giovedì 2 giugno 2011

Dalla Germania stop al nucleare

Reiner Metzger,
Die Tageszeitung
Germania

Perché in Germania nessuno festeggia l’abbandono del nucleare deciso dal governo? Tutti i giornali del mondo ne parlano, solo i tedeschi non hanno capito bene cosa succederà ora. Riassumiamo: nove centrali continueranno a funzionare per altri dieci o al massimo undici anni, otto verranno definitivamente chiuse. Non si potranno ritardare i tempi dell’uscita dal nucleare, al massimo si potrà anticiparli.

Un governo di centrodestra, quindi, sta lavorando per dire presto addio al nucleare. Pazzesco, no?
Certo, sarebbe stato meglio se cristianodemocratici e liberali l’avessero fatto prima. Ma il cambio di rotta, a cui Angela Merkel e il suo governo sono stati costretti, avrà comunque importanti conseguenze politiche.

Fino a sei mesi fa, secondo i calcoli del governo Merkel, i reattori nucleari sarebbero dovuti rimanere attivi oltre il 2030. Ora si parla di chiuderli entro il 2022, a metà percorso. Siamo dunque di fronte a una vittoria schiacciante del movimento antinucleare, che ha continuamente tenuto vivo il dibattito e avanzato proposte per imboccare la strada delle energie alternative. Anche se solo dopo la catastrofe di Fukushima in Germania c’è stata una “rivolta” popolare che ha costretto Merkel a cambiare rotta. Ovviamente le industrie del settore proveranno a ottenere ulteriori proroghe. Ma, se venissero accontentate, il prezzo politico di una nuova inversione di marcia sarebbe troppo alto per chiunque.

Dopo l’annuncio della rivoluzione energetica tedesca ci sarà tempo fino al 2020 per creare le condizioni necessarie all’uso intenso di fonti rinnovabili. Ora, con l’addio al nucleare, bisognerà disfarsi anche del carbone, per poi ridurre il consumo di petrolio e gas. La dipendenza dal petrolio e dal suo prezzo ballerino non è solo dannosa per l’ambiente, ma è anche un pericolo per l’economia tedesca e la sicurezza nazionale.

Come con l’energia nucleare in passato, anche per l’uso delle energie rinnovabili su larga scala non si tratta solo di capire che bisogna cambiare, ma anche che bisogna avere il coraggio di farlo e di farlo presto. Avremo ancora bisogno, quindi, dei militanti ambientalisti. Ma intanto è giusto fargli i complimenti per questa grande vittoria.

martedì 31 maggio 2011

Sarkozy e Cameron preparano lo sbarco in Libia

Manlio Dinucci

Fonte: www.ilmanifesto.it

Al termine del G8, il presidente francese Sarkozy ha annunciato che si recherà a Bengasi insieme al premier britannico Cameron, dato che «abbiamo le stesse idee». Essenzialmente una: «Mediare con Gheddafi non è possibile». La stessa idea l’ha espressa il presidente Obama: «Non allenteremo finché il popolo libico non sia protetto e l’ombra della tirannia scomparsa». In parole povere, si stanno preparando a occupare la Libia.

E mentre il G8 chiede a Tripoli «l’immediata cessazione dell’uso della forza», la Nato intensifica le incursioni aeree che, in meno di otto settimane, hanno superato le 8.500. Partono per la maggior parte dalle basi nel meridione d’Italia, rifornite dalle altre. Pisa è continuamente sorvolata da C-130J e altri aerei cargo che, dall’aeroporto militare, trasportano alle basi meridionali le bombe e i missili della base Usa di Camp Darby (prefigurando cosa avverrà quando entrerà in funzione l’Hub aereo nazionale, da cui transiteranno tutti i militari e i materiali diretti ai teatri operativi). Che gli attacchi aerei preparino lo sbarco, lo conferma l’entrata in azione di elicotteri francesi Tigre, probabilmente affiancati da Apache britannici.

Ancora più significativo l’arrivo nel Mediterraneo di un imponente gruppo navale da attacco, guidato dalla più moderna e potente portaerei nucleare della classe Nimitz, battezzata George H.W. Bush, in onore del presidente che nel 1991 fece nel Golfo la prima guerra del dopo guerra fredda (oggi siamo alla quinta). Lunga 333 m e larga 40, ha a bordo 6mila uomini, 56 aerei (che possono decollare a 20 secondi l’uno dall’altro) e 15 elicotteri, ed è dotata dei più sofisticati sistemi di guerra elettronica. E’ quindi una grande base militare mobile. E’ allo stesso tempo una centrale nucleare mobile: ha due reattori ad acqua pressurizzata PWR A4W/A1G, il cui vapore aziona le turbine delle quattro eliche. Una centrale nucleare che, pur avendo a bordo reattori più pericolosi di quelli di Fukushima, entrerà nella baia di Napoli e in altri porti.

La portaerei George H.W. Bush è affiancata da un gruppo di battaglia formato dai cacciatorpediniere lanciamissili Truxtun e Mitscher, dagli incrociatori lanciamissili Gettysburg e Anzio e da otto squadriglie aeree. Va a rafforzare la Sesta flotta, il cui comando è a Napoli, affiancandosi ad altre unità, tra cui i sottomarini nucleari Providence, Florida e Scranton. Si è aggiunto alla Sesta flotta anche uno dei più potenti gruppi da attacco anfibio, guidato dalla Uss Bataan, che da sola può sbarcare oltre 2mila marines, dotati di elicotteri e aerei a decollo veriticale, artiglieria e carrarmati. E’ affiancata da altre due navi da assalto anfibio, la Mesa Verde e la Whidbey Island, che ha effettuato il 13-18 maggio una visita a Taranto. Quest’ultima ha a bordo quattro enormi mezzi da sbarco a cuscino d’aria che, avendo un raggio d’azione di 300 miglia, possono trasportare velocemente fin sopra la costa 200 uomini alla volta, senza che la nave sia in vista. Tutto è pronto, dunque, per lo sbarco «umanitario» in Libia. Agli europei l’onore di sbarcare per primi, sotto le ali protettrici della portaerei Bush.


portaerei USA Bush

domenica 29 maggio 2011

SE L'AFRICA HA IL MAL D'EUROPA


ilfatto.it/

DI MASSIMO FINI

Siamo continuamente sollecitati a versare, anche via sms, un obolo per l’Africa nera, soprattutto per i bambini che non hanno scuole, che non possono usufruire di un’educazione come si deve, che muoiono di malattie da noi curabilissime, come il tifo, o scomparse da tempo come la malaria. Alcune aziende, per accattivarsi i possibili clienti, dichiarano che uno o due euro saranno destinati ad aiutare l’Africa. Quando questi soldi arrivano a destinazione, se vi arrivano, sono maneggiati da ong che, animate dalle migliori intenzioni, li utilizzano per certi progetti in loco.

A queste ‘anime belle’ voglio raccontare la storia di Nana Konadu Yadom, una Ashanti, antichissima tribù dell’Africa nera, regina di un piccolo villaggio, Besoro, immerso nella giungla subtropicale del Ghana.

Quando è ancora principessa Nana parte per l’Italia perché vuole incontrare una suora di cui ha sentito parlare e l’ha affascinata. Al momento di partire è presa da qualche dubbio guardando i volti luminosi, gli occhi limpidi, sereni della sua gente e i mille bambini che scorrazzano allegramente. Ma parte. L’impulso alla conoscenza è più forte. Prima di raggiungere la suora, che dovrebbe stare, secondo vaghe indicazioni, in una città del Nord, si ferma in Sicilia dove, per vivere, si adatta a fare la colf. Quando raggiunge la città della suora, Schio, viene a sapere che è morta da cinquant’anni. Si ferma a Schio, sempre come domestica. Del nostro Paese non ha una percezione negativa, ne ammira le conquiste, anche se nota che tutti hanno sempre una tremenda fretta, vanno di corsa, sono ossessionati da uno strano strumento, l’orologio, tutte cose sconosciute a Besoro, anche perché a Besoro l’orologio non esiste, ci si regola con il levar del sole e quando l’ombra lambisce le radici di un certo baobab.

Nel frattempo a Besoro la regina morente, che è sua zia, l’ha nominata per la successione. Ma Nana rimane ancora un po’ in Italia. Diventa un caso: una regina che fa la sguattera! Finisce sui giornali. Per un pelo non la portano all’Isola dei Famosi. Dopo diciotto anni in Italia, Nana torna al suo villaggio, richiamata dal Consiglio degli Anziani perché adempia ai suoi doveri di regina. Ormai partecipe delle due culture Nana vuole portare qualche innovazione a Besoro, niente di grandioso: una piccola scuola, un piccolo ospedale. Costruito questo il medico, un nero pure lui, le fa notare che l’ospedale è inutile se non si costruisce anche un pozzo in modo che i bambini e gli adulti di Besoro non si abbeverino a un laghetto putrido dove si infettano. Comincia così una nota trafila da cui non si esce più. I bambini si ammalano di meno, ma Nana nota con sorpresa, che gli abitanti sono diventati tristi, non hanno più i volti luminosi, gli occhi limpidi, felici, mentre è comparsa una malattia mai vista a Besoro, l’ipertensione.

Il virus occidentale ha rotto equilibri ancestrali. Il primo a squagliarsela è il cacciatore Coio che torna nella foresta, poi altri, infine anche il tranquillo zio Ofa se ne va, mentre uno che lavora in ospedale le dice con una voce quasi infantile: “Io non posso vivere con l’orario”. L’esperimento è stato fallimentare.

Mi piace concludere questo apologo con le parole di Andrea Pasqualetto, il giornalista che ha raccolto il racconto della regina Nana Konadu Yadom per un libro che uscirà prossimamente da Marsilio: “Chi l’ha detto che l’Africa nera deve essere aiutata? Chi l’ha detto che servono scuole, ospedali, pozzi? Servono a chi? Agli africani o a noi?”.

Massimo Fini
Fonte:
Link: http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/05/29/se-l’africa-ha-il-mal-d’europa-siamo/114309/

sabato 28 maggio 2011

Usa,violati i piani del supercaccia F-35 Lightning II

Unknown hackers have broken into the security networks of Lockheed Martin Corp (LMT.N) and several other U.S. military contractors, a source with direct knowledge of the attacks told Reuters.



"Abbiamo le politiche e le procedure in atto per attenuare le minacce informatiche per il nostro business, e siamo fiduciosi nella integrità del nostro robusto, a più livelli dei sistemi di informazione-sicurezza multi", ha detto il portavoce della Lockheed Jeffery Adams.

Hacker rubano i progetti dai server

I piani del Pentagono per la costruzione del caccia d'attacco F-35 Lightning II, il più costoso progetto mai affrontato dalla Difesa degli Stati Uniti, sono stati violati da misteriosi hacker. I pirati informatici sono riusciti a scaricare diversi dati sul supercaccia (conosciuto anche come JSF, Joint Strike Fighter), ma non hanno avuto accesso ai dati più sensibili. Solo perché questi sono custoditi in computer non collegati a internet.

Secondo il Wall street journal, che riporta la notizia dell'intrusione informatica citando fonti dell'attuale e precedente governo americano, non è chiaro chi siano gli hacker responsabili, anche se alcuni attacchi informatici sembrano provenire dalla Cina (ma ciò non prova nulla, perché si potrebbe trattare di identità mascherate).

Gli attacchi ai server del progetto JSF non sono nuovi: i primi risalgono al 2007, ma si sono intensificati negli ultimi sei mesi. E non tutti sono passati dal Pentagono: il problema della sicurezza, in questo caso, è molto più vasto perché le intrusioni sono avventue, per la maggior parte dei casi, nei sistemi informatici di ditte esterne o di Paesi alleati che collaborano al progetto del nuovo caccia americano (tra i quali c'è anche l'Italia). Uno degli attacchi è passato dalla Turchia, un secondo da un altro Paese che non è stato specificato.

Le nuove intrusioni hanno riportato alla luce un problema noto da tempo: l'assenza di un'agenzia governativa o di un ufficio militare preposti alla sicurezza informatica: proprio per questo l'amministrazione Obama potrebbe presto varare una nuova agenzia di cyber-007.

Il Pentagono smentisce
Il Pentagono e la Lockeed Martin hanno smentito la notizia. L'attacco, hanno di fatto spiegato i portavoce, c'è stato ma i pirati informatici (forse cinesi secondo il giornale) non sono riusciti a rubare nulla. "Non sono informato di alcun tipo di preoccupazione (sul furto)", ha spiegato il portavoce della Difesa Bryan Whitman riferendosi al progetto monstre da 300 miliardi di dollari con cui gli Usa acquisteranno 2.443 F-35.

domenica 22 maggio 2011

Un fantasma si aggira per la Spagna... e l'Europa: la crescente impopolarità dell'U. E.

“Non siamo una merce in mano a politici e banchieri”
Un fantasma si aggira per la Spagna...


Javier Fernández Retenaga

Per concessione di Tlaxcala

Tradotto da Aurora Santini

Alla vigilia delle elezioni autonomiche e municipali, migliaia di giovani stanno occupando le piazze delle principali città della Spagna. Seguendo l'esempio delle rivoluzioni arabe, giovani e meno giovani si sono organizzati attraverso diverse piattaforme internet ed hanno deciso di scendere in strada per mostrare la propria indignazione.


“La chiamano democrazia e non lo è”, “Non è la crisi, è una truffa”, “Non siamo una merce in mano a politici e banchieri” sono alcuni dei loro motti. Si mobilitano senza sigle né dirigenti, delusi dai tradimenti delle grandi organizzazioni politiche e sindacali e dal frequente settarismo di quelle piccole. Nonostante abbiano sempre agito in modo pacifico, la stampa dominante ed i politici professionisti hanno cercato di tacciarli come "violenti", dapprima per guadagnarsi il consenso dell'opinione pubblica e poi per giustificare la repressione. Non ci sono riusciti e le mobilitazioni si stanno guadagnando le simpatie della gente. Ora, timorosi, i politici del regime dicono di “comprendere” la rabbia popolare.

La Giunta elettorale centrale, per un risultato stretto di cinque voti contro quattro e dopo un po' di polemiche, ha deciso di proibire le mobilitazioni di sabato e domenica. Successivamente, la Giunta elettorale provinciale di Madrid ha proibito la manifestazione di oggi (venerdì), per la quale era stato richiesto un permesso. Va messo in evidenza che la convocazione di manifestazioni al di fuori delle giornate di riflessione è tutelata dalla Legge. Di fronte a queste risoluzioni ufficiali, i manifestanti, che evitano espressamente di esporre messaggi di nessun partito, dichiarano di non voler chiedere il voto per nessuna formazione politica, ragion per cui ritengono che la risoluzione della Giunta non sia giustificata e si propongono di proseguire con le mobilitazioni.

La rivolta inizia adesso ad estendersi ad altre città d'Europa e del mondo (Ecco qui sotto l'immagine ed il link al mappamondo delle mobilitazioni: http://www.thetechnoant.info/campmap/):


La crescente impopolarità dell'Unione Europea


Vicenç Navarro

Tradotto da Alba Canelli
Editato da Aurora Santini

L'Unione europea ha un problema serio. Stanno emergendo movimenti popolari anti-Unione Europea (UE) in quasi tutti i paesi membri di quest'entità politico-amministrativa. E' vero che l'UE non è mai stata un concetto popolare. In realtà, nacque per iniziativa di alcune élite che volevano creare un mercato comune per il quale c'era bisogno di una moneta, l'euro, che andò a sostituire le monete nazionali della maggior parte dei paesi dell'UE. Solo nel Sud Europa quei paesi che hanno sofferto dittature fasciste o fascistoidi (Spagna, Grecia e Portogallo), l'UE ha generato un certo entusiasmo, poichè l'Europa rappresentava per la popolazione di questi paesi la speranza di sfuggire alle odiate dittature e realizzare il sogno democratico comune assunto nel resto d'Europa. Ancora oggi, l'UE è il sogno di alcuni movimenti secessionisti, come il movimento indipendentista catalano, che vede nell'Europa il modo di rendersi indipendente dallo stato spagnolo. Ma, del resto, l'UE non è mai stata molto popolare e ora è fortemente contestata da vasti settori delle classi popolari. Perché?

LA SPIEGAZIONE DELLA CULTURA IDENTITARIA
Una delle spiegazioni più frequentemente date a questo fatto è l'esplicazione dell'identità culturale secondo cui questo distanziamento (supponendo erroneamente che vi fosse in precedenza una vicinanza) dall' Europa, è una conseguenza della disgregazione di un'identità comune - quella europea – la quale è andata via via svanendo con i movimenti migratori che hanno caratterizzato l'istituzione di tale entità. Inutile dire che le migrazioni che hanno avuto luogo tra i paesi dell'UE e tra l'UE ed i paesi in via di sviluppo (ed in particolare il mondo islamico) hanno accentuato delle tensioni sociali che hanno ravvivato il senso di appartenenza e d’identità, essendo considerata l'immigrazione una minaccia all'identità nazionale, ed essendo attribuita l'immigrazione all'istituzione dell'UE, con il suo impegno per la mobilità delle persone al suo interno.

Foto Francesco Cascioli

Questa spiegazione culturale-identitaria, tuttavia, è chiaramente insufficiente, poiché evita la questione del perché questo rifiuto accade ora e non prima. Tale spiegazione non risponde nemmeno al perché s'identifica l'immigrazione con l'istituzione dell'UE. In realtà, come sottolineato da Goran Therborn, uno degli analisti più acuti della realtà europea, l'Europa è un continente basato sull’immigrazione, caratterizzato da una varietà etnica maggiore persino degli Stati Uniti, considerati come il paese basato sull'immigrazione per eccellenza. L'immigrazione di per sé, quindi, non è la principale causa di rigetto dell'UE da parte di ampi settori delle classi popolari. Per comprendere questo rifiuto dobbiamo recuperare categorie analitiche che sono cadute in disuso, come le classi sociali, il potere di classe e la lotta di classe, categorie usate da due tradizioni esistenti nelle scienze sociali occidentali, tanto quella marxista quanto quella weberiana, categorie praticamente scomparse nelle analisi attuali. Quando analizziamo l'UE da questo prisma analitico (delle scienze sociali tradizionali) possiamo vedere che la costruzione dell'UE è stata realizzata principalmente a beneficio del capitale (in particolare del capitale finanziario) e a spese del mondo del lavoro. I dati sono chiari e forti. Vediamoli.
COSA STA ACCADENDO NELL'UNIONE EUROPEA?
Dal momento in cui l'Unione Europea e la sua Eurozona sono state stabilite, abbiamo visto i seguenti fatti:
  1. In ogni paese dell'UE (e ancor di più in ogni paese dell'Eurozona), il reddito del lavoro, come percentuale del totale del reddito nazionale, è calato (passando dalla media UE-15 del 68% di reddito nazionale al 56%) mentre i redditi da capitale (soprattutto, i redditi del capitale finanziario) sono aumentati.
  2. La disoccupazione è aumentata nella maggior parte dei paesi dell'UE, la cui media è diventata più alta in Europa che negli Stati Uniti, invertendo una posizione precedente (1950-1980) in cui la disoccupazione era stata più bassa in Europa che negli Stati Uniti.
  3. Le condizioni di lavoro sono peggiorate, con l'aumento della percentuale di lavoratori che riferiscono di essere stressati sul lavoro, che ha raggiunto nel 2009 la cifra del 52% del totale della forza lavoro media dell'UE-15. Inoltre, e in relazione con ciò, l'incidenza delle malattie professionali correlate allo stress è aumentata significativamente.
  4. Il tasso di crescita della spesa pubblica per trasferimenti e servizi pubblici dello stato sociale è calato, mentre i tassi di crescita dei bisogni sono aumentati.
  5. I diritti dei lavoratori e i diritti sociali sono stati ridotti.
È logico, quindi, che l'UE stia creando maggior rifiuto tra ampi settori delle classi popolari. L'immigrazione accentua solo ciò che esiste già in questi paesi: il deterioramento dei servizi sociali e della qualità della vita della classe operaia e degli altri settori delle classi popolari. In realtà, l'immigrazione è stata utilizzata dalle imprese per abbassare il prezzo della manodopera e consentire il deterioramento delle condizioni di lavoro. La negazione di questo fatto, verificabile mediante i dati empirici esistenti, da parte di settori della sinistra, ha contribuito alla sua perdita di popolarità tra queste classi popolari. In realtà, il forte calo della socialdemocrazia nell'Unione Europea si deve al fatto di essere percepito da queste classi popolari come protagonista nella costruzione di un'Unione Europea di questo tipo. Non solo i partiti socialdemocratici che governano in Europa, ma anche la governance dell'UE, in cui i personaggi della socialdemocrazia (come i Commissari degli Affari Economici e Monetari, Pedro Solbes e Joaquin Almunia) hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo dell'UE e delle sue politiche.
LA CRISI ATTUALE E COME L'UE CERCA DI USCIRE DA ESSA
Questa realtà discriminatoria nei confronti del mondo del lavoro e in favore del capitale si è accentuata ancora di più nel modo in cui si vuole uscire dalla crisi. Le stesse forze finanziarie, economiche e politiche (e anche gli stessi personaggi) che ci hanno condotto alla crisi, stanno ora cercando di uscirne a condizioni molto favorevoli al capitale e sfavorevoli al mondo del lavoro. Vediamo i dati.
Il paese che ha subito il più grande collasso della propria economia in Europa è stata la Lettonia, la quale è stata costretta ad apportare modifiche estremamente favorevoli ai redditi da capitale e molto dannose per il mondo del lavoro, come condizione per l'ingresso nell'UE e nell'Eurozona.
Tali cambiamenti, imposti dall'Unione Europea e dall'allora Commissario Europeo per gli Affari Economici e Monetari, Joaquín Almunia (figura di spicco del socialismo spagnolo), hanno incluso un taglio del 30% dei salari dei dipendenti pubblici, una diminuzione del 20% della spesa pubblica, una riduzione dei salari in tutti i settori dell'economia (con l'argomento di rendere l'economia più competitiva), e altri cambiamenti che hanno prodotto come conseguenza una diminuzione (nel 2008-2009) non inferiore al 25% del suo PIL. Si stima che le classi popolari non raggiungeranno il tenore di vita che avevano nel 2007 fino al 2016, il che impone dieci anni di enormi sacrifici. I tagli alla sanità, all'istruzione, alla sicurezza sociale e al pubblico impiego sono stati enormi, ed hanno smantellato lo stato sociale.
Anche la Grecia è stata un paese in cui le politiche di austerità stanno creando una grande mobilitazione popolare (che i mezzi di comunicazione trasmettono appena) ed hanno allarmato la borghesia greca (complice con l'UE nello sviluppo di tali politiche), perché contano sulla simpatia da parte delle forze dell'ordine, come su quella della polizia, la quale si è opposta a reprimere tali disordini. Il futuro della Grecia è un punto interrogativo.
In Irlanda, la politica di austerità ha portato a una mobilitazione popolare contro la classe politica. Giammai l'Irlanda aveva avuto un rifiuto così marcato (e meritato) verso la sua classe politica. In Portogallo, il capitale finanziario (compresa la banca portoghese) ha costretto a un "salvataggio" di enorme austerità, che sta danneggiando lo stato sociale e il tenore di vita della maggioranza della popolazione.
E in Spagna, com’è successo prima in Germania con il governo socialdemocratico guidato dal Cancelliere Schroeder, il governo di Zapatero è uno dei governi più impopolari che siano esistiti in questo paese durante la democrazia, come risultato delle politiche di austerità del suo governo.
UN FANTASMA SI AGGIRA NELL'UE
Anche se questi paesi sono i casi più estremi, la realtà è che uno spettro si aggira per l'Europa ed è la rabbia verso "questa" Europa, che non è l'Europa dei popoli, ma l'Europa del capitale. Contro quest'Europa del capitale, dev'essere stabilita l'Europa delle Nazioni, con l'alleanza delle classi popolari. È importante per l'intera UE, ad esempio, che la classe operaia tedesca recuperi i salari che le consentono la sua elevata produttività, in modo che il consumo (e non solo le esportazioni) contribuisca a rilanciare la domanda interna a livello europeo. È importante inoltre che il lavoratore finlandese si allei con il lavoratore spagnolo, affinché la borghesia, la piccola borghesia e le classi medie spagnole paghino le tasse che oggi non pagano. Scriveva un cittadino finlandese, in una lettera al Financial Times, che "mentre noi finlandesi paghiamo diligentemente le tasse, giacché l'onestà è considerata un pilastro della società, mi risulta difficile vedere come gli euro delle mie tasse vengano spesi per sostenere paesi che hanno mentito sulle loro economie (Grecia) e in cui l'evasione fiscale è un hobby nazionale (Spagna) ". E il cittadino finlandese aveva in parte ragione, anche se dobbiamo aggiungere due importanti sfumature.
Una è che il lavoratore spagnolo paga le tasse a livelli simili a quelli del lavoratore finlandese. Leggermente inferiori, ma non molto differenti. Il lavoratore meglio pagato, un operaio dell'industria manifatturiera, in Spagna già paga circa il 72% delle tasse pagate dal suo omologo in Finlandia. In Spagna, sono il mondo imprenditoriale e finanziario ed i redditi superiori quelli che pagano molto meno dei loro omologhi in Finlandia. Un ricco in Spagna paga di tasse solo il 23% di quello che paga un ricco in Finlandia.
La seconda precisazione è che il presunto aiuto finlandese alla Spagna, in caso di "salvataggio", non andrebbe al lavoratore spagnolo, ma alle banche spagnole e straniere, soprattutto tedesche e francesi, che riceverebbero i soldi che lo Stato spagnolo otterrebbe per pagare il debito. E questo è importante. L’operaio finlandese e quello spagnolo (e l'operaio greco, tra gli altri) hanno molti interessi in comune. Tutti loro vogliono che i redditi superiori, le banche e le grandi imprese, sia in Finlandia sia in Spagna, paghino le tasse. E che i loro soldi vadano ad aiutare le persone in difficoltà e non le banche. Sicuramente, se si chiedesse il parere delle classi popolari della Finlandia e della Spagna (e della maggior parte dei paesi UE) su quest’argomento, questi risponderebbero positivamente e sarebbero d'accordo. Da qui la sfida per le forze progressiste dell'UE di mostrare gli elementi e gli interessi in comune con altre nazioni e popoli esistenti in questo continente. E costruire su questi interessi un'Europa del mondo del lavoro diversa da quella che si sta costruendo a vantaggio del capitale. Molte proposte sono state fatte in questa direzione. (Vedi il mio articolo "Il fallimento del neoliberismo nel mondo e nell'UE ).
So che una risposta immediata a questa proposta è privarla di merito giudicandola utopica e mostrando e difendendola situazione attuale come l'unica possibile. E qui c'è precisamente il potere dell'establishment europeo così come quello del mondo finanziario, mediatico e politico: hanno eliminato ogni possibilità di creare un'alternativa. Ma che sia o no un’alternativa dipenderà dalla mobilitazione sociale. Quello a cui oggi stiamo assistendo è una tensione sociale mai vista dagli anni sessanta, agitazione che sta accadendo in questo continente. La storia non è finita. Il futuro della sinistra europea è quello di facilitare tali mobilitazioni di protesta contro questa Europa, per creare un'alternativa.




Per concessione di Vicenç Navarro

giovedì 19 maggio 2011

La trappola del governo italiano sui referendum

  • Su 15 e 16 de Maju Vota EJA contra su nucleare

In Sardinia il 15 e 16 MAGGIO 2011 si è svolto il primo referendum al mondo sul nucleare (consultivo) dopo il disastro accaduto a Fukushima.
SARDIGNA NATZIONE (movimento indipendentista sardo) ha raccolto le 16600 firme per permettere ai sardi di esprimere il loro parere sul nucleare, 6000 firme oltre le necessarie dovute a termine di legge Regionale; l'impegno profuso per la sua riuscita è dovuta ai movimenti indipendentisti e ambientalisti sardi, hanno dato al popolo sardo questa libertà di espressione, strumento di democrazia diretta, e portato al voto oltre 860.000 elettori sardi (su un milione e mezzo di abitanti siti su un'isola di appena 24mila Kmq )
Elettori molto determinati a dire la loro, e che hanno votato espressamente contro il nucleare con un a percentuale che non lascia dubbi sul loro pensiero antinuke, infatti il 97.40% di SI per il rifiuto del nucleare ha determinato il NO alle centrali nucleari e ai suoi residuati e scorie, ponendo una pietra tombale sulle bocche dei tanti lachè e affaristi italioti;
Un grandissimo risultato raggiunto a motivo della stanchezza ed il rifiuto popolare delle servitù imposte alla Sardegna da un centinaio e più d'anni dallo stato italiota, una terra vituperata e resa colonia, martoriata dalle servitù militari, da discariche di scorie industriali delle acciaierie italiane del nord e con l'iquinamento del suo territorio a motivo di industrie collocate fuori luogo dal potere italiota negli anni sessanta e settanta, rendendo il territorio schiavo della logica del capitale USA e GETTA oltre alla umiliazione del collocare gente attiva e dignitosa in situazioni offensive per noi sardi come la cassa integrazione ecc.. (da sapere: il 60% del totale delle servitù militari in estensione territoriale dello stato italiano sono site in Sardinia) la logica di colonia a cui ci hanno relegato e imposte da centocinquanta anni di occupazione italiota, ci da molto fastidio e vogliamo fare azione di liberazione sia: dalle promesse vane dei porci servi (tzaracus) dei politicanti "italioti", che di quegli idioti-servi sardo-italioti prostarti davanti all'altare del denaro della loro vera "patria", infastidisce molto vedere la forza che questi governi di destra e centrosinistra italici esercitano per sottomettere il nostro popolo in terra di Sardinia!

Per noi sardi questo referendum consultivo sul nucleare ha significato un forte no a questa speculazione sul nucleare in terra nostra del premier italiota Berluscone, e la rivendicazione di sovranità sulla proria terra atta dal nostro essere natzione matura per la libertà e autodeterminazione, stanca di essere sottoposta da troppo tempo a queste amenità di oltre Tirreno.





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LIBERTADE PRO SA SARDINIA EST COSA GIUSTA E DEPIDA!!

A FORA IS ITAGLIANUS DE SARDINIA, LIBERTADE E JUSTITZIA PRO SU POPULU SARDU!!




















Michael Leonardi

Counterpunch USA


Il 12 e 13 giugno gli italiani
voteranno su nucleare, legittimo
impedimento e privatizzazione
dell’acqua. La maggioranza sta
facendo di tutto per ostacolare le
consultazioni popolari

In Italia la democrazia è sempre più a pezzi. Il governo di Silvio Berlusconi e la sua maggioranza in parlamento stanno cercando di bloccare un refrendum che dovrebbe impedire la costruzione di nuove centrali nucleari sul territorio nazionale. L’Italia non produce energia nucleare dal 1990, e i recenti sondaggi indicano che più del 75 per cento degli italiani è contrario alla costruzione di questi impianti.

Il referendum è in programma per il 12 e 13 giugno, ma un emendamento presentato il 19 aprile dal governo prevede la so-spensione di un anno del progetto di rilancio dell’energia nucleare e rischia di far saltare la consultazione popolare. La campagna è stata condotta dal partito d’opposizione Italia dei valori, che ha guidato un vasto movimento di cittadini e associazioni ambientaliste riuscendo a raccogliere le 500mila firme necessarie per proporre il referendum.

L’Italia è l’unico, tra i paesi del G8, a non produrre energia nucleare. Sulla penisola non ci sono centrali attive dal 1990,anche se circa il 10 per cento dell’elettricità consumata viene da energia nucleare prodotta in Francia e Germania. Nel 1987, un anno dopo l’incidente di Cernobyl, i cittadini italiani votarono un referendum che ha sancito la diminuzione graduale e infine la sospensione della produzione di energia nucleare. In quel momento l’Italia aveva due centrali attive, e in tutta la storia del paese ci sono stati quattro reattori in funzione.

Nel 2007, durante la campagna elettorale che l’ha portato al governo per la terza volta, Berlusconi annunciò l’intenzione di voler tornare alla produzione di energia nucleare, nel quadro di una strategia energetica nazionale.
All’epoca Berlusconi non era stato l’unico a sostenere la necessità di un ritorno al nucleare. Anche alcuni importanti esponenti del Partito democratico (Pd), appena fondato, si erano espressi a favore.

Un cablogramma pubblicato da Wikileaks ha rivelato che Pier Luigi Bersani, l’attuale segretario del Partito democratico, che nel 2007 era in carica come ministro dello sviluppo economico nel governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi, aveva aperto uno spiraglio al ritorno del nucleare attraverso un accordo sulla Global nuclear energy partnership (Gnep) con il segretario per l’energia statunitense di allora, Samuel Bodman. Parlando del referendum del 1987, Bersani aveva detto che il risultato della consultazione “non esclude l’Italia dalla generazione di energia nucleare, che è solo sospesa”. Inoltre, il leader del Partito democratico si augurava che l’accordo stipulato tra l’amministrazione Bush e il governo Prodi potesse “cambiare l’atteggiamento degli italiani verso l’energia nucleare”.

Anche Walter Veltroni, l’ex sindaco diRoma che nel 2008 è stato il primo candidato del Pd per la presidenza del consiglio,nel suo programma elettorale si era detto pronto a discutere l’idea di un ritorno alla produzione di energia atomica di quarta generazione.

Dopo Fukushima

Dopo l’incidente della centrale di Fukushima, in Giappone, Bersani e il Partito democratico hanno fortemente ridimensionato il loro sostegno al nucleare, schierandosi
contro il progetto del governo di costruire nuovi reattori. I democratici si sono schierati al fianco del partito dei Verdi, dell’Italia dei valori e di migliaia di cittadini italiani che hanno criticato i tentativi di Berlusconi di bloccare il referendum, accusandolo di “intralciare il processo democratico”. Fukushima ha dato nuova forza al movimento antinucleare e ha radunato intorno al no all’energia atomica un’opinione pubblica che nel corso degli anni si era gradualmente spaccata.

Dopo il ritorno di Berlusconi al governo, nel 2008, il ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola, prima di essere costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo di corruzione, annunciò che il governo intendeva costruire la prima delle nuove centrali nucleari entro il 2013. Il 24 febbraio del 2009 è stato siglato un accordo tra la Francia e l’Italia per permettere agli italiani di usufruire delle conoscenze degli esperti francesi in materia di progetazione delle centrali. Il 9 luglio del 2009 l’Italia ha approvato un disegno di legge sull’energia che prevedeva l’istituzione di

Nucleare, <a href="/quotazioni/quotazioni.asp?step=1&action=ricerca&codiceStrumento=u2ae&titolo=ENEL">Enel</a>/Edf soci maggioritari con alleanza allargata









Nel 2009 l’Enel ha
concluso un accordo
con Électricité de
France (EDF) per la
creazione della joint
venture Sviluppo



un’Agenzia per la sicurezza nucleare e concedeva al governo sei mesi per individuare i siti dove costruire le nuove centrali. Siti che a tutt’oggi non sono ancora stati selezionati. Il 3 agosto del 2009 l’Enel, il gigante italiano dell’energia, ha concluso un ac­cordo con Électricité de France (Edf) per la creazione della joint venture Sviluppo Nu­cleare Italia. Il compito della società è studiare la possibilità di costruire almeno quattro reattori usando un progetto dell’azienda francese Areva, la più importante del mondo in questo settore. Questi oligarchi dell’energia, con l’alto patronato di Berlusconi, stanno facendo il possibile per proteggere l’investimento multimiliar­dario in un futuro nucleare.

Suicidio politico

In quest’ottica si spiega la decisione del go­verno di rinviare di un anno tutte le discussioni sulla ricerca e la selezione dei siti de­stinati alle nuove centrali in Italia. Una mossa che ha suscitato immediatamente lo scetticismo del movimento antinucleare e dei partiti d’opposizione, ed è stata inter­pretata da molti come un goffo tentativo di bloccare il referendum di giugno. Il 26 apri­le del 2011, nel giorno del venticinquesimo anniversario dell’incidente di Cernobyl, Berlusconi ha tenuto una conferenza stam­pa a Roma insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy. In quell’occasione il pre­sidente del consiglio ha chiarito una volta per tutte le intenzioni del governo: “Siamo assolutamente convinti che l’energia nu­cleare sia il futuro per tutto il mondo”, ha detto. Berlusconi ha mostrato alcuni son­daggi recenti, secondo i quali, allo stato attuale, il referendum per bloccare il ritorno al nucleare potrebbe davvero passare. Il presidente del consiglio ha ammesso poi di aver deciso di sospendere temporanea­mente il programma nucleare per ritornare sull’argomento quando i cittadini italiani si saranno “calmati” e avranno compreso che le centrali nucleari sono la via più sicu­ra e praticabile per produrre energia.

Il Ca­valiere ha inoltre accusato “la sinistra e gli ecologisti” di aver manipolato le emozioni degli elettori dopo Cernobyl e di aver pe­nalizzato i cittadini italiani, che sono costretti a pagare bollette della luce più care rispetto ai francesi, che dispongono di 58 reattori. Berlusconi si è poi detto convinto che “la situazione in Giappone abbia spa­ventato gli italiani”, e ha concluso garantendo che “l’inevitabile ritorno dell’Italia all’energia atomica” non sarà ac­cantonato, e che la collaborazio­ne tra Enel ed Edf andrà avanti. Sostenere il nucleare proprio quando la Germania e il Giappo­ne annunciano la sospensione dei loro programmi e l’abbandono dei pro­getti di costruzione di nuovi reattori, po­trebbe sembrare un suicidio politico. Ma non in Italia, almeno fino a quando Berlu­sconi sarà al potere.

Il Cavaliere controlla ormai tutte le principali reti televisive.
Questo fa sì che informare i cittadini sul voto del 12 e 13 giugno sia molto complicato, anche perché la longa manus della censura si sta facendo sentire. Al concerto del primo maggio, organizzato ogni anno a Roma dalle principali organizzazioni sin­dacali e trasmesso dalla Rai, agli artisti è stato chiesto di firmare una liberatoria con cui, tra le altre cose, accettavano di non parlare dei referendum, pena una multa di migliaia di euro.

Per ora il referendum per bloccare l’energia nucleare è ancora in programma.
Solo la corte di cassazione, con una senten­za dell’ultimo minuto, potrebbe decidere di cancellarlo. È quello che spera il gover­no, conidando nell’efetto della cosiddetta moratoria nucleare. Oltre a quello sull’e­nergia, il 12 e 13 giugno si terranno altri tre referendum: due per annullare il tentativo del governo Berlusconi di privatizzare le risorse idriche, l’altro per abrogare il cosid­detto legittimo impedimento, una norma approvata dalla maggioranza per proteg­gere Berlusconi dai processi a suo carico.
Per ognuno dei quesiti i promotori hanno dovuto raccogliere 500mila firme, e i referendum saranno validi solo se andrà a vo­tare il 50 per cento più uno degli aventi di­ritto. Negli ultimi dieci anni nessun refe­rendum ha raggiunto il quorum.

La battaglia dell’acqua

Secondo alcuni il governo Berlusconi avrebbe intenzione di bloccare anche la consultazione sull’acqua pubblica. Si spie­gherebbe in quest’ottica la decisione di creare una nuova authority per l’acqua. Per chi è impegnato e politicamente attivo sembra evidente che il governo Berlusconi sta tentando in ogni modo di bloccare il processo democratico. Ma la maggior par­te dei cittadini riceve informazioni solo attraverso l’impero di reti televisive pub­bliche e private sotto il controllo del Cavaliere, e rimane all’oscuro di tutto.

Le noti­zie sui referendum vengono tra­smesse quasi solo a notte fonda o all’alba. Per pubblicizzare i refe­rendum molti cittadini sono sce­si in strada distribuendo volanti­ni, ricorrendo ai social network e ad azioni creative e dirette per difondere le notizie e portare le persone alle urne. Il 9 maggio alcuni attivisti di Greenpeace han­no srotolato un grosso striscione dal balco­ne che Benito Mussolini usava per i suoi discorsi, a Palazzo Venezia a Roma. Sullo striscione c’è una caricatura di Berlusconi accompagnata dalla frase “Italiani, il vostro futuro lo decido io”, e da un invito ai cittadini ad andare a votare il referendum sul nucleare.

Angelo Bonelli, presidente della Federazione dei Verdi, ha riassunto così la situazione: “I referendum si faranno anche se i ladri di democrazia sono tornati in azione. Il governo non riuscirà a rubare il diritto degli italiani di esprimersi demo­craticamente contro il nucleare e la priva­tizzazione dell’acqua”.

Il 12 e 13 giugno il popolo italiano avrà l’opportunità di cambiare il corso del proprio futuro votando sì per dire no all’ener­gia nucleare e alla privatizzazione dell’ac­qua.

mercoledì 4 maggio 2011

Geronimo EKIA (enemy killed in action). Lo stupro del diritto internazionale

peacereporter.net
Angelo Miotto

Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - senza rispetto del diritto. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione. Intervista a Danilo Zolo

Due dozzine di rambo statunitensi su due elicotteri in territorio sovrano pachistano, un blitz con armi da fuoco, un cadavere fantasma, una cerimonia su una portaerei con sepoltura in mare. In un copione da effetti speciali, raccontato come un'avvincente saga hollywoodiana, si è sancita la definitiva morte del diritto internazionale. Un insieme di regole ragionate, studiate e condivise nel corso di decenni, fredde e razionali proprio per dirimere contenziosi infuocati che vivono di tensioni drammatiche. Il Nemico da abbattere giustifica l'uso della forza - leggi violenza - umiliando il diritto condiviso. Le regole sono scritte a uso e consumo privato, perdendo così il carattere universale e sancendo, nei fatti, la legge del taglione.

Danilo Zolo è professore di filosofia del diritto e di filosofia del diritto internazionale a Firenze. A PeaceReporter racconta lo sdegno per le regole infrante in una comunità internazionale incapace di rispondere alle nuove sfide della guerra asimmetrica e della propagandata 'guerra al terrorismo' che ha caratterizzato fine e inizio di due secoli.

Professore, un blitz illegale dal punto di vista del diritto internazionale? Spogliamoci dell'emotività della notizia: abbiamo assistito al fulcro dello sfascio delle regole condivise (almeno sui trattati)?

Siamo in presenza di uno stravolgimento radicale del diritto internazionale, che è divenuto risibile per come viene applicato dalla comunità internazionale. È chiaro che gli Stati Uniti usano le Nazioni Unite e il suo Consiglio di sicurezza come una copertura. Aggrediscono, usano armi potentissime, fanno stragi di decine e centinaia di migliaia di persone come in Iraq e poi ottengono dal Consiglio di sicurezza una accettazione di fatto della realtà. L'Onu serve a questo, a giustificare post factum crimini gravissimi. Ci sono tre crimini in atto, a carico di Obama: la guerra in Afghanistan, che continua con strage di innocenti senza nessuna fondazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni unite. La guerra contro la Libia, altra violazione della Carta Onu che al comma sette articolo 2 vieta qualsiasi intervento all'interno di tensioni di carattere di guerra civile di altro stato. E ora siamo in presenza di un'altra gravissima violazione, perché un gruppo di militari altamente specializzati sono stati incaricati di fare strage e di assassinare una persona in uno Stato terzo, il Pakistan. Una gravissima violazione del diritto internazionale e del diritto alla vita delle persone non motivata da motivi particolari. Perché che quella persona fosse bin Laden non è sicuro e d'altra parte la cerimonia di cui si parla su portaerei e poi la scomparsa in mare del cadavere dell'ucciso sono procedure vergognose sul piano del diritto e dell'esistenza delle persone.

Siamo di fronte alla necessità di riformare il diritto internazionale?

Riformare il diritto internazionale significherebbe riformare le Nazioni unite, cambiare la Carta dell'Onu. Mentre si parla di un diritto internazionale consuetudinario, ma è una chiacchiera a vuoto perché non viene rispettato. Una riforma significherebbe chiedere agli Usa di rinunciare ai propri privilegi. Il Consiglio di sicurezza, che è l'unico organo che può usare la forza nelle situazioni estreme, è dominato da cinque membri permanenti e questa la dice lunga su come sia democratico. L'assemblea non ha alcun potere decisionale. La mia opinione è che non ci sarà nessuna riforma delle istituzioni internazionali, e quindi del diritto, se non ci sarà il cambiamento profondo nei rapporti di forza economici, militari e nucleari con le potenze come Russia, India, Cina, Brasile e anche il Sudafrica. Se queste forze riescono a stabilire dei rapporti internazionali che li liberino dal dominio degli Usa. Altrimenti, nessuna riforma.

Il concetto di guerra simmetrica complica il quadro.

Le guerre scatenate dagli Usa dal 1991 contro l'Iraq sono guerre in cui c'è una asimmetria nella potenza militare e una asimmetria profonda nelle conseguenze delle guerre: le perdite militari occidentali sono risibili, mentre le strage di militari iracheni, degli afgani si contano a migliaia, con persone innocenti. Vittime della guerra o per le conseguenze di essa.

La tanto sbandierata democrazia occidentale, secondo lei, ieri con il blitz e certe rappresentazioni di giubilo che segnale ha dato di sé stessa? C'è voluto il Vaticano per richiamare alla compostezza di fronte alla morte.

È singolare che lo abbia detto il Vaticano, che questi ultimi anni non si è particolarmente schierato con la pace. Il pontefice ha spento le candeline festeggiando con Bush e facendo una dichiarazione di entusiasmo nei confronti dei comportamenti degli Usa. Meglio che lasciamo perdere questo aspetto.

Per quanto riguarda l'Occidente da oltre venti anni scatena guerre di aggressione nei confronti di una serie di stati collocati in Medio Oriente, e sono tutte guerre che violano il diritto internazionale. Stessa situazione anche nei Balcani: ricordiamo la guerra del 1999 contro la Serbia, di fatto con la motivazione falsa di carattere umanitario che ha portato alla strage di alcune migliaia di serbi e ha avuto un solo risultato umanitario; in Kosovo oggi vicino a Urosevac ci sono 7000 soldati nordamericani, armatissimi e con ordigni nucleari. L'Occidente non può avere una qualifica onoraria nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani. La dottrina dei diritti umani è in declino perché è una ideologia occidentale completamente falsificata dai comportamenti di fatto.


martedì 3 maggio 2011

La rapina del secolo: l’assalto dei «volenterosi» ai fondi sovrani libici

Manlio Dinucci

Il Manifesto

L’obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell’Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi. Nel mirino dei «volenterosi» dell’operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all’estero.

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I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell’Arabia saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita. Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.
In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica possiedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l’ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani». Una volta che gli Usa e la Ue hanno revocato l’embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri. La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all’interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici. Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attraverso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l’ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati». Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell’economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l’Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.
L’assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria). Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi. Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all’intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell’operazione bellica «Protettore unificato».

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