mercoledì 6 luglio 2011

Perché i manifestanti non vogliono la Tav in Val di Susa

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Tutto è iniziato poco prima delle cinque del mattino del 27 giugno: 2000 agenti delle forze dell'ordine sono usciti dalle gallerie per forzare i blocchi eretti sulla strada dell'Avanà, il punto d'accesso al futuro cantiere della Tav occupato da migliaia di manifestanti contrari all'alta velocità. Se i lavori faraonici non verranno avviati entro il 30 giugno, l'Italia vedrà sfumare 670 milioni di finanziamenti europei stanziati per avviare la costruzione della nuova linea veloce che dal 2020 dovrebbe collegare Torino a Lione.

Il bilancio della giornata di scontri vede 27 feriti tra le forze dell'ordine, quattro tra i manifestanti e diversi intossicati dai gas lacrimogeni. Dopo l'attacco, i membri dei movimenti della Val di Susa si sono ritirati nel vicino comune di Chiomonte, dove il municipio è stato occupato dalle donne del paese. Da lì ripartiranno, nei prossimi giorni, nuovi blocchi e proteste mirati a far saltare il cantiere Tav e fermare il progetto appaltato alla società Lyon Turin Ferroviarie (Ltf).

Le ragioni che muovono i manifestanti a opporsi da più di 20 anni alla costruzione di una nuova linea ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa sono di almeno due nature diverse: una ambientale e l'altra economica.

Già nel 2004, 103 medici della Val di Susa pubblicarono un appello in cui esprimevano forti preoccupazioni per l'incolumità della popolazione locale. I versanti della montagna dove sarà scavato il tunnel di 50 km che collegherà Francia e Italia contengono infatti abbondanti tracce di amianto. La manipolazione e il trasporto dei materiali di scavo potrebbe causare il rilascio delle pericolose fibre che, unite alla diffusione di polveri sottili, contaminerebbero facilmente l'intera valle. Non a caso, nelle vicinanze del cantiere è situata la più grande cava di amianto d'Europa, quella di Balangero, dismessa nel 1826 e mai bonificata (vedi Galileo). Il timore è quello che l'incidenza dei tumori causati dalle fibre - già elevata tra gli abitanti della zona - possa subire un'ulteriore impennata.

Come se non bastasse, l'escavazione dei tunnel richiederebbe enormi quantità d'acqua, che verrebbero drenate dai bacini idrici della zona: un'area caratterizzata da coltivazioni montane tutelate dall'indicazione geografica protetta (Igp). Si calcola che i lavori in Val di Susa drenerebbero dai 65 a 125 milioni di metri cubi d'acqua ogni anno, l'equivalente di quanto consumato da una città con un milione di abitanti. Il rischio di veder prosciugare torrenti, fiumi e pozzi si scontra duramente con la promessa da parte dell'alta velocità di ridurre l'impatto ambientale del trasporto merci. A quanto pare, il risparmio di CO2 emessa dal traffico stradale che verrebbe dirottato sulla nuova linea ferroviaria verrebbe annullato dalle enormi spese energetiche richieste per la realizzazione del cantiere e dalla costosa alimentazione delle nuove motrici.

Oltre alle problematiche ambientali, i cantieri Tav sollevano non pochi dubbi di carattere economico. Secondo un saggio pubblicato nel 2007 da Marco Ponti, ordinario di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano, il progetto della linea Lione-Torino, un affare da 17 miliardi di euro, sovrastimerebbe le aspettative di crescita previste per il traffico merci e passeggeri nell'area subalpina. La Val di Susa, inoltre, viene già attraversata dalla linea ferroviaria internazionale del Frejus, i cui ultimi lavori di ampliamento sono terminati nel 2010. Tuttavia, questa tratta alpina è stata sfruttata negli ultimi tre anni per meno del 25% della sua capacità totale.

La necessità di costruire nuovi e costosissimi tunnel di collegamento con la Francia sembrerebbe quindi una manovra azzardata: perché, piuttosto, non sfruttare al meglio le linee di collegamento già esistenti? Inoltre, secondo gli ultimi dati dell'osservatorio del Dipartimento Federale dei Trasporti svizzero sul traffico merci attraverso i valichi alpini, il volume di scambi attraverso il Frejus sarebbe in costante calo da almeno otto anni, con un picco negativo di 2,2 megatonnellate (Mt) nel 2009. Un dato concreto che getta seri dubbi sulle stime presentate da Ltf: per il 2009, infatti, prevedeva un volume di passaggio merci pari a ben 10 Mt, quasi cinque volte più del reale stato di congestionamento.

Data la complessità del nuovo cantiere che dovrebbe essere avviato in Val di Susa, c'è anche il rischio che i lavori possano subire dei forti rallentamenti. Non sarebbe infatti una novità se la realizzazione della linea ad alta velocità richiedesse più tempo e denaro rispetto a quanto preventivato dai primi progetti. È già successo nel caso delle tratte Roma-Firenze, Firenze-Bologna e Milano-Torino, dove i costi finali hanno superato i preventivi iniziali dalle quattro alle sette volte. Anche nel caso, poi, in cui la tratta Lione-Torino venisse completata in tempi ragionevoli, occorrerebbero altri 26 miliardi di euro per estenderla fino al confine sloveno e completare il corridoio merci che taglierebbe il nord Italia da Est a Ovest. In conclusione, il rapporto costo-benefici non penderebbe affatto a favore della Tav, che al netto produrrebbe un disavanzo di 25 miliardi di euro. Un bel fardello per la stagnante economia italiana.

martedì 5 luglio 2011

“Patagonia senza dighe” Gli ecologisti cileni manifestano sotto l’ambasciata italiana




ilfatto

Il corteo davanti la nostra rappresentanza diplomatica a Santiago del Chile per protestare contro il progetto sponsorizzato dall'Enel di costruire cinque mega-dighe. “Roma approfitta della nostra scarsa cultura democratica per fare affari”, dice Accion ecologica

E’ la prima volta che dei cittadini cileni manifestano davanti all’ambasciata italiana di Santiago del Cile. E’ successo alla fine di giugno, un presidio convocato dai gruppi ecologisti più impegnati nella lotta contro le cinque mega dighe che minacciano la regione patagonica di Aysèn.

Il progetto è sponsorizzato dal colosso italiano Enel, che insieme a un partner cileno, ha ereditato la proprietà dell’acqua dei fiumi privatizzata da Pinochet. Il tema è centrale in Cile, la maggior parte dell’opinione pubblica è contraria e il governo – che ha favorito una prima approvazione ufficiale a livello regionale – è in difficoltà. I manifestanti hanno portato candele attorno all’ambasciata italiana, nel pieno dell’inverno australe, sotto gli stessi muri che nel ’73 e nel ’74 centinaia di cileni avevano scavalcato per rifugiarsi nel giardino della residenza dell’ambasciatore, per poi ottenere la possibilità di espatriare. Quell’Italia amica… ma oggi è malvista per il ruolo che il governo italiano conserva in Enel, e per il silenzio dei nostri media sulla lotta contro il progetto Hidroaysen.



Il coordinatore del gruppo Accion ecologica Luis Rendòn – immaginando probabilmente che il governo italiano si stia davvero occupando di cosa fa Enel – ha affermato che “sta approfittando della venalità e scarsa cultura democratica della classe politica cilena per fare affari”. In particolare accusa il progetto Hidroaysèn di procedere “imbrogliando le carte, tentando di corrompere la popolazione locale, cambiando le informazioni tecniche” e separando la valutazione di impatto ambientale delle dighe in quanto tali da quella dell’imponente rete di trasmissione elettrica di duemila chilometri di tralicci che dovrebbe essere realizzata.

Le irregolarità nei procedimenti hanno provocato uno stop da parte del Tribunale di Puerto Montt, che ha imposto di riesaminare tutti gli atti. Gli avvocati dell’impresa italo-cilena sono molto ottimisti sulla possibilità di superare questo ostacolo, ma intanto i movimenti di opposizione hanno guadagnato tempo e respiro. Anche nei partiti politici che erano o sembravano favorevoli al progetto cresce il motto “Patagonia senza dighe”. Si è formata una cordata di questo tipo all’interno di Renovacion Nacional, partito di centro destra al governo. Mentre il capogruppo del partito socialista ha detto che l’ex presidente Michelle Bachelet deve pronunciarsi esplicitamente contro Hidroaysen. Se non altro perché sarà lei la probabilmente candidata socialista alle elezioni presidenziali di fine 2013.

domenica 3 luglio 2011

Gunnar Sigurdsson, documentarista islandese: "Noi cittadini dobbiamo prendere le redini"



Ima Sanchis

Tradotto da Alba Canelli
Editato da Aurora Santini

Rivoluzione esemplare

La crisi finanziaria islandese ha portato il paese alla bancarotta. Alla fine del 2008 il suo indebitamento bancario equivaleva a diverse volte il suo PIL. Il Parlamento propone che siano le famiglie a pagarlo con una quota mensile per i prossimi 15 anni, al 5,5% d'interesse. Ma il popolo ha detto no e ha deciso di processare i responsabili della crisi: molti banchieri e dirigenti sono stati arrestati ed è appena iniziato il processo dell'ex Primo Ministro Geir H. Haarde. Il popolo si è organizzato attraverso assemblee e sta cambiando la Costituzione. "E 'stata una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che ci ha condotto alla crisi", dice Gunnar. Il suo documentario "Maybe I should have" ("Forse avrei dovuto", N.d.T.) racconta i fatti.

Un giorno ero seduto a guardare la TV ad ascoltare come i politici negavano la crisi, mi è venuta voglia di prendere a frecciate lo schermo, invece ho creato il Forum Civico Aperto.

Quindi dev'essere orgoglioso di ciò che è stato raggiunto.

Abbiamo fatto dimettere il governo al completo e sono state nazionalizzate le principali banche. Con il voto popolare, ci rifiutiamo di pagare il debito che questi hanno contratto con la Gran Bretagna e l'Olanda, a causa della loro esecrabile politica finanziaria. E stiamo giudicando il primo ministro che ha permesso il disastro.

Sono un esempio nel mondo.

Abbiamo pagato un prezzo alto: le nostre istituzioni ci hanno deluso, i banchieri ci hanno derubato e il governo li ha sostenuti. Abbiamo scoperto che la loro avidità, corruzione e nepotismo non hanno limiti. Hanno condotto il paese alla bancarotta.

E lei lo ha raccontato in un film.

Nel 2008, credevo di vivere nel paese meno corrotto del mondo, in armonia con il governo e le banche...Lavoravo nel marketing ed ero regista teatrale. Comprai un appartamento di 60 mq, con l'aiuto della mia banca, ed un'auto con un prestito in valuta estera.

Ma il sistema è crollato.

Io, come molti islandesi, ho dovuto restituire l'auto e, inoltre, devo dei soldi perché la corona è caduta in picchiata. Mi aumentarono il prezzo del mutuo, che già non potevo più pagare. Ero in condizioni di povertà e per la prima volta sono uscito in strada a protestare.
Da persi, al fiume.
La corona islandese perse il 58% del suo valore, l'inflazione salì al 19%, l'economia si contrasse del 7% (2009) e abbiamo avuto la più grande emigrazione dal 1887. Decisi di scoprire cosa era successo girando un documentario.

Da dove cominciò?

Ciò che è successo in Islanda tra il 2003 e il 2008 è che il governo ha dato pieni poteri ai finanzieri, che usarono il favore politico per arricchirsi. Le banche furono nazionalizzate, ma i soldi dei ricchi scomparvero...Così decisi di seguire il denaro: viaggiai a Londra, Guernsey, Lussemburgo e Road Town, e le Isole Vergini.

Che cosa trovò?

Corruzione. Fino ad allora non avevo sentito parlare di Tortola, Isole Vergini Britanniche, con 30.000 abitanti e 620.000 imprese registrate, molte islandesi.

Capisco.

Finché paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti o l'Islanda consentono alle aziende operanti nei loro paesi di registrarsi su isole come Tortola, Isole Cayman, o anche il Lussemburgo, espressamente per non pagare le tasse, non cambierà nulla.

Certo.

Queste aziende utilizzano i servizi che i paesi concedono alla cittadinanza, ma scompaiono al momento di pagare le tasse. Tutte le persone che stavano giocando in borsa alla grande (molti di loro con informazioni privilegiate) hanno preso il denaro e lasciato i debiti. Niente di tutto questo sarebbe possibile se la società protestasse e chiedesse cambiamenti.

Che cosa ha imparato dalla connessione tra politica e affari?

È assoluta, e i politici dovrebbero stare fuori dal mercato. In tutto il mondo, le banche operano per clientelismo e nepotismo; non ci sono tasse per gli amici.

Ci hanno detto che se non avessimo salvato le banche saremmo affondati con esse.Questo è quello che dicono le banche, che non possiamo vivere senza di loro; ma noi possiamo, lo abbiamo dimostrato. Tutti questi interessi che ci addebitano non hanno senso, io voglio pagare per migliorare la società, non per arricchire le banche. Quando c'è una crisi, si taglia la sanità, le pensioni, l'istruzione...Perché non tagliamo i soldi di cui si nutrono le banche? Questo sistema è affondato, abbiamo bisogno di un cambiamento.

Come delineare questo cambiamento?

È difficile dirlo in poche parole, ma le banche non dovrebbero giocare in borsa con il nostro denaro, e dobbiamo tagliare i rapporti tra la politica e gli affari.

Il malcontento è generale.

Si noti che i banchieri, che hanno causato la crisi, continuano ad essere in carica nelle banche, nessuno si è dimesso. Non dovrebbero essere altri a gestire l'uscita dalla crisi?

Rivendichiamo lo Stato sociale, ma ci dicono che ormai non è possibile.

Dobbiamo avere casa, assistenza sanitaria, istruzione e lavoro; per questo paghiamo le tasse, per questo ci sono i politici…Ma, per il potere finanziario che governa il mondo, la cosa importante sono i profitti e non le persone. Noi cittadini dobbiamo prendere le redini.

Quale futuro intravede?

La classe media è quella che lavora e paga le tasse e, tuttavia, continua ad ammirare ed imitare i ricchi, che portano i soldi nei paradisi fiscali. Bisogna ammirare la gente per quello che ha dentro e non fuori. E non ha senso che un giocatore vinca mille volte di più di una persona che cura un anziano, è ridicolo. Potrebbe guadagnare un centinaio di volte di più, ma mille...Dovremmo prenderci cura gli uni degli altri.

La tendenza è di tagliare sanità, istruzione e assistenza ai più bisognosi.

Bisogna mettere le persone al di sopra dei profitti. E noi, i cittadini di classe media, abbiamo molto più potere di quello che crediamo: mettiamo e togliamo governi. Responsabilizziamoci.





Per concessione di La Vanguardia
Fonte: http://www.lavanguardia.com/lacontra/20110615/54170791972/los-ciudadanos-debemos-tomar-las-riendas.html










sabato 2 luglio 2011

Il ruolo dell'Italia nella guerra in Libia

By Marianne Arens
wsws

The signs of the defeat of Libyan revolution


L'Italia ha attivamente partecipato al bombardamento della Libia dal 28 aprile. Giorno e notte, i caccia italiani sono decollati dalla base aerea di Trapani Birgi in Sicilia e dalla portaerei Garibaldi per prendere parte alla guerra contro la ex colonia italiana.

Poche settimane fa, il ministro degli Esteri Franco Frattini aveva detto sul sito web del suo ministero che l'Italia non dovrebbe partecipare attivamente alla guerra contro la Libia: “Se un aereo italiano bombardasse la Libia e colpisse dei civili, l'intervento sarebbe controproducente". Il Governo teme paragoni con il periodo coloniale italiano nel periodo 1911-1943, sotto i governi "democratico" e fascista.

La decisione di partecipare alla guerra, nonostante il passato coloniale, ha avuto luogo dopo i colloqui tra il premier Silvio Berlusconi e il presidente francese Nicolas Sarkozy, il 26 aprile a Roma su come affrontare la questione degli immigrati africani. Sarkozy e Berlusconi erano d'accordo nel rifiutare “qualsiasi operazione di commercializzazione o di trasporto di idrocarburi da cui possa trarre vantaggio il regime di Gheddafi”. Subito dopo, il primo ministro italiano ha annunciato che il suo paese avrebbe partecipato attivamente alla guerra dal 28 aprile.

La partecipazione dell'Italia nella guerra nasce dalla paura che possa perdere la sua influenza in Libia a vantaggio di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Il Financial Times ha osservato: "Il battibecco italo-francese sull’immigrazione fa seguito ad aspri disaccordi sulla Libia. L’Italia è stata trascinata in una guerra che avrebbe preferito evitare, temendo che un asse Parigi-Bengasi possa interferire con i suoi notevoli interessi nel petrolio e il gas della Libia".

Il petrolio libico e le riserve di gas sono i motivi fondamentali per la borghesia italiana a partecipare attivamente alla lotta inter-imperialista nel vicino Paese nordafricano. L'Italia ottiene un quarto delle sue importazioni di petrolio e il dieci per cento del suo gas naturale dalla Libia. Il gruppo ENI ha investito miliardi di euro in Libia. Prima dello scoppio della guerra, l'Italia era il più grande partner commerciale della Libia, il più grande acquirente di petrolio greggio, e uno dei maggiori fornitori di armi del regime Gheddafi.

Il governo Italiano ha riconosciuto ufficialmente il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) di Bengasi il 4 aprile e ha inviato dieci consiglieri militari. Inoltre riconosce il CNT come governo temporaneo libico e lo ha finanziato, forse anche con le armi, secondo un portavoce a Bengasi nel fine settimana.

La decisione di partecipare attivamente alla guerra ha causato qualche dissenso nella coalizione di governo in Italia. La Lega Nord ha giustificato la sua opposizione sollevando timori di un possibile afflusso incontrollato di profughi africani, dovesse la guerra andare avanti a lungo. Gheddafi, che negli ultimi anni aveva impedito ai rifugiati africani di attraversare il Mediterraneo, detenendoli nei campi finanziati dal governo italiano, ha minacciato di farli emigrare in gran numero verso l'Italia.

La Lega Nord teme anche che l'Italia potrebbe essere trascinata dietro le altre potenze europee, specialmente la Francia. Umberto Bossi, capo della Lega Nord, ha dichiarato al giornale Padania: "siamo diventati una colonia francese". Il continuo acconsentire alle richieste di Parigi da parte dell’Italia avrebbe conseguenze molto serie. Bossi ha detto, “non è dicendo sempre di sì che si acquisisce peso internazionale”.

Ma la Lega Nord è attenta a non mettere seriamente a repentaglio il governo. E 'stata rassicurata quando è stato proposto di mettere un limite di tempo di tre o quattro settimane sulla partecipazione dell'Italia alla guerra. Tuttavia, gli altri partner della NATO rifiutano l'imposizione di limitazioni temporali alla guerra.

Il più forte sostegno alla guerra in Libia viene dalla cosiddetta opposizione di centro-sinistra e in generale dai partiti di "sinistra".

Il principale partito di opposizione, il Partito Democratico (PD), proveniente dal Partito Comunista Italiano (PCI), sostiene con entusiasmo la guerra della NATO contro la Libia. Il 23 marzo e il 4 maggio il PD si è pronunciato molto favorevolmente in Parlamento agli attacchi della NATO.

Durante la seduta del 4 maggio, il leader del PD Pier Luigi Bersani ha proposto una mozione che obbliga il governo a "continuare nell’adottare ogni iniziativa necessaria ad assicurare una concreta protezione dei civili". Ciò in seguito al testo della risoluzione Onu che ha dato il via libera alla guerra. Bersani ha detto: "vogliamo capire anche se la maggioranza è in grado di garantire gli impegni?presi". La sua mozione è stata portata a termine con una larga maggioranza, con l'astensione della coalizione di governo.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ex funzionario di lunga data del PCI, ha giustificato la partecipazione italiana nella guerra, dicendo: "non siamo entrati in guerra. La carta delle nazioni unite prevede un capitolo, il settimo, il quale nell'interesse della pace ritiene che siano da autorizzare anche azioni volte, con le forze armate, a reprimere le violazioni della pace".

Intervistato dal quotidiano Il Manifesto per chiedere spiegazioni su quanto ciò fosse compatibile con l'articolo 11 della costituzione italiana, che vieta la guerra contro altri popoli, Napolitano ha detto che "L’articolo 11 della Costituzione deve essere letto e correttamente interpretato nel suo insieme. Partecipando alle operazioni contro la Libia sulla base della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, l’Italia non conduce una guerra nè per offendere la dignità di altri popoli, nè per risolvere controversie internazionali”.

Politici come Fausto Bertinotti (Rifondazione Comunista che ha guidato fino al 2006) e Nichi Vendola (Sinistra Ecologia Libertà) hanno dato supporto alla borghesia italiana. Nessuno sa meglio come oscurare i fatti, con la tipica giustificazione "umanitaria" e la "difesa della democrazia" per la guerra, di questi maestri dell'inganno politico.

Fausto Bertinotti ha scritto sul suo sito web che l'opposizione anti-Gheddafi deve essere difesa. "Il pacifismo non è un concetto che è scolpito nella pietra", ha detto, aggiungendo che esso deve essere "flessibile".

Nel mese di febbraio, Nichi Vendola ha approvato gli sforzi del CNT per rovesciare Gheddafi e ha accolto con favore la risoluzione Onu 1973 a marzo. Oggi reclama un cessate il fuoco e l'assistenza umanitaria sotto il controllo dell'Unione europea.

L'UE vuole un intervento in Libia indipendente dalla NATO. Con la missione EUFOR Libia, l'UE è "armata e pronta" in attesa di una richiesta delle Nazioni Unite. La missione si compone di due gruppi di battaglia europea, ciascuno con 1.500 uomini, ed è sotto il comando di un ammiraglio italiano. Il compito della missione EUFOR Libia sarebbe quello di creare con la forza un "corridoio umanitario" nelle aree contese.

Al tempo della guerra in Iraq, Rifondazione Comunista, di cui era membro anche Vendola, si mise a capo del movimento contro la guerra. Nella sola Roma il 15 febbraio 2003 tre milioni di persone manifestarono con lo slogan "No alla guerra, senza se e senza ma". Rifondazione, però, fece in modo che il movimento non potesse minacciare il potere borghese in Italia. Oggi, invece, Rifondazione e il suo successore svolgono un ruolo chiave nella reprimere e disorientare il sentimento anti-bellico.

Gli esperti militari si pongono meno problemi a nascondere la vera natura della guerra in Libia. Andrea Nativi, direttore del giornale militare Rivista Italiana di Difesa, ha dichiarato: "Questa è una guerra e senza morti una guerra non si fa".

Rispondendo alla posizione che le operazioni italiane dovrebbero essere dirette solo contro obiettivi militari specifici, Nativi ha sostenuto una selezione più ampia di obiettivi: "più s'impongono dei caveat più dura una guerra e più dura una guerra più ci sono dei morti. Può sembrare un ragionamento cinico, ma le cose funzionano così".

L'intervento ha già causato pesanti distruzioni in Libia. Ci sono stati lanci di razzi tutti i giorni per sette settimane. I media tacciono su quante persone, civili o militari, sono stati uccisi.

Durante la notte del 10 maggio, la NATO ha di nuovo attaccato la capitale Tripoli e ha scatenato un inferno omicida di tre ore. Secondo la versione ufficiale, la missione della NATO è solo diretta a installazioni militari, al fine di "proteggere i civili libici". Ma obiettivi civili come le stazioni radio e TV e la residenza privata di Gheddafi sono stati attaccati sistematicamente.

Il vero carattere della "missione umanitaria" si vede anche nel destino dei rifugiati. Le loro vite, la loro salute e i loro diritti democratici sono, ovviamente, non ciò che si intende quando si parla di "protezione dei civili".

Molti migranti muoiono in mare aperto nelle pericolose traversate dalla Libia a Lampedusa. Il 9 maggio, è stata trovata una barca alla deriva senza aiuti per sedici giorni. Dei 72 a bordo, secondo un rapporto del Guardian, solo undici sono sopravvissuti al tremendo viaggio, 61 sono morti di fame, sete o di stenti.




Il ministro algerino dice: armi libiche stanno raggiungendo al-Qaeda.

Bloomberg

tradutzioni de SADEFENZA

1 lug 2011 - armi libiche vengono trafficate da al-Qaeda, tra cui armi francesi fornite ai ribelli in lotta per spodestare Muammar Gheddafi, ha detto il ministro degli Esteri algerino incaricato dell'Africa e del Maghreb .

Armi filtrano dalla Libia stanno rafforzando al-Qaeda nel Maghreb islamico, che si è scontrato con le forze di sicurezza in Algeria, Mali, Mauritania e Niger negli ultimi mesi,vha detto ai giornalisti oggi Abdelkader Messahel a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale.

"E 'grave, si stanno rafforzando con le armi provenienti dalla Libia", ha detto Messahel a un vertice dell'Unione africana. "Questi sono paesi già deboli, e questo li sta indebolendo ancora di più."

Spagna Il ministro degli Interni Alfredo Perez Rubalcaba il 30 giugno ha detto che le attrezzature dell'esercito libico possono essere raggiunte da al-Qaeda. (Associated Press). Egli non ha menzionato le armi dei ribelli. Gli aerei francesi in maggio hanno paracadutato lanciarazzi e fucili d'assalto ai ribelli in possesso di un catena di montagne a circa 70 miglia (110 chilometri) a sud della capitale, Tripoli, ha riportato il 29 giugno Le Figaro . I ribelli hanno usato le armi per respingere le forze della regione di Gheddafi .

Ribelli libici oggi hanno chiesto alla Francia la fornitura di armi e munizioni per i combattenti a Misurata, dove dei civili sono morti, nelle ultime due settimane per gli attacchi di razzi da parte delle truppe di Gheddafi.

Forniture francesi

"Siamo in discussione con la Francia per la fornitura di armi," Ibrahim Betalmal, portavoce militare dei ribelli nella enclave assediata a est di Tripoli, ha riportato ai giornalisti ieri in tarda serata. I colloqui tra la Francia e i ribelle del Consiglio nazionale di transizione, con la sede a est della Libya, non coinvolgono la North Atlantic Treaty Organization (NATO).

La comunità internazionale non è d'accordo che sia legale fornire i ribelli . La Francia sostiene che il paracadute offerto ai ribelli nei pressi di Tripoli siano nello "spirito" della risoluzione delle Nazioni Unite che ha autorizzato la guerra aerea contro le forze di Gheddafi. Mentre la Cina ha contestato le affermazioni francesi ribadendo che andavano oltre il mandato, mentre la Russia le ha dichiarate illegali.

La Commissione dell'Unione africana Jean Ping il 28 giugno ha criticato l'azione, dicendo che aumenta il "rischio di guerra civile, rischio di spartizione del paese, il rischio di Somalizazione del Paese" - un riferimento alle divisioni di vecchia data in Africa orientale nazione della Somalia.

Unità dei ribelli intorno a Misurata, privi di artiglieria e carri armati, hanno effettuato offensive contro le forze di Gheddafi nelle ultime settimane con mortai e armi leggere. Essi sono stati in grado di spingere quanto basta per evitare bombardamenti di razzi la notte.

Minaccia regionale

Betalmal ha detto che i bombardamenti della NATO contro obiettivi pro-Gheddafi intorno alla città sono aumentati, e che i suoi combattenti hanno riferito di aver visto le navi della NATO sparare a bersagli a terra in diverse occasioni.

"Abbiamo notato che la NATO nelle ultime due settimane ha aumentato gli attacchi aerei, di cui siamo grati".

Le forze di sicurezza provenienti dalla Algeria, Mali, Mauritania e Niger si sono scontrate con militanti, tra cui Al-Qaeda nel Maghreb islamico, nel deserto del Sahel, che attraversa la regione, ha detto Messahel.

I quattro paesi hanno uno scambio di intelligence e hanno creato una forza comune di 75.000 uomini addestrati da francesi e statunitensi per combattere gli insorti nel deserto, ha detto Messahel.

Libyan Flag

Libyan Flag



uruknet

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giovedì 30 giugno 2011

La corda può spezzarsi


Stavros Lygeros

Kathimerini

91e9a 6 6GreeceDemos007 2643  296x197 Obama: Greece default would be ‘disastrous’


Debtocracy International Version di BitsnBytes

Le autorità europee hanno sempre espresso il loro timore per gli sviluppi incontrollati della vita politica greca. Ma oggi perino loro ammettono che la crisi della Grecia rappresenta un rischio enorme per tutta l’eurozona. Dovranno scongiurare il fallimento del paese nel loro stesso interesse.

Questo non signiica che Atene debba sfruttare la situazione per evitare di risanare le sue finanze. Ma significa che, a diferenza di quello che vogliono farci credere, la Grecia ha la possibilità di contrattare modi e tempi del salvataggio, nonostante il governo non sia riuscito a rispettare gli impegni presi, danneggiando la sua credibilità in patria e all’estero.

La Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale hanno apprezzato che Giorgos Papandreou e Giorgos Papaconstantinou, l’ex ministro delle finanze, abbiano accettato le loro richieste senza fare troppe storie. Le misure di austerità, però, non garantiscono la creazione di un avanzo primario nel bilancio pubblico, ma faranno sprofondare ancora di più l’economia greca. Un programma di crescita sostenibile deve prevedere la riorganizzazione delle inanze pubbliche, un uso migliore del potenziale di crescita del paese e la ristrutturazione del debito.

Volontà politica
È ovvio che senza tagli il debito greco è insostenibile. Ma se l’eurozona vuole evitare la bancarotta, deve cercare un’altra soluzione. Le alternative non mancano: quella che manca è la volontà politica di adottarle.

La Grecia non è la pecora nera dell’eurozona. È l’anello più debole di una catena già debole di per sé. Se tornasse alla dracma, la crisi colpirebbe altri anelli deboli. La Grecia è in prima linea, ma non è la sola. Per questo è essenziale che il problema sia affrontato nel contesto europeo. Avvertimenti, umiliazioni e punizioni stanno solo peggiorando le cose.
Se tirata troppo, la corda può spezzarsi.

greece
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I numeri e i rischi della crisi greca

Brinkmann e König
Süddeutsche Zeitung

Atene si prepara a ricevere un secondo pacchetto di aiuti per evitare il fallimento. I greci devono affrontare nuovi sacrifici. Ma è in gioco il futuro di tutta l’eurozona

Υπερψηφίστηκε με 155 «ναι» επί της αρχής και επί των άρθρων ο εφαρμοστικός νόμος.

Le nuove misure d’austerità
Il 29 giugno il parlamento greco ha approvato le nuove misure d’austerità presentate dal governo di Giorgos Papandreou. Il piano, che prevede tagli per 28 miliardi di euro e un programma di privatizzazioni da 50 miliardi di euro, è fondamentale per evitare l’insolvenza della Grecia. La sua approvazione, infatti, era stata imposta dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale come condizione per sbloccare la quinta tranche (12 miliardi di euro) del pacchetto di aiuti concessi ad Atene nel maggio del 2010. Il piano presentato dal nuovo ministro delle finanze Evangelos Venizelos impone sacrifici ancora più duri ai greci. In base alla fascia di reddito, ogni cittadino sarà chiamato a versare un contributo di solidarietà che varia dall’1 al 4 per cento del reddito personale (l’imposta sarà del 5 per cento per i ministri, i parlamentari e tutti i politici e i funzionari pubblici eletti). La soglia di reddito sotto la quale non si pagano le tasse scende da dodicimila a ottomila euro all’anno, tranne che per i pensionati con più di 65 anni e i giovani sotto i trent’anni.

Ora cosa succede
Il 23 e 24 giugno il Consiglio europeo ha approvato un secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia. L’intervento potrebbe arrivare ino a 120 miliardi di euro. Un primo miliardo sarà versato al più presto per rimettere in moto l’economia del paese.

Le date più importanti
I ministri delle finanze dei paesi dell’Unione europea si riuniranno il 3 luglio per parlare dei finanziamenti destinati alla Grecia. Saranno discussi, in particolare, i dettagli del secondo piano di aiuti. Un’altra data importante è il 15 luglio: secondo il ministero delle finanze greco, ci sono soldi per rispettare gli impegni del paese solo fino a quella data. Se per il 15 luglio Atene non avrà ricevuto nuovi finanziamenti, il governo greco sarà costretto a dichiararsi insolvente.

Quanto hanno tagliato finora i greci
Il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble ha calcolato che se la Germania dovesse sostenere uno sforzo simile a quello della Grecia, in proporzione i tagli al bilancio pubblico tedesco ammonterebbero a 125 miliardi di euro, cioè quasi l’intero budget assegnato nel 2011 al ministero del lavoro e delle politiche sociali. Nonostante tutto, l’Unione europea sostiene che le misure d’austerità già introdotte non sono sufficienti. Il bilancio pubblico della Grecia dovrà subire ulteriori tagli: quasi quattro miliardi di euro entro il 2014.

Perché alla Grecia servono altri soldi
Nel maggio del 2010 lo stato greco stava per esaurire i suoi fondi. Erano scaduti titoli di stato per un valore di diversi miliardi di euro. In genere i paesi rimborsano i creditori emettendo nuove obbligazioni, ma alla Grecia gli istituti di credito imponevano tassi d’interesse troppo alti. Per questo un anno fa Atene ha ricevuto aiuti per 110 miliardi di euro. L’obiettivo era fornire liquidità ad Atene per il tempo necessario a tornare sul mercato e ottenere capitali a condizioni migliori. Ma in questi mesi i tassi d’interesse sono rimasti troppo alti.

Le conseguenze di un fallimento greco per il sistema finanziario
Un crollodella Grecia potrebbe avere un efetto simile a quello del fallimento della banca
d’affari statunitense Lehman Brothers nel 2008, cioè uno shock del sistema finanziario di portata globale che bloccherebbe il credito ad altri paesi in difficoltà, come Irlanda e Portogallo. I titoli greci perderebbero ogni valore e le banche sarebbero costrette a colmare un buco nei loro bilanci.

La banca britannica Barclays ha stilato un elenco dettagliato degli istituti che possiedono ancora titoli di stato greci. Oltre a creditori come la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e i paesi dell’Unione europea, in cima alla lista ci sono gli istituti di credito greci. Per quanto riguarda le banche straniere, la tedesca Hypo Real Estate, un istituto nazionalizzato da Berlino per evitarne il fallimento, ha investito 6,3 miliardi di euro in titoli greci.

La francese Bnp ha in bilancio titoli di stato greci per cinque miliardi di euro. Un ruolo a parte è svolto dai credit default swap (cds), titoli derivati che funzionano come polizze assicurative: alcune banche in possesso di titoli di stato greci hanno sottoscritto dei cds con altri istituti inanziari, che garantiscono il rimborso del denaro prestato nel caso in cui la Grecia risulti insolvente. Un eventuale crollo, quindi, avrebbe ripercussioni anche sugli istituti che hanno emesso i cds, molti dei quali si trovano negli Stati Uniti. Quindi, anche se gli istituti di credito statunitensi possiedono pochi titoli greci, la crisi potrebbe raggiungere l’altra sponda dell’Atlantico. Non è chiaro il valore dei cds emessi sul debito greco in Europa e negli Stati Uniti. Secondo Markit, un’azienda britannica che elabora dati sui mercati finanziari, l’importo è di almeno cinque miliardi di euro, ma potrebbe arrivare ino a 78,7 miliardi. A questa cifra va aggiunto anche il valore di altri contratti simili ai cds, che si aggira sui 44 miliardi di euro.

martedì 28 giugno 2011

SOLIDARIETA’ ALLE COMUNITA’ IN LOTTA DELLA VAL DI SUSA

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Il progetto TAV per la Val di Susa è una delle creature predilette del neoliberismo europeo; la sua ragione dichiarata, collegare l’Ucraina ai porti atlantici attraverso l’Italia, rivela una concezione predatoria dell’economia e un diritto speciale di devastazione geografica; il costo enorme della sua realizzazione, preventivato nella fase euforica dell’unificazione monetaria, viene rilanciato fino alla lievitazione astronomica di 20 miliardi di euro, nonostante tutta l’economia europea sia oggi circondata dal baratro e l’economia italiana in caduta strutturale si appresti a varare una finanziaria di 50 miliardi di euro.
La mappa continentale della mobilità e la privatizzazione delle ferrovie hanno causato nel sistema ferroviario italiano lo spostamento della storica ripartizione tra prima classe e seconda classe dalle carrozze direttamente agli assi ferroviari: per consentire a pochi di viaggiare su “linee” di primissima classe si sottopongono valli, falde e montagne ad una ingegneria brutale e si costringe la maggioranza dei cittadini a linee ottocentesche, percorsi insicuri e vagoni indecenti. Cosa c’entrino l’Ucraina e la portualità atlantica non si capisce affatto, né si capisce la favola del traffico commerciale su TAV, ma quanto costi alle aree di colonizzazione interna e in primo luogo alla Sardegna questa riduzione propagandistica della mobilità territoriale è noto a chiunque debba prendere una nave o un treno.
Il movimento NO TAV, da dieci anni nemico pubblico comune di tutto lo schieramento politico di centrodestra e di quasi tutto il centrosinistra in Italia, si è imposto come il più radicato e duraturo movimento popolare di resistenza alla marcia continentale del neoliberismo europeo e delle sue devastazioni territoriali; per questo rappresenta non solo un esempio di lotta ma anche il fronte avanzato di una opposizione tra cittadini e stato e tra popoli e oligarchie che inevitabilmente è destinata a ripetersi. Per questo NO TAV significa anche NO NUKE, NO PONTE, NO BASI, NO RADAR: perché le partite più torbide orchestrate in seno alla Commissione europea e affidate ai terminali governativi dei singoli stati e di qui agli squali dell’economia aprono inevitabilmente nuovi fronti di lotta popolare organizzata.
I referendum italiani del 12 giugno si sono svolti nell’orizzonte continentale di una emergenza sociale che spazia da Lisbona, a Madrid e ad Atene; il senso politico dei referendum italiani è il riscontro istituzionale di quelle che in tutto il fronte meridionale dell’Europa sono oggi le prove inconfutabili di fallimento delle politiche di speculazione finanziaria e di privatizzazioni. Ma due sole settimane di tempo trascorse da quel risultato sono state un sufficiente intervallo per consentire agli opportunisti politici di quella vicenda di tornare alla vecchia orchestra; PD e Lega, SEL e PDL hanno aperto sul fronte TAV una danza macabra delle cui conseguenze mostrano di non tener conto: è lo spettacolo di uno schieramento militare costituito da ruspe accompagnate da truppe. E questa è una novità assolutamente pericolosa: chi sono i violenti?
Il movimento popolare di lotta al nucleare costituito un anno fa in Sardegna è una componente attenta a questi avvenimenti; la sua battaglia non si è conclusa col referendum regionale di maggio né coi referendum italiani del 12 giugno: la sua vera battaglia comincia ora. Riprende dalla resistenza del popolo sardo all’occupazione militare, ai poligoni sperimentali e in questi stessi giorni al piano di installazione dei radar costieri, finanziati dalla Commissione Europea, con la scusa del programma di contrasto all’immigrazione extracomunitaria, ma chiaramente integrati nel complesso industriale-militare.
PER UN’EUROPA DEI POPOLI, ECOLOGICA, DEMOCRATICA E SOLIDALE
SOLIDARIETA’ AL MOVIMENTO POPOLARE DELLA VAL DI SUSA
PIENO SOSTEGNO ALLA RESISTENZA NO TAV
NO AI RADAR IN SARDEGNA

Comitato Si.no.nucle

lunedì 27 giugno 2011

Nucleare, a Fukushima situazione sotto controllo. Anzi no

di Ascanio Vitale
ilfattoquotidiano

Ancora il 25 maggio scorso la radioattività accanto alla struttura era in grado di uccidere un uomo in 15 minuti. Nel frattempo è stata registrata una nuova perdita. Intanto, emergono le verità sui dati falsati e sulle negligenze della Tepco
Di nucleare gli italiani non ne vogliono sentir parlare. Il referendum lo da detto chiaramente. Eppure il nostro paese è accerchiato da centrali. Il rischio, insomma, è sempre dietro l’angolo. E nonostante questo, l’ultima tragedia atomica, quella di Fukushima resta tra le righe della cronaca.

Dipinto come un evento ormai risolto, in realtà il disastro giapponese risulta ben lontano dall’essere sotto controllo. Le operazioni di raffreddamento dei tre reattori (edifici n.1-2-3) e della vasca di contenimento delle barre esaurite nell’edificio n.4 continuano giorno e notte, mentre vengono allestite quelle di contenimento e bonifica.

La prima brutta notizia è la constatazione ufficiale delle perdite di materiale fissile dal nocciolo del reattore, causato dal cedimento del contenitore principale e di quello secondario. E’ lo scenario peggiore in un incidente nucleare, comportando la fuoriuscita di radionuclidi estremamente pericolosi e rendendo pressoché impossibile l’intervento di uomini sul posto. I livelli registrati il 25 maggio scorso in alcune aree vicino all’edificio n.3 erano capaci di condannare a morte certa un uomo in meno di 15 minuti. Ad oggi ancora non si conosce lo stato dell’interno dei generatori e non è stato ripristinato neanche uno dei sistemi di raffreddamento, compromessi dall’acqua di mare usata per oltre tre mesi per tentare di evitare il disastro.

La trasparenza dell’industria nucleare tanto sbandierata dagli operatori del settore e ribadita spesso da Enel – la quale resta coinvolta nei progetti all’estero di costruzione di nuove centrali grazie al decreto Marzano del 2003 – si rivela per l’ennesima volta un inganno reiterato.

Ben poca rilevanza ha avuto, infatti, la notizia di un incidente stimato di categoria 3 sulla scala internazionale a una centrale egiziana, dovuto all’esplosione di una pompa del circuito di raffreddamento, che ha causato la dispersione di acqua ad alto contenuto radioattivo. Ancora meno la perdita acclarata, negli ultimi due anni, di Trizio da ben 48 dei 65 reattori commerciali presi in analisi da un’inchiesta dell’Associated Press negli Stati Uniti. Parte del liquido rilasciato ha raggiunto la falda acquifera, contaminando gli acquedotti di diverse località, seppure la notizia sia stata negata dai responsabili degli impianti. Sorte simile toccò in Spagna nel 2008, dove i quantitativi di radioattività dispersa furono valutati in 84.95 milioni di Bequerel a fronte dei 235.000 Bequerel dichiarati da Endesa.

A Fukushima, solo dopo mesi dall‘incidente sono state verificate le accuse mosse verso la Tepco e l’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese, già segnate da un passato di omissis e dati contraffatti, da parte di numerosi gruppi indipendenti di ricerca e organizzazioni ambientaliste. L’ammontare di radioattività emessa in atmosfera e in acqua è più del doppio di quanto fosse stato dichiarato. Poco importa se sia meno di quanto sia stato emesso da Chernobyl: l’incidenza di tumore non è soltanto funzione dell’intensità, del tipo e della durata dell’esposizione, ma anche funzione della densità di popolazione interessata. Ne risulta, quindi, che se a Chernobyl l’incidenza è stata “relativamente” bassa (se tale effetti possano veramente essere cinicamente valutati in termini quantitativi), lo si deve alla scarsa densità di popolazione nell’area circostante di 46 persone per chilometro quadrato. A Fukushima la densità media è di 450 abitanti per chilometro quadrato, quasi 10 volte più alta.

Allo stesso tempo, i costi della bonifica, valutati in oltre 210 miliardi di euro, saranno ben più alti di quelli richiesti in Ucraina e difficilmente ricadranno sulla società elettrica giapponese, già in perdita prima dell’incidente con quasi 9 miliardi di euro di debiti.

E quando non è una notizia celata o distorta, ci pensa il governo a fare il resto, forse per evitare il panico, forse per limitare le polemiche. Se in gran parte del mondo i livelli di contaminazione massimi per un operaio addetto alla manutenzione di una centrale nucleare non superano generalmente i 20 millesimi di Sievert, in Giappone questi limiti erano fissati dal governo a 100 prima dell’incidente e successivamente sono stati innalzati a 250, soglia considerata già critica per la fertilità dei soggetti e per l’aumento esponenziale dei casi di tumore e leucemia.

Si prevede un lavoro di 6-9 mesi per la costruzione delle prime strutture di copertura tramite macchinari comandati in remoto, per poi inviare nuovamente uomini sul posto e completare il lavoro. La bonifica dovrebbe terminare in una finestra temporale variabile tra i 7 e i 10 anni. Ad oggi 7.800 lavoratori sono stati esposti alle radiazioni, alcuni di questi oltre gli stessi limiti fissati dal governo giapponese.

In Giappone, dall’oltre 50% di favorevoli al nucleare nel periodo pre-Fukushima, oggi solo il 37% resta sulle sue posizioni. In Italia, ci si cosparge il capo di cenere, lamentando il blocco della ricerca sul nucleare , quando il nostro paese è dal 1978, senza soluzione di continuità, il terzo Paese in Europa a finanziare la ricerca sul nucleare.

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