domenica 26 giugno 2011
Rinnovabili, la sfida per produrre energia dal mare
di Stefano Pisani
ilfattoquotidiano
L’Italia, con i suoi oltre ottomila chilometri di costa, è circondata da una gigantesca fonte di energia rinnovabile: il mare. Un’energia, quella talassica, di cui si sente parlare meno delle più celebri energie del sole e del vento, ma che potrebbe risultare fondamentale ora che il paese sembra aver intrapreso un cammino verso le fonti alternative. E la possibilità di produrre energia elettrica da onde e correnti marine non è ferma solo a livello teorico: gli studi intrapresi finora stanno infatti cominciando a portare oggi i loro frutti, con una serie di brevetti italiani legati a tecnologie che sono in una fase spinta della sperimentazione, quando non già effettivamente messe in opera.
A metà giugno l’Enea (Ente per le Nuove Tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) ha organizzato a Roma un workshop dedicato proprio alle “Prospettive di sviluppo dell’energia dal mare per la produzione elettrica in Italia”, durante il quale i maggiori studiosi nazionali del settore hanno presentato le loro proposte per sfruttare questa immensa energia che avvolge l’Italia e che è equivalente «a quella di sei centrali nucleari come i modelli di centrali Epr da 1.600 Megawatt che si sarebbero dovute costruire qui e che sono state respinte dal referendum» ha spiegato l’oceanologo Marco Marcelli, fondatore del Laboratory of Experimental Oceanology and Marine Ecology e docente all’Università della Tuscia.
Uno dei mari più “generosi” sotto questo aspetto è il mar Tirreno. E’ infatti a Formia che verrà prossimamente installato il sistema Rewec 3, progettato e realizzato dal Natural Ocean Engineering Laboratory (Noel), dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Si tratta di un dispositivo che si innesta all’interno di una normale diga foranea e sfrutta l’energia delle onde attraverso un sistema di camere che comprimono o espandono l’aria in esse contenute per effetto del moto ondoso e quindi fanno azionare delle turbine che, a loro volta, producono energia elettrica.
«Il progetto pilota – spiega Felice Arena, dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, intervenuto al workshop – dovrebbe essere pronto in un paio di anni nella diga foranea della Marina di Cicerone. Dai nostri calcoli abbiamo stimato che un chilometro di installazioni di questo tipo, per esempio lungo la nuova diga foranea di Genova potrebbero produrre circa 8.000 Megawattora ogni anno».
Ma è anche intorno alla Sicilia, e allo Stretto di Messina in particolare, che onde e correnti sono in grado di fornire grandi scorte di energia. Si calcola infatti che dal potenziale delle correnti marine dello Stretto di Messina si potrebbe produrre energia elettrica equivalente al fabbisogno di una città di due milioni di abitanti. Dal 2001, a Messina è stato varato l’impianto Enermar, basato sulla turbina Kobold, nato per lo sfruttamento delle correnti. Kobold (che è attualmente ancorata al largo di Ganzirri, parte nord dello Stretto di Messina, a circa 150 metri dalla costa siciliana) è una turbina idraulica ad asse verticale con pale liberamente oscillanti, brevettata dalla società Ponte di Archimede e sviluppata con la collaborazione del Dipartimento di Progettazione Aeronautica dell’Università di Napoli Federico II. Il sistema produce energia elettrica dalla rotazione della turbina che viene mossa dal mare e dal 2006 è collegato alla rete elettrica nazionale. L’impianto ha una potenza nominale di circa 80 kW con una corrente marina che tocca la velocità di 3 m/s, ma al momento produce circa 25 kW di potenza massima in quanto il punto in cui è installato non è raggiunto dalle correnti più elevate. Si tratta comunque di un progetto di successo che La Ponte di Archimede è riuscita anche a esportare: un secondo impianto di questo tipo sarà infatti installato in autunno in Indonesia e darà energia a un piccolo villaggio nell’isola di Lombok, ad est dell’isola di Bali, finora privo di corrente elettrica.
Se lo Stretto di Messina è così prodigo di energia, è il mare di Sardegna ad avere il maggiore potenziale energetico (Guarda la mappa su www.marescienza.it) fra i mari italiani. In particolare, la costa occidentale sarda e Alghero, dove non a caso è installato in prova il sistema ISWEC (Inertial Sea Wave Energy Converter), progettato dal Dipartimento di Meccanica del Politecnico di Torino. Si tratta di un dispositivo di tipo galleggiante che utilizza l’inclinazione del fianco dell’onda per produrre energia elettrica. L’onda che lo investe induce un moto di beccheggio e in questo modo si crea una oscillazione da cui un generatore elettrico opportunamente controllato estrae energia. Una delle caratteristiche del sistema è che esso è “tarato” proprio per il mar Mediterraneo e, in generale, per tutti i mari chiusi. Gli oceani, infatti, hanno solitamente onde che sono molto diverse da quelle del nostro mar Mediterraneo. Sono infatti onde molto alte e molto potenti e i dispositivi che convertono la loro energia in energia elettrica sfruttano proprio queste caratteristiche. Ma sono inadatti per mari come il Mediterraneo, in cui il parametro più rilevante non è l’altezza dell’onda, ma la frequenza delle onde. Il sistema ISWEC sfrutta appunto questo aspetto, riuscendo ad estrarre energia dal moto ondoso in modo proporzionale al quadrato della frequenza delle onde incidenti. Attualmente, il sistema è in prova in tre località: oltre ad Alghero, appunto, anche a La Spezia e Pantelleria, ed è riuscito a fornire una media di 2600 Megawattora all’anno.
sabato 25 giugno 2011
Quanto costa l’indipendenza .. Scozia un esempio per tutti i paesi che ambiscono all'indipendenza!
The Guardian
Aberdeen è una città che ha una sola cosa in testa: il petrolio. Le strade sono tappezzate di cartelli che inneggiano alla “capitale petrolifera d’Europa”. Le vecchie case nobiliari sono diventate uffici per le grandi aziende energetiche, con le foresterie stipate di contabili e avvocati che esaminano contratti. Alla libreria WH Smith dell’aeroporto, per arrivare ai romanzi di Patricia Cornwell bisogna prima passare tra scafali zeppi di volumi sul petrolio.
Il petrolio di Aberdeen è uno dei principali motivi delle rivendicazioni indipendentiste della Scozia. All’inizio del boom del mare del Nord, i nazionalisti scozzesi sostenevano che i proventi del greggio potevano essere usati in due modi: per puntellare l’economia britannica o per modernizzare la Scozia. E si chiedevano: “Vogliamo essere scozzesi ricchi o britannici poveri?”.
La questione è stata risolta circa trent’anni fa da una signora inglese di Grantham. “Margaret Thatcher ha distrutto l’industria britannica e ha pagato i sussidi per i disoccupati con i soldi del petrolio del mare del Nord”, afferma Allan MacAskill, ingegnere petrolifero da più di trent’anni. MacAskill non è un osservatore neutrale – è iscritto allo Scottish national party (Snp) da quando
aveva 18 anni e suo fratello Kenny è ministro della giustizia nel governo di Edimburgo – ma su questo tema il suo punto di vista sembra coincidere con quello della maggior parte della gente del posto.
I movimenti nazionalisti di solito traggono la loro forza da vecchie ingiustizie o da recenti opportunità sprecate. Negli ultimi anni, però, l’Snp si è concentrato su come aumentare il suo potere invece di lamentarsi per i torti del passato. Nelle elezioni regionali del 5 maggio il partito ha conquistato il 53 per cento dei seggi a Holyrood, il parlamento scozzese, nonostante un sistema elettorale studiato apposta per scongiurare maggioranze così ampie. “La carta geografica della Scozia si è improvvisamente tinta di giallo, il colore dell’Snp”, spiega Karen, la responsabile per le relazioni esterne del partito. “Dopo la vittoria dei nazionalisti, in tv si è vista una gran quantità di gente che gridava ‘Scozia! Scozia!’”.
Quella sera stessa l’idea di una Scozia indipendente ha smesso di essere una fantasia ed è diventata una possibilità concreta. E se questa possibilità diventerà realtà lo si deciderà probabilmente ad Aberdeen. In campagna elettorale il leader dell’Snp Alex Salmond ha promesso la “reindustrializzazione del paese”, un processo che dovrà partire proprio da questa città. Ma chi sostiene che il petrolio si sta esaurendo, almeno in parte dice la verità. Una buona metà delle riserve della zona è stata già estratta e tirare fuori il resto sarà più difficile e costoso. Per questo l’Snp ha stilato un piano per sostituire l’industria petrolifera con quella delle energie rinnovabili.
A MacAskill l’idea piace a tal punto che di recente ha abbandonato il settore petrolifero per darsi all’eolico. “Qui ad Aberdeen svilupperemo le tecnologie. E le turbine le faremo costruire a Glasgow. Torneremo a creare posti di lavoro dove un tempo c’erano le nostre industrie”. Nelle sue c’è più entusiasmo che ricerca del proitto: è la risposta scozzese all’idea thatcheriana di “un futuro post-industriale”.
La rivoluzione delle rinnovabili
Per chi è stanco di sentire il leader laburista Ed Miliband e il premier David Cameron discutere dei tagli alla spesa pubblica, assistere al dibattito politico in Scozia è elettrizzante. All’arido approccio manageriale del governo di Londra, Salmond e il suo ministro delle finanze, John Swinney, contrappongono una strategia economica che punta a creare occupazione ed è anche una metafora del rinnovamento nazionale.
Questa retorica, che fa leva sul concetto di una Scozia nuovamente protagonista, sembra far presa.
Ma è allo stesso tempo un’illusione, sostengono gli scettici. Dall’altra parte della città, un gruppo di dirigenti di aziende petrolifere sta pranzando con Brian Wilson, ministro dell’energia dal 2001 al 2003 nel governo di Tony Blair. “Il nazionalismo è un’ideologia fondamentalista, che usa
l’economia per darsi una giustificazione razionale”, dice, tra i cenni di approvazione degli ospiti. “Il nazionalismo scozzese esisteva già prima dell’industria petrolifera, poi a un certo punto il petrolio è diventato la risposta a tutti i problemi. Nello stesso modo, l’Snp c’era prima delle rinnovabili, e oggi Salmond dice di voler trasformare il mare del Nord ‘nell’Arabia Saudita dell’eolico’”. Il mio vicino di tavolo cita uno studio in cui si sostiene che le rinnovabili porteranno solo cinquemila nuovi posti di lavoro nel nordest della Scozia: con queste cifre è difficile parlare di rinascita economica.
In efetti la rivoluzione dell’energia pulita non è ancora visibile. Ci sono stati degli stanziamenti per un parco eolico e si parla di un polo manifatturiero verde nel vecchio cantiere petrolifero di Nigg, a Cromarty Firth. Ma il progetto più ambizioso degli ultimi tempi è stato il campo da golf da un miliardo di sterline costruito a Balmedie da Donald Trump.
Tutto questo spiega chiaramente il grande problema economico che devono affrontare i nazionalisti: negli anni settanta e ottanta il loro obiettivo era capire come spendere al meglio i proventi del greggio; oggi devono trovare nuove fonti di ricchezza per un futuro post-petrolifero. Negli anni novanta i nazionalisti hanno puntato sulla tecnologia. Ma quando le imprese straniere hanno abbandonato la Silicon Glen (il settore delle nuove tecnologie in Scozia) e si
sono spostate in Asia, ventimila persone hanno perso il lavoro. Poi è stata la volta della finanza: Edimburgo doveva diventare la Zurigo scozzese. Ma alla ine è arrivato il fallimento della Royal Bank of Scotland. “Sarebbe sbagliato dire che l’Snp va dove tira il vento”, osserva Brian Ashcroft, economista della University of Strathclyde. “Ma certo le ha provate tutte”.
Regole e finanza
In questo momento, tuttavia, i petrolieri sono infuriati soprattutto per la decisione del ministro dell’economia britannico George Osborne di aumentare le tasse sui profitti del mare del Nord. “Londra si comporta come un padrone di casa assente che si limita ad aumentare l’affitto agli inquilini”, dice uno dei commensali tra mormorii di approvazione. È questo il vero cuore economico delle rivendicazioni indipendentiste scozzesi. L’Snp promette che l’autodeterminazione porterà a un governo più snello e più vicino ai cittadini, attento a sviluppare l’industria locale. Ma sarà davvero così? Per scoprirlo, parlo con Graeme Bell, presidente della Green Ocean Energy e testimonial perfetto per la nuova politica energetica di
Salmond. Lo scambio di battute parte con la domanda più ovvia: cosa vi darebbe Edimburgo che Londra non può darvi? “Regole più chiare”, risponde Bell. Ma anche Holyrood, come Westminster, può approvare regole confuse, ribatto. “Più inanziamenti per lo sviluppo delle
nuove tecnologie”. Ci sono un sacco di soldi anche a Londra e a Dubai. “Speriamo di avere accesso alla Green Investment Bank”. Cioè l’istituto di credito creato dal governo britannico?
Ho quasi vinto, ma Bell mi sorprende di nuovo. “A volte c’è bisogno che succeda qualcosa per rimettere in moto le persone e far ripartire l’economia”. E questo qualcosa potrebbe essere la separazione da Londra? “Magari sì. Non ho mai visto un rapporto che mostri i costi e i beneici dell’indipendenza, ma ho il sospetto che per noi il bilancio sarebbe leggermente in attivo”.
Per fare un’analisi costi-beneici ci vuole un economista. In un cafè della University of Edinburgh sottopongo la sfida di Bell a un gruppo di studiosi. Simon Clark, capo del dipartimento di economia dell’ateneo, osserva che il denaro non può essere il fattore decisivo nella questione dell’indipendenza. “Sarebbe come diventare monarchici per motivi economici”. Ma se la Scozia
tagliasse i ponti proprio adesso, come funzionerebbe la sua economia? Più o meno come quella del resto del Regno Unito.
Nel dibattito sulle conseguenze economiche dell’indipendenza non si sottolinea a sufficienza il fatto che sono Londra e il sudest, con il suo turbocapitalismo e la stretta sulle finanze pubbliche, la vera anomalia nel panorama nazionale. In Scozia il settore pubblico pesa un po’ di più che nel resto del paese: assorbe il 25 per cento della forza lavoro contro una media nazionale del 21 per
cento. L’economia scozzese è più fiacca: tra il 1997 e il 2007 è cresciuta in media del 2 per cento all’anno contro il 2,4 per cento complessivo del Regno Unito. Non sembrerà molto, ma con il passare degli anni il divario accumulato diventa significativo.
Verso il modello basco
Quello di cui non si discute mai nei dibattiti tra gli economisti è se una Scozia indipendente possa essere autosufficiente dal punto di vista delle finanze. In parte ciò è dovuto al fatto che i termini di un’eventuale separazione sono vaghi: che percentuale dei proventi del petrolio andrebbe a Edimburgo? Quanta parte del debito pubblico Londra scaricherebbe sulla Scozia? Quale moneta adotterebbe il paese? Ma il motivo è anche un altro: l’idea, cara ai tabloid, che gli
scozzesi vivano alle spalle dei sussidi di Londra non è del tutto vera.
Secondo gli ultimi dati resi noti da Holyrood, tra il 2008 e il 2009 in Scozia il gettito fiscale generato a livello locale ha superato la spesa pubblica di 1,3 miliardi di sterline. Il surplus, pari a meno dell’1 per cento del pil scozzese, non è grandissimo, e comprende una buona parte dei ricavi petroliferi del mare del Nord. Se si escludesse il greggio, il paese avrebbe un disavanzo di
10,5 miliardi di sterline, circa il 9 per cento del pil. Se questi fossero i conti di casa nostra, nessuno di noi vorrebbe dipendere da una fonte di reddito così variabile.
L’altra questione che preoccupa gli economisti di Edimburgo è quale modello industriale adottare per una Scozia indipendente. A differenza di Graeme Bell, Stuart Sayer non crede che l’indipendenza in sé cambierebbe molto: “È come la medicina degli stregoni. Se ci credi, può fare meraviglie, ma non può essere certo l’unica cura”. Se ci affidiamo alla metafora di Sayer, allora
il principale stregone è Stephen Noon, l’uomo che ha stilato il programma dell’Snp alle ultime elezioni. Quando lo incontro a George Street, nel centro di Edimburgo, Noon invoca un maggiore spazio di manovra per l’esecutivo locale: “Se avessimo un governo indipendente, potremmo intervenire subito invece di limitarci a fare pressioni su Londra”. Altri soldi, inoltre, arriverebbero dalle tasse che oggi riscuote Westminster ma che spettano alla Scozia. “Londra incassa centinaia di milioni dall’affitto dei fondali marini del Regno Unito alle imprese ofshore.
Quei soldi potrebbero essere nostri”. La tesi secondo cui Edimburgo avrebbe in mano un tesoretto fiscale è ben nota a Michael Keating, professore di scienze politiche alla University of Aberdeen. Come spiega Keating, nel sistema di devolution in vigore Londra raccoglie gran parte delle risorse riservate alla Scozia e poi le affida a Edimburgo. Non a caso oggi Salmond chiede una soluzione simile a quella adottata nel Paese Basco. Secondo questo sistema, la maggioranza del carico fiscale sarebbe riscossa a livello locale, mentre Edimburgo pagherebbe Londra per
servizi come la difesa e le ambasciate. Oggi, invece, la Scozia ha la stessa autonomia fiscale di un adolescente che prende la paghetta. Il risultato, dice Keating, è un movimento nazionalista che strizza l’occhio sia al modello svedese, basato su una forte spesa pubblica, sia a quello irlandese,
basato su una tassazione per le imprese molto bassa. “Questa è economia voodoo”, commenta. Ma è anche politica voodoo.
L’Snp è un partito allo stesso tempo di destra e di sinistra: riunisce politici molto più a sinistra del Labour e grandi imprenditori come George Mathewson, ex presidente della Royal Bank of Scotland. Nella hall di un albergo davanti a Holyrood, Mathewson mi spiega che “l’indipendenza è il modo migliore per curare la ‘cultura della dipendenza’ di cui soffre la Scozia. Se il paese
smetterà di prendere soldi da Londra, forse anche la gente la pianterà di chiedere sussidi allo stato”. Anche la sinistra del partito, del resto, è d’accordo sul fatto che la separazione renderebbe la Scozia più produttiva.
Secondo i sostenitori di questa tesi, il paese che ha dato i natali ad Adam Smith e a David Hume avrebbe ancora le tre T: talento, tecnologia, tolleranza. Una sorta di Catalogna più fredda ma ugualmente dinamica.
C’è però un problema, che potremmo chiamare la rivincita della geografia. L’Snp ha passato decenni a sostenere che anche le nazioni piccole possono farcela da sole: grazie al commercio e alla tecnologia, per esempio, Svezia, Danimarca e Norvegia sono riuscite a tenere il passo dei paesi più grandi. Poi però è arrivata la crisi finanziaria.
Negli ultimi due anni i piccoli paesi alla periferia dell’Europa – dall’Irlanda alla Grecia fino al Portogallo – hanno assistito a un’emorragia di capitali e si sono salvati grazie agli aiuti internazionali, concessi a condizioni rigidissime. “Chi si prenderà cura della Scozia quando le cose si metteranno male?”, si chiede Clark. L’Snp non si è mai posto un problema simile.
Anche se le tesi dei nazionalisti possono essere contraddittorie e a volte esasperanti, l’Snp rimane uno dei movimenti politici più vitali in circolazione. A differenza dei partiti di Westminster, che ripetono a pappagallo la lezioncina del pareggio di bilancio, i nazionalisti scozzesi riconoscono la necessità di ripensare il modello economico del loro paese. E non si vergognano di farsi chiamare socialdemocratici.
James Robertson è uno scrittore, e il suo romanzo And the land lay still è un’ottima guida per capire la politica scozzese contemporanea. Lo incontro a Dundee, un tempo grande centro tessile e oggi intenzionata ad affidare le sue speranze di rinascita alla cultura. “Quando i nazionalisti si lamentano del fatto che la Scozia è bistrattata da Londra, dicono sciocchezze. Ma queste
recriminazioni hanno un significato preciso per la gente di qui, che ha visto scomparire le industrie e i posti di lavoro”, dice. Il punto è che lo stesso vale anche per tanti altri posti
della Gran Bretagna, da Newcastle a Birmingham.
La Scozia è una delle quattro nazioni costitutive del Regno Unito. Ha 5,1 milioni di abitanti e
nel 2009 ha avuto un pil pro capite di 20.080 sterline (circa 22.500 euro), contro una media
britannica di 20.520 sterline. Il paese si è unito all’Inghilterra con l’Atto di unione del 1707, che
ha segnato la nascita del regno di Gran Bretagna e la fusione dei parlamenti scozzese e inglese.
Nel 1998 il parlamento britannico ha votato lo Scotland act, che ha trasferito alcuni poteri a
Edimburgo e ha istituito il parlamento scozzese. Le prime elezioni si sono svolte nel 1999.
Nel voto del 5 maggio 2011 i nazionalisti dello Scottish national party (Snp) hanno ottenuto la
maggioranza assoluta. Dopo la vittoria, il leader Alex Salmond ha parlato della possibilità di indire un referendum sull’indipendenza del paese.
venerdì 24 giugno 2011
Modello energetico post nucleare , Germania insegna...
Dopo i referendum. Durante la crisi il settore italiano dei pannelli fotovoltaici è stato l'unico a veder crescere ricavi e addetti
La Germania entro il 2050 vuole p
L'inequivocabile risultato del referendum sul nucleare impone di tornare a parlare di programmare il futuro energetico italiano. La Germania, locomotiva d'Europa in economia, lo sta già facendo, decidendo di mettersi alla testa del convoglio della green economy già da tempo, prima essendo leader nell'approvazione del pacchetto 20-20-20, poi ponendosi l'obiettivo dell'80% dell'energia elettrica da fonti rinnovabili al 2050 e infine con quello ambizioso davvero di sostituire il 17% di contributo del nucleare cui hanno deciso di rinunciare dopo Fukushima senza aumentare gas o carbone e ricorrendo esclusivamente a nuove rinnovabili.
I tedeschi ci indicano una strada che possiamo e dobbiamo percorre anche noi. Già oggi le rinnovabili contribuiscono per oltre un quarto all'energia elettrica che produciamo in Italia, in questi mesi di gravissima crisi quello delle rinnovabili è stato l'unico settore economico in crescita, di fatturato e in termini occupazionali - sono 120mila ormai gli addetti che lavorano nel settore.
Nel 2010 il numero di pannelli fotovoltaici è più che raddoppiato passando da 71.288 a 155.977 (+119%). Ancora più ampia la crescita della potenza efficiente lorda che è passata da 1.144 a 3.469,9 MW (+203%) nel corso del 2010 ed è continuata a crescere molto rapidamente superando 6mila MW in questi giorni. Sul territorio la diffusione del solare è particolarmente rilevante nel Trentino, Marche e Puglia, incui ad una media nazionale di 57W per abitante si superano le tre cifre. La Puglia è leader italiano con circa il 20% della produzione. Numeri che dimostrano come le imprese e il mondo della ricerca sono pronti , come confermato dalla ricerca Greenitaly sviluppata dalla ondazione Symbola, Unioncamere e Istituto Tagliacarne. Lo studio ricostruisce una geografia della filiera italiana delle rinnovabili, dallo stabilimento più grande d'Italia e uno dei grandi d'Europa per la produzione di pannelli fotovoltaici che verrà inaugurato l'8 Luglio p.v. a Catania (Sicily), nato dalla collaborazione di Stm elettronics, Enel green power e Sharp, progettato dalla studio di Am architetti, alla Archimede solar energy (Ase), aziende del gruppo Angelantoni, unico produttore al mondo di tubi ricevitori solari a sali fusi per le centrali del solare termodinamico, passando per l'Università di Ferrara che sta lavorando nel campo dei dispositivi solari fotovoltaici a concentrazione.
Un'altra linea di ricerca interessante è quella condotta nei laboratori del polo organico del Lazio che ospitano una linea pilota per la produzione di celle solari organiche. Il polo, nato dalla volontà della Regione lazio e del dipartimento di Ingegneria elettronica dell'Università di Roma Tor Vergata, è uno dei tre centri di eccellenza a livello modiale, insieme a quelli del Giappone e della Germania , per la ricerca e l'industializzazione di queste nuove celle solari fotovoltaiche.
Sullo sviluppo di tecnologie avanzate per l'impiego dell'energia solare sta lavorando anche il centro di ricerca Eni per le energie convenzionali Guido Donegani di Novara (Piemont), impegnato nello studio di materiali organici polimerici e nanostrutturati che garantiscono costi minori delle attuali tecnologie commerciali.
Su questo fronte si segnala un gruppo di ricercatori di Lecce (Puglia) che sta studiando l'evoluzione dei materiali per la fabbricazione di cellule Dssc (dyesensibtized solar cell, Sensibilizzate a colorante): a catturare la radiazione solare è una tintura organica o metallorganica. Mentre è l'aretina (Tuscany) La Fabbrica del sole che ha recentemente lanciato sul mercato l'ecobox un sistema che permette di staccare dalle reti del gas, elettriche e idriche una abitazion. Gli ingredienti ci sono, ora è necessario ragionare sul sistema, a un moderno piano nazionale di efficienza energetica, rivedere gli obiettivi del piano sulle rinnovabili che inviato a Bruxelles nel giugno scorso, largamente superati dai fatti, infine emanatre decreti attuativi relativi al decreto Romani, che permettano al settore di rilanciarsi.
Sulla base di un progetto ideato da Rubbia, i raggi del sole vengono raccolti e concentrati da un sistema di specchi parabolici che, allo stesso modo dei girasoli, saranno in grado di captare in modo continuativo la radiazione solare grazie a un sistema di controllo che ne assesta l’inclinazione in direzione del sole. Un campo solare con un’area di 40 ettari sarà così in grado di produrre energia capace di soddisfare le esigenze di una città di ventimila abitanti senza emissioni né inquinamento e risparmiando l’equivalente di 12.700 tonnellate di petrolio all’anno e minori emissioni di anidride carbonica per 401 mila tonnellate annue.
Specchi in allestimento nel cantiere dell’impianto termodinamico Archimede di Priolo (Sicily)
mercoledì 22 giugno 2011
Il vergognoso finanziamento del FMI
La Liberia, paese africano tra i più poveri del mondo, ha una popolazione di poco superiore ai 4 milioni di abitanti, un PIL, per l’anno 2010, di poco inferiore a un miliardo di dollari ed un PIl pro capite di 226 dollari USA all’anno (dati di fonte FMI). Il PIL pro capite è dunque di molto inferiore ad un dollaro al giorno.
Il Fondo Monetario, stando ai sui fini statutari, tra gli altri ha il compito di ridurre gli squilibri esistenti fra i vari stati e quindi verrebbe da pensare che un paese povero come la Liberia sia uno di quei paesi che riceve aiuti dal FMI, appunto al fine di ridurre la propia immensa povertà. E’ così? Neppure per sogno! Di quei miseri 226 dollari che ogni liberiano ha annualmente a disposizone, ben 47,69 dollari vanno al FMI; il 21,10% del PIl pro capite va al FMI, sotto forma di quota di partecipazione al fondo (dati di nostra elaborazione su dati di fonte FMI).
Screenshot della pagina FMI riguardante le quote della Liberia; Url consultato il 14/06/2011
In questa riunione, presieduta dall’allora segretario generale Dominique Strauss-Khan, il FMI ha deciso non solo un riallineamento delle quote fra i vari paesi membri (cosa che apparentemente dovrebbe favorire quelli più poveri), ma anche un raddoppio della quota, portando la disponibilità totale a disposizone dai circa 377 miliardi di dollari ad oltre 750 miliardi. In sostanza anche se fosse ridotta la quota di finanziamento dei paesi poveri, ovviamente di poco, considerato che la quota totale è destinata a raddoppiare, automaticamente i paesi poveri si vedrebbero aumentare e fortemente la propria quota da sborsare.
Immaginiamo che il raddoppio sia stato operato in vista della crescente necessità di “aiuti” da parte di un sempre più alto numero di paesi in crisi. Quindi ciò è da interpretarsi come un ulteriore segnale che si va verso un acuirsi della crisi economica dei paesi occidentali.
Fino ad ora la quota che ogni paese doveva versare scaturiva da un complesso calcolo che considerava il PIL (50%), il grado di apertura ai mercati (30%), la variabilità economica (15%) e le riserve internazionali (5%). La quota versata era anche la base per il calcolo del finanziamento ottenibile: un paese membro poteva ottenere annualmente fino al 200% di quanto versato ed un massimo cumulato del 600% di quanto versato. Insomma, fino ad oggi, se un paese povero vuele ricevere aiuti dal FMI deve sborsare parecchi soldi, arrivando al caso limite della Liberia che versa annualmente il 21% del proprio PIL.
La bandiera della Liberia
Per concessione di Attilio Folliero
Fonte: http://attiliofolliero.blogspot.com/2011/06/il-vergognoso-finanziamento-del-fmi.html
martedì 21 giugno 2011
La NATO si assume la responsabilità per l'uccisione di civili a Tripoli
tradutzioni de SA DEFENZA
Il comando della Nato in Libia ha ammesso la responsabilità della morte di almeno cinque civili durante un attacco aereo su Tripoli, condotte durante le prime ore di Sabato.
E 'detto in una nota il generale Charles Bouchard, capo delle operazioni della Nato in Libia, l'Alleanza ", deplora la perdita di vite civili innocenti e si prende la responsabilità nel fare gli attacchi." Nella dichiarazione ha detto che il bersaglio di bombardamenti aerei era un enclave militare (sic..), ma è girato erroneamente il puntamento del target previsto e l'impatto del proiettile su un quartiere residenziale.
Secondo dati recenti, il recente attacco della NATO ha preso la vita di cinque membri della famiglia, tra cui due bambini e una donna. Bouchard ha detto che l'incidente potrebbe essere stato causato da "un fallimento di un sistema d'arma", ma sono ancora stabilire i dettagli dell'incidente.
Secondo i dati del governo libico, gli attacchi della coalizione occidentale ha finora causato la morte di quasi 900 persone. Dall'inizio della missione NATO in marzo, le autorità libiche periodicamente fanno il report sui morti civili nei bombardamenti dell'Alleanza.
Nel frattempo, nella città di Misurata (a est del paese) la lotta continua tra l'esercito del sovrano libico Muammar Gheddafi e le forze ribelli. Gli scontri di Domenica ha causato la morte di nove persone, mentre 51 sono stati feriti, secondo fonti dell'opposizione libica.
lunedì 20 giugno 2011
USA, pesticidi abbassano il quoziente d’intelligenza dei bambini.
ilfattoquotidianoLe donne incinte che si sono esposte ai pesticidi usati in agricoltura metteranno al mondo figli meno intelligenti della media. La notizia è contenuta in tre studi americani, condotti presso l’Università di Berkeley, il Mt. Sinai Medical Center e la Columbia University.
Secondo tre ricerche condotte in America, l'esposizione delle donne in gravidanza ai composti chimici usati in agricoltura può avere conseguenze gravi sui livelli di apprendimento dei nascituri
Nonostante le popolazioni monitorate risiedano dalla California allo Stato di New York, i risultati ottenuti sono molto simili: l’esposizione durante la gravidanza ai pesticidi a base di organofosfati (composti chimici molto utilizzati in agricoltura) può portare i propri figli ad avere un quoziente intellettivo molto ridotto già all’età di 7 anni. Più precisamente, un’esposizione prenatale dieci volte superiore alla norma corrisponde ad un calo di 5,5 punti nei test sul QI.
I bambini del campione con i più alti livelli di esposizione agli antiparassitari in fase prenatale hanno ottenuto risultati di anche sette punti inferiori rispetto ai loro coetanei. Per Brenda Eskenazi, professore di epidemiologia e di salute materna e infantile, ciò significa che in futuro più bambini dovranno “essere spostati nella parte bassa dello spettro di apprendimento, e più bambini necessiteranno di servizi speciali a scuola”.
Le analisi sono partite durante la gravidanza delle partecipanti che sono state invitate a visite regolari dove, oltre ai questionari, venivano prelevati campioni di urina e misurate le condizioni dei feti.
Le ricerche della Berkley, iniziate nel 1999 nella comunità californiana di Salinas, un centro agricolo della Monterey County, hanno basato le loro analisi sulla misurazione dei metaboliti (i prodotti del processo del metabolismo) presenti nelle urine materne. Gli studi del Sinai Medical Center e della Columbia University, invece, hanno esaminato le popolazioni urbane di New York City. Come nel caso dei ricercatori di Berkeley, gli scienziati di Mount Sinai hanno campionato i metaboliti, mentre i ricercatori della Columbia hanno esaminato i livelli di clorpirifos (un particolare antiparassitario) nel sangue del cordone ombelicale.
Le rilevazioni della Berkeley University, eseguite su 329 bimbi californiani che hanno sostenuto test sulla comprensione verbale, il ragionamento percettivo, la memoria di lavoro e la velocità di elaborazione, hanno portato solo ora ai primi importanti risultati perché, come ricorda Maryse Bouchard, una degli autori dello studio, “i bambini sono ora in una fase in cui stanno frequentando la scuola, quindi è più facile ottenere valutazioni valide delle funzioni cognitive”.
Ciò che impressiona le ricercatrici Bouchard ed Eskenazi sono anche le forti coincidenze con i risultati ottenuti dagli altri due studi: “È molto raro vedere questa coerenza fra diverse popolazioni studiate”. Un fatto che, secondo gli scienziati, può portare l’esito delle ricerche ad essere “applicabile alla popolazione generale”, e dimostra come “la connessione tra l’esposizione a pesticidi e il QI non sia limitata alle persone che vivono in una comunità agricola”.
I ricercatori hanno raccomandato di ridurre l’uso di pesticidi ed il consumo di prodotti alimentari che abbiano subito troppi trattamenti chimici, osservando che la maggior parte dei parassiti che si trovano nelle nostre case, orti e giardini possono essere controllati anche senza queste sostanze. “Le persone, soprattutto le donne incinte, hanno bisogno di una dieta ricca di frutta e verdura”, afferma la professoressa Eskenazi, ma per i ricercatori è necessario che i consumatori lavino sempre accuratamente frutta e verdura. Un altro consiglio è quello di considerare, quando possibile, l’acquisto di prodotti biologici.
Ma il problema va ben oltre la dieta delle mamme americane ed il quoziente intellettivo dei loro bambini. Anche in Europa l’eccessivo uso di protesi chimiche in agricoltura sta creando non pochi problemi. I cancri infantili, ad esempio, sono aumentati nel vecchio continente dell’1,1% ogni anno negli ultimi trent’anni, e sono 100mila i bambini che muoiono annualmente di cancro. Di questi, il 70% dei casi sono dovuti a fattori ambientali. È quanto riportato nel film francese “I nostri figli ci accuseranno”, una potente denuncia nei confronti dell’inquinamento agro-chimico e dell’abuso di pesticidi e fertilizzanti in agricoltura. Che, sempre per gli autori del documentario, hanno portato i cancri maschili in Francia ad aumentare del 93% nell’arco di soli 25 anni.
sabato 18 giugno 2011
La rivolta degli Aganaktismeni, Indignati: Immense proteste in Grecia
Giorgos Mitralias Γιώργος Μητραλιάς Tradotto da Giuseppe Oliva italia.attac.org |
Due settimane dopo avere iniziato, il movimento greco degli ‘indignati’ riempie le piazze principali di tutte le città con tantissime persone che gridano la loro rabbia e fanno tremare il governo di Papandreu ed i suoi sostenitori locali ed internazionali.
Durante questi primi dodici giorni non è stata detta praticamente né una parola, né mostrata un’immagine di quelle moltitudini senza precedenti che esprimevano la loro rabbia contro il FMI, la Commissione Europea, la ‘Troica’ [FMI, Commissione Europea e Banca Centrale Europea (BCE)] e contro Frau Merkel ed i dirigenti neoliberali internazionali. Niente. Con l’eccezione occasionale di poche righe su ‘centinaia di manifestanti’ per strade di Atene, seguendo un appello dei sindacati greci.
L’immagine risultante è per questo motivo spesso contraddittoria, poiché mescola la cosa migliore e la cosa peggiore tra idee ed azioni. Come per esempio quando la stessa persona mostra un nazionalismo greco che sfocia in razzismo mentre agita una bandiera tunisina, o spagnola, egiziana, portoghese, irlandesi, argentina, per mostrare solidarietà internazionalista con quei paesi.
giovedì 16 giugno 2011
Dolce veleno
The New York Times Magazine,
È difficile evitare la
conclusione che lo
zucchero provoca il
tumore, anche se
questa affermazione
può sembrare drastica
e senza precedenti
Nella figura qui sopra potete osservare le quattro strutture ad anello possibili per il fruttosio. Due strutture con un ciclo a sei atomi, dette piranosiche, e due strutture con cinque atomi, dette furanosiche.
che nel luglio del 2010 è stata postata su YouTube. Da allora il filmato è stato visto più di 800mila volte e ha avuto una media di 50mila nuovi spettatori al mese. Sono numeri piuttosto
sorprendenti per una dissertazione di un’ora e mezza sulla biochimica del fruttosio e la fisiologia umana.
Lustig è uno specialista di endocrinologia pediatrica e il massimo esperto di obesità infantile alla School of medicine dell’università della California di San Francisco, una delle migliori facoltà di medicina degli Stati Uniti.
Ma il successo della conferenza ha poco a che vedere con le credenziali di Lustig e si deve piuttosto alla sua convincente tesi sullo zucchero, che lui definisce una “tossina” o un “veleno”. Con il termine “zucchero” Lustig non intende solo la sostanza bianca e granulosa che mettiamo nel caffè – tecnicamente conosciuta come saccarosio – ma anche lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio, quello che Lustig definisce “l’additivo più demonizzato che si ricordi”.
Se Lustig ha ragione, l’eccessivo consumo di zucchero è la causa principale del vertiginoso aumento dei casi di obesità e diabete negli Stati Uniti negli ultimi trent’anni. Ma la sua tesi ha altre conseguenze. Implicherebbe che il consumo di zucchero è anche la probabile causa di molte patologie generalmente attribuite allo stile di vita occidentale, come le cardiopatie, l’ipertensione e vari tipi di tumori.
Il fatto che tante persone abbiano visto il video della conferenza significa che forse le parole di Lustig cominciano a essere ascoltate. I ricercatori e i funzionari del servizio sanitario che ho intervistato per questo articolo, spesso mi dicevano: “Sicuramente avrà già parlato con Robert Lustig”. E non perché Lustig abbia fatto ricerche fondamentali sullo zucchero, ma perché, a differenza di tanti studiosi, è sempre pronto a ribadire pubblicamente che lo zucchero è una sostanza tossica di cui si abusa. Secondo lui va considerato come l’alcol e le sigarette: un vero e proprio killer.
Una cosa è affermare, come quasi tutti i nutrizionisti, che una dieta sana richiede un maggior consumo di frutta e verdura, e forse meno grassi, carne rossa e sale, o che bisogna mangiare meno. Ben diverso è sostenere che un elemento particolarmente piacevole della nostra dieta non solo è poco salutare, ma potrebbe addirittura essere tossico. Eppure Lustig ha raccolto e sintetizzato una montagna di prove che giudica
Si sa che troppo zucchero fa male. Ma secondo alcuni ricercatori è più nocivo di quello che si pensa: potrebbe essere responsabile dell’aumento dei casi di diabete e di obesità. E all’origine di certi tumori abbastanza valide per condannare definitivamente lo zucchero.
Ho deciso di esaminarle perché la tesi di Lustig mi è sembrata convincente. Ho passato gran parte degli ultimi dieci anni a fare inchieste giornalistiche sull’alimentazione e le malattie croniche e sono arrivato a conclusioni analoghe a quelle di Lustig.
Cominciamo con il chiarire alcune questioni, a partire dal fatto che Lustig usa il termine “zucchero” per indicare sia il saccarosio – lo zucchero di barbabietola bianco e quello di canna scuro – sia lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio. È un punto essenziale, soprattutto perché lo sciroppo di mais è ormai diventato “la causa principale della generale diffidenza nei
confronti degli alimenti lavorati”, dice Marion Nestle, nutrizionista della New York university e autrice di Food politics.
Eppure gli effetti biologici delle due sostanze sono di fatto identici. “Non c’è nessuna differenza tra lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio e lo zucchero”, ha detto Lustig in una conferenza del 2010 a cui ho partecipato. “Sono entrambi nocivi – ugualmente nocivi eugualmente velenosi”.
Le calorie vuote
Lo zucchero raffinato, cioè il saccarosio, è formato da una molecola di glucosio legata a una di fruttosio. È il fruttosio, che è quasi due volte più dolce del glucosio, a distinguere lo zucchero da altri alimenti ricchi di carboidrati come il pane o le patate, che durante la digestione si scompongono in solo glucosio.
Nella forma consumata più comunemente, lo sciroppo di mais è per il 55 per cento fruttosio e per il rimanente 45 per cento quasi tutto glucosio. È stato lanciato per la prima volta sul mercato alla fine degli anni settanta e quando viene usato nelle bibite non si distingue dallo zucchero raffinato. Dato che entrambi questi zuccheri nell’intestino si trasformano in glucosio e fruttosio, il corpo umano reagisce a entrambi allo stesso modo e gli effetti fisiologici sono identici. In uno studio del 2010, Luc Tappy, un ricercatore dell’università di Losanna considerato la massima autorità mondiale negli studi sul fruttosio, ha scritto che non esiste “neanche un indizio” del fatto che lo sciroppo sia più nocivo di altre fonti di zucchero.
La questione, quindi, non è se lo sciroppo di mais è meglio o peggio dello zucchero, ma cosa fanno al nostro organismo e come lo fanno. L’opinione più difusa è che gli zuccheri al massimo provocano la carie e forniscono “calorie vuote” (cioè senza sostanze nutritive come proteine o vitamine) che tendiamo ad assumere in eccesso perché hanno un buon sapore.
Vera o falsa che sia, la tesi delle “calorie vuote” è sicuramente molto comoda perché permette di dare la colpa dell’obesità e, per estensione, del diabete (due condizioni così strettamente legate che alcuni esperti hanno coniato il termine “diabesità”), all’eccessivo consumo di alimenti in generale e allo scarso esercizio fisico, dal momento che il punto è la quantità di calorie ingerite e una caloria è sempre una caloria.
La tesi di Lustig, però, non riguarda il consumo di calorie vuote, ed era già stata avanzata dai biochimici, anche se con meno clamore. Il problema è che lo zucchero ha caratteristiche specifiche – soprattutto per il modo in cui il corpo umano metabolizza la componente di fruttosio – in grado di renderlo particolarmente nocivo, per lo meno se consumato in certe quantità.
Dritto al fegato
La definizione usata da Lustig quando spiega questo concetto è “isocalorico ma non isometabolico”. Significa che possiamo assumere 100 calorie di glucosio (da una patata, un panino o altri amidi) oppure 100 calorie di zucchero (metà glucosio e metà fruttosio), e queste calorie saranno metabolizzate in modo diverso e avranno un effetto diverso sul nostro corpo. Le calorie sono le stesse, ma le conseguenze metaboliche sono molto diverse.
Il fruttosio presente nello zucchero e nello sciroppo di mais è metabolizzato principalmente dal fegato, mentre il glucosio presente nello zucchero e negli amidi è metabolizzato da ogni cellula del corpo. Consumare zucchero (fruttosio e glucosio) significa più lavoro per il fegato che se avessimo assunto la stessa quantità di calorie di amido (glucosio). E se si consuma quello zucchero in forma liquida – una bibita o del succo di frutta – fruttosio e glucosio colpiranno il fegato più rapidamente di quando mangiamo una mela (o varie mele, per ottenere quella che i ricercatori definirebbero la dose equivalente di zucchero). La rapidità con cui il fegato deve svolgere la sua funzione influenza anche il modo in cui metabolizza il fruttosio e il glucosio.
Negli animali, o almeno nei ratti e nei topi di laboratorio, quando il fruttosio colpisce il fegato in quantità sufficiente e con sufficiente rapidità, il fegato ne trasforma buona parte in grasso. A quanto sembra questo induce una condizione nota come insulino-resistenza, che oggi è considerata il problema fondamentale dell’obesità e il diffetto alla base delle cardiopatie e del diabete di tipo 2, quello che si riscontra spesso nelle persone obese o sovrappeso. Potrebbe anche essere il punto di partenza per spiegare diverse forme di tumore.
Se quello che succede ai roditori di laboratorio succede anche agli esseri umani, e se mangiamo tanto zucchero da farlo succedere, allora siamo nei guai.
L’ultima volta che un’agenzia del governo statunitense ha esaminato a fondo la relazione tra zucchero e salute è stato nel 2005, in un rapporto dell’Institute of medicine, un istituto che fa parte delle National academies. Gli autori ammettevano che lo zucchero può aumentare il rischio di patologie cardiache e diabete, facendo perino salire il colesterolo Ldl – il cosiddetto colesterolo “cattivo” – ma non consideravano definitivi questi studi. La questione era piuttosto confusa: non era neppure possibile stabilire in quale quantità lo zucchero fosse efettivamente troppo.
Riprendendo il rapporto del 2005, uno studio dell’Institute of medicine pubblicato nell’autunno del 2010 ribadiva: “Non c’è consenso scientifico sulla quantità di zuccheri che si possono consumare in una dieta equilibrata”. Era la stessa conclusione a cui era arrivata la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense per il controllo dei farmaci e dei prodotti alimentari, l’ultima volta che aveva affrontato il problema dello zucchero, nel 1986. Gli esperti della Fda avevano detto che a parte il contributo calorico, “nessuna prova conclusiva dimostra che vi siano rischi per la popolazione quando gli zuccheri vengono consumati ai livelli attuali”. È un altro modo per dire che le prove non confutavano affatto tesi come quelle avanzate oggi da
Lustig e già allora da altri ricercatori, ma solo che non erano definitive o incontrovertibili.
Quello che dobbiamo tenere presente, sostiene Walter Glinsmann, amministratore della Fda, principale autore del rapporto del 1986 e oggi consulente della Corn reiners , l’associazione dei rainatori di mais, è che lo zucchero e lo sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio possono anche essere velenosi, ma qualunque altra sostanza può esserlo se consumata in modi e in quantità innaturali per gli esseri umani. La questione è sempre la stessa: quale dose rende nociva una sostanza innocua? Quanta ne dobbiamo consumare prima che diventi pericolosa?
Quando Glinsmann e i suoi colleghi della Fda decisero che nessuna prova conclusiva dimostrava la pericolosità dello zucchero, si basarono su un consumo medio pro capite di circa 18 chili all’anno oltre alla quantità assunta naturalmente da frutta e verdura: 18 chili all’anno di “zuccheri aggiunti”, come dicono i nutrizionisti.
Questa dose equivale a 200 calorie di zucchero al giorno, cioè meno di quante ne contengano una lattina e mezza di Coca-Cola o due bicchieri di succo di mele. Se veramente consumassimo questa quantità di zuccheri aggiunti, la maggior parte dei nutrizionisti sarebbe molto soddisfatta, Lustig compreso.
Ma 18 chili l’anno erano 16 chili in meno della quantità calcolata all’epoca dagli analisti del ministero dell’agricoltura – circa 34 chili all’anno a testa – e di regola le stime di questo ministero sono considerate le più affidabili. All’inizio degli anni 2000, sempre secondo il ministero dell’agricoltura, il consumo di zuccheri era passato a più di 40 chili all’anno pro capite.
Poiché questo aumento ha coinciso con l’epidemia di obesità e diabete, la tentazione di dare la colpa del problema al saccarosio e allo sciroppo di mais è forte. Nel 1980 circa un americano su sette era obeso e quasi sei milioni erano diabetici, e i tassi di obesità non erano cambiati in modo significativo rispetto al ventennio precedente.
All’inizio degli anni 2000, quando il consumo di zucchero ha raggiunto il picco massimo, un terzo degli americani era obeso e 14 milioni erano diabetici.
Grasso e resistente
Medici e autorità sanitarie hanno ormai accettato l’idea che una condizione nota come sindrome metabolica sia uno dei maggiori se non il maggiore fattore di rischio per la cardiopatia e il diabete. Secondo le stime dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, oggi ne soffrono circa 75 milioni di americani.
Il primo sintomo che i medici cercano per diagnosticare la sindrome metabolica è l’aumento della circonferenza vita. Questo significa che se una persona è sovrappeso ha una buona probabilità di avere la sindrome metabolica, e di conseguenza ha più possibilità di avere un infarto o di diventare diabetica (o entrambe le cose). Ma anche i magri possono avere la sindrome metabolica, e in questo caso hanno un rischio maggiore di cardiopatia e diabete rispetto ai magri che non hanno questa sindrome.
Quando una persona ha la sindrome metabolica le cellule del suo corpo ignorano attivamente l’azione dell’insulina, un ormone che attivando diversi processi metabolici e cellulari riduce la concentrazione di glucosio nel sangue. Questa condizione è tecnicamente nota come insulino-resistenza.
Da cosa è provocata l’insulino-resistenza? Ci sono diverse ipotesi, ma i ricercatori ritengono che una probabile causa sia l’accumulo di grasso nel fegato. In base agli studi che hanno tentato di rispondere a questa domanda, dice Varman Samuel, che studia l’insulino-resistenza alla Yale school of medicine, la correlazione tra presenza di grasso nel fegato e insulino-resistenza nei
pazienti, magri o obesi che siano, è “decisamente forte”.
Questo fa sorgere un’altra domanda: cosa provoca l’accumulo di grasso nel fegato? Una delle ipotesi più comuni è che ingrassare renda più grasso anche il fegato, ma questo non spiega il fegato grasso nelle persone magre. In parte il fenomeno potrebbe essere attribuito a una predisposizione genetica ma, tornando a Lustig, c’è anche la possibilità molto concreta che sia
provocato dallo zucchero.
Nei primi anni 2000, i ricercatori che studiavano il metabolismo del fruttosio avevano già confermato alcuni risultati e avevano valide spiegazioni biochimiche per quello che stava succedendo. Se si alimentano gli animali con abbastanza fruttosio puro o abbastanza zucchero, il loro fegato converte il fruttosio in grasso – l’acido grasso saturo palmitato per essere precisi
– che si ipotizza provochi cardiopatie perché fa aumentare il colesterolo Ldl.
Il grasso si accumula nel fegato e poi arrivano l’insulino-resistenza e la sindrome metabolica.
Secondo Michael Pagliassotti, un biochimico della Colorado state university che alla fine degli anni novanta ha condotto molti studi sugli animali, se gli animali mangiano enormi quantità di fruttosio e di zucchero (il 60 o il 70 per cento delle calorie della loro dieta) questi cambiamenti
possono verificarsi anche in una sola settimana. Ci vogliono mesi, invece, se mangiano quantità di zucchero più simili a quelle che consumano gli esseri umani: il 20 per cento circa delle calorie della loro dieta (negli Stati Uniti). In entrambi i casi, basta abolire lo zucchero e il fegato grasso scompare rapidamente portando via anche l’insulino-resistenza.
Effetti simili sono stati riscontrati anche nelle persone, però di regola i ricercatori – come Luc Tuppy in Svizzera o Peter Havel e Kimber Stanhope dell’università della California a Davis – hanno basato i loro studi solo sul fruttosio.
Anche se le ricerche sullo zucchero aumentano, si può ancora sostenere che non ci sono prove conclusive. Gli studi sui roditori non sono necessariamente applicabili agli esseri umani. E il genere di studi condotti da Tappy, Havel e Stanhope – somministrare bibite dolcificate con il fruttosio e paragonare gli efetti a quelli che si ottengono consumando bibite dolcificate con il
glucosio – non sono applicabili all’esperienza umana, perché nessuno di noi consuma mai fruttosio allo stato puro. Lo prendiamo sempre insieme al glucosio, nella composizione in parti quasi uguali dello zucchero o dello sciroppo di mais. E poi di regola la quantità di fruttosio o saccarosio somministrata in quegli studi ai roditori o ai volontari umani è enorme.
Proprio per questo le valutazioni delle ricerche efettuate finora sull’argomento concludono invariabilmente che occorrono altri studi per stabilire a quali dosi zucchero e sciroppo di mais cominciano a diventare, come dice Lustig, “tossici”.
Il combustibile insulina
Per il momento sappiamo che lo zucchero e lo sciroppo di mais, a causa delle particolarità della metabolizzazione del fruttosio e nelle quantità che consumiamo oggi, potrebbero determinare un accumulo di grasso nel fegato seguito da insulino-resistenza e sindrome metabolica, scatenando un processo che causa patologie cardiache, diabete e obesità. Forse sono davvero velenosi, ma ci vogliono anni perché arrivino a causare danni. Non succede dalla sera alla mattina.
Fino a quando non saranno condotti studi a lungo termine, non potremo sapere niente di certo.
Quali sono le possibilità che lo zucchero sia ancora più dannoso di quello che pensa Lustig?
L’obesità, il diabete e la sindrome metabolica sono tutte condizioni che fanno aumentare l’incidenza dei tumori. Per questo accennavo al fatto che l’insulino-resistenza potrebbe essere alla base di molti tumori, così come è alla base del diabete di tipo 2 e delle cardiopatie.
Il collegamento tra obesità, diabete e tumore è stato documentato per la prima volta nel 2004 in alcuni studi sulla popolazione condotti da ricercatori dell’Agenzia internazionale per la ricerca
sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità. Non è una tesi in discussione: chi è obeso e affetto da sindrome metabolica ha maggiori probabilità di ammalarsi di cancro. La maggior parte dei ricercatori è d’accordo sul fatto che il rapporto tra dieta o stile di vita occidentale e tumore si manifesta attraverso questa associazione con l’obesità, il diabete e la sindrome metabolica, vale a dire l’insulino-resistenza.
Come funziona? Gli studiosi di tumori oggi ritengono che il problema dell’insulino-resistenza è che fa secernere più insulina, e l’insulina (così come un ormone correlato noto come fattore di crescita insulino- simile) di fatto facilita la crescita dei tumori.
Come mi ha spiegato Craig Thompson, che ha fatto gran parte di queste ricerche e oggi è presidente del Memorial Sloan-Kettering cancer center a New York, le cellule di molti tumori dipendono dall’insulina per trovare il combustibile (lo zucchero nel sangue) e i materiali di cui hanno bisogno per crescere e moltiplicarsi. L’insulina e il fattore di crescita insulino-simile (così come i fattori di crescita correlati) forniscono anche il segnale per avviare questo processo.
E per le cellule tumorali, più insulina c’è meglio è.
Quello che questi ricercatori chiamano segnale dell’insulina (o del fattore di crescita insulino simile) sembra essere un passaggio necessario per molti tumori umani, soprattutto quelli al seno e al colon. Lewis Cantley, direttore del centro tumori al Beth Israel deaconess medical center della Harvard medical school, sostiene che fino all’80 per cento dei tumori dipende da mutazioni o da fattori ambientali che operano aumentando o mimando l’efetto dell’insulina sulle cellule del tumore incipiente.
La maggioranza dei ricercatori che studiano il rapporto tra insulina e cancro sembra interessata soprattutto a trovare un farmaco in grado di sopprimere il segnale dell’insulina nelle cellule del tumore incipiente e quindi di inibire o scongiurare completamente la loro crescita. Molti esperti che scrivono di questo rapporto dal punto di vista della salute pubblica partono dal presupposto che livelli di insulina cronicamente elevati e insulino-resistenza siano causati dall’essere sovrappeso o dall’ingrassare.
Ma alcuni ricercatori, come Cantley e Thompson, sostengono che se l’insulino- resistenza è causata da qualcosa di diverso dall’essere semplicemente più grassi, questo qualcosa con ogni probabilità è la causa alimentare di molti tumori. Se è lo zucchero a provocare l’insulino-resistenza, allora è difficile evitare la conclusione che lo zucchero provoca il tumore – o almeno alcuni tumori – anche se questa affermazione può sembrare drastica e senza precedenti.
“Ho eliminato lo zucchero rainato dalla mia dieta e mangio il meno possibile”, mi ha detto Thompson, “perché in definitiva credo che così potrò diminuire il mio rischio di cancro”. Cantley lo dice chiaramente: “Lo zucchero mi spaventa”.
Lo zucchero ovviamente spaventa anche me. Vorrei mangiarlo con moderazione. Sicuramente vorrei che i miei due figli fossero capaci di mangiarlo con moderazione, senza consumarne quantità eccessive, ma non so cosa signiichi veramente.
Una cosa è dire che lo zucchero ci fa ingrassare: quando cominciamo a prendere peso,
possiamo mangiarne di meno. Ma stiamo parlando anche di cose che non si vedono: fegato grasso, insulino-resistenza e tutto quello che ne consegue. Ufficialmente non dovrei avere paura perché le prove non sono conclusive, però sono preoccupato lo stesso.
L’AUTORE
Gary Taubes è un giornalista statunitense.
Il suo ultimo libro è Why we get fat: and what
to do about it (Alfred A. Knopf 2010). Ha un
blog: garytaubes.com.
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