IL VERO PADRE DI RENZI: MARIO DRAGHI
Che Renzi sia un caratteropatico non vi è dubbio, ma la sua arroganza derivava in massima parte dal sentirsi alle spalle l’establishment europeo e l‘establishment italiano. Il “Jobs Act” ha rappresentato non solo precarizzazione e voucherizzazione del lavoro ma soprattutto un finanziamento di più di diciassette miliardi elargito alle imprese private. Nel 2008 Massimo D’Alema si lamentò del fatto che Confindustria, nonostante i sussidi governativi alle imprese private, avesse sempre tenuto un atteggiamento ostile nei confronti del secondo governo Prodi, contrapponendogli persino l’improbabile contro-candidatura di Luca di Montezemolo. Stavolta i soldi stanziati dal governo sono stati molti di più e l’appoggio confindustriale a Renzi è stato entusiastico.
Sta di fatto che, nonostante i soldi pubblici, le imprese private sono state in grado di esibire un incremento di un miserrimo 0,9 del PIL, quindi interamente attribuibile al traino della piccola ripresa esterna. Se poi un transitorio aumento dell’occupazione vi è stato, ciò indica che il maggior numero di ore lavorate ha comportato comunque una caduta della produttività, quindi un regresso tecnologico. Per delimitare e chiarire i termini del fallimento draghi- renziano occorre tener presente che non si è mai trattato davvero di avviare una nuova fase di rilancio economico e neppure di ridurre significativamente la disoccupazione, obiettivi che sarebbero in contrasto con gli attuali business della povertà: finanziarizzazione dei consumi e privatizzazione della previdenza e della sanità. Si tratta di business in cui Confindustria è largamente interessata, tanto da essere diventata molto più una lobby finanziaria che un’associazione industriale.
L’ingranaggio deflazionistico europeo è stato messo in moto ma non si riesce a controllarne i movimenti. La dilettantistica risposta a tutto ciò è stata l’Europa “a più velocità” partorita dal vertice a quattro di Versailles. L’attuale illusione è quella di uno “sgretolamento controllato” dell’Unione Europea. Persino la sede scelta per il vertice è stata significativa: quella Versailles nella quale nel 1919 furono poste le basi della seconda guerra mondiale.
Le vicissitudini giudiziarie del padre di Renzi giungono opportunamente a creare un depistaggio rispetto al vero fallimento del Genio di Grignano, cioè le “riforme strutturali”. Il punto è che il fallimento di Renzi coinvolge il suo principale mallevadore e ispiratore, che non è stato Napolitano e nemmeno Tiziano, bensì Mario Draghi. Ancora nel settembre scorso il Super-Buffone di Francoforte non aveva esitato a riproporre la litania delle “riforme strutturali” all’uditorio europeo.
La faccia tosta di Draghi assume dimensioni macroscopiche se si considera che la pioggia di miliardi del quantitative easing”, e la conseguente inflazione al 2% (un’inflazione enorme per gli standard deflazionistici di Maastricht), hanno comportato in Europa una ripresa economica molto contenuta, con il Paese più ligio al diktat delle “riforme strutturali”, cioè l’Italia, al penultimo posto della classifica europea, con un modesto 0,9 in più. Nel 2013 Draghi ci aveva rassicurato dicendo che non contavano i governi ma il suo “pilota automatico”. Nel caso italiano l’automatizzazione aveva prodotto appunto un Renzi.
Che Renzi sia un caratteropatico non vi è dubbio, ma la sua arroganza derivava in massima parte dal sentirsi alle spalle l’establishment europeo e l‘establishment italiano. Il “Jobs Act” ha rappresentato non solo precarizzazione e voucherizzazione del lavoro ma soprattutto un finanziamento di più di diciassette miliardi elargito alle imprese private. Nel 2008 Massimo D’Alema si lamentò del fatto che Confindustria, nonostante i sussidi governativi alle imprese private, avesse sempre tenuto un atteggiamento ostile nei confronti del secondo governo Prodi, contrapponendogli persino l’improbabile contro-candidatura di Luca di Montezemolo. Stavolta i soldi stanziati dal governo sono stati molti di più e l’appoggio confindustriale a Renzi è stato entusiastico.
Sta di fatto che, nonostante i soldi pubblici, le imprese private sono state in grado di esibire un incremento di un miserrimo 0,9 del PIL, quindi interamente attribuibile al traino della piccola ripresa esterna. Se poi un transitorio aumento dell’occupazione vi è stato, ciò indica che il maggior numero di ore lavorate ha comportato comunque una caduta della produttività, quindi un regresso tecnologico. Per delimitare e chiarire i termini del fallimento draghi- renziano occorre tener presente che non si è mai trattato davvero di avviare una nuova fase di rilancio economico e neppure di ridurre significativamente la disoccupazione, obiettivi che sarebbero in contrasto con gli attuali business della povertà: finanziarizzazione dei consumi e privatizzazione della previdenza e della sanità. Si tratta di business in cui Confindustria è largamente interessata, tanto da essere diventata molto più una lobby finanziaria che un’associazione industriale.
Ciò che Draghi si proponeva non era affatto di avviare una reindustrializzazione, bensì di esibire la sua capacità di controllare il PIL attraverso immissioni di liquidità e, proprio su questo piano, il “quantitative easing” ed il “jobs act” hanno invece dimostrato la loro impotenza. A Renzi sarebbe bastato avvicinarsi ad un 2% di crescita per gettare il panico nelle opposizioni ed essere santificato a vita dai media; purtroppo neppure questo minimo obiettivo è stato centrato. La deflazione ha ormai regole sue che la Banca Centrale Europea non può gestire. La compressione salariale imposta dal vangelo FMI-UE comporta effetti depressivi di lungo periodo che i movimenti di capitale da soli non possono compensare.
L’ingranaggio deflazionistico europeo è stato messo in moto ma non si riesce a controllarne i movimenti. La dilettantistica risposta a tutto ciò è stata l’Europa “a più velocità” partorita dal vertice a quattro di Versailles. L’attuale illusione è quella di uno “sgretolamento controllato” dell’Unione Europea. Persino la sede scelta per il vertice è stata significativa: quella Versailles nella quale nel 1919 furono poste le basi della seconda guerra mondiale.