GIAPPONE: È IL TEMPO DI CARICARE LA QUARTA FRECCIA – L’AUMENTO DEI SALARI
Con un articolo sul proprio forum a firma di Luc Everaert e Giovanni Ganelli, l’FMI sostiene esplicitamente che per uscire dalla deflazione ormai ventennale il Giappone deve alzare i salari agganciandoli alla crescita della produttività (l’acqua calda ha sempre nuovi estimatori, verrebbe da dire).
di Luc Everaert e Giovanni Ganelli,
Tutti sono d’accordo: i salari hanno bisogno di crescere se il Giappone deve definitivamente evadere dalla deflazione. Gli stipendi a tempo pieno sono aumentati di un mero 0,3 per cento dal 1995! Ad esempio, nonostante i suoi profitti record, Toyota ha aumentato il sua salario base solo del 1,1 per cento l’anno scorso. In media le 219 aziende del Keidanren [la Confindustria giapponese, NdVdE] lo hanno alzato solo dello 0,44 per cento. Chiaramente, un aumento dei salari di base, colloquialmente conosciuto come “base up”, è atteso da tempo.
Per un bel po’ di tempo, le autorità giapponesi hanno tentato di rilanciare la crescita e di generare più inflazione. Questo è importante perché il debito può diventare molto oneroso quando i prezzi e i redditi non riescono a crescere. E’ esattamente ciò che sta accadendo in Giappone da un paio di decenni in deflazione. Il PIL nominale è sceso per la maggior parte del periodo mentre il debito pubblico è salito fino a quasi due volte e mezzo il PIL del paese, il più alto debito in tutto il mondo.
Il mercato del lavoro duale limita la crescita dei salari
Il nostro lavoro di analisi dimostra che la mancanza di crescita dei salari potrebbe avere alcune cause strutturali che a loro volta hanno contribuito alla deflazione secolare. In primo luogo, la maggior parte dei lavoratori sono impiegati nell’ambito di contratti a tempo indeterminato e difficilmente cambiano azienda. In cambio di un impiego a tempo indeterminato, i dipendenti accettano di moderare le rivendicazioni salariali, il che significa che mercati del lavoro rigidi non si traducono in un aumento dei salari. Inoltre, una grande percentuale di lavoratori (37 per cento) è impiegata nell’ambito di contratti non regolari, una quota molto superiore a quella delle economie confrontabili. Le aziende hanno lottato scompostamente per ripristinare la competitività dopo il forte apprezzamento dello yen negli anni ’80, spostando la produzione all’estero e assumendo quasi esclusivamente sulla base di contratti non regolari pagati con salari molto più bassi. E allo stesso tempo, la sindacalizzazione è declinata e il potere contrattuale sui salari dei sindacati è quasi del tutto scomparso.
Il mercato del lavoro più rigido non fa crescere i salari
L’Abenomics – una combinazione di allentamento monetario, politica fiscale flessibile e riforme strutturali – è stata progettata per aumentare sia la crescita reale che l’inflazione. Nel 2013, è stata tirata con forza la freccia monetaria, deprezzando lo yen e aumentando i profitti aziendali nel processo. Ci si aspettava che i conseguenti profitti record delle imprese venissero trasferiti su un aumento dei prezzi per i subappaltatori, sui dividendi, e su salari più alti per tutti i lavoratori.
Essa ha contribuito a risvegliare il PIL nominale. Nel corso degli ultimi due anni, il PIL nominale è cresciuto del 3,7 per cento. Le entrate fiscali, in particolare sui profitti aziendali, sono aumentate. E il mercato del lavoro ha continuato a irrigidirsi e la partecipazione ha raggiunto il massimo storico. Entro la fine del 2015, solo il 3,3 per cento delle persone in cerca di lavoro era disoccupata. Alcuni settori si trovano ad affrontare una acuta carenza di manodopera.
Eppure le trattative salariali in corso sono quasi per nulla aggressive. Per esempio, il sindacato di Toyota sta chiedendo solo la metà di quanto aveva chiesto nel 2015. E’ probabile che le richieste salariali portino ad un aumento di solo il 0,5 per cento, ben al di sotto dell’obiettivo di inflazione della Banca del Giappone, ignorando eventuali miglioramenti della produttività. Lo stagnamento dei salari reali rispetto alla produttività del lavoro sembra continuare un trend di lunga data, che ha interessato il Giappone più di altre economie simili (vedi tabella).
Gli ultimi della classe – I salari reali rimangono indietro rispetto alla produttività. Il Giappone è più colpito rispetto ad altre economie simili (crescita della produttività e dei salari, percentualmente, media nel periodo 1995-2013)
È vero, le prospettive interne e globali rimangono deboli. Le aziende non sono desiderose di aumentare i salari o i prezzi. Eppure, l’inflazione di prezzi e salari non porta necessariamente a perdita di competitività o di redditività. Per esempio, se l’inflazione fosse al due per cento e la produttività crescesse di un punto percentuale, un aumento dei salari e delle prestazioni previdenziali del 3 per cento avrebbe lasciato tutti ugualmente benestanti. E collettivamente l’economia trarrebbe beneficio da bassi tassi di interesse reali e da una politica monetaria più efficace.
Gli aumenti salariali potrebbero essere la freccia mancante
L’Abenomics giustamente mirava a porre fine alla radicata mentalità deflazionistica del Giappone. La freccia monetaria aveva lo scopo di aumentare le aspettative di inflazione al 2 per cento, e quindi fornire un meccanismo per coordinare l’inflazione di salari e prezzi. Tuttavia, questa si è dimostrata essere una lotta difficile, perché le aziende e i lavoratori allo stesso modo sembrano guardare indietro piuttosto che in avanti nella definizione delle loro aspettative. Di conseguenza, non riescono a fare la loro parte per risolvere il problema di coordinamento che lascerebbe tutti meglio.
Più di recente, il premier Abe ha dimostrato la propria leadership aumentando i salari minimi. Ma questi riguardano direttamente soltanto circa un decimo della forza lavoro. L’impatto è limitato nel migliore dei casi. Non siamo sicuri che fare affidamento sulla persuasione morale per il resto darà risultati.
Piuttosto, deve essere caricata una quarta freccia:
Allo stesso tempo, questi passaggi sarebbero rafforzati dalle frecce esistenti. In particolare, la terza freccia del Primo Ministro Abe ha bisogno di incidere molto più profondamente sulla dualità del mercato del lavoro, garantendo che le nuove assunzioni vengano fatte con contratti che siano una via di mezzo tra i contratti a tempo indeterminato attualmente maggioritari e i contratti non regolari. Questo ripristinerebbe un po’ di sano potere contrattuale per i lavoratori.
Lungo la strada, la parola “base-up” dovrebbe tornare di nuovo familiare.
Luc Everaert e Giovanni Ganelli
trd vocidallestero
Con un articolo sul proprio forum a firma di Luc Everaert e Giovanni Ganelli, l’FMI sostiene esplicitamente che per uscire dalla deflazione ormai ventennale il Giappone deve alzare i salari agganciandoli alla crescita della produttività (l’acqua calda ha sempre nuovi estimatori, verrebbe da dire).
di Luc Everaert e Giovanni Ganelli,
Tutti sono d’accordo: i salari hanno bisogno di crescere se il Giappone deve definitivamente evadere dalla deflazione. Gli stipendi a tempo pieno sono aumentati di un mero 0,3 per cento dal 1995! Ad esempio, nonostante i suoi profitti record, Toyota ha aumentato il sua salario base solo del 1,1 per cento l’anno scorso. In media le 219 aziende del Keidanren [la Confindustria giapponese, NdVdE] lo hanno alzato solo dello 0,44 per cento. Chiaramente, un aumento dei salari di base, colloquialmente conosciuto come “base up”, è atteso da tempo.
Per un bel po’ di tempo, le autorità giapponesi hanno tentato di rilanciare la crescita e di generare più inflazione. Questo è importante perché il debito può diventare molto oneroso quando i prezzi e i redditi non riescono a crescere. E’ esattamente ciò che sta accadendo in Giappone da un paio di decenni in deflazione. Il PIL nominale è sceso per la maggior parte del periodo mentre il debito pubblico è salito fino a quasi due volte e mezzo il PIL del paese, il più alto debito in tutto il mondo.
Il mercato del lavoro duale limita la crescita dei salari
Il nostro lavoro di analisi dimostra che la mancanza di crescita dei salari potrebbe avere alcune cause strutturali che a loro volta hanno contribuito alla deflazione secolare. In primo luogo, la maggior parte dei lavoratori sono impiegati nell’ambito di contratti a tempo indeterminato e difficilmente cambiano azienda. In cambio di un impiego a tempo indeterminato, i dipendenti accettano di moderare le rivendicazioni salariali, il che significa che mercati del lavoro rigidi non si traducono in un aumento dei salari. Inoltre, una grande percentuale di lavoratori (37 per cento) è impiegata nell’ambito di contratti non regolari, una quota molto superiore a quella delle economie confrontabili. Le aziende hanno lottato scompostamente per ripristinare la competitività dopo il forte apprezzamento dello yen negli anni ’80, spostando la produzione all’estero e assumendo quasi esclusivamente sulla base di contratti non regolari pagati con salari molto più bassi. E allo stesso tempo, la sindacalizzazione è declinata e il potere contrattuale sui salari dei sindacati è quasi del tutto scomparso.
Il mercato del lavoro più rigido non fa crescere i salari
L’Abenomics – una combinazione di allentamento monetario, politica fiscale flessibile e riforme strutturali – è stata progettata per aumentare sia la crescita reale che l’inflazione. Nel 2013, è stata tirata con forza la freccia monetaria, deprezzando lo yen e aumentando i profitti aziendali nel processo. Ci si aspettava che i conseguenti profitti record delle imprese venissero trasferiti su un aumento dei prezzi per i subappaltatori, sui dividendi, e su salari più alti per tutti i lavoratori.
Essa ha contribuito a risvegliare il PIL nominale. Nel corso degli ultimi due anni, il PIL nominale è cresciuto del 3,7 per cento. Le entrate fiscali, in particolare sui profitti aziendali, sono aumentate. E il mercato del lavoro ha continuato a irrigidirsi e la partecipazione ha raggiunto il massimo storico. Entro la fine del 2015, solo il 3,3 per cento delle persone in cerca di lavoro era disoccupata. Alcuni settori si trovano ad affrontare una acuta carenza di manodopera.
Eppure le trattative salariali in corso sono quasi per nulla aggressive. Per esempio, il sindacato di Toyota sta chiedendo solo la metà di quanto aveva chiesto nel 2015. E’ probabile che le richieste salariali portino ad un aumento di solo il 0,5 per cento, ben al di sotto dell’obiettivo di inflazione della Banca del Giappone, ignorando eventuali miglioramenti della produttività. Lo stagnamento dei salari reali rispetto alla produttività del lavoro sembra continuare un trend di lunga data, che ha interessato il Giappone più di altre economie simili (vedi tabella).
Gli ultimi della classe – I salari reali rimangono indietro rispetto alla produttività. Il Giappone è più colpito rispetto ad altre economie simili (crescita della produttività e dei salari, percentualmente, media nel periodo 1995-2013)
È vero, le prospettive interne e globali rimangono deboli. Le aziende non sono desiderose di aumentare i salari o i prezzi. Eppure, l’inflazione di prezzi e salari non porta necessariamente a perdita di competitività o di redditività. Per esempio, se l’inflazione fosse al due per cento e la produttività crescesse di un punto percentuale, un aumento dei salari e delle prestazioni previdenziali del 3 per cento avrebbe lasciato tutti ugualmente benestanti. E collettivamente l’economia trarrebbe beneficio da bassi tassi di interesse reali e da una politica monetaria più efficace.
Gli aumenti salariali potrebbero essere la freccia mancante
L’Abenomics giustamente mirava a porre fine alla radicata mentalità deflazionistica del Giappone. La freccia monetaria aveva lo scopo di aumentare le aspettative di inflazione al 2 per cento, e quindi fornire un meccanismo per coordinare l’inflazione di salari e prezzi. Tuttavia, questa si è dimostrata essere una lotta difficile, perché le aziende e i lavoratori allo stesso modo sembrano guardare indietro piuttosto che in avanti nella definizione delle loro aspettative. Di conseguenza, non riescono a fare la loro parte per risolvere il problema di coordinamento che lascerebbe tutti meglio.
Più di recente, il premier Abe ha dimostrato la propria leadership aumentando i salari minimi. Ma questi riguardano direttamente soltanto circa un decimo della forza lavoro. L’impatto è limitato nel migliore dei casi. Non siamo sicuri che fare affidamento sulla persuasione morale per il resto darà risultati.
Piuttosto, deve essere caricata una quarta freccia:
- Il governo potrebbe replicare il successo della riforma del governo societario con l’introduzione di un meccanismo “ottempera o chiarisci” per le aziende redditizie al fine di garantire che aumentino i salari di almeno il 2 per cento, più la crescita della produttività.
- Le autorità potrebbero rafforzare gli incentivi fiscali esistenti per aumentare i salari.
- I politici potrebbero anche fare un passo ulteriore con l’introduzione di sanzioni fiscali per le società che non trasferiscono [ai salari] una crescita eccessiva dei profitti.
- Un’altra opzione è quella di dare l’esempio aumentando i salari del settore pubblico in modo lungimirante.
Allo stesso tempo, questi passaggi sarebbero rafforzati dalle frecce esistenti. In particolare, la terza freccia del Primo Ministro Abe ha bisogno di incidere molto più profondamente sulla dualità del mercato del lavoro, garantendo che le nuove assunzioni vengano fatte con contratti che siano una via di mezzo tra i contratti a tempo indeterminato attualmente maggioritari e i contratti non regolari. Questo ripristinerebbe un po’ di sano potere contrattuale per i lavoratori.
Lungo la strada, la parola “base-up” dovrebbe tornare di nuovo familiare.
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