, simbolo del Bahrein, che celebrava le ricchezze naturali del Bahrein, dove avevano stanziato i manifestanti.

Il Bahrain è un caso particolarmente sensibile perché ospita la Quinta flotta statunitense, di gran lunga la più potente forza militare nella regione, e perché l’Arabia Saudita ad est, proprio dall’altra parte di una strada sopraelevata, è anche in gran parte sciita, e la Monarchia possiede la maggior parte delle riserve del petrolio.
Per un incidente curioso della geografia e della storia, le concentrazioni più grandi al mondo di idrocarburi sono situate tutte attorno al nord del Golfo Persico, nelle regioni a maggioranza sciita. L’eventualità di una tacita alleanza sciita ha costituito un incubo per i pianificatori strategici.

Negli Stati che difettano di importanti riserve petrolifere, mutano le tattiche, ma in genere viene applicato un piano di intervento standard, quando un dittatore favorito è in difficoltà: assegnargli un sostegno per un periodo più lungo possibile, e quando questo non può essere fatto, diffondere allarmanti dichiarazioni d’amore per la democrazia e i diritti umani - - e poi cercare di salvare la parte più rilevante di quel regime.
Lo scenario è noiosamente familiare: Marcos, Duvalier, Chun, Mobutu, Suharto, e molti altri. E oggi, la Tunisia e l’Egitto. La Siria è un osso duro da sgretolare, e non ci è chiara l’alternativa alla dittatura che potrebbe appoggiare gli obiettivi degli Stati Uniti.

Lo Yemen è una palude in cui un intervento diretto probabilmente procurerebbe a Washington problemi ancora maggiori. Quindi, qui la violenza dello Stato suscita solo pie dichiarazioni.
La Libia è un caso diverso. La Libia è ricca di petrolio, e anche se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno spesso fornito un sostegno notevole al suo crudele dittatore, fino al presente, Gheddafi non è affidabile. Essi preferiscono di gran lunga un cliente più obbediente.
Inoltre, il vasto territorio della Libia è in gran parte inesplorato, e gli specialisti petroliferi ritengono possa racchiudere ricche risorse non ancora utilizzate, che un governo più affidabile potrebbe aprire allo sfruttamento occidentale.

Quando sono apparse manifestazioni non violente, Gheddafi le ha represse con violenza, ed è scoppiata una rivolta che ha liberato Bengasi, la seconda città più grande della Libia, e sembrava che si fosse sul punto di attaccare la roccaforte di Gheddafi nella parte occidente della Libia. Le forze di Gheddafi, però, rovesciavano il corso del conflitto e arrivavano alle porte di Bengasi.
A Bengasi era possibile un massacro, e come il consigliere di Obama per il Medio Oriente Dennis Ross ha sottolineato, “in seguito, tutti avrebbero addossato a noi la colpa di questo.”
Tutto ciò sarebbe stato inaccettabile, in quanto una vittoria militare di Gheddafi avrebbe rafforzato il suo potere e la sua indipendenza.

Allora, gli Stati Uniti hanno aderito alla Risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che imponeva una “no-fly zone”, da controllare a cura della Francia, della Gran Bretagna, e degli Stati Uniti, con gli Stati Uniti che, si intuiva, non avevano intenzione di assumere un ruolo da protagonisti.
Non c’è stato alcun tentativo per limitare l’azione di imposizione di una “no-fly zone”, o anche per mantenerla nell’ambito del mandato della Risoluzione 1973.
Il Triumvirato ha subito interpretato la Risoluzione come un’autorizzazione alla partecipazione diretta a fianco dei ribelli. È stato imposto con la forza un cessate il fuoco alle forze di Gheddafi, ma non ai ribelli. Al contrario, costoro hanno potuto godere del sostegno militare della Coalizione durante la loro avanzata verso Occidente, per assicurarsi subito le fonti principali della produzione di petrolio della Libia, pronti a lanciarsi avanti.

Fin dall’inizio, le flagranti violazioni della Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite hanno procurato qualche difficoltà alla stampa, in quanto troppo evidenti per essere ignorate.
Nel New York Times del 29 marzo, ad esempio, Karim Fahim e David Kirkpatrick esternavano la loro sorpresa per “come gli Alleati possano giustificare attacchi aerei contro le forze del colonnello Gheddafi nei pressi della Sirte [suo centro tribale] se queste forze, come sembra essere il caso, godono di un ampio sostegno in città e non costituiscono alcuna minaccia per i civili.”

Un’altra difficoltà tecnica è che la 1973 del Consiglio di sicurezza impone un embargo sulle armi da applicarsi su tutto il territorio della Libia, il che significa che qualsiasi rifornimento esterno di armi verso l’opposizione dovrebbe avvenire di nascosto (comunque, questo senza eccessivi problemi).
Alcuni sostengono che il petrolio non può essere il solo motivo per cui le compagnie occidentali si sono assicurate l’accesso ai premi e ai profitti sotto Gheddafi.
Questo interpreterebbe male le preoccupazioni degli Stati Uniti. Infatti, si sarebbe potuto dire lo stesso a proposito dell’Iraq sotto Saddam, o dell’Iran e di Cuba per molti anni, e ancora oggi.
Quello che Washington cerca è ciò che Bush ha annunciato: il controllo, o almeno clienti affidabili. Documenti riservati degli Stati Uniti e della Gran Bretagna evidenziano che “il virus del nazionalismo” costituisce la loro più grande paura, non solo in Medio Oriente, ma ovunque.
Regimi nazionalisti potrebbero esercitare illegittimamente la sovranità, violando i principi della Grande Area. E potrebbero cercare di indirizzare le risorse ai bisogni popolari, come a volte aveva minacciato Nasser.

Bisogna sottolineare che le tre potenze imperiali tradizionali - Francia, Regno Unito, Stati Uniti - sono quasi isolate nello svolgimento di queste operazioni contro la Libia.
I due maggiori stati della regione, la Turchia e l’Egitto, probabilmente avrebbero potuto imporre loro una “no-fly zone”, ma ora al più stanno offrendo un tiepido sostegno alla campagna militare del Triumvirato.

Le dittature del Golfo sarebbero felici di vedere l’eccentrico dittatore libico scomparire, ma anche se dotate di avanzate strutture militari (acquisite dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna per riciclare petrodollari e garantire sottomissione), esse sono disposte a offrire solo una partecipazione puramente simbolica (vedi il Qatar ).

Pur sostenendo la 1973, l’Unione Africana - a parte il Ruanda, alleato degli Stati Uniti - è generalmente contraria, in alcuni casi in modo energico, alle modalità con cui la Risoluzione è stata immediatamente interpretata dal Triumvirato.
Per prendere in esame le politiche dei singoli Stati, si veda Charles Onyango-Obbo nella Gazzetta keniota dell’Africa Orientale a: (http://allafrica.com/stories/201103280142.html).
Al di là di questo ambito, c’è poco sostegno. Come la Russia e la Cina, il Brasile si è astenuto sulla 1973, e chiede, invece, un totale cessate il fuoco e il dialogo. Anche l’India si è astenuta sulla Risoluzione delle Nazioni Unite per il fatto che le misure proposte erano suscettibili di “esacerbare la già difficile situazione per il popolo della Libia”, e quindi si raccomandavano misure politiche piuttosto che l’uso della forza. Anche la Germania si è astenuta sulla Risoluzione.

E l’Italia appariva riluttante, in parte probabilmente perché è altamente dipendente e preoccupata per i suoi contratti petroliferi con Gheddafi - e dobbiamo ricordare che il primo genocidio post-Prima guerra mondiale è stato condotto dall’Italia, in Libia orientale, ora liberata, e forse l’Italia ha sulla coscienza ancora tristi ricordi.

Carlos Latuff

Può un anti-interventista, che crede nella autodeterminazione delle nazioni e dei popoli, sostenere anche a buon diritto un intervento, sia da parte delle Nazioni Unite che di particolari paesi?

Ci sono due casi da considerare: (1) un intervento delle Nazioni Unite e (2) un intervento senza autorizzazione delle Nazioni Unite.
A meno che crediamo che gli Stati siano sacrosanti nella forma in cui sono stati istituiti nel mondo moderno (in genere attraverso una estrema violenza), con i diritti che non tengono conto di tutte le altre considerazioni che si possono immaginare, la risposta è la stessa in entrambi i casi: “Sì”, almeno in linea di principio.
Non vedo alcun punto che ci consenta di porre in discussione questa convinzione, così varrà mettere da parte la questione.
Per quanto riguarda il primo caso, la Carta e le successive Risoluzioni concedono al Consiglio di Sicurezza notevole libertà di intervento, come è stato intrapreso, ad esempio, nei confronti del Sudafrica.
Naturalmente, questo non comporta che ogni decisione del Consiglio di Sicurezza dovrebbe essere approvata da “un anti-interventista che crede nell’auto-determinazione”; altre considerazioni rientrano nei casi specifici, ma ancora una volta, a meno che agli Stati contemporanei sia assegnato lo status di entità quasi santa, il principio è lo stesso.
Per quanto riguarda il secondo caso - quello che si presenta in merito all’interpretazione da parte del Triumvirato della 1973 delle Nazioni Unite e in molti altri esempi - allora la risposta è di nuovo “Sì”, almeno in linea di principio, a meno che non assumiamo nella sua globalità il sistema dello Stato come sacrosanto nella forma stabilita dalla Carta delle Nazioni Unite e in altri trattati.
Vi è, naturalmente, sempre un onere della prova molto impegnativo, che deve essere soddisfatto per giustificare un intervento energico, o qualsiasi uso della forza. L’onere è particolarmente gravoso nel caso (2), in violazione della Carta, almeno per gli Stati che professano il loro rispetto della legge.
Tuttavia, dovremmo tenere a mente che la potenza egemone globale respinge tale posizione, e si auto-esenta dalla Carta dalle Nazioni Unite e dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), e di altri trattati internazionali.
Nell’accettare la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia (ONU), quando la Corte è stata istituita (su iniziativa degli Stati Uniti) nel 1946, Washington si è auto-esclusa dalle accuse di violazione dei trattati internazionali, e in seguito ha ratificato la Convenzione sul Genocidio con simili riserve - tutte prese di posizione che sono state purtroppo accolte dai tribunali internazionali, poiché le procedure di queste corti richiedono l’accettazione e la ratifica della giurisdizione.
Più in generale, la regola per gli Stati Uniti è quella di aggiungere riserve cruciali ai trattati internazionali, che comunque sottoscrivono, però in buona sostanza auto-esentandosi.
L’onere della prova deve essere rispettato? Non ha molto senso in discussioni astratte, ma ci sono alcuni casi reali che potrebbero beneficiarne.
Nel periodo post-Seconda guerra mondiale, ci sono due casi di ricorso alla forza che - pur non essendo qualificabili come intervento umanitario - possono essere legittimamente sostenuti: l’invasione del Pakistan orientale da parte dell’India nel 1971, e l’invasione vietnamita della Cambogia nel dicembre 1978, in entrambi i casi per mettere fine ad atrocità di massa.
Questi esempi, tuttavia, non entrano nel canone occidentale di “intervento umanitario”, perché risentono dell’intervento di agenti sbagliati: questi interventi non sono stati effettuati da parte dell’Occidente. Per di più, gli Stati Uniti si erano opposti duramente a questi interventi e severamente hanno punito i “malfattori” che hanno posto termine alle stragi in quello che è oggi il Bangladesh, e che hanno cacciato dalla Cambogia Pol Pot, proprio quando le atrocità di costui erano arrivate al culmine.
Il Vietnam, non solo è stato aspramente condannato, ma anche punito con un’invasione cinese appoggiata dagli USA, e dal sostegno militare e diplomatico degli Stati Uniti e della Gran Bretagna in favore dei Khmer Rossi, che attaccavano la Cambogia da basi Thai.
Mentre l’onere della prova potrebbe essere soddisfacente in questi casi, non è facile pensarlo in altri. Nel caso di intervento da parte del Triumvirato delle potenze imperiali, che stanno attualmente violando in Libia la Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, l’onere per costoro è particolarmente gravoso, dati i loro primati terrificanti.
Nonostante ciò, sarebbe troppo pesante sostenere che questo non può mai essere soddisfatto in linea di principio - a meno che, naturalmente, noi consideriamo gli Stati-nazione, nella loro forma attuale, come essenzialmente santi. Prevenire una probabile strage a Bengasi non è cosa da poco, qualsiasi cosa si pensi delle cause di questi avvenimenti.

Può mai una persona, preoccupata che i dissidenti di un paese non siano massacrati in modo da conservare la capacità di ricercare la propria determinazione, legittimamente opporsi ad un intervento che viene inteso ad evitare questa strage, qualsiasi altra cosa possano altri intendere?

Anche ammettendo, per amor di discussione, che l’intento sia sincero, incontrando il semplice criterio che ho citato all’inizio, non vedo come rispondere a questo livello di astrazione: questo dipende dalle circostanze.
L’intervento dovrebbe essere contrastato, ad esempio, se si presentasse la probabilità che potrebbe condurre ad un massacro ben peggiore. Supponiamo, per esempio, che i leader degli Stati Uniti con sincerità ed onestà intendessero scongiurare nell’Ungheria del 1956 un massacro causato da bombardamenti scatenati da Mosca. O che il Cremlino con sincerità ed onestà intendesse scongiurare un massacro in El Salvador nel 1980 per i bombardamenti scatenati dagli Stati Uniti. Date le conseguenze prevedibili, saremmo tutti d’accordo che queste (inconcepibili) azioni avrebbero dovuto essere legittimamente contrastate.

Molti vedono una analogia tra l'intervento in Kosovo del 1999 e l'attuale intervento in Libia. Riesce a spiegare sia le somiglianze significative, prima, e, in secondo luogo, le importanti differenze?

Molte persone scorgono davvero una tale analogia, un omaggio all’incredibile potenza dei sistemi propagandistici dell’Occidente.
Lo scenario dell’intervento in Kosovo sembra essere particolarmente ben documentato. La documentazione comprende due raccolte di rapporti dettagliati del Dipartimento di Stato, approfonditi rapporti di osservatori (occidentali) della Missione di Verifica e Controllo sul Kosovo direttamente presenti sul campo, fonti ricche di informazioni della NATO e delle Nazioni Unite, una inchiesta parlamentare britannica, e molto altro ancora. Le relazioni e gli studi coincidono molto strettamente con gli avvenimenti.
In breve, non era avvenuta alcuna variazione sostanziale sul terreno nei mesi prima del bombardamento. Atrocità venivano commesse sia dalle forze serbe che dai guerriglieri dell’UCK, che per lo più attaccavano dalla vicina Albania – soprattutto venivano commesse atrocità da parte dell’UCK durante il periodo in questione, almeno secondo le alte autorità britanniche (la Gran Bretagna era il membro più falco dell’alleanza).
Le feroci atrocità in Kosovo non sono state la causa dei bombardamenti NATO sulla Serbia, ma piuttosto la conseguenza dei bombardamenti, e una conseguenza del tutto prevista. Il comandante generale della NATO Wesley Clark aveva informato la Casa Bianca, settimane prima dei bombardamenti, che questi avrebbero provocato una risposta brutale da parte delle forze serbe presenti in Kosovo, e all’inizio dei bombardamenti comunicava alla stampa che una tale risposta era “prevedibile.” Le Nazioni Unite hanno registrato i primi rifugiati provenienti dal Kosovo sicuramente dopo l’inizio dei bombardamenti.
L’incriminazione di Milosevic durante i bombardamenti, in gran parte sulla base di rapporti di intelligence degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, USA-UK, si limitava a reati dopo il bombardamento, con una sola eccezione, che sappiamo non poteva essere presa sul serio dai leader USA-UK, che nello stesso momento stavano sostenendo attivamente reati anche peggiori.
Inoltre, vi era buon motivo di ritenere che una soluzione diplomatica avrebbe potuto essere a portata di mano: infatti, la Risoluzione ONU imposta dopo 78 giorni di bombardamenti era praticamente un compromesso tra le posizioni iniziali della Serbia e della NATO.
Tutto questo, comprese fonti affidabili occidentali, viene rivisto in dettaglio nel mio libro “A New Generation Draws the Line – Una nuova generazione traccia una linea”, e avvalorato da un’ulteriore informazione.
Diana Johnstone riporta una lettera alla Cancelliera tedesca Angela Merkel inviatale il 26 ottobre 2007 da Dietmar Hartwig, che era stato capo della missione europea in Kosovo prima che si ritirasse il 20 marzo 1999, quando venivano annunciati i bombardamenti, ed Hartwig era in una posizione ottimale per sapere cosa stava succedendo.
Egli scriveva:
“Non una sola relazione, presentata per il periodo da fine novembre 1998 fino al ritiro della missione alla vigilia della guerra, faceva menzione del fatto che i Serbi avessero commesso crimini gravi o sistematici contro gli Albanesi, né si era verificato un solo caso che potesse riferirsi a genocidio o a episodi o crimini di natura genocida.
Al contrario, nei miei rapporti, avevo ripetutamente informato che, considerando gli attacchi sempre più frequenti dell’UCK contro la dirigenza serba, l’applicazione della legge da parte dei Serbi dimostrava notevole moderazione e disciplina.
L’obiettivo chiaro, e spesso citato ed encomiato, dell’amministrazione serba è stato quello di osservare l’Accordo Milosevic-Holbrooke [dell’ottobre 1998] alla lettera, in modo da non fornire alcun pretesto alla comunità internazionale per intervenire. ... Ci sono state enormi ‘discrepanze nella percezione’ tra ciò che le missioni in Kosovo avevano segnalato ai loro rispettivi governi e capitali, e ciò che questi ultimi successivamente hanno comunicato ai media e al pubblico.
Queste discrepanze possono essere considerate come l’innesco della guerra preparata da lungo tempo contro la Jugoslavia.
Fino al momento in cui ho lasciato il Kosovo, mai vi è successo quello che i media e i politici, con non minore intensità, sono andati inesorabilmente affermando. Pertanto, fino al 20 marzo 1999, non esiteva alcun motivo per un intervento militare, che rende illegittime le misure intraprese in seguito dalla comunità internazionale.
Il comportamento collettivo degli Stati membri dell’Unione Europea, prima e dopo lo scoppio della guerra, dà adito a gravi preoccupazioni, perché la verità è stata uccisa, e l’Unione Europea ha perso di credibilità.”
La storia non è come la fisica quantistica, ed esiste sempre ampio spazio al dubbio. Ma è raro che le conclusioni siano così fermamente sostenute come lo sono in questo caso.
Però, pur nella loro rilevanza, queste conclusioni restano del tutto irrilevanti.
La dottrina prevalente è che la NATO sia intervenuta per fermare la pulizia etnica - anche se i sostenitori del bombardamento, che tollerano a malapena anche un solo cenno agli elementi che pur si basano su reali dati di fatto, qualificano il loro sostegno ribadendo che il bombardamento era necessario per fermare le potenziali atrocità: dobbiamo quindi agire per provocare atrocità su larga scala, in modo da bloccare coloro che potrebbero metterle in atto, se non venissero bombardati.
E vengono presentate giustificazioni ancora più scioccanti.
Le ragioni di questa effettiva unanime passione sono abbastanza chiare. Il bombardamento arriva dopo una vera e propria orgia di auto-glorificazione e di soggezione al potere, che potrebbe impressionare perfino Kim Il-Sung.
Ho riesaminato tutto ciò in altre occasioni, e non dovrebbe essere permesso che questo momento straordinario della storia dell’intelletto umano sia relegato nel dimenticatoio a cui è stato consegnato. Dopo questa performance, non poteva verificarsi altro che un epilogo glorioso. Il nobile intervento sul Kosovo lo ha fornito, e la fiction deve essere gelosamente custodita.
Tornando alla domanda, se vi sia un’analogia tra le raffigurazioni a proprio uso e consumo sul Kosovo e la Libia: entrambi gli interventi sono animati da nobili intenti, nella versione romanzata! La condizione di una realtà inaccettabile suggerisce piuttosto analogie in situazioni differenti.

Allo stesso modo, molte persone vedono una analogia tra l'intervento in corso in Iraq e l'attuale intervento in Libia. Anche in questo caso, può spiegarci sia le somiglianze che le differenze?

In questo caso, non vedo alcuna analogia significativa, se non che vi sono coinvolti nello stesso modo due Stati. Nel caso dell’Iraq, gli obiettivi erano quelli che alla fine sono stati riconosciuti. Nel caso della Libia, è probabile che l’obiettivo sia paragonabile in almeno un riferimento: la speranza che un regime cliente affidabile appoggerrà in modo affidabile obiettivi occidentali e fornirà agli investitori occidentali un accesso privilegiato alle ricchezze petrolifere della Libia - che, come noto, possono andare ben oltre quanto attualmente conosciuto.

Cosa si aspetta, nelle prossime settimane, di vedere accadere in Libia e, in tale contesto, cosa pensa debbano essere gli obiettivi di un movimento anti interventista e contro la guerra negli Stati Uniti rispetto alle politiche statunitensi?

Ovviamente la situazione è incerta, ma probabilmente ora (29 marzo) le prospettive sono, o uno smantellamento della Libia in una regione orientale ricca di petrolio fortemente dipendente dalle potenze imperiali dell’Occidente e in una regione occidentale impoverita sotto il controllo di un tiranno brutale con tendenza a deperire, o una vittoria da parte delle forze filo-occidentali.
In entrambi i casi, come il Triumvirato presumibilmente spera, un regime meno fastidioso e più dipendente si instaurerà. L’esito più probabile è descritto in modo abbastanza preciso, penso, dalla rivista araba con sede a Londra “al-Quds al-Arabi” (numero del 28 marzo).
Pur riconoscendo l’incertezza della previsione, si anticipa che l’intervento può lasciare la Libia divisa in “due Stati, uno ad oriente ricco di petrolio in mano ai ribelli, l’altro ad occidente in mano a Gheddafi... Dato che i pozzi di petrolio sono stati messi in protezione, potremmo trovarci di fronte a un nuovo Emirato libico del petrolio, scarsamente abitato, protetto dall’Occidente e molto simile agli Stati emirati del Golfo.” Oppure, la ribellione filo-occidentale potrebbe andare avanti senza riserve fino ad eliminare l’irritante dittatore.
Gli interessati alla pace, alla giustizia, alla libertà e alla democrazia dovrebbero cercare di trovare il modo per prestare sostegno e assistenza ai Libici che cercano di plasmare il proprio futuro, libero da vincoli e costrizioni imposti da potenze esterne.
Noi possiamo nutrire solo speranze sulla direzione che i Libici dovrebbero perseguire, ma il loro futuro dovrebbe essere riposto sulle loro mani.

Fukushima forse peggio di Cernobyl

Tepco preoccupata. L'agenzia giapponese per la sicurezza nucleare innalza al livello 7 la classificazione dell'incidente alla centrale, pari a quello del disastro dell'86. Sulla stessa linea anche la societa' che gestisce l'impianto: 'Temiamo sia anche peggio'. Ma il premier Kan e Aiea dicono: 'Radioattività sta diminuendo'. Oms: 'Rischi per salute pari a quelli di ieri'. La paura nucleare affonda le borse e pesa sulle materie prime, petrolio sotto 106 dollari, l'euro vola.

rainews24

Poliziotti giapponesi con tute anti-radiazioni

Poliziotti giapponesi con tute anti-radiazioni


Tokyo, 12-04-2011

Fukushima come Cernobyl. Il Giappone alza la gravita' della crisi nucleare della centrale danneggiata dal sisma/tsunami dell'11 marzo e la porta agli stessi livelli del peggior disastro finora verificatosi, in Ucraina nel 1986. La situazione "si sta stabilizzando passo dopo passo", ha affermato il premier nipponico Naoto Kan, a stretto giro da un annuncio che ha causato stupore diffuso e dalle nuove scosse di assestamento, di magnitudo 6.4 e 6.3, che hanno colpito anche oggi il nordest del Paese.

"Le radiazioni stanno diminuendo e ho dato istruzioni alla Tepco di presentare una relazione sulle prossime iniziative per la messa in sicurezza della struttura", ha rilevato Kan in conferenza stampa spronando al ritorno "alla normalita"' e alla necessita' di "pensare alla ricostruzione". Il premier ha respinto i rilievi sui ritardi del governo nella comprensione della gravita' della crisi: "Abbiamo atteso il parere degli esperti che hanno fatto le loro valutazioni in base agli standard internazionali e diffuso sempre tutte le informazioni in nostro possesso".

L'assegnazione di un grado 7 e' da ritenersi "provvisoria", secondo l'Agenzia giapponese per la sicurezza nucleare (Nisa), visto che la classificazione definitiva dovra' passare al vaglio di esperti nazionali e internazionali. "Abbiamo valutato che si tratti di un livello 7", ha detto Hidehiko Nishiyama, portavoce della Nisa che ha subito rilevato pero' come Fukushima sia meno grave di Cernobyl: in Ucraina il reattore "e' esploso e la quantita' di radiazione rilasciata ora e' circa un decimo".

In altri termini, le quantita' di materiali tossici segnati nel picco del 15-16 marzo "mostrano livelli equivalenti al livello 7": la proposta di revisione non e' conseguenza del deterioramento ai reattori di Fukushima, ma rappresenta una stima quantitativa globale della radioattivita' esterna e della diffusione nell'ambiente. L'Organizzazione mondiale della sanita' e l'Aiea (l'Agenzia dell'Onu per il nucleare) hanno subito cercato di ridimensionare eventuali allarmismi.

Un portavoce dell'Oms ha fatto sapere che i rischi per la salute oggi non sono piu' elevati di ieri e che restano comunque minimi oltre la zona di esclusione dei 35 chilometri. L'Aiea ha poi confermato che i campioni di cibo esaminati dalle autorit… giapponesi negli ultimi giorni mostrano una contaminazione al di sotto dei limiti di legge. Un funzionario della Tepco, il gestore dell'impianto, non ha escluso che la contaminazione finale "possa arrivare o superare il totale di Cernobyl", ma "e' solo una probabilita"'.

A una settimana dal terremoto, l'incidente di Fukushima e' stato stimato a livello 5 ("conseguenze significative"), ma il livello 7 comporta "pesante rilascio di materiale radioattivo con conseguenze diffuse per salute e ambiente", considerando la Ines, la scala internazionale di classificazione. La mossa, inoltre, ha spinto la Cina a chiedere al Giappone di fornire "rapidamente" informazioni sulla crisi nucleare (il premier Wen Jiabao ha espresso a Kan "preoccupazione") facendo sue le argomentazioni gia' espresse dalla Corea del Sud sul rilascio nel Pacifico di acqua contaminata e sulla precarieta' di Fukushima dove oggi si sono registrati alcuni incendi.

Il sisma/tsunami dell'11 marzo ha registrato quasi 28.000 tra morti e dispersi, per danni stimati in massimi 250 miliardi di euro, facendo dell'evento il disastro piu' costoso al mondo. "Dopo una catastrofe naturale di questo tipo, le persone tendono a limitare i consumi, con conseguente riduzione della produzione", ha detto il ministro dell'Economia Kaoru Yosano, secondo cui "in alcune aree, l'impatto sara' molto grande". Il governatore della Bank of Japan (BoJ), Masaaki Shirakawa, ha messo in guardia sulle condizioni "molto severe dell' economia", col rischio blackout che minaccia il riposo forzato a molti impianti della Corporate Japan.


Nella prefettura di Fukushima, intanto, il riacuirsi della crisi nucleare e l'attivita' tellurica in corso hanno portato alla cancellazione delle prenotazioni in alberghi e attivita' legate al turismo, in aggiunta al blocco di fatto dell'export dei prodotti agricoli e alimentari: "e' una situazione sempre piu' drammatica", ha detto all'Ansa un portavoce del governo locale.

martedì 12 aprile 2011

Saras, morto uno degli operai intossicati Indaga la Procura, sindacati in sciopero

unionesarda

Saras, morto uno degli operai intossicati Indaga la Procura, sindacati in sciopero
Saras, morto uno degli operai intossicati Indaga la Procura, sindacati in sciopero Operai davanti ai cancelli della Saras (Giuseppe Ungari)

La vittima è Pierpaolo Pulvirenti, 25 anni. L'uomo aveva subito un arresto cardiaco ed era stato trasportato al SS Trinità di Cagliari dove nella notte è deceduto.Migliorano le condizioni dell'altro operaio investito dalle esalazioni di ossido di zolfo. La Procura ha aperto un'indagine per omicidio colposo e i sindacati hanno indetto una giornata di sciopero.

"La Saras è un'azienda pericolosa, perché non rispetta le norme di sicurezza e i lavoratori addetti alla manutenzione sono permanentemente a rischio. Non è accettabile morire lavorando". La denuncia arriva dal segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, che annuncia che anche nel caso di Pierpaolo Pulvirenti, 23 anni, di Catania, morto dopo ore di agonia in rianimazione, il sindacato chiederà di costituirsi parte civile, come ha fatto per le tre vittime di due anni fa.

La reazione dei sindacati alla morte del giovane operaio siciliano, è stata immediata: un giorno di sciopero nello stabilimento di Sarroch e cancelli bloccati per maestranze e dirigenti. Un grande mazzo di fiori posato di fronte ai tornelli che venivano tutti i giorni attraversati da Pulvirenti suscita una commozione che fa crescere la rabbia per la nuova morte e per un bilancio che poteva essere ancora più grave. Gabriele Serrano, 23 anni, di Augusta, è ricoverato nel Reparto Rianimazione dell'ospedale Brotzu per aver respirato idrogeno solforato come Pulvirenti, ma le sue condizioni stanno migliorando. Non desta preoccupazioni, invece, lo stato di Luigi Catania, 42 anni, di Siracusa, che si è fratturato una gamba cadendo da una scala mentre cercava di prestare soccorso ai compagni di lavoro ed è ora ricoverato nell'ospedale Marino di Cagliari.

I tre operai siciliani erano impegnati nei lavori di manutenzione straordinaria dell'impianto Dea3, assegnati a una impresa d'appalto esterna, la Sar Service di Catania. L'impianto è stato messo sotto sequestro dal pubblico ministero Emanuele Secci, lo stesso magistrato che due anni fa ha diretto le indagini sull'incidente che provocò la morte di Bruno Muntoni, Luigi Solinas e Daniele Melis, asfissiati dal gas fuoriuscito da una cisterna che doveva essere bonificata. I parenti di Pulvirenti sono stati portati in Sardegna con un aereo privato messo a disposizione dalla famiglia Moratti e nell'isola è giunto anche il vicepresidente Angelo Moratti.

La nuova morte bianca ha scatenato l'opposizione in Consiglio regionale, che denuncia la mancata attuazione della legge approvata da quasi tre anni, all'unanimità, in materia di sicurezza sul lavoro. La legge prevedeva il miglioramento e il potenziamento dei controlli, oltre al coordinamento delle autorità preposte alle attività di prevenzione e controllo. "Gli assessori non possono dire di non sapere che la legge sulla sicurezza non è stata attuata - ha spiegato l'esponente di Sel, Luciano Uras - e che la finanziaria che prevedeva l'assunzione di operatori delle Asl per i controlli dei cantieri è disattesa: il presidente e la Giunta devono dimettersi".



http://www.videolina.it/view/servizi/13112.html

Chi abbandonarà per primo l'Euro?

EIR Stratetic Alert n.48
ECplanet

Il controllo politico sull'Europa comincia a venire meno ora che la crisi esistenziale dell'Eurosistema si aggrava giorno dopo giorno. I numerosi discorsi, interviste, articoli ed altre dichiarazioni pubbliche sul “futuro dopo l'Euro come lo conosciamo” ne sono un chiaro segnale. La stampa britannica si concentra in particolare su che cosa farà la Germania: il Financial Times del 24 novembre si chiede se “la Germania ucciderà l'Euro?”, mentre l'Independent fa eco il 25 novembre: “La Germania sarà la prima a lasciare l'Euro?”.

Entrambi i quotidiani, ed anche altri in Gran Bretagna, avvisano i lettori che c'è da attendersi una sentenza della Corte Costituzionale tedesca a favore dei ricorsi presentati contro gli aiuti EU all'Eurozona, e che gli elettori in Germania sono contrari a questi giganteschi salvataggi e sempre più ostili nei confronti dell'Euro. “No, la minaccia all'Euro non viene dai membri più deboli, ma da quelli più forti” scrive The Independent. “La riforma dei trattati che governano l'Euro è dunque essenziale per la Germania… In pratica, tuttavia, è difficile immaginare che la Germania riesca ad ottenere le riforme che desidera il suo elettorato”.

E questa è la più grande minaccia alla moneta unica europea in questo momento – che l'anno prossimo, con la frustrazione per la propria incapacità di ottenere una riforma significativa dell'Euro, la Germania (e altri paesi che la pensano come lei) potrebbero abbandonare il progetto in cui hanno investito così tanto".

Il Daily Telegraph è andato oltre, citando il Prof. Wilhelm Hankel, uno dei cinque ricorrenti presso la Corte Costituzionale, che dice: "La Germania non può continuare a pagare i salvataggi senza andare in bancarotta. Questo fa paura alla gente. Non si trova una cassetta di sicurezza libera in banca oggi in Germania perché sono state tutte affittate e riempite di oro e argento. È una specie di Svizzera underground entro i nostri confini. La gente ha ricordi terribili del 1948 e del 1923, quando perse tutti i risparmi… c'è stata una chiara violazione della legge, e nessun giudice può ignorarla. Sono convinto che la Corte vieterà futuri pagamenti". Il Telegraph conclude: “Se ha ragione – e lo sapremo in febbraio – la crisi del debito UE subirà una svolta drammatica”.

In effetti ci sarà un'udienza decisiva in dicembre, e si prospetta una sentenza all'inizio dell'anno prossimo. Questo scatenerà sicuramente una forte reazione dai mercati finanziari, contro cui dovranno proteggersi i tedeschi, se vogliono evitare di andare a fondo insieme al sistema in bancarotta del gruppo Inter-Alpha.

In Germania stessa molte personalità si sono unite ad Hankel nel mettere in dubbio il sistema dell'Euro “come lo conosciamo”, inclusi Hilmar Kopper, ex amministratore delegato della Deutsche Bank, e Hans-Olaf Henkel, ex presidente della Confindustria tedesca (BDI). A livello parlamentare, i politici dell'FDP in particolare (il partner di minoranza nella coalizione) hanno annunciato che non voteranno a favore degli aiuti al sistema bancario irlandese, aggiungendo che occorre proteggere il denaro dei contribuenti da tale misura.

E Carsten Schneider, portavoce dell'SPD sul bilancio, ha fatto appello al ministro delle Finanze Schaeuble affinché dica alla seduta speciale del Commissione Bilancio al Bundestag il 29 novembre “che tipo di Piano B abbia, se dovesse crollare il sistema dell'Euro”.

In Italia Paolo Savona, presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, ha reiterato il suo appello per un Piano B italiano, per un futuro al di fuori dell'Euro. Parlando a Radio Vaticana il 22 novembre ha detto che l'unica domanda è se l'Euro verrà abbandonato per scelta o come un "risultato inevitabile". Un paese serio, ha aggiunto, deve avere "un programma, un'ipotesi, un Piano B che includa questa possibilità".

In un'intervista il 19 novembre alla pubblicazione internet Sussidiario.net, Savona sostiene che “le soluzioni tampone che si stanno individuando non possono funzionare”. “È meglio, a questo punto, che ogni paese abbia un suo schema su come uscire dalla situazione. Ognuno deve sapere cosa succede e cosa fare qualora si rompa l’Eurozona o addirittura l’Unione Europea”. Oggi, denuncia Savona, “siamo in una situazione di 'occupazione straniera', sono gli altri che ci devono dire come ci dobbiamo comportare. Questo non è accettabile, non è dignitoso”.

Fonte originale: EIR Stratetic Alert n.48 /

Liz Taylor

"La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto."
(B. Brecht)

Liz Taylor, spunta una foto di nudo

Quirra, svolta nell'inchiesta sui tumori "C'è uranio in un agnello a due teste"

unionesarda

Quirra, svolta nell'inchiesta sui tumori "C'è uranio in un agnello a due teste" Un agnello malformato

Un agnello nato con due teste, nelle cui ossa sono state trovate "tracce di uranio non naturale", potrebbe confermare l'ipotesi che tra Perdasdefogu e Quirra siano state utilizzate armi con materiale radioattivo.

Il sospetto è venuto attraverso le analisi rese note dal professor Massimo Zucchetti, docente di impianti nucleari al Politecnico di Torino e consulente del Procuratore della Repubblica di Lanusei, Domenico Fiordalisi, che da mesi indaga sull'incidenza che le esercitazioni militari effettuate nel poligono militare possano aver avuto sulla salute di uomini e animali. Sarà lo stesso magistrato che, ricevuti gli incartamenti relativi alle analisi, deciderà se e come utilizzare i documenti nell'ambito della delicata inchiesta.

Il professor Zucchetti ha fornito alcuni particolari parlando sabato notte a Rai News 24 e annunciando ulteriori e più precise notizie una volta che il laboratorio in cui sono stati analizzati i reperti chiarirà i dettagli delle analisi. L'agnello con due teste era nato a Escalaplano nel 2003 e da quando, anni fa, venne analizzato nel laboratorio specializzato di Bologna, il referto non venne mai ritirato. Ora il responso che non ammette dubbi: nelle ossa dell'ovino vi è "uranio non naturale", in grado di creare danni ai figli degli animali che sono venuti in contatto con quella sostanza. Si tratta di un nuovo elemento di indagine, quindi, per il procuratore Fiordalisi, che indaga sul presunto utilizzo nel Poligono sardo di armi con uranio impoverito, e che nelle scorse settimane ha inoltre deciso di far riesumare una ventina di allevatori, morti fra il 1995 ed il 2010 a causa di tumori al sistema linfo-emopoietico, per accertare se vi siano contaminazioni da sostanze radioattive.

domenica 10 aprile 2011

Condannati alla crescita

ilfatto

di Massimo Fini

Dopo la tragedia di Fukushima sono state avanzate le soluzioni più svariate: centrali nucleari “sicure” di terza o quarta generazione, rafforzamento del già consistente apparato idroelettrico e, naturalmente, valorizzazione delle cosiddette fonti di energia “alternative” o “pulite”, fotovoltaico, solare termico, eolico. Non esistono fonti di energia che, usate in modo massivo, non siano inquinanti, in un modo o nell’altro. Alcuni anni fa in una piattissima regione fra Olanda e Belgio, battuta dal vento, furono impiantate trecento enormi torri eoliche. Gli abitanti ne uscirono quasi pazzi. Per il rumore delle pale e perché erano abituati ad avere davanti agli occhi una pianura sconfinata che ora trovavano sbarrata da queste torri. Un foglio di carta in una casa è un innocente foglio di carta, centomila fogli ci soffocano. Non c’è niente da fare.

Nessuno ha osato proporre la soluzione più ovvia: ridurre la produzione. Questo è il tabù dei tabù. Perché il nostro modello di sviluppo è basato sulla crescita. A qualunque costo. Il lettore avrà sentito dire mille volte, e non solo in questi tempi di crisi, da politici, di destra e di sinistra, da economisti, da sindacalisti: “Bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione”. Se la guardate bene, a fondo, questa frase è folle. Perché vuol dire che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre. Che non è il meccanismo economico al nostro servizio, ma noi al suo.

La crescita non è un bene in sé. Anche il tumore è una crescita: di cellule impazzite. Il tumore dell’iperproduttività finirà per distruggere il corpo su cui è cresciuto. Non perché verranno a mancare le fonti di energia e le materie prime come nel 1972 ipotizzavano che sarebbe avvenuto entro il Duemila quelli del Club di Roma nel loro libro-documento I limiti dello sviluppo (magari ci avessero azzeccato, saremmo stati costretti ad autoridurci per tempo): la tecnologia è probabilmente in grado di risolvere questo problema. Ma per la ragione opposta. Un modello che si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica ma non in natura, quando non potrà più crescere, perché non troverà più mercati dove collocare i propri prodotti, imploderà su se stesso. Sarà uno tsunami economico planetario.
Piano d’Azione Nazionale sulle rinnovabili, la voce delle associazioni
Questo il futuro prevedibile. Ma basta il presente. La spietata competizione economica fra Stati – questa è, in estrema sintesi, la globalizzazione – passa attraverso il massacro delle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. In termini di più lavoro, di più fatica, di stress, di angoscia, di un perenne pendolo fra nevrosi e depressione in una mancanza di equilibrio e di armonia che ha finito per coinvolgerci tutti. E gli stessi autori de I limiti dello sviluppo, che non erano dei talebani, ma degli scienziati per di più americani, del mitico Mit, quindi dei positivisti, non ponevano la questione solo in termini tecnici, ma umanistici e concludendo il loro documento scrivevano: “È necessario che l’uomo analizzi dentro di sé gli scopi della propria attività e i valori che la ispirano, oltre che al mondo che si accinge a modificare, incessantemente, giacché il problema non è solo di stabilire se la specie umana potrà sopravvivere, ma anche, e soprattutto, se potrà farlo senza ridursi a un’esistenza indegna di essere vissuta”.

Ma non sono stati ascoltati. Corre, corre la “società del benessere”, col suo sole in fronte e le sue inattaccabili certezze, e, come un toro infuriato, non si rende nemmeno conto, mentre già gronda sangue, che, in ogni caso, al fondo non più tanto lontano dalla strada delle crescite esponenziali, l’aspetta la spada del matador.

image003.jpg

► Potrebbe interessare anche: