giovedì 27 giugno 2013

IL DEFAULT ARRIVA IN ITALIA … ? C'E' PUZZA DI BRUCIATO!

Sembra di essere tornati ai bei tempi di inizio estate 2011, quando all’improvviso agenzie di rating, case di investimento, analisti e carta straccia angloamericana, si misero di impegno per seminare il panico in Europa attaccando l’anello debole Italia, mentre i politici praticavano il bunga bunga e sotto l’ombrellone sorseggiavano lo spread con un fettina di limone.
Un coacervo di psicopatici cocainomani che ha deciso di riprovarci nuovamente aiutati dalla stampa italiana che tutto amplifica, tutto asseconda, grazie ad un manipolo di giornalisti dilettanti allo sbaraglio, che mai una sola volta sono stati in grado di fare le pulci in un articolo qualunque in casa altrui a cominciare dalla Germania.
Abbiamo appena finito di leggere il rapporto riservatissimo di qualche analista frustrato che vive a Londra, affascinante coincidenza, ed ecco che all’improvviso con il solito tempismo mirabolante esce sul Financial Times la notizia di potenziali 8 miliardi di perdite sui derivati da parte dello stato italiano.

Italy faces restructured derivatives hit - FT.com

Si sono persino presi la briga di farvi lo schemino…
Piccola premessa. Perchè la notizia non è uscita prima ad esempio quando spread e titoli italiani viaggiavano ai minimi dall’introduzione dell’Euro, c’è forse il bisogno di ribadire più Europa o chissà dire agli italiani che serve aumentare l’IVA per racimolare i soldini per saldare i conti con le banche che hanno aiutato l’Italia ad entrare nell’Euro?
ROMA - Nei conti pubblici italiani c’è una perdita potenziale da almeno otto miliardi di euro. E’ relativa a derivati accesi negli anni Novanta, anche per consentire al nostro Paese di entrare da subito nell’euro, e rinegoziati nel 2012. I dati sono frutto di analisi e rielaborazioni di esperti del settore sulla base del documento che il ministero fornisce con cadenza semestrale alla Corte dei Conti. Repubblica ha potuto consultare quel documento di 29 pagine, di cui oggi dà notizia anche il Financial Times.
Secondo una fonte governativa, la magistratura contabile ha letto con preoccupazione i numeri – ufficiali ma non pubblici – ricevuti a inizio 2013 e in aprile ha inviato la Guardia di Finanza al dicastero in cerca dei contratti di stipula di quei derivati. Ma finora non li ha ottenuti.
Non che sia una novità per noi di Icebergfinanza il giochino che tutti gli stati fanno con i derivati, ne abbiamo già parlato in …

Italia 160 miliardi di derivati: Monti e la leggenda del pirata Morgan Stanley… ma qualcosa non quadra, qui c’è sotto puzza di bruciato!

La coincidenza invece è che … Alla richiesta di maggiori dettagli avanzata daRepubblica, il Tesoro non ha rilasciato alcun commento. No comment anche dalla Corte dei Conti e dalla Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi, che fu direttore generale del ministero tra il 1991 e il 2001, quando molti di quei contratti furono stipulati. Repubblica
… Mario Draghi, che fu direttore generale del ministero tra il 1991 e il 2001, quando molti di quei contratti furono stipulati…Mario Draghi, che fu direttore generale del ministero tra il 1991 e il 2001, quando molti di quei contratti furono stipulati…Mario Draghi, che fu direttore generale del ministero tra il 1991 e il 2001, quando molti di quei contratti furono stipulati…
Che si tratti di Italia o MPS, la morale è sempre quella fai merenda con …Mariella!
Sarà nuovo panico…chissà! Quello che è certo è che loro hanno bisogno dei Vostri soldi, prima i soldi dei contribuenti e poi chissà anche quelli dei depositanti, ma hanno bisogno del panico, del terrore, per costringervi ad accettare l’amara realtà.
Se non riuscite a comprenderlo loro ve lo dicono esplicitamente, vi indicano la strada maestra…
 ” Oggi, è “l’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla legge” a esser malvista dalla parte dominante nel XXI secolo. Soprattutto, sono malviste le Costituzioni nate dalla Resistenza. Specie quelle del Sud Europa: in Italia, Grecia, Spagna, Portogallo.
Nessuno Stato lo proclamerebbe a voce alta. Ma lo dice con grande sicurezza, perché fiuta larghi consensi, una delle più potenti banche d’affari del mondo, JPMorgan, in un rapporto sulla crisi dell’euro pubblicato il 28 maggio. È un testo da leggere, perché in quelle righe soffia lo Spirito del Tempo. Il proposito di chi l’ha redatto è narrare la crisi (narrazione è termine ricorrente) e la morale è chiara: se l’Europa patisce recessioni senza tregua, significa che le sue radici sono marce, e vanno divelte. (…)  Anche JPMorgan è accusata dal Senato Usa di speculazioni fraudolente, ma che importa. 
La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio, pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: “Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali” e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste.
Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti.
Le patologie europee sono così elencate: “Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo”. Di qui i successi solo parziali, in Sud Europa, nell’attuare l’austerità: “Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”. 
In tempi più lontani si suggeriva di correggere la democrazia “osando più democrazia”: lo disse Willy Brandt. Non così quando la Cina vince senza democrazia. E non s’illuda chi vuol rafforzare i diritti riversandoli in una Costituzione europea. Se il guaio è l’eredità, il testamento svanisce e i padri costituenti vanno uccisi: non ovunque magari – Berlino sta rafforzando il suo Parlamento e la Corte costituzionale  -  ma di certo nei paesi indebitati, dove guarda caso la Resistenza fu popolare e vasta.
Il rapporto di JPMorgan è uscito prima che, la notte dell’11 giugno, venisse chiusa l’Ert, equivalente greca della Rai, aprendo una falla nelle torbide larghe intese di Samaras. Di sicuro il colpo di mano sarebbe stato applaudito: anche l’informazione non-commerciale è costoso bene pubblico di cui disfarsi. La trojka (Commissione europea, Bce, Fondo Monetario) ha ottenuto molto, concludono i sei economisti autori del rapporto. Ma il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, “neanche è cominciato”. “Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare significative riforme”.
Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delle utilità pubbliche. L’economista Varoufakis s’allarma: “Murdoch e simili saranno in estasi: l’Ert smantellato diverrà un modello per privatizzare la Bbc, o l’Abc in Australia, o la Cbc in Canada”. O la Rai. Si capisce infine la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democraziaRepubblica.it
Chi ha orecchie per intendere questo non è più il tempo della democrazia, loro stanno dominando, contrallano tutto, soprattutto i burattini politici che si preparano all’ennesimo inutile summit…
BRUXELLES – Il vertice europeo che deve dare risposte all’emergenza occupazione potrebbe essere un esercizio di retorica. Rischia di saltare tutto, a cominciare dai 6 miliardi della garanzia per i giovani. L’accordo sul bilancio pluriennale dell’Ue tra Consiglio e Parlamento che una settimana fa era stato dato per ”finalizzato” dai capi negoziatori delle due istituzioni, in realta’ non c’e’. I gruppi parlamentari riuniti dal presidente Martin Schulz hanno detto ‘no’ ad una proposta che non tiene conto delle richieste fatte gia’ quattro mesi e mezzo fa, all’indomani del vertice-maratona dell’8 febbraio in cui i leader europei vararono il bilancio 2014-2020 con gli oltre 100 miliardi di tagli chiesti da Cameron. Ansa
Nel frattempo gli inutili idioti che siedono nel Parlamento italiano hanno dato il via libera all’applicazione unilaterale della Tobin Tax come pure del Fiscal Compact mentre gli altri tergiversano e ora addirittura rinviano … Ue divisa su tutto, la Tobin Tax europea slitta di almeno sei mesi
Non mi resta che ribadire la mia risposta a molti di Voi in questi anni, quando mi è stato chiesto se mai arriverà una guerra al termine di questa crisi. La guerra è già, qui tra noi, subdola, silenzio, sporca e lacerante, questa è la terza guerra mondiale!
Nel frattempo per il fine settimana Machiavelli dovrebbe aver elaborato tutto quello che è accaduto in questi ultimi mesi e produrre il nuovo manoscritto …. “Machiavelli, …punto mio libera tutti!” 



domenica 23 giugno 2013

Correlazione, causalità e casistica










Correlazione, causalità e casistica


E sono tornato. Questa cosa la vita reale è sempre nel senso del mio blog, quindi forse dovrei rinunciarci.
Il ritardo mi ha messo dietro la curva su due nuove voci nella vicenda Reinhart-Rogoff, da Arindrajit Dube e Matt O'Brien . D'altra parte, mi ha dato il tempo di pensare a post di Dube, che ho sentito il bisogno di fare prima di pubblicare me stesso.
Dube cerca di prendere sulla questione se debito elevato provoca una crescita lenta o viceversa. Il suo approccio è intelligente, confrontando il potere del debito come un predittore di crescita sia passato e futuro, ma a mio gusto si salta troppi passaggi nella sua spiegazione. Quindi vorrei provare a colmare le lacune.
Immaginare una storia - la storia che RR sono implicitamente dicendo - in cui i paesi si differenziano per la loro responsabilità fiscale, questo porta a vari livelli di debito, e quei paesi con elevato debito allora soffre di crescita lenta.In questa storia, il debito dovrebbe essere un buon predittore di crescita futura. Si potrebbe anche aspettare di vedere qualche correlazione tra debito e crescita passato, perché i livelli di debito modificare solo gradualmente nel tempo, e un paese con alto debito ora tipicamente avuto alto debito e la crescita lenta, quindi a pochi anni fa anche. Ma ci si aspetta il rapporto tra debito e la crescita futura di essere più forte del rapporto tra debito e crescita passato.
Ora immaginate un'altra storia, in cui i paesi non sono così diversi in responsabilità fiscale, ma in cui alcuni paesi per qualsiasi motivo - bolle scoppiano, in calo di fertilità, problemi strutturali provenienti dal cambiamento sociale o qualcosa - hanno una crescita più lenta rispetto ad altri. Molto plausibilmente, crescita lenta porterebbe a indici di indebitamento in aumento, sia a causa della lenta crescita dei ricavi e semplicemente perché il denominatore del rapporto sarebbe più piccolo. In questo caso il debito passato dovrebbe essere fortemente correlata alla crescita del passato. Si potrebbe anche prevedere un certo rapporto tra il debito e la crescita futura, perché la crescita tende ad essere "serialmente correlato" - i paesi che crescevano lentamente in passato, tendono a continuare a crescere lentamente - ma che il rapporto dovrebbe essere più debole.
Così Dube fa esercizio, e sembra che questo:
Chiaramente, i dati sembrano molto di più come storia # 2, in cui la crescita lenta causa debito elevato, di storia # 1, che è quello che tutti hyping Reinhart-Rogoff ha affermato.
E il tutto pubblicizzando Reinhart-Rogoff molto comprendeva Reinhart e Rogoff stessi. Matt O'Brien ha la merce. E 'vero che i loro documenti non hanno mai detto chiaro e tondo che il rapporto era causale, ma non erano nemmeno lontanamente che scrupolosi nel op-eds e altre presentazioni multimediali. E la verità è che i giornali non possono avere causalità affermato categoricamente, ma è stato chiaramente insinuato. Cercando di affermare ora che mai a significare una cosa del genere, RR sono caduta seriamente nel test menschhood.
Un'ultima cosa: anche se si prende lungimirante regressione del Dube come una relazione causale, che non si dovrebbe, notato come debole che rapporto si trova nel gruppo corrispondente. Sembra come se alzando debito da 50 a 150 per cento del PIL, a parità di condizioni, riduce la crescita di circa 0,1 punti percentuali nel corso dei prossimi tre anni. Questa è le conseguenze terribili che ci impedisce di fare qualcosa per la disoccupazione di massa?



Da un paio di giorni la comunità degli economisti è sconvolta. Si è scoperto che uno degli articoli scientifici più influenti degli ultimi anni – oltre 2000 citazioni – era sbagliato. 

Nel 2010, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart di Harvard presentano un paper che sembra dare basi scientifiche e inconfutabili alle politiche di austerità: confrontano molti Paesi, tra il 1945 e il 2009, e scoprono che quelli con i conti più in ordine, cioè con un debito sotto il 30 per cento del Pil, sono cresciuti in media del 4,1 per cento. Quelli con debito tra il 30 e il 90 del Pil del 2,8. Invece quelli con più del 90 per cento (tipo l’Italia) hanno avuto una crescita media negativa, -0,1. Traduzione di politica economica: quando il debito diventa troppo elevato, il cappio degli interessi porta il Paese in recessione. Dunque ridurre il debito pubblico a colpi di tagli e tasse è, per quanto sgradevole, necessario per tornare alla prosperità.

Tre anni dopo, due professori della Amherst in Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash affidano a un loro studente, Thomas Herndon, un esercizio classico ma poco praticato: prendere i dati su cui si basa una famosa ricerca e rifare i conti, come forma di esercizio (quello che dovrebbero fare, ma spesso non fanno, le riviste accademiche prima di pubblicare gli articoli). Risultato: i conti di Rogoff e Reinhart erano sbagliati, pare per colpa di un problema del software Excel che ha escluso alcuni Paesi e alcuni anni che avrebbero cambiato il risultato. I “revisori” ottengono infatti numeri assai differenti: i Paesi con il debito sopra il 90 per cento sono cresciuti, in media, il 2,2 per cento all’anno invece che -0,1 come stimato da Rogoff e Reinhart. Forse un po’ poco, ma niente di drammatico. Nessun politico rischierebbe la rielezione per imporre tagli e aumenti delle imposte sapendo che un debito alto comporta soltanto una crescita un po’ più bassa.
I due economisti di Harvard, che hanno usato le loro ricerche per un best-seller internazionale, ‘Questa volta è diverso’ (Il Saggiatore), ammettono gli errori ma si difendono così: anche nella nuova versione i calcoli dimostrano che i Paesi ad alto debito crescono in media meno di quelli con debiti bassi. Forse è vero. Ma questo ci permette di dire con sicurezza che alto debito e bassa crescita spesso si riscontrano assieme. Ma non è detto che il debito sia la causa della scarsa crescita. Potrebbe anche essere il contrario.
Comunque, grande scandalo: Paul Krugman, sul suo blog, smonta con gusto tutto il lavoro di Reinhart e Rogoff. Così come pochi mesi fa aveva assistito compiaciuto al mea culpa di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo monetario internazionale: dopo aver spinto per anni per il rigore e la riduzione del deficit, al Fmi si sono accorti che avevano sbagliato i moltiplicatori. Cioè che ogni taglio alla spesa pubblica in tempo di recessione aveva conseguenze sul Pil più gravi del previsto.

In alcuni blog il caso Rogoff & Reinhart è presentato come la definitiva perdita di credibilità degli economisti. Ma se l’economia ambisce a essere una scienza (sia pure sociale), deve sottoporsi al requisito minimo di Karl Popper: le teorie devono essere falsificabili, altrimenti sono richieste di fede. Da quando l’economia si è separata dalla filosofia e dall’etica per sposare la statistica ed evolversi in econometria, le idee devono camminare sui numeri. E se i numeri non le confermano, le idee vanno cambiate.
Quindi, tutto sommato, il grande scandalo è in realtà una buona notizia: uno studente qualsiasi può smentire i luminari di Harvard e, se ha ragione, loro devono chiedere scusa, non c’è principio di autorità che tenga. Però a differenza di altre scienze, il laboratorio dell’economia è la società: il prezzo degli errori lo pagano le persone.
In questi anni molti politici hanno trovato comodo usare gli economisti come oracoli, usando locuzioni come “lo dice anche l’Ocse” (o il Fmi o la Bce) per troncare qualunque dibattito. Ma gli economisti possono sbagliare. E se l’unico fondamento di certe politiche è un’equazione, caduta quella il politico non ha più nulla da dire. Perché aveva delegato ad altri, a tecnici lontani dagli elettori, il compito di elaborare la politica economica. Il dibattito sul rigore e sulle politiche espansive continuerà (dura almeno dalla crisi del 1929). Ma il momento dei sostenitori dell’ortodossia del rigore sembra avviarsi alla fine.





  • LA COMUNITA': L'ULTIMA SPERANZA

    DI ALESSIO MANNINO
    ilribelle.com
    comedonchisciotte.org



    L’attualità fa pena, e mi riferisco in particolare a quella italiana, paludosa, noiosa, deludente, avvilente. Mi scuseranno i lettori se oggi mi prendo una pausa dal commentare i fatti di politica interna e parlo di un oggetto scomparso dall’orizzonte del dibattito quotidiano: la filosofia. Sia chiaro: da orecchiante, quale è il sottoscritto.

    La filosofia dovrebbe essere, assieme alla storia, la base culturale di un buon cittadino che vuole impegnarsi in prima persona nell’attività più alta: la politica.

    In questi tempi di passioni tristi e ignoranza crassa, il personale politico non solo ha mediamente una cultura generale bassa, ma in genere sa quattro acche in croce di due materie che a scuola vengono relegate ad un ruolo secondario, inferiore all’inglese idioma della globalizzazione opprimente. Questo perché le conoscenze umanistiche, e in particolar modo le due materie di cui sopra, nonostante il bla bla dei convegni sono shit, per le esigenze del dio Mercato. E in Italia siamo ancora a livelli sopportabili, pensate un po’.


    Ecco, vorrei parlare proprio dell’ideologia dominante dell’Economia (capitalismo assoluto, la chiama sulla scia di Preve l’ottimo Fusaro, uno dei pochi nouveau philosophes critici del piattume imperante: leggetevi il suo “Minima mercatalia”). Per contrastarla serve un pensiero forte da contrapporle. Ma niente sofismi, teoremi e sistemi: urge una filosofia d’azione, nel senso più ampio: filosofia politica e di vita. Perché contro l’irrazionalità del nostro modo di vivere, molto razionalista ma folle nel suo ridurre ogni cosa al costo di mercato, l’unica via di salvezza può essere la saggezza, una sapiente costruzione di concetti teorici e regole pratiche basate sul sentimento, sull’istinto di comunità, sugli insegnamenti della natura.

    Di una rivoluzione come restaurazione necessitiamo come il pane. Un ordine interiore e comunitario insieme, perché gli sdegnosi “autarchi” chiusi nel proprio io non sono che il rovescio snob dell’individualismo gretto e pecoraio. Rivoluzionario, perché distruttore dell’esistente fin nella sua più intima logica, che è l’arida contabilità del denaro. Restauratore, perché in latino “rivoluzione” significa ritorno, e l’uomo post-moderno non deve fare altro, in fin dei conti, che riscoprire i suoi bisogni più elementari e umani, resi irriconoscibili dall’edonismo pompato da un’economia in perenne sovraccarico.

    Il nostro non è il tempo per costruire: è il tempo per distruggere. Ma per poter fare tabula rasa dei falsi idoli, alle masse occorrono valori in base ai quali usare il martello, e per crederci bisogna vedere una luce in fondo al tunnel. La luce è una visione del mondo, fatta di poche semplici idee che chiunque possa capire e fare proprie perché le sente sue. Bando all’intellettualismo, dunque, per quanto lucido e veritiero. Abbiamo sete di una terra promessa a cui aspirare. Non un altro sol dell’avvenire o paradiso terrestre, non l’ennesimo “uomo nuovo” o impero millenario. Quel che manca per far ri-circolare il sangue nelle vene è un mito da interiorizzare, un orizzonte ideale che metta in moto la volontà, che dia l’immagine plastica della liberazione.

    Mito: attenzione, non tanto, o non solo, in senso soreliano, cioè come méta irrazionale, motore di azione politica anzitutto, nel senso originario. Mito, di credenza mistica nella propria radice: «Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’animo umano», scriveva Simone Weil. La libertà sbracata in licenza nasconde in realtà la manipolazione più totalitaria che sia mai esistita – l’illusoria libertà di consumare l’esistenza come una merce. La direzione opposta è il recupero dell’etica
    Volendo tradurre questo concetto in ambito sociale, il suo significato sta nel dotarsi del fine proprio dell’uomo-animale politico: la virtù. Bisogna tornare ad Aristotele, ricavandone l’insegnamento utile a sanare la malattia moderna dell’individualismo. Questo insegnamento, come hanno osservato già da alcuni decenni gli esponenti della corrente neo-aristotelica (non casualmente sorta negli Stati Uniti), può essere definito con la formula di comunitarismo.

    Con il fallace argomento che la mia libertà finisce dove comincia quella altrui, restringono sempre di più la mia fino a schiacciarla. La Libertà è semplicemente poter esprimere ciò che si è. Il suo limite non sta nella libertà del prossimo, ma nei beni comuni, ovvero nel corpus di regole, di soggetti e di oggetti appartenenti alla comunità. Questa storia per cui posso fare tutto quel che mi pare purché non rechi danno al mio dirimpettaio presuppone una società di individui separati, isolati, auto-centrati, totalmente presi da sé stessi. È la concezione del singolo come privato, privo di legami, atomo indipendente e assoluto. Una monade leibniziana, o se si preferisce un idiota in senso greco.

    Puro delirio. Gli esseri umani di ogni epoca e latitudine non sono mai venuti al mondo senza un padre e una madre, senza una famiglia, senza una società d’appartenenza, senza tradizioni, costumi, modi e visioni di vita predeterminati. Cioè senza quei fatti, dati a priori, che prescindono dal concepimento e dalla volontà. Ciascun uomo e ciascuna donna s’inserisce fin dal suo primo vagito in una trama di ciò che è venuto prima di lui o di lei, e non potrebbe essere diversamente. 

    Il liberalismo, ideologia giustificatrice del borghese capitalista, assume invece come pre-giudizio un individuo che viene dal nulla e diviene “qualcosa” (che so: un adoratore di Satana o un geometra) esclusivamente per suo insindacabile arbitrio. Ora, questa, oltre ad essere una stupidaggine infondata e materialmente infattibile, è una belluina truffa filosofica, che come tutte le truffe danneggia il truffato, ossia chi ci crede. La sostanza che rende umano un uomo è, al contrario, la sua predisposizione alla socialità.

      Solo una bestia o un dio può vivere da solo. L’uomo è, per sua natura, un animale politico. Chiaro che gli uomini, insomma, sono mediamente dei pochi di buono, guicciardinianamente fissati sul proprio particulare. Ma su questa parte individualistica, distruttiva, ferina, fa aggio di gran lunga l’altra, l’animale sociale, che si accorda, coopera, cerca il calore e la sicurezza di un insieme più grande, fa progetti e immagina opere impossibili da realizzare senza il concorso altrui.


    Attenti: non è l’idealizzazione rousseauiana del buon selvaggio. Ambizione, gloria, sete di ricchezza, fame di potere, ricerca del piacere sono tutti potenti stimolanti del comunitarismo, a patto di essere limitati e incanalati al servizio della collettività. Né Hobbes né Rousseau, ma il vecchio, insuperato e buon Aristotele, che andrebbe recuperato su tutta la linea per ciò che riguarda l’etica e la politica. Pensare che ogni capacità abbia un fine che si tratta di scoprire e sviluppare al meglio, a mio parere costituisce il più onesto e bel modo di battere la disperazione del non-senso. Onesto, perché se pure, se fossimo nichilisti, presupponessimo che ogni senso, ogni ideale, ogni virtù morale è una pia illusione mistificatrice, individuare comunque una finalità interna e immanente a ciascun essere, vuol dire essere sinceri e avere i piedi per terra.

    Ora, se l’ottica giusta è, realisticamente, estrarre dalla politica il suo senso intrinseco, questo non può che essere il vivere bene assieme, lo stare bene in comunità: il Bene comune. Presupposto indispensabile per metterlo in pratica è la libertà. L’uomo libero è colui che si auto-governa, che è contemporaneamente sovrano e suddito, ossia cittadino. La condizione di libero sfocia necessariamente nella ricerca di obbiettivi ritenuti validi e positivi per tutta la cittadinanza, perché altrimenti non avrebbe alcun senso, sarebbe una libertà vuota, visto che si agisce sempre in un dato contesto sociale. Si potrebbe dire: libero di far che, se non di realizzare il proprio valore secondo i valori del gruppo cui si appartiene? Sulla scia del filosofo del Liceo, il neo-comunitarista americano MacIntyre sintetizza alla perfezione questo concetto: «il mio bene in quanto uomo coincide assolutamente con il bene di quegli altri con cui sono legato in una comunità umana».

    Ecco la via per superare la falsa dicotomia fra interesse privato e collettivo: la loro è una coincidenza di principio. Più mi impegno per fare il bene del mio prossimo, più faccio il mio. Più sono libero di essere me stesso, nel senso di coltivare il mio valore, maggiore è il servizio che rendo alla comunità. È un ribaltamento totale rispetto alla mentalità utilitaristica del liberale: per costui il pericolo da sventare è danneggiare l’altro, dando per scontata un’innata asocialità smentita dai fatti, mentre per il comunitarista la bussola è la libertà che diventa concreta e trova senso in attività associative e pubbliche, in scopi comuni con gli altri cittadini. Una libertà nella comunità, non fuori di essa o contro di essa.

    Di qui il rifiuto radicale della grettezza, tipicamente moderna, di ridurre tutto ad una valutazione in termini di costi e ricavi, di profitti e di perdite. L’economia elevata a criterio totalizzante della vita sulla Terra: ecco l’ideologia del nostro tempo. A cui va contrapposta l’humanitas, l’etica dei valori intesi come l’eccellenza in ciascun campo. In politica, questo richiede «la capacità di giudicare e di fare la cosa giusta nel luogo giusto, al momento giusto e nel modo giusto» (MacIntyre). Non essere ricchi, belli, telegenici, raccomandati, ma bravi nelle competenze necessarie a fare politica: saper scrivere, saper parlare, conoscere la storia e le leggi, capire le esigenze popolari, immaginare soluzioni. E, prima e al di sopra di tutto ciò, lottare per il bene collettivo attraverso il conflitto tra idee – questa è la sola ragione per preferire la democrazia a sistemi di addomesticamento politico: perché dovrebbe permettere ai migliori di emergere nell’agone politico.

    Il nuovo Umanesimo passa di qui, e solo di qui. E da domani torniamo a parlare del volgo profano.

    Alessio Mannino
    www.ilribelle.com
    21.06.2013


    Cagliari Sa die pro s'indipendentzia


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    venerdì 21 giugno 2013

    ULTIME DAL MES: STATI E RISPARMIATORI DEVONO PAGARE LA RICAPITALIZZAZIONE DELLE BANCHE

    ULTIME DAL MES: STATI E RISPARMIATORI DEVONO PAGARE LA RICAPITALIZZAZIONE DELLE BANCHE
    DI PIERO VALERIO
    tempesta-perfetta.blogspot.it



    E voi direte, ma cosa c’è di nuovo sotto il sole? E’ dall’inizio della crisi dell’eurozona che governi e contribuenti pagano per il salvataggio delle banche e attraverso la manipolazione mediatica la cosa ormai è diventata una prassi comunemente accettata. La novità però questa volta è che i tecnocrati di Bruxelles, in vista del prossimo Consiglio europeo di fine mese, hanno messo nero su bianco su un documento ufficiale regole, metodi, cifre, vincoli per descrivere come si deve svolgere l’intero processo, lasciando poco spazio all’improvvisazione e all’immaginazione. In pratica i criminali hanno finalmente confessato la loro colpa, sperando negli effetti terapeutici dell’outing e spiegando chiaramente agli europei quanto ancora devono pagare (e si tratta di cifre da capogiro) per tenere in piedi l’idiozia dell’euro

    Qualcuno diceva che il miglior modo per nascondere la verità, è renderla palese e visibile a tutti. Ecco, confidando nella nostra incapacità di interpretare gli eventi e capire la realtà che ci gira intorno, pare che i tecnocrati e i politicanti europei abbiano decisamente intrapreso questa strada. 

    Ma vediamo come funzionerà l’ennesimo meccanismo infernale messo a punto da tecnocrati e banchieri per distruggere la democrazial’economia reale, la coesione sociale. Già sapevamo che gli accordi del MES, Meccanismo Europeo di Stabilità, prevedevano al loro interno, oltre al sostegno diretto agli stati (che serviva poi a finanziare le banche in difficoltà, vedi il caso Irlanda, Spagna e Cipro, o a pagare i creditori francesi e tedeschi, vedi il caso Grecia e Portogallo), anche la possibilità di ricapitalizzare le banche “zombie” dell’eurozona. Ora conosciamo i termini in cui avverranno queste operazioni di ricapitalizzazione, e vi anticipo già che saranno ancora dolori, lacrime e sangue per tutti i contribuenti, che già hanno dovuto una prima volta pagare e stanno ancora pagando per mettere in piedi la trappola del MES. Insomma nell’eurozona, fra mille indecisioni e tentennamenti, di una cosa possiamo sempre essere certi: la socializzazione delle perdite bancarie e la privatizzazione dei profitti non è più una raccapricciante anomalia dovuta all’emergenza ma la prassi, lanormalità, la forma principale di “buon governo” dell’economia e della finanza. E siccome, come abbiamo anticipato, i capitali necessari per salvare l’intero settore bancario fallitoraggiungono a spanne numeri ciclopici, non sappiamo quanto saranno ancora bravi gli europei a reggere l’urto e capaci di bere l’amaro calice. E’ davvero così difficile capire che ciò che sta accadendo in Europa corrisponde alla più grande espropriazione collettiva di ricchezza mai avvenuta nella storia dell’umanità? 

    Prima però di analizzare nei dettagli il piano micidiale, vediamo da cosa nasce tutto l’affanno e la fretta con cui i tecnocrati sono arrivati a concepire il documento e le procedure incriminate. In Europa, per usare una metafora, c’è un vero e proprio iceberg gigantesco che giace nella profondità degli abissi, nel più assoluto riserbo e silenzio degli addetti ai lavori, e solo sporadicamente emerge in superficie: il credito in sofferenza delle banche (in inglese bad loan o NPLNon Performing Loan). In pratica una parte sempre più ingente e in continuo aumento degli attivi di bilancio delle banche è ormai inesigibile o incagliato, perché il debitore (che sarebbero poi i privati mutuatari, le aziende, i governi e le stesse banche) è fallito o è tecnicamente insolvente. Questo processo vizioso, simile ad un enorme cane che si morde la coda, come sappiamo è stato innescato dalle misure di austerità imposte a tutta l’Europa per salvare proprio le banche: i governi tassano i cittadini e le aziende, tagliano le spese pubbliche, rastrellano capitali da destinare al settore bancario, ma così facendo deprimono l’economia, costringono al fallimento i debitori privati e le banche alla fine hanno più danni che benefici dalle politiche rigoriste, perché se da una parte ricevono capitali freschi dai governi, dall’altra perdono sempre di più la possibilità di recuperare i crediti pregressi contratti con il settore privato. L’immagine del colapasta è forse quella più efficace per descrivere il fenomeno: la liquidità arriva abbondante dall’alto ma se ne va subito attraverso i buchi (di bilancio) che intanto si aprono in basso. Ma di quali cifre stiamo parlando? 

    Arrivati a questo punto la faccenda diventa sempre più nebulosa e confusa, perché grazie alla complicità che esiste fra gli organismi di vigilanza europei (BCE, banche centrali, EBA) e le stesse banche, è molto difficile e complicato se non impossibile capire quanto ci sia di vero e di falso nei bilanci bancari. Secondo alcune stime, il totale del credito in sofferenza nell’eurozona ammonta a circa €720 miliardi, di cui €500 miliardi relativi alle banche della periferia. Il calcolo però è molto approssimativo perché si riferisce soltanto a ciò che viene riportato pubblicamente sui bilanci bancari e all’andamento aggiornato periodicamente dell’indice NPL delle banche, che come si può notare dal grafico sotto, soprattutto nelle periferia più colpita dalle misure di austerità, ha avuto una progressione esponenziale in questi ultimi anni, con una media di incremento del 2,5% l’anno. A causa del meccanismo perverso descritto in precedenza, per l’Italia attualmente l’indice NPL è arrivato a sfiorare punte del 13,4% sul totale degli attivi bancari, raggiungendo così in questa particolare classifica Spagna e Portogallo, ma rimanendo sempre dietro alle due prime della classe: Grecia con il 25% e Irlanda con il 19%. 



    Tuttavia se dovessimo andare un poco più a fondo nella faccenda, le cose sarebbero molto più preoccupanti. Drammatiche, direi. Come emerge da un recente studio di due economisti olandesi, Harry Huizinga e Harald Benink, pubblicato su Vox.eu, il rapporto fra il valore di mercato dei cespiti bancari e quello riportato a bilancio ormai raggiunge la soglia dello 0,5 (vedi grafico sotto): ciò significa che le informazioni fornite dai bilanci bancari sono troppo ottimistiche e sovrastimate, e un attivo che viene registrato a bilancio con il valore di 1000 in realtà ne vale 500. In questo modo, continuando a manipolare i bilanci per nascondere la polvere sotto il tappeto, sarà sempre più complicato tarare un piano di salvataggio adeguato dell’intero settore bancario europeo, perché non tenendo conto di questo macroscopico margine di errore avrebbe sempre effetti parziali e provvisori. Inutile dire che l’economista Harry Huizinga sia un eurista convinto e abbia svolto mansioni di consulenza per la Commissione europea: lo studio infatti dal titolo emblematico “L’urgente necessità di ricapitalizzare le banche europee” doveva servire a creare nell’opinione pubblica il clima adatto di emergenza e a fare da apripista al documento poi pubblicato dalla stessa Commissione europea. Per intenderci, Huizinga propone uno schema di salvataggio bancario sul modello di Cipro, che pesi maggiormente sui bail-in interni tramite tagli in prima battuta sulle obbligazioni subordinate non garantite, e poi su quelle senior e i depositi (quindi prelievi forzosi ai risparmiatori e ai clienti della banca). Anche perché come rivela sfacciatamente lo stesso economista molti di questi strumenti sono garantiti dallo Stato e quindi in ultima istanza sarebbero sempre i governi a pagare. E così, conclude il geniale economista, si eviterebbe di utilizzare il MES: un giro di parole incredibile per nascondere il fatto che sia con i bail-in interni che con il MES sarebbero sempre i contribuenti a pagare i costi delle perdite bancarie. Siamo alla beffa allo stato puro e allo sberleffo in salsa olandese. 



    Ad ogni modo, tenendo conto dei margini di errore dei valori contabili, la cifra esorbitante dei piani di salvataggio salirebbe realisticamente ben oltre i €1000 miliardi, e considerando altri fattori progressivi legati alla stagnazione economica generale e ai prossimi fallimenti che si verificheranno tra i debitori privati, le stime più pessimistiche parlano addirittura di €3000 miliardi, ovvero €3 trilioni. E qui viene il bello, perché nonostante queste cifre pazzesche nel documento della Commissione europea il programma di ricapitalizzazione diretta del MES e quindi lacopertura a livello europeo delle singole perdite bancarie è limitata a soli €50-70 miliardi, con la possibilità di ampliamento soltanto in caso di emergenza dopo approvazione del consiglio dei governatori. Mentre il resto deve essere a carico di ogni singolo stato membro. E quindi dei governi, dei contribuenti, dei risparmiatori e dei clienti della banca. Ma anche le modalità con cui il MES dovrebbe attivarsi sono piuttosto bizzarre. Vediamone in estrema sintesi alcune: 

    · Il MES si attiva quando lo stato membro non ha la capacità finanziaria di ricapitalizzare da solo le sue banche

    · Il MES si attiva anche quando la situazione fiscale dello stato membro è talmente delicata da compromettere l’accesso ai mercati dei capitali e da richiedere il sostegno dello stesso MES

    · L’assistenza finanziaria del MES è indispensabile per la salvaguardia della stabilità finanziaria dell’area euro nel suo complesso o dei suoi stati membri

    · La banca non ha i requisiti patrimoniali richiesti dalla BCE nella sua veste di ente di vigilanza centralizzato ed è incapace di attrarre capitali tramite il settore privato, gli investitori, gli azionisti, laconversione del debito (qui dovrebbero stare attenti i titolari di obbligazioni strutturate convertibili in azioni) e la ristrutturazione del debito esistente (qui dovrebbero stare attenti tutti gli obbligazionisti e i depositanti, perché si tratta dello schema bail-in cipriota)

    · La banca è un istituto di rilevanza sistemica e un suo eventuale fallimento rappresenterebbe una minaccia per la stabilità dell’area euro nel suo complesso o dei suoi stati membri (bisognerebbe capire come si fa a capire quali banche abbiano queste caratteristiche e se nei precedenti casi di salvataggio bancario con fondi europei, Anglo-Irish Bank in Irlanda, Bankia in Spagna e Laiki a Cipro, il MES si sarebbe potuto attivare)

    · Se la banca non raggiunge la soglia minima legale del 4,5% del parametro CET1 (Common Equity Tier 1, rapporto fra patrimonio di vigilanza e attivi ricalcolati per il rischio), come previsto dagli Accordi di Basilea III, sarà lo stato membro a fornire un’immediata iniezione di capitali al fine del raggiungimento di questo livello, prima che si attivi il MES

    · Se la banca raggiunge la soglia minima legale del 4,5%, lo stato membro sarebbe comunque obbligato a fornire un equivalente importo pari al 10/20% del capitale totale erogato dal MES

    · Il consiglio dei governatori del MES può decidere di sospendere parzialmente o totalmente il suo piano di aiuti in accordo con lo stato membro qualora quest’ultimo non fosse più in grado di contribuire al programma o la sua adesione comporta delle implicazioni negative per l’accesso al mercato dei capitali

    · Condizionalità : oltre a poter decidere sui livelli retributivi e bonus dei managers della banca, il MES potrà avanzare richieste di politica economica e fiscale ai singoli stati membri (austerità, insomma, sempre e solo austerità), allegandole al memorandum d’intesa che in ogni caso deve essere stipulato con il MES per avere diritto agli aiuti pattuiti


    Penso che ce ne sia abbastanza per capire che questa ennesima trovata diabolica avrà l’effetto di mettere gli stati in ginocchio qualora dovesse scoppiare in tutta la sua enormità il bubbone del credito in sofferenza delle banche europee. Malgrado tutti i roboanti proclami, i tecnocrati non hanno alcuna intenzione di scindere lo stretto legame che intercorre fra i governi e le banche: i primi si finanziano grazie ai secondi e i secondi si salvano solo con gli aiuti di stato, causando l'espansione incontrollata del debito pubblico. Ma quello che deve più spaventare i semplici risparmiatori e depositanti delle banche è che ormai il ricorso ai prelievi forzosi è diventato uno strumento istituzionale regolarmente previsto dagli accordi intergovernativi europei. Ovviamente la giustificazione di facciata di tutta questa operazione è favorire l’uscita dell'eurozona dal lungo periodo di stagnazione, del tipo giapponese, grazie al salvataggio degli istituti finanziari e alla ripresa del credito bancario nei confronti di aziende e famiglie. E dalle analisi degli economisti e commentatori vicini agli ambienti comunitari si prende spesso a modello il caso degli Stati Uniti, che sono riusciti a riemergere dalla recessione economica solo in seguito alle tempestive ricapitalizzazione di stato delle sue principali banche nazionali. Ma come al solito, non fatevi fregare dal chiacchiericcio da bar e dalla propaganda di regime.

    Negli Stati Uniti, le banche sono state salvate dall’intervento della Federal Reserve che con l'ausilio del computer del governatore Bernanke ha iniettato enormi quantità di liquidità creata dal nulla sia nel mercato finanziario per sostenere il corso dei titoli sia nel capitale sociale delle banche per evitarne il fallimento. Nessun contribuente americano ha dovuto pagare per questi salvataggi, o in modo diretto tramite aumenti delle tasse e tagli alla spesa pubblica, oppure in modo indiretto, tramite incrementi dell’inflazione e perdita del potere di acquisto dei salari e dei risparmi: la teoria quantitativa della moneta, che erroneamente postula un collegamento automatico fra aumento dell’offerta di moneta della banca centrale e inflazione, viene creduta o fatta passare per buona solo ai trogloditi europei, mentre nel resto del mondo sono andati parecchio più avanti nella moderna gestione dei flussi finanziari e monetari. I salvataggi bancari che presto o tardi si renderanno necessari in tutta l’eurozona, dalla Germania (a proposito: vuoi vedere che la prima banca ad usufruire del MES sarà proprio Deutsche Bank?) alla Grecia, saranno invece tutti a carico dei governi e quindi dei contribuenti, dei risparmiatori e dei semplici correntisti. Per chi ancora non avesse capito, il tempo delle rappresaglie è finito e adesso inizia il conflitto aperto fra noi e loro. E questo ultimo documento della Commissione europea equivale ad una dichiarazione di guerra in pieno stile militare-finanziarioEstote parati.

    Piero Valerio

    giovedì 20 giugno 2013

    Prosciutti sardi solo di nome.....

    «Consumatori tutelati da tanti controlli, produciamo più documenti che salsicce» 

     Michele Tatti
    unionesarda.it

    Prosciutti sardi solo di nome 
    Maiali dellaValle del Cedrino - Orosei.
    Vietato lavorare nei salumifici la carne di maiale isolana

    Ricordate la filastrocca in limba per descrivere le dita di una mano? Custu est su porcu , custu l'at mortu...Dal pollice («il maiale»), fino al mignolo rimasto piccolino perché gli altri hanno mangiato tutto. La chiusa della cantilena, quel a custu mischineddu nudda nudda , può essere dedicata agli imprenditori del settore preoccupati, più che delle presunte frodi, del divieto assoluto di lavorare carni sarde imposto dall'Europa e avallato da Stato e Regione nel novembre 2012. Piaga dolente su cui si posa il sale del sequestro in uno stabilimento di Settimo San Pietro di insaccati falsamente etichettati (e fatti pagare) come cinghiale. Per ribattere all'accusa di frode alimentare, Antonio Vacca, l'imprenditore finito nell'occhio del ciclone, ha giustificato la vicenda con un occasionale scambio di etichette per poi scaricare tutte le colpe proprio sulla peste suina.


    ALLEVATORE CONTRO 
    «Scuse», ribatte autodefinendosi «il principale produttore di suini da carne della Sardegna», Pierluigi Mamusa deciso nel lanciare una sfida agli industriali agroalimentari: «Abbiate il coraggio di scrivere nelle etichette salume prodotto in Sardegna con carne di provenienza non sarda e per la gran parte congelata . Quanta merce si venderebbe e a che prezzo verrebbe esposta nei banchi della grande distribuzione?». Mamusa riprende una vecchia polemica e ribadisce che nell'Isola «si alleva e si alleverà sempre più carne di quanto gli industriali attualmente consumano: solo io produco molta più materia prima di quella che i principali salumifici lavorano». E la peste suina africana? «Solo una scusa per non comprare carne sarda», rincara la dose prendendosela anche con lo stesso Antonio Vacca: «Sostiene (dichiarazione gonfiata) che esporta solo il 10 per cento della sua produzione e, quindi, non subirebbe danni scegliendo esclusivamente carne sarda e certificandola realmente senza frodare i consumatori».

    IRGOLI 
    Tirata in ballo in prima persona, Rosaria Murru, amministratrice dell'omonimo salumificio di Irgoli, fuori sede per lavoro, si riserva di approfondire la vicenda e concede solo una replica indiretta a Mamusa: «Purtroppo avevamo una rilevante partita di prosciutti stagionati di carni sarde quando è scattato il divieto. Abbiamo dovuto riaccreditarci per esportare fuori e non possiamo commercializzare quel prodotto. Comunque, i problemi sono ben altri».

    DESULO E FONNI
     «Polemica inutile e dannosa per tutti», sostiene a sua volta Daniela Falconi delle Fattorie Gennargentu di Fonni (16 dipendenti, sei milioni di euro di fatturato, il 30 per cento del prodotto esportato), «Mamusa sa bene che fino a sette mesi fa acquistavamo da lui la materia prima, il 40 per cento del nostro fabbisogno, perché non riusciva a garantirci di più. Tutti, allevatori e trasformatori, dobbiamo fare fronte comune e convincere la classe politica che l'Africana è un problema sociale, non sanitario. Noi lavoriamo 250 maiali a settimana e oggi purtroppo dobbiamo importarli, perdendo un indotto economico rilevante». Anche al salumificio Rovajo di Desulo (200 mila chili di carne lavorati ogni anno, 12 posti di lavoro) sarebbero ben felici di acquistare la materia prima in Sardegna. «Purtroppo il divieto è un dato di fatto», conferma Mario Ladu stremato come i suoi colleghi dal rincorrere, con l'Europa che ha perso la pazienza con la Sardegna incapace di eradicare la peste suina, veterinari, Asl, Regione, Ministero: «Ormai produciamo più documenti che salsicce».

    NO AL PUGNO DI FERRO Più che inseguire le accuse di Mamusa, preoccupano le ultime vicende, con gli abbattimenti coatti nel paese del Gennargentu. «Le prove di forza possono causare solo danni - dice Ladu - bisogna dialogare e, soprattutto, trovare un modo per anagrafare tutti gli animali, monitorarli e abbattere i capi infetti innescando il processo naturale di sviluppo dei ceppo-resistenti». A Orgosolo - sottolineano al salumificio Rovajo - sono stati individuati suini di 12-13 anni immuni dall'Africana. Mi chiedo - conclude Mario Ladu - perché non si sviluppi questa ricerca. Con tutti i miliardi spesi in 35 anni non è possibile che non si sia investito per individuare un vaccino contro questa peste maledetta».

    CONSUMATORI TUTELATI
     E le frodi? «Impossibili con tutti questi controlli - dicono in coro a Desulo, Fonni e Irgoli - e poi sarebbe folle solo rischiare di rovinare un marchio consolidato per guadagnare pochi euro in più». Custu est su porcu , custu la mortu...

    mercoledì 19 giugno 2013

    Assalto ai nostri risparmi: Se le Poste acquisissero MPS, comprerebbero un buco nero che rischierebbe di compromettere l’integrità dei depositi dei risparmiatori?

    Assalto ai nostri risparmi: Se le Poste 

    acquisissero MPS, comprerebbero un buco nero 

    che rischierebbe di compromettere l’integrità 

    dei depositi dei risparmiatori?


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    Molti, anziché contestare e denunciare le malefatte dello stato italiano ai danni dei cittadini, esortano il suo governo truffa, quello “dalle larghe intese” insediatosi da qualche mese a questa parte, a trovare i soldi per mantenere in ordine i conti pubblici e contemporaneamente far risollevare l'economia italiana. E' il solito atteggiamento italiota secondo il quale, l'incapace si rivolge sempre allo stato quando si tratta di mettere le mani sui soldi degli altri, così da poter risolvere i problemi derivanti dalla sua incompetenza.

    Ho la vaga impressione che quelli del governo i soldi a loro necessari li abbiano già trovati. Devono solo capire come, quando e a chi distribuirli.

    Dove li avrebbero trovati questi soldi? Ebbene, a questo proposito, è da più di un anno che ce la menano, a noi italiani; noi siamo quelli che in Europa abbiamo il più alto risparmioprivato, noi siamo quelli che, considerato il numero di persone proprietarie di immobili, saremmo molto più ricchi dei virtuosi cittadini tedeschi, la ricchezza privata delle famiglie italiane dovrebbe essere ricompresa nel calcolo del rapporto debito/PIL, ecc..

    Insomma, se non l'avete ancora capito, i soldi necessari, che lo stato avrebbe già trovato per attuare la sua politica, secondo il sottoscritto sarebbero quelli che noi italiani abbiamo sistemato nell'acquisto delle nostre case e quelli che, parsimoniosamente, abbiamomesso da parte nei libretti di deposito e attraverso la sottoscrizione dei buoni ordinari postali.

    Infatti due sono le notizie che recentemente si sono susseguite e che mi hanno indotto a credere fermamente quanto testé esposto. La prima riguarda quella secondo la quale, un'idea avanzata a Poste Italiane (PI) vorrebbe che essa rilevasse il malandato Monte dei Paschi di Siena (MPS). Leggi qui.

    Per PI l'affare potrebbe risultare interessante visto e considerato che sono anni ormai che essa tenta di ottenere la licenza bancaria senza alcune esito positivo, e che invece, una probabile fusione con MPS, permetterebbe a PI di raggiungere l'obiettivo tanto ambito.

    Infatti, in mancanza di una licenza bancaria, a PI non è concesso prestare ai privati i depositi da essa raccolti. I prestiti ai privati attualmente proposti da PI, in realtà sarebbero frutto di convenzioni poste in essere fra PI e banche commerciali, per i quali essa risulterebbe essere solo un intermediario commerciale. Di conseguenza, i soldi prestati ai clienti di PI non sarebbero quelli da essa raccolti con il servizio di deposito dei risparmi e di conto corrente, bensì quelli raccolti dalle banche sue partner. L'unico soggetto privato a cui PI concederebbe prestiti è Cassa Depositi e Prestiti s.p.a. (CDP), di proprietà del Ministero dell'Economia e Finanza, che usa il denaro raccolto per investirlo, principalmente, in titoli di stato italiani.

    Un ulteriore dimostrazione del fatto che PI non sarebbe una vera e propria banca è quella secondo la quale PI non pagherebbe gli assegni emessi dai suoi correntisti anticipando la relativa somma, così come  fa normalmente una banca (la quale, in questo modo, crea di fatto nuova moneta dal nulla). Infatti, se non esiste la provvista necessaria per coprire l'assegno emesso, PI normalmente non concede la possibilità di andare in rosso, non paga l'assegno e protesta immediatamente il correntista.

    Dunque, PI, non essendo una vera e propria banca, non potrebbe disporre dei depositi dei propri clienti per esporli ad alti rischi così come possono fare le banche normali, ai danni degli ignari risparmiatori (vedi il caso MPS). Certo, alla fin dei conti, in base a quanto testé detto, i depositi dei correntisti di PI sarebbero utilizzati per essere investiti in titoli di stato, che di sicurezze ne danno anch'essi ben poche da qualche anno a questa parte, ma perlomeno gli investimenti di PI non sono principalmente costituiti dagli ancora più pericolosi titoli derivati e la sua attività non è ampiamente dedita ad azzardi morali sui mercati finanziari.

    Teoricamente, potremmo dire che i soldi depositati in PI sono esposti a rischi minoririspetto a quelli depositati nelle normali banche. (E' un'affermazione questa, da prendere con le pinze, ovviamente!)
    Delle condizioni in cui versa MPS ho ripetutamente scritto su questo blog; esse sarebberodisastrose, proprio perché pare che essa sia stata gestita con scarso riguardo dei principi di prudenza ed economicità, rivelandosi più una banca dedita agli affari, usando i soldi degli altri (ossia quelli dei suoi correntisti), che un intermediario finanziario.

    In definitiva, se PI acquisisse veramente MPS, comprerebbe un buco nero che rischierebbe di compromettere l’integrità dei depositi dei risparmiatori di PI, i quali non sarebbero più al sicuro tanto quanto lo sarebbero attualmente.
    Questa voce circa la fusione fra PI e MPS, avrei potuto considerarla come una semplicevoce di corridoio, alla quale inizialmente non volevo darci peso più di tanto, per non preoccupare ulteriormente i risparmiatori circa i possibili rischi a cui potrebbero essere esposti i risparmi di una vita.

    Poi ho dovuto leggermente ricredermi quando ho appreso la seconda notizia, ossia quella riguardante l'idea di far giungere lo stato italiano in soccorso di un'altra azienda italiana, anch'essa acciaccata: Telecom Italia s.p.a..

    Infatti, a fine maggio, il cda di Telecom Italia ha deliberato l'intenzione di scorporare dalla compagnia telefonica italiana la sua rete telefonica, i cui costi di gestione sembrerebbero pesare troppo sul suo bilancio, il quale evidenzierebbe un debito di circa 28 miliardi di euro. Leggi qui.

    Nel dettaglio, l'idea di Telecom Italia sarebbe quella di costituire una nuova società e di vendere le infrastrutture della rete telefonica a quest'ultima, le cui quote di proprietà verrebbero cedute a terzi, purché il pacchetto di controllo di essa resti sempre in mano agli attuali proprietari di Telecom Italia.

    In tempi non sospetti, gli azionisti della società hanno palesemente fatto capire che non sono disposti ad alcuna ricapitalizzazione dell’azienda telefonica, rimettendoci di tasca propria. Stando così le cose, l’azienda ha pensato bene di non cercare altri soci privati, interessati ad entrare nella trattativa e aventi lo stimolo imprenditoriale giusto per rinnovare la qualità tecnologica della compagnia (una soluzione più auspicabile rispetto a qualunque altra). Telecom Italia avrebbe pensato invece di bussare alle porte del governo italiano per trovare un accordo che riguardasse la sopravvivenza dell’azienda.

    In merito, se un accordo con il governo italiano dovesse essere raggiunto, conseguentemente alla delibera del cda di Telecom Italia, lo stato potrebbe intervenire nell’operazione acquisendo quote di minoranza della società di nuova costituzione la quale, come già detto, gestirebbe la più che onerosa rete telefonica scorporata da Telecom (la bad company). In questo modo, Telecom otterrebbe dallo stato i soldi necessari per ridurre la perdita di 28 miliardi, senza però perdere il controllo della rete ceduta alla nuova società (visto che, come deliberato dal cda, la quota di maggioranza di essa dove essere di Telecom).

    Ciò che resterebbe della compagnia telefonica italiana, dopo lo scorporo, sarebbe l’attività di Telecom che genera più utili (la good company), nella quale lo stato non c’entrerebbe nulla e che resterebbe di esclusiva proprietà degli attuali soci privati (furbetti), i quali hanno sostenuto la non molto virtuosa dirigenza di Telecom Italia fino ad ora e che riuscirebbero a salvaguardare i propri interessi di guadagno, non grazie ai risultati della compagnia telefonica ottenuti sul mercato, ma grazie all’ottenimento di soldi pubblici. Bello fare gli imprenditori con i soldi degli altri, non è vero?

    Ricapitolando, lo stato (tramite CDP) entrerebbe in affari beccandosi l’attività di Telecom che sarebbe meno profittevole, salvando così l’azienda da un probabile default, mentre gli attuali proprietari della compagnia telefonica italiana si terrebbero l’attività più redditizia. Queste sono le tipiche operazioni degli italiani, che prima permettono il salvataggio economico degli inefficienti e poi si chiedono come mai l’Italia non cresca!

    In effetti, chi sarebbe il fesso che entrerebbe in una trattativa del genere, accollandosi gli oneri di gestione di una rete obsoleta, percependo la fetta minore dei redditi derivanti da tale infrastruttura, tutta da rimodernare (non scordiamocelo)? Lo stato italiano, no?

    E con quali soldi lo stato italiano acquisterebbe le quote della nuova società? Con quelli raccolti dai cittadini da Cassa Depositi e Prestiti s.p.a.. Ecco spuntare di nuovo la gallina dalle uova d'oro, da 213 miliardi di risparmi raccolti nell’anno 2012 (leggi qui la notizia).

    Pochi giorni dopo in cui CDP è stata tirata in ballo per il salvataggio del MPS in pericolo di default, oggi lo è nuovamente, per il salvataggio di Telecom Italia da una grave perdita in bilancio.

    Dopotutto, secondo la L. 56/2012, il governo ha potere di veto avverso su qualunque delibera, atto o operazione adottata da una società (anche se privata) e riguardante i settori strategici dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni! Qualsiasi decisione in merito dunque, per legge, deve passare dal benvolere dello stato. Qualcuno si chiederebbe: ma che libertà economica sarebbe mai questa? Infatti, non è mica uno paese libero quello italiano! Non lo sapevate?

    Quindi, lo stato può permettersi (ed è questo il bello; nessuna legge vieta ad esso di farlo) di usare i soldi degli ignari risparmiatori italiani, per favorire i già ricchi proprietari della compagnia telefonica in difficoltà. In questo modo questi ultimi continuerebbero a controllare la rete telefonica e l’intera compagnia, senza un soldo uscito dalle loro tasche, e a spolparsi quel che resta di buono dell'azienda. I costi di gestione dell’attività scorporata, verrebbero condivisi con CDP, la quale parteciperebbe agli utili solo in minima parte, mentre la storica compagnia tornerebbe ad assumere i tratti velati di un’azienda pubblica la cui gestione economica, come bene sappiamo, sarebbe paragonabile a ciò che ci si aspetterebbe da uno scimpanzé messo davanti al timone di una nave da crociera (quindi, addio progresso italiano nel campo delle telecomunicazioni!).

    Come è possibile che nessuno ritenga che sarebbe cosa corretta quella di dover chiedere, a coloro che ci mettono realmente i soldi (cioè i singoli risparmiatori privati), se essi siano o meno disposti a rischiare i denari risparmiati, in un’operazione dai dubbi vantaggi per la collettività?

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