sabato 28 maggio 2011

Usa,violati i piani del supercaccia F-35 Lightning II

Unknown hackers have broken into the security networks of Lockheed Martin Corp (LMT.N) and several other U.S. military contractors, a source with direct knowledge of the attacks told Reuters.



"Abbiamo le politiche e le procedure in atto per attenuare le minacce informatiche per il nostro business, e siamo fiduciosi nella integrità del nostro robusto, a più livelli dei sistemi di informazione-sicurezza multi", ha detto il portavoce della Lockheed Jeffery Adams.

Hacker rubano i progetti dai server

I piani del Pentagono per la costruzione del caccia d'attacco F-35 Lightning II, il più costoso progetto mai affrontato dalla Difesa degli Stati Uniti, sono stati violati da misteriosi hacker. I pirati informatici sono riusciti a scaricare diversi dati sul supercaccia (conosciuto anche come JSF, Joint Strike Fighter), ma non hanno avuto accesso ai dati più sensibili. Solo perché questi sono custoditi in computer non collegati a internet.

Secondo il Wall street journal, che riporta la notizia dell'intrusione informatica citando fonti dell'attuale e precedente governo americano, non è chiaro chi siano gli hacker responsabili, anche se alcuni attacchi informatici sembrano provenire dalla Cina (ma ciò non prova nulla, perché si potrebbe trattare di identità mascherate).

Gli attacchi ai server del progetto JSF non sono nuovi: i primi risalgono al 2007, ma si sono intensificati negli ultimi sei mesi. E non tutti sono passati dal Pentagono: il problema della sicurezza, in questo caso, è molto più vasto perché le intrusioni sono avventue, per la maggior parte dei casi, nei sistemi informatici di ditte esterne o di Paesi alleati che collaborano al progetto del nuovo caccia americano (tra i quali c'è anche l'Italia). Uno degli attacchi è passato dalla Turchia, un secondo da un altro Paese che non è stato specificato.

Le nuove intrusioni hanno riportato alla luce un problema noto da tempo: l'assenza di un'agenzia governativa o di un ufficio militare preposti alla sicurezza informatica: proprio per questo l'amministrazione Obama potrebbe presto varare una nuova agenzia di cyber-007.

Il Pentagono smentisce
Il Pentagono e la Lockeed Martin hanno smentito la notizia. L'attacco, hanno di fatto spiegato i portavoce, c'è stato ma i pirati informatici (forse cinesi secondo il giornale) non sono riusciti a rubare nulla. "Non sono informato di alcun tipo di preoccupazione (sul furto)", ha spiegato il portavoce della Difesa Bryan Whitman riferendosi al progetto monstre da 300 miliardi di dollari con cui gli Usa acquisteranno 2.443 F-35.

domenica 22 maggio 2011

Un fantasma si aggira per la Spagna... e l'Europa: la crescente impopolarità dell'U. E.

“Non siamo una merce in mano a politici e banchieri”
Un fantasma si aggira per la Spagna...


Javier Fernández Retenaga

Per concessione di Tlaxcala

Tradotto da Aurora Santini

Alla vigilia delle elezioni autonomiche e municipali, migliaia di giovani stanno occupando le piazze delle principali città della Spagna. Seguendo l'esempio delle rivoluzioni arabe, giovani e meno giovani si sono organizzati attraverso diverse piattaforme internet ed hanno deciso di scendere in strada per mostrare la propria indignazione.


“La chiamano democrazia e non lo è”, “Non è la crisi, è una truffa”, “Non siamo una merce in mano a politici e banchieri” sono alcuni dei loro motti. Si mobilitano senza sigle né dirigenti, delusi dai tradimenti delle grandi organizzazioni politiche e sindacali e dal frequente settarismo di quelle piccole. Nonostante abbiano sempre agito in modo pacifico, la stampa dominante ed i politici professionisti hanno cercato di tacciarli come "violenti", dapprima per guadagnarsi il consenso dell'opinione pubblica e poi per giustificare la repressione. Non ci sono riusciti e le mobilitazioni si stanno guadagnando le simpatie della gente. Ora, timorosi, i politici del regime dicono di “comprendere” la rabbia popolare.

La Giunta elettorale centrale, per un risultato stretto di cinque voti contro quattro e dopo un po' di polemiche, ha deciso di proibire le mobilitazioni di sabato e domenica. Successivamente, la Giunta elettorale provinciale di Madrid ha proibito la manifestazione di oggi (venerdì), per la quale era stato richiesto un permesso. Va messo in evidenza che la convocazione di manifestazioni al di fuori delle giornate di riflessione è tutelata dalla Legge. Di fronte a queste risoluzioni ufficiali, i manifestanti, che evitano espressamente di esporre messaggi di nessun partito, dichiarano di non voler chiedere il voto per nessuna formazione politica, ragion per cui ritengono che la risoluzione della Giunta non sia giustificata e si propongono di proseguire con le mobilitazioni.

La rivolta inizia adesso ad estendersi ad altre città d'Europa e del mondo (Ecco qui sotto l'immagine ed il link al mappamondo delle mobilitazioni: http://www.thetechnoant.info/campmap/):


La crescente impopolarità dell'Unione Europea


Vicenç Navarro

Tradotto da Alba Canelli
Editato da Aurora Santini

L'Unione europea ha un problema serio. Stanno emergendo movimenti popolari anti-Unione Europea (UE) in quasi tutti i paesi membri di quest'entità politico-amministrativa. E' vero che l'UE non è mai stata un concetto popolare. In realtà, nacque per iniziativa di alcune élite che volevano creare un mercato comune per il quale c'era bisogno di una moneta, l'euro, che andò a sostituire le monete nazionali della maggior parte dei paesi dell'UE. Solo nel Sud Europa quei paesi che hanno sofferto dittature fasciste o fascistoidi (Spagna, Grecia e Portogallo), l'UE ha generato un certo entusiasmo, poichè l'Europa rappresentava per la popolazione di questi paesi la speranza di sfuggire alle odiate dittature e realizzare il sogno democratico comune assunto nel resto d'Europa. Ancora oggi, l'UE è il sogno di alcuni movimenti secessionisti, come il movimento indipendentista catalano, che vede nell'Europa il modo di rendersi indipendente dallo stato spagnolo. Ma, del resto, l'UE non è mai stata molto popolare e ora è fortemente contestata da vasti settori delle classi popolari. Perché?

LA SPIEGAZIONE DELLA CULTURA IDENTITARIA
Una delle spiegazioni più frequentemente date a questo fatto è l'esplicazione dell'identità culturale secondo cui questo distanziamento (supponendo erroneamente che vi fosse in precedenza una vicinanza) dall' Europa, è una conseguenza della disgregazione di un'identità comune - quella europea – la quale è andata via via svanendo con i movimenti migratori che hanno caratterizzato l'istituzione di tale entità. Inutile dire che le migrazioni che hanno avuto luogo tra i paesi dell'UE e tra l'UE ed i paesi in via di sviluppo (ed in particolare il mondo islamico) hanno accentuato delle tensioni sociali che hanno ravvivato il senso di appartenenza e d’identità, essendo considerata l'immigrazione una minaccia all'identità nazionale, ed essendo attribuita l'immigrazione all'istituzione dell'UE, con il suo impegno per la mobilità delle persone al suo interno.

Foto Francesco Cascioli

Questa spiegazione culturale-identitaria, tuttavia, è chiaramente insufficiente, poiché evita la questione del perché questo rifiuto accade ora e non prima. Tale spiegazione non risponde nemmeno al perché s'identifica l'immigrazione con l'istituzione dell'UE. In realtà, come sottolineato da Goran Therborn, uno degli analisti più acuti della realtà europea, l'Europa è un continente basato sull’immigrazione, caratterizzato da una varietà etnica maggiore persino degli Stati Uniti, considerati come il paese basato sull'immigrazione per eccellenza. L'immigrazione di per sé, quindi, non è la principale causa di rigetto dell'UE da parte di ampi settori delle classi popolari. Per comprendere questo rifiuto dobbiamo recuperare categorie analitiche che sono cadute in disuso, come le classi sociali, il potere di classe e la lotta di classe, categorie usate da due tradizioni esistenti nelle scienze sociali occidentali, tanto quella marxista quanto quella weberiana, categorie praticamente scomparse nelle analisi attuali. Quando analizziamo l'UE da questo prisma analitico (delle scienze sociali tradizionali) possiamo vedere che la costruzione dell'UE è stata realizzata principalmente a beneficio del capitale (in particolare del capitale finanziario) e a spese del mondo del lavoro. I dati sono chiari e forti. Vediamoli.
COSA STA ACCADENDO NELL'UNIONE EUROPEA?
Dal momento in cui l'Unione Europea e la sua Eurozona sono state stabilite, abbiamo visto i seguenti fatti:
  1. In ogni paese dell'UE (e ancor di più in ogni paese dell'Eurozona), il reddito del lavoro, come percentuale del totale del reddito nazionale, è calato (passando dalla media UE-15 del 68% di reddito nazionale al 56%) mentre i redditi da capitale (soprattutto, i redditi del capitale finanziario) sono aumentati.
  2. La disoccupazione è aumentata nella maggior parte dei paesi dell'UE, la cui media è diventata più alta in Europa che negli Stati Uniti, invertendo una posizione precedente (1950-1980) in cui la disoccupazione era stata più bassa in Europa che negli Stati Uniti.
  3. Le condizioni di lavoro sono peggiorate, con l'aumento della percentuale di lavoratori che riferiscono di essere stressati sul lavoro, che ha raggiunto nel 2009 la cifra del 52% del totale della forza lavoro media dell'UE-15. Inoltre, e in relazione con ciò, l'incidenza delle malattie professionali correlate allo stress è aumentata significativamente.
  4. Il tasso di crescita della spesa pubblica per trasferimenti e servizi pubblici dello stato sociale è calato, mentre i tassi di crescita dei bisogni sono aumentati.
  5. I diritti dei lavoratori e i diritti sociali sono stati ridotti.
È logico, quindi, che l'UE stia creando maggior rifiuto tra ampi settori delle classi popolari. L'immigrazione accentua solo ciò che esiste già in questi paesi: il deterioramento dei servizi sociali e della qualità della vita della classe operaia e degli altri settori delle classi popolari. In realtà, l'immigrazione è stata utilizzata dalle imprese per abbassare il prezzo della manodopera e consentire il deterioramento delle condizioni di lavoro. La negazione di questo fatto, verificabile mediante i dati empirici esistenti, da parte di settori della sinistra, ha contribuito alla sua perdita di popolarità tra queste classi popolari. In realtà, il forte calo della socialdemocrazia nell'Unione Europea si deve al fatto di essere percepito da queste classi popolari come protagonista nella costruzione di un'Unione Europea di questo tipo. Non solo i partiti socialdemocratici che governano in Europa, ma anche la governance dell'UE, in cui i personaggi della socialdemocrazia (come i Commissari degli Affari Economici e Monetari, Pedro Solbes e Joaquin Almunia) hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo dell'UE e delle sue politiche.
LA CRISI ATTUALE E COME L'UE CERCA DI USCIRE DA ESSA
Questa realtà discriminatoria nei confronti del mondo del lavoro e in favore del capitale si è accentuata ancora di più nel modo in cui si vuole uscire dalla crisi. Le stesse forze finanziarie, economiche e politiche (e anche gli stessi personaggi) che ci hanno condotto alla crisi, stanno ora cercando di uscirne a condizioni molto favorevoli al capitale e sfavorevoli al mondo del lavoro. Vediamo i dati.
Il paese che ha subito il più grande collasso della propria economia in Europa è stata la Lettonia, la quale è stata costretta ad apportare modifiche estremamente favorevoli ai redditi da capitale e molto dannose per il mondo del lavoro, come condizione per l'ingresso nell'UE e nell'Eurozona.
Tali cambiamenti, imposti dall'Unione Europea e dall'allora Commissario Europeo per gli Affari Economici e Monetari, Joaquín Almunia (figura di spicco del socialismo spagnolo), hanno incluso un taglio del 30% dei salari dei dipendenti pubblici, una diminuzione del 20% della spesa pubblica, una riduzione dei salari in tutti i settori dell'economia (con l'argomento di rendere l'economia più competitiva), e altri cambiamenti che hanno prodotto come conseguenza una diminuzione (nel 2008-2009) non inferiore al 25% del suo PIL. Si stima che le classi popolari non raggiungeranno il tenore di vita che avevano nel 2007 fino al 2016, il che impone dieci anni di enormi sacrifici. I tagli alla sanità, all'istruzione, alla sicurezza sociale e al pubblico impiego sono stati enormi, ed hanno smantellato lo stato sociale.
Anche la Grecia è stata un paese in cui le politiche di austerità stanno creando una grande mobilitazione popolare (che i mezzi di comunicazione trasmettono appena) ed hanno allarmato la borghesia greca (complice con l'UE nello sviluppo di tali politiche), perché contano sulla simpatia da parte delle forze dell'ordine, come su quella della polizia, la quale si è opposta a reprimere tali disordini. Il futuro della Grecia è un punto interrogativo.
In Irlanda, la politica di austerità ha portato a una mobilitazione popolare contro la classe politica. Giammai l'Irlanda aveva avuto un rifiuto così marcato (e meritato) verso la sua classe politica. In Portogallo, il capitale finanziario (compresa la banca portoghese) ha costretto a un "salvataggio" di enorme austerità, che sta danneggiando lo stato sociale e il tenore di vita della maggioranza della popolazione.
E in Spagna, com’è successo prima in Germania con il governo socialdemocratico guidato dal Cancelliere Schroeder, il governo di Zapatero è uno dei governi più impopolari che siano esistiti in questo paese durante la democrazia, come risultato delle politiche di austerità del suo governo.
UN FANTASMA SI AGGIRA NELL'UE
Anche se questi paesi sono i casi più estremi, la realtà è che uno spettro si aggira per l'Europa ed è la rabbia verso "questa" Europa, che non è l'Europa dei popoli, ma l'Europa del capitale. Contro quest'Europa del capitale, dev'essere stabilita l'Europa delle Nazioni, con l'alleanza delle classi popolari. È importante per l'intera UE, ad esempio, che la classe operaia tedesca recuperi i salari che le consentono la sua elevata produttività, in modo che il consumo (e non solo le esportazioni) contribuisca a rilanciare la domanda interna a livello europeo. È importante inoltre che il lavoratore finlandese si allei con il lavoratore spagnolo, affinché la borghesia, la piccola borghesia e le classi medie spagnole paghino le tasse che oggi non pagano. Scriveva un cittadino finlandese, in una lettera al Financial Times, che "mentre noi finlandesi paghiamo diligentemente le tasse, giacché l'onestà è considerata un pilastro della società, mi risulta difficile vedere come gli euro delle mie tasse vengano spesi per sostenere paesi che hanno mentito sulle loro economie (Grecia) e in cui l'evasione fiscale è un hobby nazionale (Spagna) ". E il cittadino finlandese aveva in parte ragione, anche se dobbiamo aggiungere due importanti sfumature.
Una è che il lavoratore spagnolo paga le tasse a livelli simili a quelli del lavoratore finlandese. Leggermente inferiori, ma non molto differenti. Il lavoratore meglio pagato, un operaio dell'industria manifatturiera, in Spagna già paga circa il 72% delle tasse pagate dal suo omologo in Finlandia. In Spagna, sono il mondo imprenditoriale e finanziario ed i redditi superiori quelli che pagano molto meno dei loro omologhi in Finlandia. Un ricco in Spagna paga di tasse solo il 23% di quello che paga un ricco in Finlandia.
La seconda precisazione è che il presunto aiuto finlandese alla Spagna, in caso di "salvataggio", non andrebbe al lavoratore spagnolo, ma alle banche spagnole e straniere, soprattutto tedesche e francesi, che riceverebbero i soldi che lo Stato spagnolo otterrebbe per pagare il debito. E questo è importante. L’operaio finlandese e quello spagnolo (e l'operaio greco, tra gli altri) hanno molti interessi in comune. Tutti loro vogliono che i redditi superiori, le banche e le grandi imprese, sia in Finlandia sia in Spagna, paghino le tasse. E che i loro soldi vadano ad aiutare le persone in difficoltà e non le banche. Sicuramente, se si chiedesse il parere delle classi popolari della Finlandia e della Spagna (e della maggior parte dei paesi UE) su quest’argomento, questi risponderebbero positivamente e sarebbero d'accordo. Da qui la sfida per le forze progressiste dell'UE di mostrare gli elementi e gli interessi in comune con altre nazioni e popoli esistenti in questo continente. E costruire su questi interessi un'Europa del mondo del lavoro diversa da quella che si sta costruendo a vantaggio del capitale. Molte proposte sono state fatte in questa direzione. (Vedi il mio articolo "Il fallimento del neoliberismo nel mondo e nell'UE ).
So che una risposta immediata a questa proposta è privarla di merito giudicandola utopica e mostrando e difendendola situazione attuale come l'unica possibile. E qui c'è precisamente il potere dell'establishment europeo così come quello del mondo finanziario, mediatico e politico: hanno eliminato ogni possibilità di creare un'alternativa. Ma che sia o no un’alternativa dipenderà dalla mobilitazione sociale. Quello a cui oggi stiamo assistendo è una tensione sociale mai vista dagli anni sessanta, agitazione che sta accadendo in questo continente. La storia non è finita. Il futuro della sinistra europea è quello di facilitare tali mobilitazioni di protesta contro questa Europa, per creare un'alternativa.




Per concessione di Vicenç Navarro

giovedì 19 maggio 2011

La trappola del governo italiano sui referendum

  • Su 15 e 16 de Maju Vota EJA contra su nucleare

In Sardinia il 15 e 16 MAGGIO 2011 si è svolto il primo referendum al mondo sul nucleare (consultivo) dopo il disastro accaduto a Fukushima.
SARDIGNA NATZIONE (movimento indipendentista sardo) ha raccolto le 16600 firme per permettere ai sardi di esprimere il loro parere sul nucleare, 6000 firme oltre le necessarie dovute a termine di legge Regionale; l'impegno profuso per la sua riuscita è dovuta ai movimenti indipendentisti e ambientalisti sardi, hanno dato al popolo sardo questa libertà di espressione, strumento di democrazia diretta, e portato al voto oltre 860.000 elettori sardi (su un milione e mezzo di abitanti siti su un'isola di appena 24mila Kmq )
Elettori molto determinati a dire la loro, e che hanno votato espressamente contro il nucleare con un a percentuale che non lascia dubbi sul loro pensiero antinuke, infatti il 97.40% di SI per il rifiuto del nucleare ha determinato il NO alle centrali nucleari e ai suoi residuati e scorie, ponendo una pietra tombale sulle bocche dei tanti lachè e affaristi italioti;
Un grandissimo risultato raggiunto a motivo della stanchezza ed il rifiuto popolare delle servitù imposte alla Sardegna da un centinaio e più d'anni dallo stato italiota, una terra vituperata e resa colonia, martoriata dalle servitù militari, da discariche di scorie industriali delle acciaierie italiane del nord e con l'iquinamento del suo territorio a motivo di industrie collocate fuori luogo dal potere italiota negli anni sessanta e settanta, rendendo il territorio schiavo della logica del capitale USA e GETTA oltre alla umiliazione del collocare gente attiva e dignitosa in situazioni offensive per noi sardi come la cassa integrazione ecc.. (da sapere: il 60% del totale delle servitù militari in estensione territoriale dello stato italiano sono site in Sardinia) la logica di colonia a cui ci hanno relegato e imposte da centocinquanta anni di occupazione italiota, ci da molto fastidio e vogliamo fare azione di liberazione sia: dalle promesse vane dei porci servi (tzaracus) dei politicanti "italioti", che di quegli idioti-servi sardo-italioti prostarti davanti all'altare del denaro della loro vera "patria", infastidisce molto vedere la forza che questi governi di destra e centrosinistra italici esercitano per sottomettere il nostro popolo in terra di Sardinia!

Per noi sardi questo referendum consultivo sul nucleare ha significato un forte no a questa speculazione sul nucleare in terra nostra del premier italiota Berluscone, e la rivendicazione di sovranità sulla proria terra atta dal nostro essere natzione matura per la libertà e autodeterminazione, stanca di essere sottoposta da troppo tempo a queste amenità di oltre Tirreno.





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LIBERTADE PRO SA SARDINIA EST COSA GIUSTA E DEPIDA!!

A FORA IS ITAGLIANUS DE SARDINIA, LIBERTADE E JUSTITZIA PRO SU POPULU SARDU!!




















Michael Leonardi

Counterpunch USA


Il 12 e 13 giugno gli italiani
voteranno su nucleare, legittimo
impedimento e privatizzazione
dell’acqua. La maggioranza sta
facendo di tutto per ostacolare le
consultazioni popolari

In Italia la democrazia è sempre più a pezzi. Il governo di Silvio Berlusconi e la sua maggioranza in parlamento stanno cercando di bloccare un refrendum che dovrebbe impedire la costruzione di nuove centrali nucleari sul territorio nazionale. L’Italia non produce energia nucleare dal 1990, e i recenti sondaggi indicano che più del 75 per cento degli italiani è contrario alla costruzione di questi impianti.

Il referendum è in programma per il 12 e 13 giugno, ma un emendamento presentato il 19 aprile dal governo prevede la so-spensione di un anno del progetto di rilancio dell’energia nucleare e rischia di far saltare la consultazione popolare. La campagna è stata condotta dal partito d’opposizione Italia dei valori, che ha guidato un vasto movimento di cittadini e associazioni ambientaliste riuscendo a raccogliere le 500mila firme necessarie per proporre il referendum.

L’Italia è l’unico, tra i paesi del G8, a non produrre energia nucleare. Sulla penisola non ci sono centrali attive dal 1990,anche se circa il 10 per cento dell’elettricità consumata viene da energia nucleare prodotta in Francia e Germania. Nel 1987, un anno dopo l’incidente di Cernobyl, i cittadini italiani votarono un referendum che ha sancito la diminuzione graduale e infine la sospensione della produzione di energia nucleare. In quel momento l’Italia aveva due centrali attive, e in tutta la storia del paese ci sono stati quattro reattori in funzione.

Nel 2007, durante la campagna elettorale che l’ha portato al governo per la terza volta, Berlusconi annunciò l’intenzione di voler tornare alla produzione di energia nucleare, nel quadro di una strategia energetica nazionale.
All’epoca Berlusconi non era stato l’unico a sostenere la necessità di un ritorno al nucleare. Anche alcuni importanti esponenti del Partito democratico (Pd), appena fondato, si erano espressi a favore.

Un cablogramma pubblicato da Wikileaks ha rivelato che Pier Luigi Bersani, l’attuale segretario del Partito democratico, che nel 2007 era in carica come ministro dello sviluppo economico nel governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi, aveva aperto uno spiraglio al ritorno del nucleare attraverso un accordo sulla Global nuclear energy partnership (Gnep) con il segretario per l’energia statunitense di allora, Samuel Bodman. Parlando del referendum del 1987, Bersani aveva detto che il risultato della consultazione “non esclude l’Italia dalla generazione di energia nucleare, che è solo sospesa”. Inoltre, il leader del Partito democratico si augurava che l’accordo stipulato tra l’amministrazione Bush e il governo Prodi potesse “cambiare l’atteggiamento degli italiani verso l’energia nucleare”.

Anche Walter Veltroni, l’ex sindaco diRoma che nel 2008 è stato il primo candidato del Pd per la presidenza del consiglio,nel suo programma elettorale si era detto pronto a discutere l’idea di un ritorno alla produzione di energia atomica di quarta generazione.

Dopo Fukushima

Dopo l’incidente della centrale di Fukushima, in Giappone, Bersani e il Partito democratico hanno fortemente ridimensionato il loro sostegno al nucleare, schierandosi
contro il progetto del governo di costruire nuovi reattori. I democratici si sono schierati al fianco del partito dei Verdi, dell’Italia dei valori e di migliaia di cittadini italiani che hanno criticato i tentativi di Berlusconi di bloccare il referendum, accusandolo di “intralciare il processo democratico”. Fukushima ha dato nuova forza al movimento antinucleare e ha radunato intorno al no all’energia atomica un’opinione pubblica che nel corso degli anni si era gradualmente spaccata.

Dopo il ritorno di Berlusconi al governo, nel 2008, il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola, prima di essere costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo di corruzione, annunciò che il governo intendeva costruire la prima delle nuove centrali nucleari entro il 2013. Il 24 febbraio del 2009 è stato siglato un accordo tra la Francia e l’Italia per permettere agli italiani di usufruire delle conoscenze degli esperti francesi in materia di progetazione delle centrali. Il 9 luglio del 2009 l’Italia ha approvato un disegno di legge sull’energia che prevedeva l’istituzione di

Nucleare, <a href="/quotazioni/quotazioni.asp?step=1&action=ricerca&codiceStrumento=u2ae&titolo=ENEL">Enel</a>/Edf soci maggioritari con alleanza allargata









Nel 2009 l’Enel ha
concluso un accordo
con Électricité de
France (EDF) per la
creazione della joint
venture Sviluppo



un’Agenzia per la sicurezza nucleare e concedeva al governo sei mesi per individuare i siti dove costruire le nuove centrali. Siti che a tutt’oggi non sono ancora stati selezionati. Il 3 agosto del 2009 l’Enel, il gigante italiano dell’energia, ha concluso un ac­cordo con Électricité de France (Edf) per la creazione della joint venture Sviluppo Nu­cleare Italia. Il compito della società è studiare la possibilità di costruire almeno quattro reattori usando un progetto dell’azienda francese Areva, la più importante del mondo in questo settore. Questi oligarchi dell’energia, con l’alto patronato di Berlusconi, stanno facendo il possibile per proteggere l’investimento multimiliar­dario in un futuro nucleare.

Suicidio politico

In quest’ottica si spiega la decisione del go­verno di rinviare di un anno tutte le discussioni sulla ricerca e la selezione dei siti de­stinati alle nuove centrali in Italia. Una mossa che ha suscitato immediatamente lo scetticismo del movimento antinucleare e dei partiti d’opposizione, ed è stata inter­pretata da molti come un goffo tentativo di bloccare il referendum di giugno. Il 26 apri­le del 2011, nel giorno del venticinquesimo anniversario dell’incidente di Cernobyl, Berlusconi ha tenuto una conferenza stam­pa a Roma insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy. In quell’occasione il pre­sidente del consiglio ha chiarito una volta per tutte le intenzioni del governo: “Siamo assolutamente convinti che l’energia nu­cleare sia il futuro per tutto il mondo”, ha detto. Berlusconi ha mostrato alcuni son­daggi recenti, secondo i quali, allo stato attuale, il referendum per bloccare il ritorno al nucleare potrebbe davvero passare. Il presidente del consiglio ha ammesso poi di aver deciso di sospendere temporanea­mente il programma nucleare per ritornare sull’argomento quando i cittadini italiani si saranno “calmati” e avranno compreso che le centrali nucleari sono la via più sicu­ra e praticabile per produrre energia.

Il Ca­valiere ha inoltre accusato “la sinistra e gli ecologisti” di aver manipolato le emozioni degli elettori dopo Cernobyl e di aver pe­nalizzato i cittadini italiani, che sono costretti a pagare bollette della luce più care rispetto ai francesi, che dispongono di 58 reattori. Berlusconi si è poi detto convinto che “la situazione in Giappone abbia spa­ventato gli italiani”, e ha concluso garantendo che “l’inevitabile ritorno dell’Italia all’energia atomica” non sarà ac­cantonato, e che la collaborazio­ne tra Enel ed Edf andrà avanti. Sostenere il nucleare proprio quando la Germania e il Giappo­ne annunciano la sospensione dei loro programmi e l’abbandono dei pro­getti di costruzione di nuovi reattori, po­trebbe sembrare un suicidio politico. Ma non in Italia, almeno fino a quando Berlu­sconi sarà al potere.

Il Cavaliere controlla ormai tutte le principali reti televisive.
Questo fa sì che informare i cittadini sul voto del 12 e 13 giugno sia molto complicato, anche perché la longa manus della censura si sta facendo sentire. Al concerto del primo maggio, organizzato ogni anno a Roma dalle principali organizzazioni sin­dacali e trasmesso dalla Rai, agli artisti è stato chiesto di firmare una liberatoria con cui, tra le altre cose, accettavano di non parlare dei referendum, pena una multa di migliaia di euro.

Per ora il referendum per bloccare l’energia nucleare è ancora in programma.
Solo la corte di cassazione, con una senten­za dell’ultimo minuto, potrebbe decidere di cancellarlo. È quello che spera il gover­no, conidando nell’efetto della cosiddetta moratoria nucleare. Oltre a quello sull’e­nergia, il 12 e 13 giugno si terranno altri tre referendum: due per annullare il tentativo del governo Berlusconi di privatizzare le risorse idriche, l’altro per abrogare il cosid­detto legittimo impedimento, una norma approvata dalla maggioranza per proteg­gere Berlusconi dai processi a suo carico.
Per ognuno dei quesiti i promotori hanno dovuto raccogliere 500mila firme, e i referendum saranno validi solo se andrà a vo­tare il 50 per cento più uno degli aventi di­ritto. Negli ultimi dieci anni nessun refe­rendum ha raggiunto il quorum.

La battaglia dell’acqua

Secondo alcuni il governo Berlusconi avrebbe intenzione di bloccare anche la consultazione sull’acqua pubblica. Si spie­gherebbe in quest’ottica la decisione di creare una nuova authority per l’acqua. Per chi è impegnato e politicamente attivo sembra evidente che il governo Berlusconi sta tentando in ogni modo di bloccare il processo democratico. Ma la maggior par­te dei cittadini riceve informazioni solo attraverso l’impero di reti televisive pub­bliche e private sotto il controllo del Cavaliere, e rimane all’oscuro di tutto.

Le noti­zie sui referendum vengono tra­smesse quasi solo a notte fonda o all’alba. Per pubblicizzare i refe­rendum molti cittadini sono sce­si in strada distribuendo volanti­ni, ricorrendo ai social network e ad azioni creative e dirette per difondere le notizie e portare le persone alle urne. Il 9 maggio alcuni attivisti di Greenpeace han­no srotolato un grosso striscione dal balco­ne che Benito Mussolini usava per i suoi discorsi, a Palazzo Venezia a Roma. Sullo striscione c’è una caricatura di Berlusconi accompagnata dalla frase “Italiani, il vostro futuro lo decido io”, e da un invito ai cittadini ad andare a votare il referendum sul nucleare.

Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, ha riassunto così la situazione: “I referendum si faranno anche se i ladri di democrazia sono tornati in azione. Il governo non riuscirà a rubare il diritto degli italiani di esprimersi demo­craticamente contro il nucleare e la priva­tizzazione dell’acqua”.

Il 12 e 13 giugno il popolo italiano avrà l’opportunità di cambiare il corso del proprio futuro votando sì per dire no all’ener­gia nucleare e alla privatizzazione dell’ac­qua.

mercoledì 4 maggio 2011

Geronimo EKIA (enemy killed in action). Lo stupro del diritto internazionale

peacereporter.net
Angelo Miotto

Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - senza rispetto del diritto. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione. Intervista a Danilo Zolo

Due dozzine di rambo statunitensi su due elicotteri in territorio sovrano pachistano, un blitz con armi da fuoco, un cadavere fantasma, una cerimonia su una portaerei con sepoltura in mare. In un copione da effetti speciali, raccontato come un'avvincente saga hollywoodiana, si è sancita la definitiva morte del diritto internazionale. Un insieme di regole ragionate, studiate e condivise nel corso di decenni, fredde e razionali proprio per dirimere contenziosi infuocati che vivono di tensioni drammatiche. Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - umiliando il diritto condiviso. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione.

Danilo Zolo è professore di filosofia del diritto e di filosofia del diritto internazionale a Firenze. A PeaceReporter racconta lo sdegno per le regole infrante in una comunità internazionale incapace di rispondere alle nuove sfide della guerra asimmetrica e della propagandata 'guerra al terrorismo' che ha caratterizzato fine e inizio di due secoli.

Professore, un blitz illegale dal punto di vista del diritto internazionale? Spogliamoci dell'emotività della notizia: abbiamo assistito al fulcro dello sfascio delle regole condivise (almeno sui trattati)?

Siamo in presenza di uno stravolgimento radicale del diritto internazionale, che è divenuto risibile per come viene applicato dalla comunità internazionale. È chiaro che gli Stati Uniti usano le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza come una copertura. Aggrediscono, usano armi potentissime, fanno stragi di decine e centinaia di migliaia di persone come in Iraq e poi ottengono dal Consiglio di sicurezza una accettazione di fatto della realtà. L'Onu serve a questo, a giustificare post factum crimini gravissimi. Ci sono tre crimini in atto, a carico di Obama: la guerra in Afghanistan, che continua con strage di innocenti senza nessuna fondazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni unite. La guerra contro la Libia, altra violazione della Carta Onu che al comma sette articolo 2 vieta qualsiasi intervento all'interno di tensioni di carattere di guerra civile di altro stato. E ora siamo in presenza di un'altra gravissima violazione, perché un gruppo di militari altamente specializzati sono stati incaricati di fare strage e di assassinare una persona in uno Stato terzo, il Pakistan. Una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto alla vita delle persone non motivata da motivi particolari. Perché che quella persona fosse bin Laden non è sicuro e d'altra parte la cerimonia di cui si parla su portaerei e poi la scomparsa in mare del cadavere dell'ucciso sono procedure vergognose sul piano del diritto e dell'esistenza delle persone.

Siamo di fronte alla necessità di riformare il diritto internazionale?

Riformare il diritto internazionale significherebbe riformare le Nazioni unite, cambiare la Carta dell'Onu. Mentre si parla di un diritto internazionale consuetudinario, ma è una chiacchiera a vuoto perché non viene rispettato. Una riforma significherebbe chiedere agli Usa di rinunciare ai propri privilegi. Il Consiglio di sicurezza, che è l'unico organo che può usare la forza nelle situazioni estreme, è dominato da cinque membri permanenti e questa la dice lunga su come sia democratico. L'assemblea non ha alcun potere decisionale. La mia opinione è che non ci sarà nessuna riforma delle istituzioni internazionali, e quindi del diritto, se non ci sarà il cambiamento profondo nei rapporti di forza economici, militari e nucleari con le potenze come Russia, India, Cina, Brasile e anche il Sudafrica. Se queste forze riescono a stabilire dei rapporti internazionali che li liberino dal dominio degli Usa. Altrimenti, nessuna riforma.

Il concetto di guerra simmetrica complica il quadro.

Le guerre scatenate dagli Usa dal 1991 contro l'Iraq sono guerre in cui c'è una asimmetria nella potenza militare e una asimmetria profonda nelle conseguenze delle guerre: le perdite militari occidentali sono risibili, mentre le strage di militari iracheni, degli afgani si contano a migliaia, con persone innocenti. Vittime della guerra o per le conseguenze di essa.

La tanto sbandierata democrazia occidentale, secondo lei, ieri con il blitz e certe rappresentazioni di giubilo che segnale ha dato di sé stessa? C'è voluto il Vaticano per richiamare alla compostezza di fronte alla morte.

È singolare che lo abbia detto il Vaticano, che questi ultimi anni non si è particolarmente schierato con la pace. Il pontefice ha spento le candeline festeggiando con Bush e facendo una dichiarazione di entusiasmo nei confronti dei comportamenti degli Usa. Meglio che lasciamo perdere questo aspetto.

Per quanto riguarda l'Occidente da oltre venti anni scatena guerre di aggressione nei confronti di una serie di stati collocati in Medio Oriente, e sono tutte guerre che violano il diritto internazionale. Stessa situazione anche nei Balcani: ricordiamo la guerra del 1999 contro la Serbia, di fatto con la motivazione falsa di carattere umanitario che ha portato alla strage di alcune migliaia di serbi e ha avuto un solo risultato umanitario; in Kosovo oggi vicino a Urosevac ci sono 7000 soldati nordamericani, armatissimi e con ordigni nucleari. L'Occidente non può avere una qualifica onoraria nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. La dottrina dei diritti umani è in declino perché è una ideologia occidentale completamente falsificata dai comportamenti di fatto.


martedì 3 maggio 2011

La rapina del secolo: l’assalto dei «volenterosi» ai fondi sovrani libici

Manlio Dinucci

Il Manifesto

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

Zoom Foto

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.
In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica possiedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attraverso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.
L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

domenica 1 maggio 2011

Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi


Riflessioni sui moti rivoluzionari sardi

Di
Andrea Pili (esponente di SdeL-SNI)

Il 28 aprile 1794 il popolo sardo di Cagliari si rese conto, per la prima volta, che i suoi interessi erano in contrasto con quelli dei piemontesi, dominatori e invasori. Perciò in tale data ci fu il culmine di quella “emozione popolare” che, dal tentativo d'occupazione francese nel 1793, aveva persuaso non pochi sardi di poter finalmente ottenere incarichi dirigenziali fino ad allora riservati soltanto ai continentali. Tuttavia, da questo momento in poi iniziò ad essere chiaro che anche gli interessi dei sardi non erano tutti concilianti: Gerolamo Pitzolo- che pure era un comandante delle milizie sarde opposte ai francesi- e Paliaccio, Marchese della Planargia, dopo avere ottenuto dal sovrano sabaudo gli importanti incarichi di- rispettivamente- intendente generale e di generale delle armi, divennero i principali avversari del movimento riformatore sardo. Infatti, essi incarnavano il pensiero della sparuta nobiltà feudale autoctona e della borghesia cittadina retrograda; tali componenti non volevano andare oltre le cinque richieste stamentarie del '93 ed erano impaurite da altri possibili sviluppi.

Il movimento riformatore però fu presto capace di avere il controllo degli Stamenti e del nuovo vicere Vivalda, il quale era un inetto. L'intento dei riformisti oscillava dalla richiesta di una maggiore autonomia da Torino fino all'abolizione del regime feudale. Quest'ultima fu la principale aspirazione di Giovanni Maria Angioy il quale, pur estraneo agli eventi del 28 aprile, grazie alla sua importante posizione di magistrato della Reale Udienza divenne il vero capo della tendenza innovatrice. Purtroppo anche all'interno di questa le aspettative non erano comuni. Due eventi del 1795 portarono alla rottura del riformismo cagliaritano: il linciaggio di Pitzolo e del marchese della Planargia; la spedizione di Mundula e Cilocco a Sassari per sedare il tentativo di secessione del Capo di Sopra. Cosa significarono questi due fatti? Il progresso ingresso delle masse popolari- anche quelle delle campagne, finora escluse- nel processo rivoluzionario sardo; erano stati tanti gli oppressi dal feudalesimo che si associarono a Cilocco ( si parla addirittura di 13000 persone) radunate da banditori inneggianti alla rivolta contro il regime feudale. Questa marcia su Sassari del '95 fu il primo vero incontro tra il movimento riformista di Cagliari e le rivolte popolari antifeudali, frequenti ma sempre rimaste ignorate dagli Stamenti. Dalla fine del 1795 divenne chiara l'esistenza di riformisti interessati soltanto ad ottenere quei privilegi da cui erano stati esclusi (Pintor, Musso, Cabras, Sisternes) e di uomini che ormai apparvero come autentici rivoluzionari (Angioy, Mundula, Cilocco) influenzati dalle idee illuministe ed accomunati dalla volontà di portare il popolo sardo nella modernità. Così i cosiddetti moderati premettero su Vivalda per allontanare Angioy, dando a lui l'incarico di alternos a Sassari, pensando in tal modo di uccidere le velleità rivoluzionarie.

Nel 1796 Angioy a Sassari proseguì la sua battaglia rivoluzionaria, incoraggiando federazioni tra le ville contro il pagamento dei tributi feudali. Quando il vicere tentò di stroncare la sua azione, l'alternos decise di marciare su Cagliari con intenzioni ancora non chiarite definitivamente, ma di certo per imporre la fine del regime feudale. Purtroppo finì male, il bonese fu costretto alla fuga e dal 1796 al 1802 si alternarono repressioni violente a deboli tentativi insurrezionali fino a quello- per cui trovarono la morte Sanna Corda e Cilocco- più chiaramente repubblicano e indipendentista.

Gli indipendentisti del 2011 devono essere i prosecutori dei rivoluzionari di fine XVIII secolo; questo vuol dire che dobbiamo legare la volontà di indipendenza dall'Italia ad un progetto politico rivoluzionario tale da allontanare quei sardi che si avvicinerebbero alle nostre istanze nazionaliste solo per ricavarne dei vantaggi. Se i rivoluzionari di due secoli fa guardavano alla Repubblica Francese ed alle idee dell'illuminismo, noi dobbiamo invece guardare a quella parte del mondo che sta lottando con successo contro il neoliberismo in favore di una democrazia sociale e identitaria.

L'indipendentismo non deve commettere più l'errore del primo Angioy: credere che basti appartenere a questa terra per avere a cuore le istanze del popolo sardo. Per fare irrompere la Nazione Sarda nella storia occorre invece: allontanarsi chiaramente dai sardi pescecani alla Zuncheddu o alla Cualbu; denunciare l'autonomismo alla Mauro Pili (e i suoi Unidos) o alla Renato Soru, che non vuole rompere le catene con lo stato italiano ed i suoi partiti; distaccarsi dalla fazione retrograda e collaborazionista della Chiesa; puntare chiaramente all'edificazione di una democrazia sociale e partecipativa che punti all'acquisizione progressiva del potere sull'economia da parte dei cittadini, contro il neoliberismo nemico e falsificatore della democrazia.

A differenza dell'alternos e dei suoi compagni abbiamo qualcosa in più: maggiore consapevolezza storica. Infatti la storia della Nazione Sarda è la base principale per la nostra nuova democrazia, dal comunitarismo nuragico a quello giudicale abbiamo la sensazione di un percorso storico interrotto dall'imperialismo e a cui dobbiamo riagganciarci. Non mere battaglie identitarie ma rivoluzione nazionale e sociale del XXI secolo.

INDIPENDENTZIA!!!!

mercoledì 27 aprile 2011

Sa die de sa Sardigna, festa del Popolo sardo, 28 aprile 2011


Faghimus s’istoria: sas chimbe preguntas…

Un murales che ricorda ''Sa die de sa Sardigna''

L’incontro di Seneghe, lo scorso 25 marzo, ha compiuto il percorso storico e logico che ci ha condotto dalla ricorrenza del 150° dell’Italia a sa die de sa Sardigna. Ha avuto inizio un confronto che si è posto quale punto di partenza per una riscossa culturale e sociale, capace di elaborare strategie di mutamento. Un cambiamento che deriva da studi, da dibattiti, da una messa a fuoco dei problemi della Sardegna, per proporre indirizzi, per alimentare una partecipazione, per unire forze disperse che nella disunione non portano a progetti di crescita. C’è bisogno di promuovere una presenza combattiva e maggiormente consapevole del proprio ruolo nel contesto attuale.

La crisi sarda è innanzitutto una crisi culturale e di forza progettuale, un ritardo nel cogliere i tempi giusti per la crescita, i modi, i tempi, i luoghi più pertinenti. Senza saperi, conoscenze, progetti, il tempo ci coglie sempre impreparati: altri sono padroni del nostro tempo.
Ci siamo lasciati ragionando di Sardegna e di unità d’Italia per incamminarci verso sa die de sa Sardigna offrendo a noi stessi, e ad altri che desiderassero avviarsi con noi nel cammino, dei nuovi appuntamenti.

Non sapevamo che il Consiglio regionale non avrebbe fatto memoria di sa die, seppure il disinteresse era già chiaro nel silenzio dei programmi e nella modestissima entità delle risorse previste. Tale insensibilità ci rattrista e offende, ma non ci stupisce. Sappiamo che fa male, a chi si pone nella subalternità, proporgli la memoria del dovere e del diritto alla libertà. Ma qui siamo di fronte all’abbandono dell’unica e più importante festa del Popolo sardo!

Con le 5 domande rivolte al re nel 1793 è iniziata la fase vertenziale della Sardegna moderna e con essa la rivoluzione della nostra contemporaneità. Tante cose ci dicono però che quella fase necessita di un’evoluzione veloce. La vertenzialità da sola è al tramonto perché rimanda ogni responsabilità all’esterno di noi. Ogni giorno le strade e le piazze della Sardegna vedono un popolo che protesta, ma le risposte restano sempre lontane, non arrivano o giungono solo nella forma utile agli interessi di altri. Così rischiamo di sprecare le dure e costose battaglie della nostra gente, mentre la frustrazione per le risposte non ricevute potrebbe presto portare allo scoramento e alla definitiva rinuncia.

Il destino della Sardegna è più che mai nelle mani dei sardi. E quindi, alimentando la consapevolezza dell’urgere di scelte importanti che proseguano l’antica aspirazione alla sovranità contenuta anche nelle “cinque domande”, a noi si dà la possibilità e l’obbligo di chiederci quali siano le domande che oggi dobbiamo porre a noi stessi per trovare le giuste risposte: al livello istituzionale, sociale, economico, culturale, politico. Come nel triennio rivoluzionario (1793 – 1796), ma apprendendo le lezioni della storia. Queste possono essere le nostre cinque domande dell’oggi, 28 aprile 2011.

1). E’ del tutto evidente la debolezza istituzionale e politica delle rappresentanze della Sardegna. Le cause non sono solamente da ricondurre ai limiti dello Statuto ma anche all’incapacità di affermare i propri diritti istituzionali. Nella prospettiva immediata non si intravvede come le forze politiche sarde possano mutare questo quadro desolante: non c’è un progetto condiviso e fermo di Statuto che risponda alle esigenze dei sardi, resta ancora tutta da costruire una forza contrattuale per sostenerlo nell’ambito del Governo e del Parlamento, l’esclusione dal Parlamento europeo è già essa stessa manifestazione ed effetto di tale debolezza. I sardi hanno perduto quella primogenitura federalista che i loro migliori uomini avevano difeso lungo tutto il Novecento, dopo che le stesse proposte erano state sconfitte nell’Ottocento a seguito della ‘fusione perfetta’ e dei modi con cui si concretizzò la formazione dello Stato italiano. Questa proposta si chiama ‘federalismo’. Quello che poche e inascoltate voci richiamano negli ultimi decenni a partire dalla grande crisi della fine degli anni Settanta dello scorso secolo. Quello stesso federalismo che, riproposto oggi dalle regioni settentrionali, sembra configurarsi, invece che come una forma di condivisione della sovranità, come una forma di neocentralismo che rischia di rendere ancora più dura la dipendenza della Sardegna.

Quale la risposta a questa situazione? Dobbiamo forse prendere atto che l’impossibilità di esso a causa degli interessi settentrionali, e il sistematico boicottaggio dello Stato all’affermazione del nostro diritto alla sovranità e alla presenza in Europa, ci lasci quale unica alternativa la debacle di una nuova ‘perfetta fusione’? L’unica atto da compiere a breve non è forse quella della volontà e dell’iniziativa popolare nella forma dell’Assemblea Costituente?

2). Circa la questione sociale non mancano certamente le lotte, gli scioperi, i viaggi della protesta a Roma né le manifestazioni sindacali a Cagliari. Il fatto è che questa protesta e le risposte politiche regionali e nazionali non si misurano con obiettivi precisi di sviluppo, si vive nel contingente senza un piano preciso e dunque senza risultati, anche parziali, concreti.
Cresce nei comuni dell’interno la consapevolezza del proprio spopolamento ma tanti segnali ci manifestano i messaggi della non rassegnazione. E’ fondamentale la protesta cosciente e organizzata dei giovani come dispositivo di pressione e di orientamento politico.

Un piano B per le zone industriali deserte (Isili, Ottana tra le prime, quindi Porto Vesme e Porto Torres) e la bonifica integrale delle zone industriali, non rappresentano, oramai degli atti dovuti e delle scelte indilazionabili? Cosa ci proponiamo per il futuro dei piccoli comuni? Quale azione per verificare il significato e gli effetti dell’abnorme crescita di Cagliari e di Olbia, con la nuova spinta alla conurbazione delle coste, con lo spopolamento dei comuni dell’interno? Quale proposta per un futuro occupativo dei giovani dei paesi e delle città?

3). Le risorse locali – territoriali a vantaggio dei sardi. C’è l’urgenza di un protagonismo economico che ponga le risorse territoriali al centro della crescita: ambiente, turismo, agro-alimentazione, pastorizia, agricoltura, piccola industria, artigianato. E’ proprio il prodotto identitario che trova sbocco nel mercato mondiale.
L’eolico e il fotovoltaico sono in mano alle imprese multinazionali: alla Sardegna il degrado ambientale, i capitali a favore degli sfruttatori. Con la questione della Tirrenia permane e si aggrava la dipendenza nei trasporti.
Ma ciò che è più grave è la povertà delle risorse culturali: ultimi in Italia per livello di studio, con una grave dispersione scolastica e la crisi della scuola e dell’università.
E’ una debolezza che ci condanna sia nel campo di un moderno investimento delle risorse locali, sia per quanto riguarda gli investimenti tecnologici di imprese esterne. In questa prospettiva di crescita può darsi una risposta alla sfiducia dei giovani che non vedono orizzonti possibili e si adagiano in una condizione passiva.
Non è ormai urgente un confronto serio e propositivo che coinvolga le varie forze produttive, per dare loro uno spazio di parola e di progettualità, per formare soggettività che credono nel proprio ruolo? Non dovremmo rivalutare a fondo tutti coloro che, con il lavoro delle braccia e della mente, producono beni e ricchezza?

4). Mai come oggi nella realtà sarda è fondamentale il ruolo degli intellettuali. E’ necessaria una produzione culturale che riguardi l’economia e tutte le scienze umane e tecnologiche, riaffermando con fermezza l’importanza della lingua sarda nel processo della crescita. Una produzione culturale come produzione di senso, come informazione e formazione pubblica per una presa di coscienza. Produzione culturale come produzione materiale: scrittura, film, tv, teatro, musica, arti visive, che facciano da fermento per una presenza combattiva dell’opinione pubblica.
Oggi ogni produzione culturale è necessariamente produzione materiale e sociale, e viceversa.
Ogni prodotto materiale è un prodotto culturale: l’artigiano è un produttore di cultura materiale e simbolica. Si producono segni non oggetti, messaggi, non solo merce! Perciò la mobilitazione deve investire tutte le diverse attività produttive.
Non si impone forse un nuovo legame tra l’intellettualità delle città e quelle dei paesi, tra gli esperti dell’accademia e della scuola e le diffuse competenze, che riproponga il senso e il segno di un comune destino in questa Isola, con queste risorse umane ed economiche, con i doni della natura e quelli della nostra umanità? Non è forse giunto il tempo di fare il punto sul complessivo stato della cultura in Sardegna?


5). Noi tutti tocchiamo ogni giorno con mano i limiti della politica sarda, vediamo chiaramente che la Sardegna è abbandonata dallo Stato e mal governata. Ciò è dovuto alla modesta incidenza dei parlamentari sardi nel Governo e nel Parlamento italiano, nonché alla scarsa autorevolezza, anche personale, degli uomini politici sardi, sia nell’ambito dei diversi partiti, sia nei giuochi di potere. Per non parlare della debolezza politica della Giunta e del Consiglio regionale rispetto alle decisioni economiche e finanziarie del Governo centrale. Le responsabilità di questa situazione sono tante e vengono anche da lontano. Ma non ci interessa ora soffermarci sulle mancanze dei protagonisti della politica. Siamo pronti a riconoscere dei limiti al nostro non sufficiente operare. I discorsi che al momento ci appaiono pressanti sono i programmi e le azioni capaci di portarci al di là della presente situazione.
Potremmo porre ai Consiglieri regionali una domanda sul senso e le modalità del loro ruolo nella più importante istituzione della Sardegna. Dovremmo anche noi interrogarci se, in assenza della necessaria assunzione di impegno, non sia urgente un’azione che provenga dalla società, dalla cultura, dalle forze economiche e dagli enti locali per assumersi anche le responsabilità dolorose che una verificata insufficienza e latitanza delle rappresentanze istituzionali comporta.

Chiunque sia in grado di provare queste esigenze e di mettersi con noi in cammino sulla strada delle possibili soluzioni è un nostro compagno di viaggio. Ci incontreremo di nuovo a Seneghe, nella Casa Aragonese, sabato 21 maggio 2011, a partire dalle ore 9,30.



Sa die de sa Sardigna 2011

COMUNICATO STAMPA

Presso la Casa Aragonese del comune di Seneghe si svolgerà, sabato 21 maggio, un incontro e un dibattito sui temi più urgenti della Sardegna. Esso si pone in continuità con l’incontro del 25 marzo scorso, svolto anch’esso a Seneghe, che è stato ricco di elaborazioni storiche e di interferenze tra la ricorrenza dei 150 anni dell'unità d'Italia e le questioni poste da sa Die de sa Sardigna. E’ nata così l'esigenza di proseguire la riflessione e di orientarla verso i temi più urgenti della realtà sarda nella prospettiva di approfondire l'analisi e di rinforzare sia la speranza progettuale e sia le proposte programmatiche.
In riferimento alla festa dei Sardi del 28 aprile, si è pensato di formulare cinque domande in analogia con le cinque domande rivolte al re nel 1793 che ha iniziato, per così dire, la fase vertenziale della Sardegna moderna.
Sono cinque domande che investono l'aspetto istituzionale, sociale, economico e culturale per come le questioni si presentano nell'attuale momento storico con i propri caratteri di urgenza.
Questione istituzionale che ci interroga sull'elaborazione dello statuto sardo e sulla forza contrattuale con lo Stato.
Questione sociale che pone il dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile, lo spopolamento dei piccoli comuni dell'interno, la drammaticità della crisi industriale.
Una domanda fondamentale riguarda il modello di sviluppo: valorizzazione delle risorse locali, calcolato investimento nell’eolico e nel solare a beneficio dei sardi, questione dei trasporti che condiziona anche lo sviluppo turistico.
Come interrogarsi sul ruolo degli intellettuali come impegno sociale e come produzione culturale che investa l'economia e l'innovazione tecnologica delle forme produttive? E quale ruolo esercitano essi nella formazione dell'opinione pubblica e nella riformulazione radicale della scuola sarda?
La domanda conclusiva ci interroga tutti gli sulla qualità della politica sarda e sulla incidenza dei politici sardi nei confronti dello Stato a difesa degli interessi della Sardegna.
Queste sono le questioni che saranno introdotte da studi specifici e arricchite da molteplici contributi e da liberi interventi.
I sottoscritti si danno appuntamento a Seneghe, presso la Casa Aragonese del Comune, sabato 21 maggio 2011, alle ore 9,30. I cittadini sono invitati a ragionare e discutere con noi, in continuità con Sa die de sa Sardigna.

Firma: Bachisio Bandinu (antropologo, giornalista), Antonio Buluggiu (insegnante), Luciano Carta (storico, dirigente scolastico), Vittoria Casu (docente universitario, già consigliere regionale), Placido Cherchi (antropologo) , Alberto Contu (storico), Gianfranco Contu (storico) , Mario Cubeddu (storico, insegnante), Salvatore Cubeddu (sociologo), Giuseppe Doneddu (storico, docente universitario), Federico Francioni (storico, insegnante), Gianni Loy (docente universitario), Piero Marcialis (attore, insegnante), Piero Marras (cantautore,già consigliere regionale), Luciano Marrocu (storico, docente universitario), Alberto Merler (sociologo, docente universitario), Nicolò Migheli (sociologo), Maria Antonietta Mongiu (archeologo, insegnante, già assessore regionale), Giorgio Murgia (già consigliere regionale), Michela Murgia (scrittrice, insegnante), Paolo Mugoni (insegnante), Maria Lucia Piga (sociologo, docente universitario), Gianfranco Pintore (giornalista, scrittore), Paolo Pillonca (giornalista, scrittore), Mario Puddu (insegnante, scrittore), Vindice Ribichesu (giornalista), Andrea Vargiu (docente universitario).

giovedì 21 aprile 2011

Minamisoma, la città simbolo della catastrofe

Colpita dal terremoto e dallo
tsunami l’11 marzo, oggi la città
costiera del Tohoku è
minacciata dalla crisi nucleare.
Intanto sulla Tepco piovono le
richieste di risarcimento
Justin McCurry
Global Post



Se c’è un posto che riassume la portata della tragedia che si è abbattuta sul Giappone quello è Minamisoma. Nel terremoto e nello tsunami dell’11 marzo questa città costiera nella prefettura di Fukushima ha perso 1.470 abitanti, e cinque settimane dopo la popolazione rimasta vive in un limbo nucleare. Una parte della città si trova infatti nella zona compresa entro i 20 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi, dichiarata proibita. Nel giro di pochi giorni dall’inizio della crisi nucleare, i 70mila abitanti di Minamisoma erano diventati diecimila, trasferiti con degli autobus nei centri di accoglienza a centinaia di chilometri di distanza.

Oggi, anche se alcuni ritornano, Minamisoma è di fatto una città fantasma. L’11 aprile, l’estensione dell’area di evacuazione ad alcune zone a 40 chilometri dalla centrale ha aggravato la situazione di una comunità già tormentata. Per completare il nuovo ordine di evacuazione, che interessa decine di migliaia di persone, ci vorrà un mese. Nel frattempo il lusso degli abitanti che avevano cominciato a tornare a casa,incoraggiati dalla diminuzione della radioattività, potrebbe fermarsi.

Nonostante le rassicurazioni delle autorità circa i livelli delle radiazioni, il premier Naoto Kan ha ammesso di non sapere quando sarà possibile revocare l’allarme in posti come Minamisoma e, tramite il suo portavoce, ha ammesso che chi abitava vicino all’impianto non potrà tornare a casa prima di dieci o vent’anni. Kan ha poi ritrattato, ma ormai il danno era fatto. “È scandaloso”, ha commentato Michio Furukawa, sindaco di Kawamata, prefettura di Fukushima. “Ha idea dei sacriici che stiamo facendo?”.

Indennizzi in tempi rapidi
La decisione di estendere la zona di evacuazione è stata resa nota lo stesso giorno
in cui le autorità hanno alzato la gravità dell’incidente di Fukushima al livello 7, al pari di Cernobyl. La contaminazione causata dalla centrale giapponese è solo un decimo di quella sprigionata dal reattore sovietico, ma l’iniziale fuga radioattiva e i timori per la salute dei residenti delle zone circostanti hanno lasciato poca scelta al governo, che ha dichiarato quella di Fukushima Daiichi una “catastrofe grave”.

Una decisione che ha fatto aumentare le pressioni sulla Tokyo electric power company (Tepco) in merito ai risarcimenti. Circa 48mila famiglie nel raggio di 30 chilometri dalla centrale hanno i requisiti per ricevere un indennizzo provvisorio, pari a un milione di yen (circa 8.300 euro) per le famiglie e a 750mila yen per le persone che vivono da sole. Il totale ammonta a cinquanta miliardi di yen, senza però contare le richieste che arriveranno da agricoltori e pescatori della zona.

Anche la federazione delle cooperative agricole giapponesi, infatti, ha chiesto un
risarcimento immediato per i danni derivati dal divieto di vendita di alcuni prodotti e per la disinformazione sulla frutta e la verdura della regione, ingiustamente ritenute pericolose. “È inaccettabile”, ha dichiarato la federazione. “Nelle zone colpite è in pericolo la base stessa dell’agricoltura, con conseguenze disastrose per i coltivatori”.


Da sapere
Il 17 aprile la Tokyo elecrtic power company
(Tepco), che gestisce la centrale di Fukushima,
ha presentato un piano per risolvere la crisi
nucleare nel giro di nove mesi. In una prima
fase si cercherà di rafreddare i reattori,
portando la temperatura sotto i 100 gradi
centigradi, per poi ridurre la quantità del
materiale radioattivo nella seconda fase.

La Tepco ha precisato che non è del tutto sicura
che l’operazione avrà successo.
Il 20 aprile il governo giapponese ha preso in
considerazione la possibilità di rafforzare il
controllo delle zone contaminate rendendo
obbligatoria l’evacuazione e impedendo
tassativamente l’ingresso ai residenti sfollati e
ai giornalisti.

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