di Bill Emmott
Traduzione di Anna Bissanti
espresso
Il destino della moneta unica è legato a quello della Grecia.
E comunque tutto è nelle mani di Angela Merkel
(18 luglio 2011) I recenti scontri ad Atene
Inopinatamente, durante la crisi finanziaria globale e ancora in seguito, in tempi più recenti, per tutto il tempo della crisi del debito dei governi della zona euro, sono stati considerati del tutto normali comportamenti e situazioni di regola ritenuti impensabili o inverosimili. Di conseguenza, adesso è giunto il momento di esaminare un'altra idea inimmaginabile: la fine dell'euro, non tanto per prevederne la scomparsa - in quanto al momento non lo penso - bensì per comprendere come e perché tale fine potrebbe effettivamente verificarsi.
Per molti aspetti, Londra è un luogo poco appropriato dal quale procedere a un'attenta valutazione dell'euro, dal momento che la nostra città è piena di politici e commentatori visceralmente contrari al progetto della valuta unica sin dall'inizio, al punto che le loro critiche di allora ormai appaiono quasi un pio desiderio. Almeno per un aspetto, però, sono ed erano valutazioni esatte, in quanto hanno sempre fatto presente che la valuta unica europea era un progetto politico e non un progetto economico. Quindi è esatto: se mai l'euro dovesse morire, morirà per motivazioni politiche.
Nondimeno, nei suoi 12 anni di vita in linea generale l'euro è parso stare a cuore soprattutto agli economisti, che riuscivano ad annoiare a morte chiunque parlando di politiche monetarie comuni e disquisendo se la zona euro fosse da un'ottica meramente tecnica un'"optimum currency area", un'area ottimale per una valuta unica. Da questo punto di vista la delusione è stata palese: la questione di capire se una valuta potesse funzionare in termini economici è sempre stata di fatto una questione politica, connessa all'eventualità che i Paesi della zona euro fossero disposti a improntare le proprie scelte di politica interna per far sì che la valuta comune funzionasse.
Per molti anni questa faccenda è rimasta nascosta, per il fatto che i Paesi in cui le scelte politiche rischiano ora di essere le più difficili e dure - soprattutto le nazioni dell'Europa meridionale come Portogallo, Spagna, Grecia e Italia, ovvero quelle nelle quali l'intervento statale e l'interazione tra denaro pubblico e politica sono stati più rilevanti - sono proprio quelle che a suo tempo hanno tratto i maggiori benefici adottando l'euro.
Con il vistoso attenuarsi del rischio di inflazione, i tassi di interesse sono scesi e tutti questi Paesi sono stati in grado di prendere in prestito capitali facilmente e con poca spesa. La tesi principale a supporto dell'euro - e in particolare il fatto che una volta rimossa la possibilità di svalutare la moneta ogni Paese avrebbe dovuto necessariamente riformare la propria economia per renderla più flessibile e dinamica - si è rivelata una favola. I prestiti a basso prezzo hanno fatto sembrare le riforme non indispensabili. La politica dell'euro, al contrario, è apparsa affascinante. La crisi del debito sovrano in corso dal 2009 ha cambiato le cose. I tre Paesi che avevano sottoscritto prestiti e sono già insolventi - Portogallo, Grecia e Irlanda - per poter accedere ai prestiti del Fondo monetario internazionale e del nuovo Fondo per la stabilità europea sono stati costretti a prendere decisioni politiche difficili su riforme e tagli di budget. Del resto, il loro è un passo inevitabile, in quanto non possono ottenere ulteriori capitali in prestito dai mercati finanziari a prezzi abbordabili. A fronte dello spettro di una simile eventualità, anche la Spagna ha varato riforme molto rigorose, e in reazione a ciò folle di manifestanti indignati hanno riempito le strade e le piazze.
La questione italiana, di cui si parla nei mercati finanziari, verte in sostanza su un unico punto: capire se anche l'Italia è a rischio. Grazie alla sua politica di controllo fiscale rigorosa attuata sin dal 2008 non dovrebbe esserlo, e quantunque il debito pubblico italiano sia ormai al 120 per cento del Pil - il secondo peggiore della zona euro, subito dopo quello greco - l'Italia di fatto amministra un surplus di bilancio al lordo del computo dei pagamenti sugli interessi, uno degli unici due Paesi europei a farlo (l'altro è la Germania). Nonostante ciò, l'Italia è tuttora a rischio, qualora la politica interna - contrassegnata dall'ansia di Silvio Berlusconi e della Lega Nord di tagliare le tasse e di avere la meglio su Giulio Tremonti - vanificasse la credibilità di un tale rigoroso controllo fiscale.
Fino a questo momento, la politica in relazione alla crisi è stata semplice. I Paesi insolventi hanno dovuto far fronte a scioperi e a violente manifestazioni di piazza, e perseguire i tagli di bilancio decisi. I Paesi europei settentrionali, più solidi, hanno dovuto rendersi disponibili a finanziare nuovi prestiti per mantenere a galla i Paesi del sud d'Europa ed evitare che andassero in default. In realtà, i prestiti che hanno erogato sono stati un mezzo col quale sostenere le loro stesse banche, soprattutto in Germania e in Francia, giacché in caso di default della Grecia o del Portogallo quelle banche avrebbero subito ingenti perdite. Eppure tale comportamento non è stato ancora messo in discussione a livello politico.
E' proprio questo che adesso potrebbe cambiare, e insieme a ciò anche la politica dell'euro cambierebbe radicalmente. Quando è iniziata la crisi di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, uno degli stereotipi ripetuti più di frequente era che anche se la situazione economica sembrava negativa, i leader dei più importanti Paesi dell'Eurozona avevano la volontà politica di assicurare la sopravvivenza della moneta unica. La tedesca Angela Merkel e il francese Nicolas Sarkozy avrebbero fatto "tutto ciò che era necessario" per salvare l'euro: dal punto di vista politico non potevano permettere che morisse.
Per la prima volta, però, questo principio è adesso messo in discussione sul serio. Si avvicina infatti il momento in cui saranno Germania, Francia e altri Paesi nordici europei a dover effettuare difficili scelte politiche, e non più i paesi dell'Europa meridionale. Ciò dipende dal fatto che ciò che un tempo era inimmaginabile - un default, o per meglio dire una ristrutturazione del debito da parte della Grecia, tendente a ridurre l'onere degli interessi sul debito e le proprie scadenze - è ormai in corso di pianificazione da parte dei banchieri e delle autorità tedesche. Si tratta di uno sviluppo gradito, in quanto per certi aspetti una ristrutturazione del debito era inevitabile. Per quanto rigide siano le sue politiche fiscali interne e le sue riforme, il governo greco potrebbe anche non potersi permettere di accollarsi il proprio fardello di debiti e la sua economia potrebbe riprendersi soltanto grazie a un miracolo. Il mese prossimo, o poco più in là, dovrebbero tenersi dei negoziati sulle modalità con le quali questa ristrutturazione avrà luogo, ma a prescindere da quanto gradita sia, è inevitabile che sul piano politico potrà anche essere rischiosa.
Infatti, il pericolo nasce prima di tutto dalla circostanza che per la prima volta i costi fiscali dell'euro per i contribuenti tedeschi e dell'Europa del nord in genere diventeranno reali ed espliciti, e ciò avverrà quando le banche dovranno ammortizzare le loro perdite, quando dovranno applicare tassi inferiori, e quando - come è probabile - alcune di loro avranno bisogno di interventi tampone finanziati dai contribuenti. Se la ristrutturazione del debito si limiterà alla sola Grecia il pericolo sarà relativamente contenuto, in quanto la Grecia produce solo il 3 per cento del Pil della zona euro e ogni perdita imputabile a prestiti ad Atene sarà gestibile.
Il vero pericolo, piuttosto, nascerà da una questione estremamente più difficile e complessa, ovvero capire in che modo limitare alla sola Grecia la ristrutturazione. I mercati inizieranno a fare congetture sulla possibilità che analoghe procedure si possano rendere necessarie per Portogallo, Irlanda e addirittura Spagna, che è al dodicesimo posto nella classifica mondiale delle economie. Se anche uno solo di questi Paesi dovesse ottenere una cancellazione del debito, che ne sarà dell'Italia, che è la settima economia al mondo?
A quel punto le politiche interne dell'euro in Germania potrebbero diventare rischiose. Gli elettori tedeschi sono consapevoli di aver tratto benefici dall'euro; sanno che la loro è un'economia forte, e che un'Unione europea stabile e ben funzionante è sicuramente positiva per loro. Ma in ogni caso i tedeschi non hanno alcuna intenzione di pagare di tasca propria un prezzo diretto e troppo alto per questo, trasferendo tramite le ristrutturazioni del debito i capitali ai Paesi dell'Europa del sud. Per sostenere l'euro, pertanto è necessario trovare una definizione diversa per la Grecia rispetto agli altri Paesi e ciò significa imporre nuove sanzioni ad Atene con lo scopo di scoraggiare il Portogallo e gli altri Stati dall'imboccare la strada intrapresa dai greci. A sua volta ciò implica di effettuare una scelta ben precisa: estromettere la Grecia dall'euro per scongiurare la possibilità che altri Paesi ricevano lo stesso trattamento, oppure correre il rischio di offrire accordi per una riduzione del debito a tutti i Paesi dell'Europa del sud, innescando violente reazioni contro l'euro in Germania.
Se la cancelliera Angela Merkel sbaglierà a effettuare questa scelta, allora - nel turbinare delle recriminazioni politiche - l'euro potrebbe avere i giorni contati.
Emmott è giornalista, scrittore, ex direttore di "The Economist", collaboratore di "The Times"; il suo libro più recente è "Forza Italia - Come ripartire dopo Berlusconi" (Rizzoli)
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