venerdì 15 luglio 2011
Partito «sardo», l'aggettivo non basta
A ogni nuova legislatura, arrivavano nella capitale del Regno alla spicciolata, gli undici eletti sardi del Parlamento nazionale, dopo un viaggio interminabile, chi sbarcava a Genova, chi a Livorno, chi a Civitavecchia. Poi, una dopo l'altra, si susseguivano le sedute, per lo più spese dai sardi nel silenzio, e arrivava immancabile l'angosciosa domanda: che ci faccio qui? Si rispondevano che il loro compito più importante era difendere gli interessi sardi.
Seguiva la dolorosa constatazione che, in Parlamento, gli interessi isolani non contavano nulla e che il massimo che si poteva sperare era strappare una commissione d'inchiesta destinata a rivelare agli italiani ciò che i sardi sapevano benissimo e cioè che in Sardegna si moriva di fame. Già circolava nella seconda metà dell'Ottocento la prima idea di “partito dei sardi”, ma ogni volta l'idea non aveva seguito, di fronte alla constatazione che non solo quel partito era ben difficile da costruire ma che anche se lo si fosse costruito poco o nulla avrebbe potuto di fronte a un sistema di alleanze tra interessi forti (piemontesi, lombardi, toscani, siciliani) che teneva la Sardegna ai margini estremi.
Una scorciatoia sembrò trovarla il più brillante dei parlamentari sardi dell'età liberale, Francesco Cocco-Ortu. Divenuto ministro fece in modo che il governo finalmente pensasse alla Sardegna. La legislazione speciale, promossa da Cocco-Ortu, toccava il nodo decisivo del sottosviluppo dell'isola finanziando una serie di interventi pubblici che costituirono la premessa del grande sviluppo idroelettrico degli anni Venti. Commentò qualcuno in quegli anni, che dove il potenziale e fantasmatico “partito dei sardi” aveva fallito, aveva invece avuto successo il singolo uomo politico sardo, grazie sopratutto alla sua personale capacità di integrarsi nel gruppo dirigente liberale nazionale.
Comunque fosse, la guerra spazzò via il sistema stesso che aveva reso possibili i successi del coccortismo. Il nuovo “partito dei sardi” nacque fuori dal Parlamento (e per certi aspetti contro di esso) nelle trincee. La grottesca autocandidatura al macello promossa dalla pagine de L'Unione Sarda - “I Sardi ottimo materiale di guerra”, titolava il quotidiano nella primavera del 1915 - fu presa tragicamente sul serio dagli stati maggiori italiani, e di sardi nel corso della guerra ne morirono molti. Nacque però, con la guerra, un vero partito dei sardi. Con l'avvento del fascismo, l'idea che i sardi potessero esprimere una loro rappresentanza politica non fu cancellata del tutto, esprimendosi anche attraverso quella peculiarissima esperienza che fu il sardo-fascismo.
Ciò spiega come la ripresa democratica trovasse il sardismo politico più vitale che mai, anche se profondamente lacerato al suo interno. Da quel momento, attraverso vicende diverse sia sotto il profilo delle alleanze sia sotto quello elettorale, il reale punto di forza del sardismo rimane la capacità di diffusione al di là dei suoi confini per così dire naturali e storici. La stagione più feconda della vicenda del Pci sardo nel secondo dopoguerra è legata al nome di due suoi dirigenti, Renzo Laconi e Umberto Cardia, che si sono spesi, anche attraverso scritti e ricerche di notevolissimo spessore intellettuale, per reinventare, in chiave sardista, le ragioni e le prospettive del comunismo sardo.
A questa esperienza, come anche all'esperienza del Psd'Az di Mario Melis, dovrebbero riandare non solo i partiti di sinistra e di centro sinistra ma tutti i partiti impegnati ora, come si legge, a una corsa a chi per per primo mette il distintivo di “partito dei sardi”. Si vorrebbe insomma che non ci si limitasse a usare l'aggettivo “sardo” a scopi di marketing elettorale. Una cosa è cercare di vendere un'acquavite dicendo che è sarda, altra cosa fare un partito. Un progetto in questo senso deve ritrovare le sue radici, chiarire le sue ragioni, affrontare problemi politici e istituzionali. Insomma, tutti siamo d'accordo che “sardo è bello”. E poi?
giovedì 14 luglio 2011
Un partito sardo riformatore e aperto
sardegna24
Nella civiltà della comunicazione qualsiasi atto crea novità nelle relazioni, al di là di quanto di pratico possa determinare. L’atto in sé costituisce fatto politico e pratico. Così la decisione del Pd di andare a celebrare un congresso fondativo per un partito autonomo dal partito italiano è novità effettuale che pone a tutti gli altri soggetti politici e sociali l’esigenza di rapportarsi con questa nuova prospettiva. Al di là di quanto concretamente questa proposizione, in questo momento, possa avere possibilità di successo.
D’altra parte questo proponimento non nasce per caso. Credo sia evidente che questo nuovo impegno sia maturato nel contesto del dibattito sullo stato della autonomia regionale, sulla adeguatezza della organizzazione dello Stato italiano, sulla realtà dell’Unione europea inquadrando il tutto in una visione complessiva del nuovo ordine mondiale. Per trovare soluzioni per il buon governo degli interessi del popolo sardo.
Perché, quindi, un partito riformista di Sardegna? Il tema all’ordine del giorno della sovranità del popolo sardo, da tutti riconosciuto, pone l’esigenza dell’esercizio di questa sovranità da parte del popolo sovrano attraverso lo strumento dei partiti che ne organizzano la realizzazione. Popolo sovrano, partiti sovrani. Partiti di Sardegna. Credo che, nella fase politica attuale, la fase costituente per la riscrittura dello Statuto della Regione autonoma debba prevedere, altrettanto, una fase costituente della politica e delle sue forme organizzate.
Una fase costituente che, di per sé, deve prevedere una forte mobilitazione e un forte impegno di partecipazione popolare; fatto di liberazione da precedenti rigide appartenenze; superamento di certezze conservatrici, contaminazione di culture, di esperienze politiche e sociali; strategie culturalmente innovative; strategie di lungo respiro per la storia del futuro. È il momento di decidere quale storia dovrà farsi il popolo sardo. Nel nuovo ordine mondiale. L’identità, la consapevolezza dell’essere popolo e nazione, deve affermarsi non come autoreferenzialità ma come impegno a farsi riconoscere per la specificità di un progetto di sviluppo che contenga la cultura delle radici, la forza della innovazione, la tutela e la valorizzazione del proprio territorio; la volontà di stare alla pari con tutti i popoli; rapporti positivi tra diversi, innanzitutto in Europa. Un’Europa, Stato federale di popoli, democratica.
In quest’ottica va preso atto che, in Europa, gli Stati-Nazione di stampo ottocentesco sono finiti e che non sono riproponibili Stati-Nazione con le stesse caratteristiche ancorché ammantate dalle mitologie delle piccole patrie. Il popolo sardo deve concorrere alla formazione del popolo europeo, che per vecchie e recenti eredità nazionalistiche, non esiste e rischia di non esistere mai. Convinto che l’Europa senza la Sardegna sarebbe più povera; e la Sardegna senza l’Europa non avrebbe alcuna prospettiva. È chiaro che il contesto sommariamente delineato pretende una nuova forte soggettività del popolo sardo chiamato a formare, contemporaneamente, un nuovo progetto di sviluppo culturalmente alto, socialmente partecipato, istituzionalmente innovativo, economicamente produttivo e competitivo. E, soprattutto, non subalterno verso un liberalismo globale governato dalla multinazionali o verso visioni provinciali, condizionate da un passatismo debole culturalmente e senza alcuna prospettiva.
In questo senso l’orizzonte europeo e internazionalista è il terreno del confronto e della sfida. Questo è il sardismo dell’oggi e del domani. Per governare questo progetto servono, oggi, sovranità e partiti sovrani. Partiti di Sardegna. Credo che, per quanto se ne conosce, la proposta del Pd di celebrare un proprio congresso per cambiare la propria ragione sociale in senso federale, sia debole se deve essere un evento che riguarda solo i suoi gruppi dirigenti e i suoi militanti. Cosa di per sé, comunque apprezzabile e importante. Ma non avrebbe la forza di una proposta aperta rivolta alla società sarda per una forte mobilitazione di intelligenze e di speranze che possa portare a un soggetto politico nuovo, capace di fare sintesi alta di cultura, e di sensibilità sociali, e di esperienze. E che permanga pluralista al suo interno e verso l’esterno.
Io penso a un percorso politico costituente, necessario per tutti i soggetti che abbiano interesse e motivazione a parteciparvi, non per la pur necessaria riconsiderazione anche autocritica delle rispettive esperienze, ma per costruire orizzonti di speranza per darsi l’impegno a costruire la storia futura della Sardegna. Nella consapevolezza che in questo processo potranno e dovranno formarsi i nuovi dirigenti e della politica e della società sarda. Per attuare questo progetto serve che i gruppi dirigenti attuali si convincano della necessità di un grande slancio di impegno generoso che superi egoismi e particolarismi, superando tutti gli istinti di conservazione per una nuova feconda stagione della nostra storia.
mercoledì 13 luglio 2011
Tante piazze un solo popolo
sardegna24
L’autunno minaccia di essere più caldo dell’estate, per arrivare alla dichiarazione dello sciopero generale intorno a Cgil, Cisl e Uil e alla più grande manifestazione della Sardegna. E poi, cosa c’è da attendere? E ora? Può essere utile provare a ragionarci da subito. Come quasi sempre, la storia della Sardegna è singolare, anche questa nostra che, da 150 anni, ci lega allo Stato italiano.
Lo sguardo volto a inseguire il Continente non ci nasconde che i piedi (e la pancia) è qui che si spostano (e si nutrono). E combattono: siamo in presenza di un popolo che nelle sue varie espressioni sociali non fa che riunirsi e manifestare nelle proprie strade e fuori. Come non si fa da nessuna parte, con tanta insistenza e con tale continuità. Il modello rivendicativo è quello di Cgil, Cisl e Uil, passato attraverso l’elaborazione scenografica delle lotte studentesche e operaie, condizionato dalla necessità di alimentare di continuo l’attenzione amplificatrice dei media.
È a partire dal Sulcis che, sia i pastori che gli artigiani e i commercianti, iniziano ad organizzarsi, lì si individuano il carattere, gli obiettivi e le difficoltà di queste nuove aggregazioni. Diciamolo subito: l’estensione della vertenzialità dagli operai alle categorie autonome avviene nel momento in cui essa, avendo percorso le sue potenzialità conflittuali, manifesta tutta la sua debolezza e per molti versi domanda il suo superamento. Allorché, dal miglioramento salariale e delle condizioni di lavoro, le richieste sindacali si estendono alla difesa e alla creazione dei posti di lavoro (tema sul quale sbatte da quarant’anni la vertenza Sardegna), del prezzo del latte e della difesa dagli assalti del fisco, si entra nella “politica”. La macroeconomia - cioè lo sviluppo, i prezzi e il fisco - rappresentano i principali temi della politica (economica e oltre) e con essa devono fare i conti.
Ormai, per esperienza o per una giusta intuizione, i movimenti operanti in Sardegna hanno capito la lezione. Dalle loro condizioni personali e familiari, i lavoratori, i commercianti, i pastori, i cittadini sardi tutti, sono consapevoli che c’è un tempo per la propria battaglia personale e familiare e c’è un tempo per la battaglia di un popolo, il proprio, il popolo sardo. Questi tempi oggi coincidono: la lotta per il posto di lavoro accade insieme al tempo della battaglia contro le servitù militari, contro l’oppressione del fisco, per il giusto prezzo del latte, per la difesa dell’ambiente. È come se arrivassero a un rinnovato appuntamento precedenti e singole vertenze: l’oppressione fiscale dei nostri paesi, che nella seconda parte dell’Ottocento finanziò le guerre d’indipendenza e poi l’industrializzazione del triangolo industriale; la diffusione delle greggi su tutto il territorio, nella produzione del pecorino ‘romano’, e la conseguente rivolta dei reduci della prima guerra mondiale per il prezzo del latte; l’espropriazione delle miniere da parte del capitale internazionale e le lotte dei minatori per una precaria esistenza; l’alternativa non trovata all’industrializzazione petrolchimica che ci lascia solo macerie fumanti e cassintegrati; fino all’incredibile e recente costruzione delle città del commercio, hanno distrutto gli esercizi commerciali nel tempo in cui lo Stato applica in Sardegna studi di settore che trovano senso e parametri in realtà più ricche.
E’ come se tutti i problemi degli ultimi centocinquant’anni si concentrassero in un’unica stagione. Come se tutti i nodi domandassero contemporaneamente di essere sciolti. Come se tutte le questioni si riunissero in un unicum: “Sardegna, fortza paris: libertà! libertà! libertà!”. Quello dell’altro giorno in via Roma a Cagliari è il grido del popolo dei liberi, che si chiamino commercianti e artigiani, pastori e contadini, studenti e operai. Vogliono esserlo. Ma ancora non lo sono. Quell’unica bandiera dellaSardegna esaltata, quel solo inno cantato (‘procurad’’e moderare’) diconotanto di più delle nostre analisi. È proprio un fatto curioso festeggiare i veri nostri 150 anniversari! Dovremmo parlarne ancora a lungo.
giovedì 7 luglio 2011
Surrealismo magico
L'arte di Graciela Iturbide forse non ha cambiato il mondo della fotografia, il femminismo però ha cambiato la storia, e l'ha fatto, anche, con le sue immagini.
La retrospettiva su Graciela Iturbide nell’ambito delle Rencontres d’Arles 2011, corredata dal relativo catalogo, sarà aperta al pubblico fino al 18 settembre 2011.
I titoli dell’artista sono pubblicati da Steidl, e in Italia, tra gli altri, da Peliti Associati, Zone Attive e Punctum
Se nella passata edizione era toccato all’Argentina, quest’anno il festival di fotografia Rencontres d’Arles dedica un’importante retrospettiva al Messico (oltre a un ambizioso focus sul destino delle istantanee nel mondo di internet). Dopo la rivoluzione messicana del 1910, questo paese ha fatto la storia della fotografia grazie a personalità come Manuel Álvarez Bravo e, per citare i più famosi, gli stranieri Edward Weston, Tina Modotti, Paul Strand, Henri Cartier-Bresson e Hugom Brehme.
L’evento però ha rischiato di non vedere la luce, perché inizialmente era stato organizzato nell’ambito dell’Anno del Messico in Francia, una grande rassegna culturale poi boicottata dallo stato nordamericano per le irresponsabili e offensive dichiarazioni rilasciate dal presidente francese Nicolas Sarkozy in difesa di Florence Cassez, una donna transalpina condannata dalla giustizia messicana a sessant’anni di carcere per sequestro di persona. Fortunatamente, gli sforzi congiunti della fondazione messicana Televisa e dei ministeri della cultura e degli esteri francesi hanno permesso di salvare – in mancanza di altre soluzioni – l’essenza della retrospettiva di Arles.
Nel periodo che va dalla rivoluzione di Francisco Madero ai giorni nostri, spicca un’artista, già negli annali della fotograia e vincitrice di premi prestigiosi come il W. Eugene Smith e l’Hasselblad foundation, che rappresenta meglio di chiunque altro la fotograia messicana. Il suo nome è Graciela Iturbide.
Ex studentessa di cinema, Iturbide è entrata nel mondo della fotograia nel 1970,
quando è diventata collaboratrice – e, di lì a poco, cara amica sino alla fine dei suoi giorni – di Manuel Álvarez Bravo, l’uomo simbolo della fotograia messicana e uno dei precursori, insieme a Kertész, Cartier-Bresson, Brassaï e Bill Brandt, della modernità di questo mezzo artistico. Al suo fianco, Iturbide ha appreso, al di là delle abilità tecniche, un particolare senso di libertà, anche visionario, che rimanda a quel “realismo magico” alla base della letteratura latinoamericana contemporanea.
Un approccio che le ha permesso di avvicinarsi spontaneamente al mondo delle
tribù indigene, come i profondi e straordinari suonatori di violino Huichol e gli abitanti nel deserto di Sonora. Scatti surreali che possono essere riassunti in una sola immagine: una donna di spalle, avvolta in lunghi veli neri, che cammina nel deserto con una radio nella mano destra. Iturbide ama processioni ed eventi carnevaleschi da immortalare con dolcezza e un tocco di divertimento.
Nei suoi scatti, l’artista messicana riesce a mettere in evidenza particolari che confondono lo spettatore, oltre a infondere nuova linfa a istantanee altrimenti aneddotiche o etnografiche. Nonostante questo, Iturbide non ignora di certo la città: in una foto, un uomo inquietante se ne va in giro maneggiando uno specchio con cui modifica lo spazio intorno; in un’altra, un bambino gioca tutto serioso con una pistola. In un’altra ancora, una donna passeggia con il figlio protetto da un velo, un figlio che non sappiamo se sia vivo o morto.
L’opera maggiore dei suoi anni messicani, tuttavia, Graciela Iturbide l’ha realizzata
in uno scenario unico: l’istmo di Tehuantepec, popolato dagli zapotechi. Una regione battuta dai venti dell’Atlantico e del Pacifico, dove lo spazio si riduce alla striscia di terraferma più sottile del Messico. Nella cittadina di Juchitán c’è una società matriarcale. Gli uomini pescano e coltivano la terra. Ma sono le donne a organizzare tutto il resto: la vita casalinga, le feste, così come le lotte sociali e le manifestazioni. Donne forti, matrone, di cui la fotografa, diventata loro amica, riesce a cogliere abilmente discussioni animate, marce e danze che fanno turbinare le loro ampie gonne, di cui si intuiscono i colori vivaci.
Qui Iturbide ha realizzato la sua foto più famosa, ovvero Nuestra Señora de Las Iguanas, in cui una donna porta sul capo gli animali che venderà al mercato. L’elemento surrealista (Breton aveva deinito il Messico un vero e proprio paese surrealista) è evidente e viene sublimato dalle sorprese della realtà. In uno scenario così singolare, Iturbide si affeziona al mondo dei travestiti, che si trovano perfettamente a loro agio in una società femminile che li adora e che non contempla il maschilismo. La serie di ritratti Magnolia, senza voyeurismi e con tanta tenerezza, rappresenta un’opera unica su un tema che troppo spesso ha prodotto solo immagini volgari. E poi ci sono gli animali, tra cui gli onnipresenti polli. Tutto
diventa un pretesto per immagini dolci, per la poesia della magica vita quotidiana, anche quando nelle inquadrature più strette il piumaggio dei volatili si abbina ai motivi dei tessuti delle gonne. Questo approccio poetico al mondo traspare dalle innumerevoli fotografie di uccelli che l’artista ha realizzato non solo nel suo paese, ma anche durante i numerosi viaggi in India o in Italia, poi raccolte in un libro che
Per esempio, quando gli uccelli sono così tanti da monopolizzare l’immagine, assumono
un aspetto a tratti angosciante, conservando però, allo stesso tempo, un’aura impercettibile e leggera. In una delle sue collezioni più recenti, Iturbide ripropone, con grande sensibilità, questa tensione tra realtà esterna e mondo interiore, in una sfilza apparentemente placida di stampe quadrate. Il quartiere di Coyoacán dove ha abitato Iturbide, situato nella zona sud di Città del Messico, ospita anche la dimora dove è stato ucciso Lev Trotsky, oltre alla Casa Azul di Frida Kahlo. Dopo la morte di Frida, il marito Diego Rivera aveva nascosto in un bagno, poi murato, gli oggetti personali e gli archivi di quella che era stata la sua musa, con cui aveva vissuto una tumultuosa storia d’amore.
In questa stanza, nel 2004 sono stati ritrovati più di 24mila documenti, testi manoscritti, lettere, stampe di Man Ray e di Tina Modotti, oltre a manifesti di Stalin e della letteratura rivoluzionaria. Qui sono stati recuperati anche i suoi vestiti e i famosi corsetti e bustini, oggetti indispensabili a Frida perché le permettevano di stare con la schiena dritta, nonostante fossero quasi degli strumenti di tortura, a dimostrazione dei terribili dolori che ha dovuto sopportare in vita in seguito al grave incidente subìto da ragazza. Graciela, con una luce naturale, ne fa ritratti semplici ma sconvolgenti, limpidi ma tormentati.
Tra questi, spunta una stampa dei piedi deformati della fotografa oscilla tra bellezza e inquietudine. mentre posa nella vasca da bagno di Kahlo. In queste foto si può notare anche un autoritratto di Graciela Iturbide che serba il dolore per la perdita della figlia di sei anni avvenuta nel 1970.
Un autoritratto che riassume al tempo stesso la generosità, il pudore e la poesia profonda di un’opera unica.
mercoledì 6 luglio 2011
Perché i manifestanti non vogliono la Tav in Val di Susa
A PARTIRE DALLE ORE 17.30
NO RADAR
NO POLIGONI MILITARI
Tre sostantivi preceduti da una negazione. Sì, non vogliamo che venga realizzata quell’ opera faraonica inutile e dispendiosa che va sotto il nome di TAV, frutto di un gigantesco imbroglio. Un’ opera pensata e progettata venti anni fa e ormai vecchia, visto che le merci che viaggiano
su quella tratta non aumentano ma diminuiscono; devastante per un territorio particolarmente sensibile dal punto di vista ambientale e paesaggistico e che si vuole portare avanti comunque
ed a qualsiasi costo contro gli interessi e il volere delle popolazioni che abitano quelle valli.
Un atto di imperio perpetrato da parte del governo centrale e di buona parte delle opposizioni.
Un atto di arroganza sorda e cieca concretizzatasi nella militarizzazione di quella Valle. Ci chiediamo quanto possa durare questa militarizzazione!. non possiamo non denunciare la cialtronaggine di chi , a parole si dichiara federalista, difensore delle “piccole patrie” ognuno padrone in casa propria” tranne poi comportarsi come il peggiore assertore di un governo centralista sordo alle istanze dei territori.
E dicendo NO TAV non possiamo non dire NO RADAR.
NO perché non si riesce a comprendere l’utilità di questi aggeggi .Noi crediamo che facciano
un torto all’intelligenza del popolo sardo coloro che ci ammanniscono la storiella “dell’avvistamento dei clandestini” per giustificare l’installazione di questi ordigni, Noi vogliamo che la Sardegna sia una Terra di pace e non vogliamo che venga ulteriormente militarizzata mediante l’installazione di nuovi strumenti di guerra e tali noi consideriamo questi radar. Non dimentichiamo, non vogliamo dimenticare, anzi abbiamo il dovere di ricordare che, mentre si attrezza per impiantare questi aggeggi, lo stato italiano, in combutta con altri, conduce una guerra di aggressione contro una nazione che fino ad ieri veniva considerata “amica” (la Libia) mentre continua a condurne un’altra in Afghanistan.
Stiamo ‘’scoprendo’’ (in realtà si sa già da molto tempo!) giorno dopo giorno i disastri provocati
da un poligono militare, quello di Quirra, a persone, animali, acqua, aria e suolo e siamo convinti
che si verrà informati solo su una piccolissima parte di quanto si nasconde già da diverso tempo
alla popolazione locale su quel territorio e su tutti i territori sardi oggi occupati da basi o servitù militari. Per questo diciamo NO a questo e agli altri poligoni militari utilizzati per sperimentare armi e logistiche di guerra in Sardegna e nel resto del mondo.
Alla manifestazione promossa da:
Cagliari Social Forum, Collettivo Anticapitalista sardo
hanno aderito: oltre a tante singole persone:
Comitato Gettiamo le basi, PRC Sardegna, Indipendenstistas, Sinistra Critica Sardegna, COBAS, USB, Comitato Disarmiamoli. Comitato Difesa Ambiente Su Giossu Villaputzu.Collettivo marxista-leninista Nuoro, Comitati NO RADAR di S. Antioco, Cagliari e Flumini.
I comitati no radar Sardegna terranno un presidio sotto la Regione per ribadire il loro No a questi strumenti e per fare sì che anche il Consiglio regionale prenda posizione in questo senso il giorno MARTEDI’ 12 LUGLIO ALLE ORE 10. PARTECIPIAMO!!
galileonet
Tutto è iniziato poco prima delle cinque del mattino del 27 giugno: 2000 agenti delle forze dell'ordine sono usciti dalle gallerie per forzare i blocchi eretti sulla strada dell'Avanà, il punto d'accesso al futuro cantiere della Tav occupato da migliaia di manifestanti contrari all'alta velocità. Se i lavori faraonici non verranno avviati entro il 30 giugno, l'Italia vedrà sfumare 670 milioni di finanziamenti europei stanziati per avviare la costruzione della nuova linea veloce che dal 2020 dovrebbe collegare Torino a Lione.
Il bilancio della giornata di scontri vede 27 feriti tra le forze dell'ordine, quattro tra i manifestanti e diversi intossicati dai gas lacrimogeni. Dopo l'attacco, i membri dei movimenti della Val di Susa si sono ritirati nel vicino comune di Chiomonte, dove il municipio è stato occupato dalle donne del paese. Da lì ripartiranno, nei prossimi giorni, nuovi blocchi e proteste mirati a far saltare il cantiere Tav e fermare il progetto appaltato alla società Lyon Turin Ferroviarie (Ltf).
Le ragioni che muovono i manifestanti a opporsi da più di 20 anni alla costruzione di una nuova linea ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa sono di almeno due nature diverse: una ambientale e l'altra economica.
Già nel 2004, 103 medici della Val di Susa pubblicarono un appello in cui esprimevano forti preoccupazioni per l'incolumità della popolazione locale. I versanti della montagna dove sarà scavato il tunnel di 50 km che collegherà Francia e Italia contengono infatti abbondanti tracce di amianto. La manipolazione e il trasporto dei materiali di scavo potrebbe causare il rilascio delle pericolose fibre che, unite alla diffusione di polveri sottili, contaminerebbero facilmente l'intera valle. Non a caso, nelle vicinanze del cantiere è situata la più grande cava di amianto d'Europa, quella di Balangero, dismessa nel 1826 e mai bonificata (vedi Galileo). Il timore è quello che l'incidenza dei tumori causati dalle fibre - già elevata tra gli abitanti della zona - possa subire un'ulteriore impennata.
Come se non bastasse, l'escavazione dei tunnel richiederebbe enormi quantità d'acqua, che verrebbero drenate dai bacini idrici della zona: un'area caratterizzata da coltivazioni montane tutelate dall'indicazione geografica protetta (Igp). Si calcola che i lavori in Val di Susa drenerebbero dai 65 a 125 milioni di metri cubi d'acqua ogni anno, l'equivalente di quanto consumato da una città con un milione di abitanti. Il rischio di veder prosciugare torrenti, fiumi e pozzi si scontra duramente con la promessa da parte dell'alta velocità di ridurre l'impatto ambientale del trasporto merci. A quanto pare, il risparmio di CO2 emessa dal traffico stradale che verrebbe dirottato sulla nuova linea ferroviaria verrebbe annullato dalle enormi spese energetiche richieste per la realizzazione del cantiere e dalla costosa alimentazione delle nuove motrici.
Oltre alle problematiche ambientali, i cantieri Tav sollevano non pochi dubbi di carattere economico. Secondo un saggio pubblicato nel 2007 da Marco Ponti, ordinario di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano, il progetto della linea Lione-Torino, un affare da 17 miliardi di euro, sovrastimerebbe le aspettative di crescita previste per il traffico merci e passeggeri nell'area subalpina. La Val di Susa, inoltre, viene già attraversata dalla linea ferroviaria internazionale del Frejus, i cui ultimi lavori di ampliamento sono terminati nel 2010. Tuttavia, questa tratta alpina è stata sfruttata negli ultimi tre anni per meno del 25% della sua capacità totale.
La necessità di costruire nuovi e costosissimi tunnel di collegamento con la Francia sembrerebbe quindi una manovra azzardata: perché, piuttosto, non sfruttare al meglio le linee di collegamento già esistenti? Inoltre, secondo gli ultimi dati dell'osservatorio del Dipartimento Federale dei Trasporti svizzero sul traffico merci attraverso i valichi alpini, il volume di scambi attraverso il Frejus sarebbe in costante calo da almeno otto anni, con un picco negativo di 2,2 megatonnellate (Mt) nel 2009. Un dato concreto che getta seri dubbi sulle stime presentate da Ltf: per il 2009, infatti, prevedeva un volume di passaggio merci pari a ben 10 Mt, quasi cinque volte più del reale stato di congestionamento.
Data la complessità del nuovo cantiere che dovrebbe essere avviato in Val di Susa, c'è anche il rischio che i lavori possano subire dei forti rallentamenti. Non sarebbe infatti una novità se la realizzazione della linea ad alta velocità richiedesse più tempo e denaro rispetto a quanto preventivato dai primi progetti. È già successo nel caso delle tratte Roma-Firenze, Firenze-Bologna e Milano-Torino, dove i costi finali hanno superato i preventivi iniziali dalle quattro alle sette volte. Anche nel caso, poi, in cui la tratta Lione-Torino venisse completata in tempi ragionevoli, occorrerebbero altri 26 miliardi di euro per estenderla fino al confine sloveno e completare il corridoio merci che taglierebbe il nord Italia da Est a Ovest. In conclusione, il rapporto costo-benefici non penderebbe affatto a favore della Tav, che al netto produrrebbe un disavanzo di 25 miliardi di euro. Un bel fardello per la stagnante economia italiana.
martedì 5 luglio 2011
“Patagonia senza dighe” Gli ecologisti cileni manifestano sotto l’ambasciata italiana
ilfatto
Il corteo davanti la nostra rappresentanza diplomatica a Santiago del Chile per protestare contro il progetto sponsorizzato dall'Enel di costruire cinque mega-dighe. “Roma approfitta della nostra scarsa cultura democratica per fare affari”, dice Accion ecologica
E’ la prima volta che dei cittadini cileni manifestano davanti all’ambasciata italiana di Santiago del Cile. E’ successo alla fine di giugno, un presidio convocato dai gruppi ecologisti più impegnati nella lotta contro le cinque mega dighe che minacciano la regione patagonica di Aysèn.Il progetto è sponsorizzato dal colosso italiano Enel, che insieme a un partner cileno, ha ereditato la proprietà dell’acqua dei fiumi privatizzata da Pinochet. Il tema è centrale in Cile, la maggior parte dell’opinione pubblica è contraria e il governo – che ha favorito una prima approvazione ufficiale a livello regionale – è in difficoltà. I manifestanti hanno portato candele attorno all’ambasciata italiana, nel pieno dell’inverno australe, sotto gli stessi muri che nel ’73 e nel ’74 centinaia di cileni avevano scavalcato per rifugiarsi nel giardino della residenza dell’ambasciatore, per poi ottenere la possibilità di espatriare. Quell’Italia amica… ma oggi è malvista per il ruolo che il governo italiano conserva in Enel, e per il silenzio dei nostri media sulla lotta contro il progetto Hidroaysen.
Il coordinatore del gruppo Accion ecologica Luis Rendòn – immaginando probabilmente che il governo italiano si stia davvero occupando di cosa fa Enel – ha affermato che “sta approfittando della venalità e scarsa cultura democratica della classe politica cilena per fare affari”. In particolare accusa il progetto Hidroaysèn di procedere “imbrogliando le carte, tentando di corrompere la popolazione locale, cambiando le informazioni tecniche” e separando la valutazione di impatto ambientale delle dighe in quanto tali da quella dell’imponente rete di trasmissione elettrica di duemila chilometri di tralicci che dovrebbe essere realizzata.
Le irregolarità nei procedimenti hanno provocato uno stop da parte del Tribunale di Puerto Montt, che ha imposto di riesaminare tutti gli atti. Gli avvocati dell’impresa italo-cilena sono molto ottimisti sulla possibilità di superare questo ostacolo, ma intanto i movimenti di opposizione hanno guadagnato tempo e respiro. Anche nei partiti politici che erano o sembravano favorevoli al progetto cresce il motto “Patagonia senza dighe”. Si è formata una cordata di questo tipo all’interno di Renovacion Nacional, partito di centro destra al governo. Mentre il capogruppo del partito socialista ha detto che l’ex presidente Michelle Bachelet deve pronunciarsi esplicitamente contro Hidroaysen. Se non altro perché sarà lei la probabilmente candidata socialista alle elezioni presidenziali di fine 2013.
domenica 3 luglio 2011
Gunnar Sigurdsson, documentarista islandese: "Noi cittadini dobbiamo prendere le redini"
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Ima Sanchis | ||
Tradotto da Alba Canelli | ||
Editato da Aurora Santini |
Rivoluzione esemplare
La crisi finanziaria islandese ha portato il paese alla bancarotta. Alla fine del 2008 il suo indebitamento bancario equivaleva a diverse volte il suo PIL. Il Parlamento propone che siano le famiglie a pagarlo con una quota mensile per i prossimi 15 anni, al 5,5% d'interesse. Ma il popolo ha detto no e ha deciso di processare i responsabili della crisi: molti banchieri e dirigenti sono stati arrestati ed è appena iniziato il processo dell'ex Primo Ministro Geir H. Haarde. Il popolo si è organizzato attraverso assemblee e sta cambiando la Costituzione. "E 'stata una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che ci ha condotto alla crisi", dice Gunnar. Il suo documentario "Maybe I should have" ("Forse avrei dovuto", N.d.T.) racconta i fatti.
Un giorno ero seduto a guardare la TV ad ascoltare come i politici negavano la crisi, mi è venuta voglia di prendere a frecciate lo schermo, invece ho creato il Forum Civico Aperto.
Quindi dev'essere orgoglioso di ciò che è stato raggiunto.
Abbiamo fatto dimettere il governo al completo e sono state nazionalizzate le principali banche. Con il voto popolare, ci rifiutiamo di pagare il debito che questi hanno contratto con la Gran Bretagna e l'Olanda, a causa della loro esecrabile politica finanziaria. E stiamo giudicando il primo ministro che ha permesso il disastro.
Sono un esempio nel mondo.
Abbiamo pagato un prezzo alto: le nostre istituzioni ci hanno deluso, i banchieri ci hanno derubato e il governo li ha sostenuti. Abbiamo scoperto che la loro avidità, corruzione e nepotismo non hanno limiti. Hanno condotto il paese alla bancarotta.
E lei lo ha raccontato in un film.
Nel 2008, credevo di vivere nel paese meno corrotto del mondo, in armonia con il governo e le banche...Lavoravo nel marketing ed ero regista teatrale. Comprai un appartamento di 60 mq, con l'aiuto della mia banca, ed un'auto con un prestito in valuta estera.
Ma il sistema è crollato.
Io, come molti islandesi, ho dovuto restituire l'auto e, inoltre, devo dei soldi perché la corona è caduta in picchiata. Mi aumentarono il prezzo del mutuo, che già non potevo più pagare. Ero in condizioni di povertà e per la prima volta sono uscito in strada a protestare.
Da persi, al fiume.
La corona islandese perse il 58% del suo valore, l'inflazione salì al 19%, l'economia si contrasse del 7% (2009) e abbiamo avuto la più grande emigrazione dal 1887. Decisi di scoprire cosa era successo girando un documentario.
Da dove cominciò?
Ciò che è successo in Islanda tra il 2003 e il 2008 è che il governo ha dato pieni poteri ai finanzieri, che usarono il favore politico per arricchirsi. Le banche furono nazionalizzate, ma i soldi dei ricchi scomparvero...Così decisi di seguire il denaro: viaggiai a Londra, Guernsey, Lussemburgo e Road Town, e le Isole Vergini.
Che cosa trovò?
Corruzione. Fino ad allora non avevo sentito parlare di Tortola, Isole Vergini Britanniche, con 30.000 abitanti e 620.000 imprese registrate, molte islandesi.
Capisco.
Finché paesi come il Regno Unito, gli Stati Uniti o l'Islanda consentono alle aziende operanti nei loro paesi di registrarsi su isole come Tortola, Isole Cayman, o anche il Lussemburgo, espressamente per non pagare le tasse, non cambierà nulla.
Certo.
Queste aziende utilizzano i servizi che i paesi concedono alla cittadinanza, ma scompaiono al momento di pagare le tasse. Tutte le persone che stavano giocando in borsa alla grande (molti di loro con informazioni privilegiate) hanno preso il denaro e lasciato i debiti. Niente di tutto questo sarebbe possibile se la società protestasse e chiedesse cambiamenti.
Che cosa ha imparato dalla connessione tra politica e affari?
È assoluta, e i politici dovrebbero stare fuori dal mercato. In tutto il mondo, le banche operano per clientelismo e nepotismo; non ci sono tasse per gli amici.
Ci hanno detto che se non avessimo salvato le banche saremmo affondati con esse.Questo è quello che dicono le banche, che non possiamo vivere senza di loro; ma noi possiamo, lo abbiamo dimostrato. Tutti questi interessi che ci addebitano non hanno senso, io voglio pagare per migliorare la società, non per arricchire le banche. Quando c'è una crisi, si taglia la sanità, le pensioni, l'istruzione...Perché non tagliamo i soldi di cui si nutrono le banche? Questo sistema è affondato, abbiamo bisogno di un cambiamento.
Come delineare questo cambiamento?
È difficile dirlo in poche parole, ma le banche non dovrebbero giocare in borsa con il nostro denaro, e dobbiamo tagliare i rapporti tra la politica e gli affari.
Il malcontento è generale.
Si noti che i banchieri, che hanno causato la crisi, continuano ad essere in carica nelle banche, nessuno si è dimesso. Non dovrebbero essere altri a gestire l'uscita dalla crisi?
Rivendichiamo lo Stato sociale, ma ci dicono che ormai non è possibile.
Dobbiamo avere casa, assistenza sanitaria, istruzione e lavoro; per questo paghiamo le tasse, per questo ci sono i politici…Ma, per il potere finanziario che governa il mondo, la cosa importante sono i profitti e non le persone. Noi cittadini dobbiamo prendere le redini.
Quale futuro intravede?
La classe media è quella che lavora e paga le tasse e, tuttavia, continua ad ammirare ed imitare i ricchi, che portano i soldi nei paradisi fiscali. Bisogna ammirare la gente per quello che ha dentro e non fuori. E non ha senso che un giocatore vinca mille volte di più di una persona che cura un anziano, è ridicolo. Potrebbe guadagnare un centinaio di volte di più, ma mille...Dovremmo prenderci cura gli uni degli altri.
La tendenza è di tagliare sanità, istruzione e assistenza ai più bisognosi.
Bisogna mettere le persone al di sopra dei profitti. E noi, i cittadini di classe media, abbiamo molto più potere di quello che crediamo: mettiamo e togliamo governi. Responsabilizziamoci.
Per concessione di La Vanguardia
Fonte: http://www.lavanguardia.com/lacontra/20110615/54170791972/los-ciudadanos-debemos-tomar-las-riendas.html
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