Fritz Vorholz,
Die Zeit,
Germania
Il nucleare senza rischi non esiste. L’ha dimostrato una volta per tutte l’incidente nella centrale giapponese di Fukushima. L’unica soluzione è spegnere i reattori, scrive la Zeit Rischio residuo. Per molto tempo questa espressione è stata sinonimo di qualcosa di imponderabile. Il termine tedesco, restrisiko, è anche il titolo di un teleilm del filone catastroico trasmesso in Germania due mesi fa. Finora il rischio residuo è stato solo fantascienza, intrattenimento. Ma dalle 15.36 di sabato 12 marzo tutti sanno che cosa signiicano davvero queste parole. Dopo il devastante tsunami che ha travolto il Giappone, si è bloccato il sistema di raffreddamento d’emergenza del primo reattore del complesso nucleare di Fukushima I, facendo temere una catastrofe atomica senza precedenti.
A prescindere dalla direzione in cui il vento spingerà le eventuali nubi radioattive, era ora che si aprisse un dibattito serio sulla sicurezza della produzione energetica. Il punto decisivo è capire quali sofferenze si possono accettare in nome del nucleare. Rispondere a questo interrogativo è inevitabile anche per l’industria dell’atomo.
La catastrofe giapponese segna la fine del sogno atomico, che già da tempo si è trasformato in un incubo. Nel mondo non esistono depositi di stoccaggio sicuri per le scorie radioattive o reattori nucleari che possano resistere a sabotaggi o attentati. E quasi nessuna centrale atomica è in grado di tollerare le conseguenze di un incidente aereo. Una cosa deve essere chiara anche ai sostenitori del nucleare: questa tecnologia è incontrollabile. È disumana. E per questo non dovremmo utilizzarla.
L'esplosione nella centrale di Onagawa
D’ora in poi lobbisti, economisti e politici non potranno più parlare di energia atomica come se non fosse successo niente.
Nessuno potrà più sostenere che esistono reattori del tutto sicuri. Le centrali nucleari non sono mai state sicure e non lo saranno mai. L’umanità deve fare marcia indietro e rinunciare il prima possibile all’energia atomica, anche se la riconversione sarà molto difficile. L’industria nucleare, che gestisce nel mondo 442 centrali quasi tutte concentrate in una decina di paesi ricchi, è sempre stata al centro di critiche e polemiche. Tuttavia il disastro di Cernobyl, nell’aprile del 1986, ha danneggiato questo settore solo in modo supericiale. I manager e i leader politici occidentali hanno sempre sostenuto che la tragedia ucraina è stata il risultato dei ritardi della tecnologia sovietica, e che le centrali europee e statunitensi sono sicure. Più sbiadiva il ricordo di Cernobyl, più rumorosi sono diventati i loro appelli per il rilancio del nucleare.
Fino al 12 marzo 2011 le centrali nucleari giapponesi sono state considerate affidabili come quelle statunitensi, francesi o tedesche. Il Giappone è un paese altamente tecnologico, con una fiorente esportazione di auto ecologiche e una serie di centrali atomiche antisismiche. È la patria di Hitachi e Toshiba. Il primo reattore della centrale Fukushima I era stato costruito dalla società statunitense General Electric. Ma l’incidente ha dimostrato con chiarezza l’inconsistenza del mito della sicurezza nucleare, inventato per sofocare sul nascere ogni domanda scomoda. Anche se in altre zone della Terra il rischio sismico non è elevato come in Giappone, non si può escludere che negli impianti nucleari possano verificarsi eventi catastroici di tipo diverso. La storia dell’energia atomica è una sequenza ininterrotta di brutte sorprese.
Dopo Cernobyl La sicurezza tecnologica è già di per sé un mito. Nel gennaio del 2007 dal tetto della stazione centrale di Berlino, appena inaugurata, si è staccata una trave d’acciaio di due tonnellate che è precipitata a terra da quaranta metri d’altezza. Nel marzo del 2009 l’archivio di stato di Colonia è crollato a causa dei lavori in corso per la costruzione della metropolitana. Nell’aprile del 2010 da un treno ad alta velocità delle ferrovie tedesche si è staccata una porta lungo la tratta che collega Montabaur a Limburg.
In seguito a questi incidenti, però, nessuno ha chiesto di sospendere la costruzione di stazioni ferroviarie, treni veloci e metropolitane. E a ragione, perché anche nel peggiore degli scenari i danni sarebbero stati comunque contenuti. Ma un grave incidente nucleare è un evento di tutt’altro tipo, in grado di trasformarsi in una disgrazia non solo per interi stati, ma anche per tutto un continente. Sotto questo aspetto, il nucleare si distingue da tutte le altre tecnologie. E proprio per questo è rischioso evocare una sicurezza che è già stata smentita dai fatti.
Il termine “sicurezza” non si riferisce a una condizione “oggettiva”, si legge in uno studio dell’Ufficio per la sicurezza dell’atomo di Bonn, ma alla “valutazione di un rischio”. Quando si dichiara che un reattore è sicuro si aferma solo di essere disposti ad accettare un certo livello di rischio. Ma di che rischio si tratta? Considerato che la possibilità di fusione del nocciolo è di 1 a centomila per ciascun impianto, la probabilità che nell’arco di sessant’anni in una delle diciassette centrali atomiche tedesche si veriichi la fusione del nucleo del reattore (meltdown) è dell’1 per cento. Una simile percentuale si può definire sicura? È una scommessa. Una roulette russa.
Nell’autunno del 1986, pochi mesi dopo l’incidente di Cernobyl, il governo tedesco aveva promesso che “la sicurezza delle centrali nucleari del paese sarebbe stata sottoposta a nuove verifiche”. Qual è stato il verdetto? Che gli impianti erano sicuri. E oggi? A poche ore dalla catastrofe giapponese, la cancelliera Angela Merkel ha chiesto una nuova verifica dei parametri di sicurezza, perché “la tutela della vita umana è un imperativo categorico”.
Se queste parole fossero sincere, le 17 centrali tedesche dovrebbero essere spente immediatamente. E i tentativi di costruire nuovi impianti dovrebbero già essere tutti falliti. Otto anni dopo Cernobyl, nel 1994, il governo di Helmuth Kohl ha modificato la legge sull’energia nucleare. Grazie a quel provvedimento, la licenza per la costruzione di nuove centrali è legata alla garanzia che gli efetti di una fusione del nocciolo rimangano circoscritti all’area del complesso e che, perino in caso di meltdown totale, non ci siano danni oltre i confini dell’impianto. Questa condizione, definita “sicurezza implicita”, non era altro che un eufemismo politico alimentato da un’illusione. Sul pianeta non esiste nessun reattore che possa garantire questi livelli di sicurezza. Se i progetti delle centrali atomiche avessero mai dovuto soddisfare questi criteri, sulla Terra non ci sarebbe un solo reattore.
È necessario, quindi, assumersi simili rischi per assicurare l’approvvigionamento energetico agli abitanti del pianeta? Il nucleare contribuisce alla produzione globale di energia appena per il 6 per cento: meno della metà delle energie rinnovabili. I paesi dove le centrali atomiche hanno un peso rilevante sono pochi: Francia, Slovacchia e Svezia. Gli Stati Uniti e la Germania ricavano circa un quinto della loro elettricità dall’atomo. Se però si considera la produzione di elettricità, l’apporto del nucleare sale al 15 per cento. Bisogna ammetterlo: è una quantità considerevole, che ammonta al consumo annuo della Cina. Certo, il fabbisogno elettrico potrebbe essere coperto anche dall’energia prodotta dal carbone, ma questo comporterebbe enormi emissioni di CO2, il gas responsabile del riscaldamento globale. Se quindi il mondo rinunciasse all’energia atomica, la conseguenza sarebbe il collasso climatico? I promotori del nucleare vorrebbero farcelo credere, ma tendono a trascurare la domanda chiave: spegnere i reattori, sostenibili ma pericolosi, servirà a contenere davvero l’aumento della temperatura entro livelli tollerabili?
Se vogliamo che il riscaldamento globale rimanga entro i due gradi, nei prossimi quarant’anni le emissioni di CO2 dovranno ridursi di oltre il 50 per cento: un obiettivo raggiungibile solo risparmiando energia e attingendo alle fonti rinnovabili. Se nel frattempo i reattori nucleari saranno smantellati, occorrerà risparmiare ancora di più, e produrre ancora più energia pulita. Non è un compito impossibile. I piani per una svolta energetica esistono: per esempio quello di Greenpeace, elaborato con il supporto dall’agenzia spaziale tedesca, o quello del Wwf, dai quali si desume che il clima può essere tutelato anche senza ricorrere all’energia atomica.
L’efficienza energetica è il punto fondamentale di tutti questi progetti. Oggi viene sprecata molta energia. Sappiamo che il deserto assorbe nell’arco di sei ore più energia solare di quanta ne usa il genere umano in un anno. E le tecnologie per lo sfruttamento delle rinnovabili sono molto avanzate. Eppure le fonti sostenibili coprono solo una piccola parte della produzione di energia globale. Le pompe e i motori, per esempio, possono funzionare anche con una frazione infinitesimale della corrente che impiegano oggi: basta dotarli di dispositivi di controllo. E l’illuminazione si può ottenere anche con sistemi che consentono un grande risparmio di energia. Ma usare lampadine più efficienti non risolverà il problema. Anche gli stili di vita devono cambiare, e questo rende tutto più complicato.
C’è bisogno di coraggio, da parte dei leader politici ma anche dei cittadini. Un gruppo di ricerca internazionale ha pubblicato di recente sulla rivista The Energy Journal uno studio sulle fonti energetiche da usare per fermare il riscaldamento globale. Uno dei possibili scenari prevede l’eliminazione delle centrali nucleari. Questa soluzione costerebbe all’umanità lo 0,7 per cento della sua ricchezza. Si può imporre al mondo un simile sforzo? Un costo simile è quasi insignificante rispetto a quello provocato dalla catastrofe che si è verificata in Giappone e che potrebbe ripetersi altrove in qualsiasi momento. D’ora in poi chi vuole tenersi strette le centrali nucleari sarà costretto ad affidarsi ad argomentazioni deboli. I buoni motivi sono tutti scomparsi a Fukushima.