una pentola a pressione, l'unica via d'uscita è l'indipendenza
«La Sardegna è una pentola a pressione. Ribolle di tensioni sociali». E come il vapore nella pentola, le aspirazioni dei sardi cercano vie d'uscita: secondo Cristiano Sabino, l'indipendenza è la via giusta. Nell'ultima puntata dei forum dell'Unione Sarda e Videolina, il portavoce di A manca pro s'indipendentzia espone la sua teoria: il cammino di liberazione dell'Isola, dice replicando ad altri leader della stessa area politica, non passa dalle alleanze con i partiti italiani.
E neppure dal referendum proposto da Doddore Meloni: «Ci sembra una fuga in avanti», riflette Sabino. «Sarebbe una prospettiva interessante, ma alla fine di un percorso. In Scozia l'Snp ha il 50% dei voti, ma si è rifiutato di votare già nel 2012 per staccarsi da Londra».
Farlo adesso, qui, danneggerebbe le vostre battaglie?«Temo di sì. L'indipendentismo ha fatto passi da gigante, ma reggerebbe una cosa simile? Ci vuole un'altra preparazione».
Ma se il referendum si farà, andrete a votare?«Affrontiamo i problemi quando si pongono. Per ora dico che c'è il rischio di bruciare uno strumento utile, se non hai alle spalle un radicamento culturale delle tue idee».
Eppure sembra che oggi tutti parlino di questi temi.«Vedo due approcci distinti: quello formale considera l'indipendentismo solo come una nuova forma giuridica, un passaggio di consegne tra governi. Per me invece è un processo storico di liberazione di energie. Economiche e sociali».
Esistono davvero, in Sardegna, queste energie?«Sì. La Sardegna è come imprigionata, bloccata dalla dipendenza economica».
Le ricerche dell'ateneo di Cagliari rivelano forti sentimenti identitari. Stupito?«No, i sardi nei momenti di crisi hanno sempre reagito riscoprendo le loro radici. Dal tempo dei giudicati fino al sardismo, dopo la prima guerra mondiale. Il problema è trasformare un sentimento diffuso in progetto politico. Molti pensano che, poiché c'è questo sentimento, i sardi voteranno indipendentista. Ma la storia non dice così».
E cosa dice?«Gli ideali illuministi nascono nel '700, ma la rivoluzione francese arriva solo a fine secolo. Prima si sperava nel dispotismo illuminato. Oggi i sardi si stanno riscoprendo sardi, ma hanno ancora fiducia che i partiti italiani risolvano i loro problemi. Gramsci diceva: il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere. In questo spazio nascono i fenomeni più morbosi e terribili».
A cosa allude?«A fenomeni ibridi. Forme di semi-indipendentismo».
Intende dire che nell'attenzione di tanti partiti ai temi dell'autogoverno c'è una forte dose di opportunismo?«Sì. Non metto in dubbio la buona fede. Ma parlare di sovranità senza indipendenza lo trovo un assurdo logico, giuridico e storico».
La sovranità è il nuovo slogan di indipendentisti come Gavino Sale e Claudia Zuncheddu.«La sovranità si ha quando c'è uno Stato. Lo ha detto anche la Corte costituzionale, bocciando la legge sarda sulla Consulta statutaria: autonomia e sovranità sono concetti opposti, dialettici».
Oggi l'indipendentismo non è maggioritario. Perciò si immagina un avvicinamento graduale, basato su “segmenti di sovranità”.«Va bene la gradualità. Ma quella strategia non la capisco. Se tutti vogliono i nuovi spazi di sovranità, da Cappellacci a Soru, perché non li creano? Perché è impossibile. Mi sembra una strategia impalpabile».
Quindi voi escludete alleanze con i partiti italiani?«Nella maniera più assoluta. La nostra strategia è solo la Convergenza nazionale indipendentista».
La Convergenza non è partita benissimo.«Però è partita. Ed è una novità. Varie sigle hanno lavorato per un anno, lontano da scadenze elettorali, producendo una carta che è il dna, il codice genetico dell'indipendentismo. Valori condivisi e proposte».
È un cartello elettorale?«Si vedrà. Diciamo che siamo disposti a ragionare con chiunque accetti quei valori e quelle proposte. Che non sono solo di A manca. Noi siamo un partito socialista, molto orientato su questioni di classe. Sono sicuro che se mi siedo con Sel a discutere un concetto di nazione non siamo d'accordo».
Proprio Sel ha proposto l'alleanza “sovranista”.«Sì, ma loro accolgono Napolitano col tricolore inneggiando al Risorgimento. Noi gli avremmo chiesto semmai perché non ci restituisce i soldi che ci deve».
E del Psd'Az, ritornato a posizioni nettamente indipendentiste, cosa pensa?«La storia dei sardisti è abbastanza noiosa: parte indipendentista, ricade nell'unionismo, recupera l'indipendentismo, ricade ancora. È ciclica».
Quindi nessun entusiasmo per il loro ordine del giorno, approvato dal Consiglio regionale, sulle ragioni della permanenza della Sardegna nella Repubblica italiana?«È un segno dei tempi. Non parlerei di entusiasmo, ma è un testo interessante. Apre nuovi scenari. Ma non crediamo che dalle stanze dei partiti che l'hanno votato possa venire la libertà. Col Psd'Az può esserci dialogo se interrompe la connivenza con i partiti coloniali. Tutti, però. Non è che se si passa da Berlusconi a Vendola si è meno coloniali».
Allora il suo giudizio sarà negativo su tutte le Giunte regionali, di entrambi i poli.«È così. Anche se è vero che ci sono delle differenze, almeno tra le persone».
Ha votato ai referendum del 6 maggio? Secondo Bustianu Cumpostu, cancellare le Province è stata una vittoria indipendentista.«Non ho votato. Non erano referendum anticasta: Vargiu e i Riformatori sono proprio la casta. Portare a 50 i consiglieri regionali riduce gli spazi di democrazia, dà potere alla piccolissima cerchia di chi si può comprare l'elezione».
E le Province?«Non si poteva abolirle senza un'alternativa. I referendari stanno in Consiglio regionale: perché non hanno fatto le riforme, invece che spendere soldi per i referendum? Noi, quando ci candidammo alla Regione, proponemmo di ridurre gli stipendi dei consiglieri a 2.000 euro. Così sì, che si tagliano i costi della politica».
Nel passato di “A manca” ci sono arresti, accuse di terrorismo. Come li valuta?«È normale che uno Stato reagisca con violenza a un progetto di liberazione di una terra col 70% delle basi militari italiane, poligoni per cui lo Stato incassa canoni dalle altre nazioni. Logico che, si cerchi di demonizzare un movimento poco disponibile al compromesso».
Condividete il no all'uso della violenza per affermare l'indipendentismo?«I popoli hanno diritto a resistere e ribellarsi. Detto questo, abbiamo detto chiaramente che la nostra lotta si svolge alla luce del sole. In A manca non c'è mai stato neppure un dibattito sull'uso della lotta violenta. Vogliamo essere una forza popolare, non una nicchia di carbonari, e usare gli spazi democratici, fin quando esistono. Altri popoli hanno fatto altre scelte, legittime, che poi magari hanno rivisto».
Quando vi si dipinge come semiterroristi, vi dà fastidio?«Ci lascia completamente indifferenti»
E neppure dal referendum proposto da Doddore Meloni: «Ci sembra una fuga in avanti», riflette Sabino. «Sarebbe una prospettiva interessante, ma alla fine di un percorso. In Scozia l'Snp ha il 50% dei voti, ma si è rifiutato di votare già nel 2012 per staccarsi da Londra».
Farlo adesso, qui, danneggerebbe le vostre battaglie?«Temo di sì. L'indipendentismo ha fatto passi da gigante, ma reggerebbe una cosa simile? Ci vuole un'altra preparazione».
Ma se il referendum si farà, andrete a votare?«Affrontiamo i problemi quando si pongono. Per ora dico che c'è il rischio di bruciare uno strumento utile, se non hai alle spalle un radicamento culturale delle tue idee».
Eppure sembra che oggi tutti parlino di questi temi.«Vedo due approcci distinti: quello formale considera l'indipendentismo solo come una nuova forma giuridica, un passaggio di consegne tra governi. Per me invece è un processo storico di liberazione di energie. Economiche e sociali».
Esistono davvero, in Sardegna, queste energie?«Sì. La Sardegna è come imprigionata, bloccata dalla dipendenza economica».
Le ricerche dell'ateneo di Cagliari rivelano forti sentimenti identitari. Stupito?«No, i sardi nei momenti di crisi hanno sempre reagito riscoprendo le loro radici. Dal tempo dei giudicati fino al sardismo, dopo la prima guerra mondiale. Il problema è trasformare un sentimento diffuso in progetto politico. Molti pensano che, poiché c'è questo sentimento, i sardi voteranno indipendentista. Ma la storia non dice così».
E cosa dice?«Gli ideali illuministi nascono nel '700, ma la rivoluzione francese arriva solo a fine secolo. Prima si sperava nel dispotismo illuminato. Oggi i sardi si stanno riscoprendo sardi, ma hanno ancora fiducia che i partiti italiani risolvano i loro problemi. Gramsci diceva: il vecchio sta morendo e il nuovo non può nascere. In questo spazio nascono i fenomeni più morbosi e terribili».
A cosa allude?«A fenomeni ibridi. Forme di semi-indipendentismo».
Intende dire che nell'attenzione di tanti partiti ai temi dell'autogoverno c'è una forte dose di opportunismo?«Sì. Non metto in dubbio la buona fede. Ma parlare di sovranità senza indipendenza lo trovo un assurdo logico, giuridico e storico».
La sovranità è il nuovo slogan di indipendentisti come Gavino Sale e Claudia Zuncheddu.«La sovranità si ha quando c'è uno Stato. Lo ha detto anche la Corte costituzionale, bocciando la legge sarda sulla Consulta statutaria: autonomia e sovranità sono concetti opposti, dialettici».
Oggi l'indipendentismo non è maggioritario. Perciò si immagina un avvicinamento graduale, basato su “segmenti di sovranità”.«Va bene la gradualità. Ma quella strategia non la capisco. Se tutti vogliono i nuovi spazi di sovranità, da Cappellacci a Soru, perché non li creano? Perché è impossibile. Mi sembra una strategia impalpabile».
Quindi voi escludete alleanze con i partiti italiani?«Nella maniera più assoluta. La nostra strategia è solo la Convergenza nazionale indipendentista».
La Convergenza non è partita benissimo.«Però è partita. Ed è una novità. Varie sigle hanno lavorato per un anno, lontano da scadenze elettorali, producendo una carta che è il dna, il codice genetico dell'indipendentismo. Valori condivisi e proposte».
È un cartello elettorale?«Si vedrà. Diciamo che siamo disposti a ragionare con chiunque accetti quei valori e quelle proposte. Che non sono solo di A manca. Noi siamo un partito socialista, molto orientato su questioni di classe. Sono sicuro che se mi siedo con Sel a discutere un concetto di nazione non siamo d'accordo».
Proprio Sel ha proposto l'alleanza “sovranista”.«Sì, ma loro accolgono Napolitano col tricolore inneggiando al Risorgimento. Noi gli avremmo chiesto semmai perché non ci restituisce i soldi che ci deve».
E del Psd'Az, ritornato a posizioni nettamente indipendentiste, cosa pensa?«La storia dei sardisti è abbastanza noiosa: parte indipendentista, ricade nell'unionismo, recupera l'indipendentismo, ricade ancora. È ciclica».
Quindi nessun entusiasmo per il loro ordine del giorno, approvato dal Consiglio regionale, sulle ragioni della permanenza della Sardegna nella Repubblica italiana?«È un segno dei tempi. Non parlerei di entusiasmo, ma è un testo interessante. Apre nuovi scenari. Ma non crediamo che dalle stanze dei partiti che l'hanno votato possa venire la libertà. Col Psd'Az può esserci dialogo se interrompe la connivenza con i partiti coloniali. Tutti, però. Non è che se si passa da Berlusconi a Vendola si è meno coloniali».
Allora il suo giudizio sarà negativo su tutte le Giunte regionali, di entrambi i poli.«È così. Anche se è vero che ci sono delle differenze, almeno tra le persone».
Ha votato ai referendum del 6 maggio? Secondo Bustianu Cumpostu, cancellare le Province è stata una vittoria indipendentista.«Non ho votato. Non erano referendum anticasta: Vargiu e i Riformatori sono proprio la casta. Portare a 50 i consiglieri regionali riduce gli spazi di democrazia, dà potere alla piccolissima cerchia di chi si può comprare l'elezione».
E le Province?«Non si poteva abolirle senza un'alternativa. I referendari stanno in Consiglio regionale: perché non hanno fatto le riforme, invece che spendere soldi per i referendum? Noi, quando ci candidammo alla Regione, proponemmo di ridurre gli stipendi dei consiglieri a 2.000 euro. Così sì, che si tagliano i costi della politica».
Nel passato di “A manca” ci sono arresti, accuse di terrorismo. Come li valuta?«È normale che uno Stato reagisca con violenza a un progetto di liberazione di una terra col 70% delle basi militari italiane, poligoni per cui lo Stato incassa canoni dalle altre nazioni. Logico che, si cerchi di demonizzare un movimento poco disponibile al compromesso».
Condividete il no all'uso della violenza per affermare l'indipendentismo?«I popoli hanno diritto a resistere e ribellarsi. Detto questo, abbiamo detto chiaramente che la nostra lotta si svolge alla luce del sole. In A manca non c'è mai stato neppure un dibattito sull'uso della lotta violenta. Vogliamo essere una forza popolare, non una nicchia di carbonari, e usare gli spazi democratici, fin quando esistono. Altri popoli hanno fatto altre scelte, legittime, che poi magari hanno rivisto».
Quando vi si dipinge come semiterroristi, vi dà fastidio?«Ci lascia completamente indifferenti»
«L'Italia ci regala soltanto carceri:
sui temi economici decidano i sardi»
sui temi economici decidano i sardi»
Sabino, perché governandosi da sola la Sardegna dovrebbe fare meglio?
«Sfatiamo un tabù: indipendenza non è sinonimo di solitudine. Nessuno Stato vive isolato. Il problema è poter prendere le nostre decisioni economiche».
Chi ce lo vieta?«Siamo condizionati da un piano economico non deciso qui, e neppure in Italia».
Non amate l'Ue, vero?«Mai stati europeisti, mai creduto nell'euro. E poi è sconsigliabile entrare in una casa che sta crollando. Come si può essere indipendentisti ed europeisti? Da piccolo ho visto mio nonno espiantare la vigna perché lo diceva la Cee».
C'erano agevolazioni.«Sì, per non produrre. Bell'aiuto all'economia. Solo per tutelare i vini francesi. Guardiamo invece al Mediterraneo, alla Corsica. Nell'Europa non avremmo ruolo, quasi tutte le decisioni di Bruxelles ci danneggiano».
Invece se decide il ceto politico sardo va tutto bene?«Beh, quello che abbiamo non è un ceto sardo. È espressione diretta di quello italiano. Pd e Pdl, quando hanno un problema, chiamano il podestà, il commissario».
Se la Sardegna dovesse basarsi solo sulla sua fiscalità, secondo alcuni calcoli mancherebbero molti miliardi di euro per mantenere gli attuali servizi pubblici.«Quanto a servizi, lo Stato italiano se ne sta già andando dalla Sardegna. Dovremo fare da soli. A partire dall'agenzia delle entrate».
Come dice il Fiocco verde?«Sì, ma ridisegnando anche le aliquote. Oggi un artigiano sardo paga tanto, perché gli studi di settore sono disegnati per Milano».
Torniamo a quei calcoli.«Io non li ho fatti, ma Stati molto più piccoli della Sardegna gestiscono bene scuole, sanità e tutto il resto. E poi ci sono i soldi che lo Stato non versa alla Regione».
Però lo Stato realizza anche infrastrutture.«Sì, le carceri. Fatta 100 la media degli investimenti per infrastrutture in Italia, la Sardegna si ferma alla metà in tutti i settori: arriva al 220% solo per i penitenziari. Progetti blindati, noi non possiamo metterci becco. Anche la manodopera è esterna».
Voi quale modello di sviluppo auspicate?«La sovranità alimentare è uno dei punti cruciali. Siamo contro la grande distribuzione, e sosteniamo la lotta dei pastori per i mattatoi zonali: consentendo di vendere la carne in filiera corta, i mercati rionali abbasserebbero i prezzi e i consumatori avrebbero carne di qualità a costi ragionevoli. Un'altra proposta concreta è il polo di sovranità economica a Nuoro».
Di che si tratta?«Di una battaglia di A manca: anziché una nuova caserma costruita su terreni civici con 12 milioni di euro dirottati dalle scuole, chiediamo di utilizzare le risorse per strutture che ospitino prodotti tipici e biologici, macchine agricole, punti di ristoro, seminari di formazione sulla sovranità alimentare. Questo potrebbe dare posti di lavoro a Nuoro, non un po' di soldati che vanno al bar per il cappuccino».
Altri cardini della futura economia sarda?«L'artigianato. Quello sardo è tra i più ricchi al mondo perché lavora tutti i materiali, dall'oro ai cestini. Soru ha abolito l'Isola, che in effetti era un carrozzone: ma dopo sono venuti progetti manageriali costosi che non hanno portato niente agli artigiani veri. È un settore in totale abbandono».
Qual è la vostra posizione sull'industria?«Senza industria un popolo muore. Il problema è quale. Anche qui: dobbiamo decidere noi. I Paesi ricchi sono quelli che trasformano le materie prime. Noi lavoriamo solo quelle inquinanti. Abbiamo sabbie silicee di ottima qualità: la classe politica non ha mai pensato di lavorarle qui, di utilizzare i contributi per quello anziché per mantenere poli in crisi».
È contro la chimica verde?«Abbiamo elementi per dire che sarà un inceneritore. Speriamo di sbagliarci. Ma non si può convertire tutta la produzione agricola a cardi geneticamente modificati».
E sul gasdotto Galsi?«Totalmente contrari. È una nuova servitù energetica. E una truffa: a chi giova? Non è previsto un piano di metanizzazione dell'Isola. Si dice che la rete costerà 4 miliardi, ma nessuno li ha finanziati».
Col tubo arriva il metano, colmando una lacuna storica. La rete interna si può fare anche dopo.«Vent'anni fa Angelo Caria, un indipendentista, invocava il metano. Ma allora aveva senso. Ora in Algeria sono previste scorte per pochi anni: il Galsi doveva essere già finito e ancora non è partito, nel frattempo finiscono le risorse. Avremo tutta la rete quando non ci sarà più il metano».
Il tubo potrebbe funzionare anche nel senso inverso.«Non è scritto da nessuna parte. In ogni caso, non abbiamo deciso noi. È un affare per il gruppo Hera, grande azienda dell'energia in odore di Pd, fatta dalle municipalizzate emiliane. A loro conviene, hanno il gas e non la servitù di passaggio. È un favore ai comuni emiliani e al Pd».
Alternative energetiche?«Intanto smetterla di ragionare su monopoli che costruiscono dipendenza. Hanno ragione i pastori, chiedono di dotare ogni azienda di piattaforme energetiche autonome, fotovoltaiche o di mini-eolico. Non costerebbe più di 150 milioni di euro, quelli previsti per la legge sul golf».
L'indipendentismo spesso è ambientalista, e agli ambientalisti non piace l'eolico.«Io non mi definisco ambientalista. Non sono contrario all'eolico ma a questo eolico, che conviene solo alle multinazionali. E vale anche per il solare. Fanno campi eolici e fotovoltaici non per produrre energia ma per i certificati verdi, noi sardi non siamo padroni di quello che produciamo. Eppure abbiamo competenze, ingegneri. Spesso costretti a emigrare».
A proposito: che idee avete per l'istruzione?«In due anni la scuola ha perso 5.738 posti di lavoro, l'8% in meno, il tasso più alto d'Italia. Sproporzionato, perché il calo degli studenti è del 2,26%. E poi tagliare la scuola in un quartiere di Milano o in un paesino isolato non è lo stesso. Non è solo un fatto culturale: incide sul lavoro. In Sardegna il 32,6% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni non fa niente: non lavora e non studia. In Europa la media è del 15%».
Le vostre proposte?«Investire, difendere le scuole, non valutarle come aziende. E poi rendere la scuola un luogo di formazione al lavoro. Soprattutto, sardizzare la scuola e l'università, che falliscono perché sembrano marziani caduti sulla terra».
Cosa significa sardizzare?«Copiare chi ha scuole di eccellenza. I programmi ministeriali non sono più intoccabili, in Trentino il 25% è legato a lingua e cultura locali. Poi c'è il tema del patrimonio archeologico: abbiamo 8-10 mila nuraghi, per non parlare del resto, ma danno lavoro a non più di 30 cooperative di giovani».
E sulla limba?«Quasi il 98% dei sardi parla o capisce il sardo. Utilizziamo questo dato per creare lavoro. Noi proponiamo un principio di “discriminazione positiva”: a parità di curriculum, si dia lavoro a chi ha raggiunto un livello B2 di sardo, che è un livello alla portata anche di chi non è sardofono».
Chi ce lo vieta?«Siamo condizionati da un piano economico non deciso qui, e neppure in Italia».
Non amate l'Ue, vero?«Mai stati europeisti, mai creduto nell'euro. E poi è sconsigliabile entrare in una casa che sta crollando. Come si può essere indipendentisti ed europeisti? Da piccolo ho visto mio nonno espiantare la vigna perché lo diceva la Cee».
C'erano agevolazioni.«Sì, per non produrre. Bell'aiuto all'economia. Solo per tutelare i vini francesi. Guardiamo invece al Mediterraneo, alla Corsica. Nell'Europa non avremmo ruolo, quasi tutte le decisioni di Bruxelles ci danneggiano».
Invece se decide il ceto politico sardo va tutto bene?«Beh, quello che abbiamo non è un ceto sardo. È espressione diretta di quello italiano. Pd e Pdl, quando hanno un problema, chiamano il podestà, il commissario».
Se la Sardegna dovesse basarsi solo sulla sua fiscalità, secondo alcuni calcoli mancherebbero molti miliardi di euro per mantenere gli attuali servizi pubblici.«Quanto a servizi, lo Stato italiano se ne sta già andando dalla Sardegna. Dovremo fare da soli. A partire dall'agenzia delle entrate».
Come dice il Fiocco verde?«Sì, ma ridisegnando anche le aliquote. Oggi un artigiano sardo paga tanto, perché gli studi di settore sono disegnati per Milano».
Torniamo a quei calcoli.«Io non li ho fatti, ma Stati molto più piccoli della Sardegna gestiscono bene scuole, sanità e tutto il resto. E poi ci sono i soldi che lo Stato non versa alla Regione».
Però lo Stato realizza anche infrastrutture.«Sì, le carceri. Fatta 100 la media degli investimenti per infrastrutture in Italia, la Sardegna si ferma alla metà in tutti i settori: arriva al 220% solo per i penitenziari. Progetti blindati, noi non possiamo metterci becco. Anche la manodopera è esterna».
Voi quale modello di sviluppo auspicate?«La sovranità alimentare è uno dei punti cruciali. Siamo contro la grande distribuzione, e sosteniamo la lotta dei pastori per i mattatoi zonali: consentendo di vendere la carne in filiera corta, i mercati rionali abbasserebbero i prezzi e i consumatori avrebbero carne di qualità a costi ragionevoli. Un'altra proposta concreta è il polo di sovranità economica a Nuoro».
Di che si tratta?«Di una battaglia di A manca: anziché una nuova caserma costruita su terreni civici con 12 milioni di euro dirottati dalle scuole, chiediamo di utilizzare le risorse per strutture che ospitino prodotti tipici e biologici, macchine agricole, punti di ristoro, seminari di formazione sulla sovranità alimentare. Questo potrebbe dare posti di lavoro a Nuoro, non un po' di soldati che vanno al bar per il cappuccino».
Altri cardini della futura economia sarda?«L'artigianato. Quello sardo è tra i più ricchi al mondo perché lavora tutti i materiali, dall'oro ai cestini. Soru ha abolito l'Isola, che in effetti era un carrozzone: ma dopo sono venuti progetti manageriali costosi che non hanno portato niente agli artigiani veri. È un settore in totale abbandono».
Qual è la vostra posizione sull'industria?«Senza industria un popolo muore. Il problema è quale. Anche qui: dobbiamo decidere noi. I Paesi ricchi sono quelli che trasformano le materie prime. Noi lavoriamo solo quelle inquinanti. Abbiamo sabbie silicee di ottima qualità: la classe politica non ha mai pensato di lavorarle qui, di utilizzare i contributi per quello anziché per mantenere poli in crisi».
È contro la chimica verde?«Abbiamo elementi per dire che sarà un inceneritore. Speriamo di sbagliarci. Ma non si può convertire tutta la produzione agricola a cardi geneticamente modificati».
E sul gasdotto Galsi?«Totalmente contrari. È una nuova servitù energetica. E una truffa: a chi giova? Non è previsto un piano di metanizzazione dell'Isola. Si dice che la rete costerà 4 miliardi, ma nessuno li ha finanziati».
Col tubo arriva il metano, colmando una lacuna storica. La rete interna si può fare anche dopo.«Vent'anni fa Angelo Caria, un indipendentista, invocava il metano. Ma allora aveva senso. Ora in Algeria sono previste scorte per pochi anni: il Galsi doveva essere già finito e ancora non è partito, nel frattempo finiscono le risorse. Avremo tutta la rete quando non ci sarà più il metano».
Il tubo potrebbe funzionare anche nel senso inverso.«Non è scritto da nessuna parte. In ogni caso, non abbiamo deciso noi. È un affare per il gruppo Hera, grande azienda dell'energia in odore di Pd, fatta dalle municipalizzate emiliane. A loro conviene, hanno il gas e non la servitù di passaggio. È un favore ai comuni emiliani e al Pd».
Alternative energetiche?«Intanto smetterla di ragionare su monopoli che costruiscono dipendenza. Hanno ragione i pastori, chiedono di dotare ogni azienda di piattaforme energetiche autonome, fotovoltaiche o di mini-eolico. Non costerebbe più di 150 milioni di euro, quelli previsti per la legge sul golf».
L'indipendentismo spesso è ambientalista, e agli ambientalisti non piace l'eolico.«Io non mi definisco ambientalista. Non sono contrario all'eolico ma a questo eolico, che conviene solo alle multinazionali. E vale anche per il solare. Fanno campi eolici e fotovoltaici non per produrre energia ma per i certificati verdi, noi sardi non siamo padroni di quello che produciamo. Eppure abbiamo competenze, ingegneri. Spesso costretti a emigrare».
A proposito: che idee avete per l'istruzione?«In due anni la scuola ha perso 5.738 posti di lavoro, l'8% in meno, il tasso più alto d'Italia. Sproporzionato, perché il calo degli studenti è del 2,26%. E poi tagliare la scuola in un quartiere di Milano o in un paesino isolato non è lo stesso. Non è solo un fatto culturale: incide sul lavoro. In Sardegna il 32,6% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni non fa niente: non lavora e non studia. In Europa la media è del 15%».
Le vostre proposte?«Investire, difendere le scuole, non valutarle come aziende. E poi rendere la scuola un luogo di formazione al lavoro. Soprattutto, sardizzare la scuola e l'università, che falliscono perché sembrano marziani caduti sulla terra».
Cosa significa sardizzare?«Copiare chi ha scuole di eccellenza. I programmi ministeriali non sono più intoccabili, in Trentino il 25% è legato a lingua e cultura locali. Poi c'è il tema del patrimonio archeologico: abbiamo 8-10 mila nuraghi, per non parlare del resto, ma danno lavoro a non più di 30 cooperative di giovani».
E sulla limba?«Quasi il 98% dei sardi parla o capisce il sardo. Utilizziamo questo dato per creare lavoro. Noi proponiamo un principio di “discriminazione positiva”: a parità di curriculum, si dia lavoro a chi ha raggiunto un livello B2 di sardo, che è un livello alla portata anche di chi non è sardofono».