lunedì 25 agosto 2025

In difesa di David Grossman

MASSIMO LIZZI

Lo scrittore riconosce il genocidio di Gaza. Lo fa da intellettuale israeliano che cerca di scuotere le coscienze del suo Paese e non da animatore della resistenza palestinese.


David Grossman, uno dei più importanti intellettuali israeliani, noto per il suo impegno pacifista e per la critica all'occupazione dei territori palestinesi, arriva a utilizzare la parola "genocidio" per descrivere ciò che accade a Gaza.

A questa definizione ha sempre resistito, ma dopo le immagini, i racconti, i dati sulle morti di Gaza, non può più evitarla. Accade perché "il potere assoluto corrompe in modo assoluto" e l'occupazione iniziata nel 1967 ha distorto la moralità di Israele.

Perciò, milioni di israeliani, traumatizzati dal 7 ottobre, invece di protestare in piazza contro la guerra e la fame a Gaza, si sono chiusi in un nazionalismo aggressivo, abbandonando i valori della solidarietà umana. Ma così Israele perde il sostegno dell'Europa e si ritrova sempre più solo, intrappolato in una spirale di violenza e odio che rischia di diventare irreversibile.

La soluzione rimane quella dei due stati, nonostante l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. La reazione israeliana alla proposta di Macron di riconoscere lo Stato palestinese è isterica, perché un interlocutore statale sarebbe più responsabile di uno ambiguo come l’ANP.

A chi accusa gli intellettuali israeliani di non aver fatto abbastanza, la risposta è che molti, come lui, hanno combattuto l'occupazione per decenni, ma che dopo il 7 ottobre c'è stato un momento di smarrimento. Ora, però, è necessario parlare, anche a rischio di essere marginalizzati.

David Grossman è un autore radicato nella cultura ebraica e israeliana, che ha perso un figlio nella Seconda Guerra del Libano. La sua decisione di usare la parola "genocidio" è un segnale potente, che mostra la crescente frattura nella società israeliana tra chi sostiene la linea del governo e chi vede nella guerra a Gaza una catastrofe morale.

La sua riflessione considera che l'accusa di genocidio può essere strumentalizzata da chi odia gli ebrei, ma al tempo stesso riconosce che Israele sta fornendo proprio quell’argomento ai suoi nemici. Se un uomo come lui, simbolo della coscienza critica israeliana, parla di "genocidio", quanto ancora il mondo ignorerà ciò che sta accadendo?

Immaginiamo come la sua intervista sia accolta dai nazionalisti israeliani. Più sorprendente è il rigetto di alcuni attivisti pro-palestinesi, sebbene ogni movimento abbia le sue componenti estreme più intransigenti.

Da loro, Grossman è accusato di preoccuparsi più delle conseguenze per Israele che della sofferenza palestinese. Quando parla della soluzione dei due Stati, Grossman insiste su condizioni imposte ai palestinesi (niente armi, esclusione di chi usa violenza), il che sarebbe la prova che vuole un "Bantustan" controllato, non una vera indipendenza.

Nell’affermare che «Il grande errore dei palestinesi sta nel fatto che [dopo il ritiro israeliano del 2005] avrebbero potuto trasformare [Gaza] in un luogo fiorente», ignora che Gaza è sotto assedio dal 2007, con blocco economico, militare e dei movimenti.

Questo genere di critiche, pur contenendo alcune verità, sembra pretendere che Grossman parli come un attivista pro-palestinese, non come un intellettuale israeliano, che parla alla società israeliana, per smuoverla dal nazionalismo.

L’efficacia politica di un messaggio dipende dal destinatario: dire "State facendo un genocidio" è già un tabù in Israele. Pretendere che aggiunga "E i palestinesi hanno ragione" lo renderebbe irrilevante per il pubblico che vuole raggiungere. Grossman ha parlato tardi? Forse sì. Ma ha parlato quando ha potuto dire qualcosa che fosse ascoltato.

Alcune critiche pro-palestinesi a Grossman ignorano il valore simbolico dell’uso della parola "genocidio". Sminuirne il significato definendolo un "tentativo cinico di salvare Israele", significa ignorare il fatto che in Israele, ammettere che sia in corso un genocidio è un atto di rottura enorme.

Sì, si può dire che il suo è un interesse nazionale etico: Grossman è angosciato perché la guerra a Gaza sta disumanizzando Israele, non solo perché uccide i palestinesi. Ma in una società dove l’empatia per “l’altro” è crollata, partire dalla preoccupazione per sé può essere l’unico modo per aprire una breccia. È una strategia classica del dissenso interno: non dire solo “guardate cosa facciamo agli altri”, ma anche “guardate cosa stiamo diventando”. È una motivazione imperfetta, ma efficace. E può portare - se spinta - a una solidarietà autentica.

Aver detto che "i palestinesi avrebbero potuto fare di Gaza un luogo fiorente", non è una giustificazione dell’assedio, significa solo affermare che entrambe le leadership hanno fallito. Certo, Hamas non poteva far fiorire Gaza, ma tutto quello che ha investito in armi e tunnel poteva investirlo nell’assistenza alla popolazione e se proprio voleva scavare sotto terra poteva almeno provare a costruire rifugi per tutti.

Non possiamo scegliere tra la destra israeliana e Hamas, con una che persegue l’annientamento dell’altro; dobbiamo cercare la via della coesistenza tra i due popoli e valorizzare tutte le voci che vogliono contribuirvi. Bocciare persino i critici come Grossman significa fare un regalo alla narrativa della destra israeliana, che può dire: "Vedete? Anche i vostri amici ‘pacifisti’ vi odiano!".

Grossman, pur critico con Israele, resta un sionista di sinistra: crede in un Israele a maggioranza ebraica (ma democratico e senza occupazione). Per questo è visto come complice, non come alleato. Una parte del discorso pro-palestinese più radicale opera la discriminante antisionista e rifiuta qualsiasi voce ebraica o israeliana che non rinneghi il sionismo. Questo approccio, comprensibile sul piano emotivo e storico, è sbagliato.

Una tale logica esclude a priori figure che potrebbero essere utili alla causa palestinese, come Ebrei della diaspora che criticano Israele ma si identificano come sionisti. O israeliani che lottano contro l’occupazione ma non vogliono la fine di Israele. È anche controproducente perché isola il movimento pro-palestinese.

Criticare Grossman perché non chiede la fine di Israele, non spiega come si arriverebbe a uno Stato unico (la soluzione antisionista per eccellenza) senza coinvolgere almeno una parte degli israeliani. Come evitare che la retorica antisionista spaventi l’opinione pubblica internazionale, che spesso sostiene i palestinesi ma non vuole "abolire Israele".

Grossman, come altri della vecchia sinistra sionista, ha i suoi limiti. Ma ha accesso a un pubblico che gli attivisti antisionisti non raggiungeranno mai. La sua intervista è un segnale che il tabù del "genocidio" si sta incrinando nel mainstream israeliano. Sprecare questa occasione per umiliarlo è un errore. In Sudafrica, l’ANC non rifiutò i bianchi liberali che criticavano l’apartheid ma non erano socialisti.

Più efficace sarebbe accettare alleati imperfetti (come Grossman) senza rinunciare a criticarli. Premiare i passi avanti: se un sionista ammette che Israele sta commettendo crimini, usare la sua voce per sfidare altri israeliani, non silurarla. Lavorare con chi è dentro Israele: invece di pretendere che gli israeliani rinneghino la loro identità prima di dialogare, costruire ponti con chi già combatte l’occupazione.

Gli antisionisti hanno ragione su una cosa: il sionismo ha prodotto apartheid e pulizia etnica. Ma trasformare l’antisionismo in un requisito per essere ascoltati è inefficace: la maggioranza degli israeliani (e molti ebrei della diaspora) non rinuncerà al sionismo dall’oggi al domani.

La sfida non è scegliere tra "sionismo" e "antisionismo", ma costruire un fronte che includa chiunque sia contro l’occupazione e il genocidio, anche se per ragioni diverse. Grossman non è il nemico: se impegnato, può essere spinto a passi più radicali. Bruciarlo perché "non è abbastanza" significa fare il gioco di chi vuole il conflitto eterno.

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