domenica 18 maggio 2025

La minaccia dei volenterosi sulle trattative per la pace

Emmanuel Macron (Getty Images)
Maurizio Belpietro

Già pochi mesi dopo l’invasione era stato trovato un accordo (vantaggioso per Kiev) a Istanbul. Poi però Usa e Gran Bretagna frenarono. Ora la storia rischia di ripetersi, con Macron, Starmer e Merz che remano contro.


Rimettendo in ordine carte e appunti che si sono accumulati nel corso del tempo sulla mia scrivania, ho ritrovato un vecchio articolo di Foreign Affairs, rivista americana specializzata in relazioni internazionali. Non sono riuscito a risalire alla data in cui è stata pubblicata, ma a naso l’inchiesta del periodico newyorchese risale a più di un anno fa e ricostruisce nel dettaglio il negoziato per la pace in Ucraina avviato alla fine di marzo del 2022, poco dopo l’inizio della guerra. Come è noto, la trattativa fallì, ma ciò che non si sa e che oggi, a un passo da un possibile cessate il fuoco, è utile sapere, è perché naufragò.

Secondo Foreign Affairs, le riunioni fra i negoziatori ucraini e russi cominciarono il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’invasione, e andarono avanti per quasi due mesi durante i quali, con riunioni periodiche tra Bielorussia e Turchia e alcune conference call via zoom, si lavorò al testo di un accordo. Furono fatti passi avanti importanti, con la scrittura di diverse bozze e perfino di un comunicato, ma a maggio la trattativa si interruppe e la guerra così è continuata fino a oggi, costando la vita di decine di migliaia di militari e civili da entrambi i fronti. Che cosa spinse i delegati di Kiev e Mosca a mandare a monte la trattativa? In base alla ricostruzione della rivista americana, tra febbraio e marzo l’offensiva russa si era complicata e il tentativo di conquistare alcune città ucraine si era risolto in un fallimento, con perdite piuttosto gravi. 

Il Cremlino era dunque disposto a trovare una via d’uscita da un conflitto che si annunciava lungo e rischioso. Foreign Affairs dice di aver preso visione della bozza di un comunicato intitolato «Disposizioni cruciali del trattato sulle garanzie di sicurezza dell’Ucraina», in cui era previsto uno «stato permanente neutrale e non nucleare» dell’Ucraina, con la rinuncia di Kiev ad aderire ad alleanze militari, a ospitare basi militari o truppe straniere sul proprio territorio. Dell’accordo si sarebbero fatti garanti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Russia compresa), più Canada, Germania, Israele, Italia, Polonia e Turchia. E nel caso in cui fosse stata attaccata e avesse chiesto aiuto, tutti gli Stati garanti avrebbero dovuto fornire assistenza all’Ucraina. Nella bozza era esplicitamente prevista una no fly zone, la fornitura di armi e un intervento militare diretto degli Stati garanti dell’intesa. In pratica, l’America e l’Europa, insieme con altri Paesi occidentali, si impegnavano a entrare in guerra qualora Kiev fosse di nuovo aggredita.

Foreign Affairs dice che non è chiaro perché Mosca fosse disposta a firmare un tale accordo, rinunciando alle pretese di controllare e dominare l’Ucraina. «All’inizio di marzo era però già evidente che la guerra lampo di Putin era fallita e forse per questo la Russia sembrava accontentarsi di vedere accolta la sua richiesta più importante, ovvero che l’Ucraina rinunciasse alla sua aspirazione di entrare nella Nato».

La scoperta degli eccidi di Bucha e di Irpin, dove i militari russi uccisero numerosi civili, nonostante l’orrore non fermò le trattative, che proseguirono fino a metà aprile, con la stesura di almeno 17 o 18 bozze di accordo. La delegazione di Mosca provò a chiedere l’abrogazione, in tutto o in parte, di sei leggi ucraine che «affrontavano, in linee generali, alcuni aspetti controversi della storia dell’epoca sovietica, in particolare sul ruolo dei nazionalisti ucraini durante la seconda guerra mondiale». Ma, spiega Foreign Affairs, è possibile che fosse un modo per Putin di salvare la faccia, per poter sostenere di aver raggiunto l’obiettivo di «denazificare» l’Ucraina. Secondo un collaboratore di Zelensky, Davyd Arachamija, la Russia era pronta a concludere la guerra come aveva fatto in passato con la Finlandia, ovvero con una riduzione dell’esercito ucraino a forza militare di pace e non di offesa. E sembrava che l’intesa potesse essere conclusa entro la fine del mese di aprile.

Ma poi le cose si complicarono. Putin sostiene che sia stata tutta colpa delle potenze occidentali, in particolare di Boris Johnson, che soffiava sul fuoco. «La risposta occidentale ai negoziati», scrive la rivista americana, «per quanto lontanissima dalla caricatura che ne ha fatto Putin, fu certamente tiepida». Per Washington, l’impegno vincolante per gli Stati Uniti (e per gli altri Paesi europei) di entrare in guerra con la Russia se questa avesse di nuovo invaso l’Ucraina «era sufficiente a bocciare il negoziato in partenza». E infatti, «invece di sostenere il comunicato di Istanbul e il successivo processo diplomatico, l’Occidente aumentò gli aiuti militari a Kiev e intensificò la pressione sulla Russia, anche con un regime di sanzioni sempre più duro». Il primo ministro inglese si precipitò da Zelensky, dichiarando che «qualunque accordo con Putin sarebbe stato indecente». Secondo quanto ha dichiarato Arachamija, Johnson non solo disse che non si doveva firmare alcuna intesa, ma spiegò che gli ucraini «dovevano semplicemente continuare a combattere». Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, e il segretario alla Difesa, Lloyd Austin, due pezzi grossi dell’amministrazione Biden, si recarono a Kiev per «coordinare gli aiuti militari», dichiarando in conferenza stampa che il sostegno all’Ucraina da parte degli alleati e le sanzioni sulla Russia «stavano dando concreti risultati».

Secondo Foreign Affairs, la tesi che America e Gran Bretagna abbiano costretto l’Ucraina a ritirarsi dai negoziati è infondata. Tuttavia, «il sostegno militare dell’Occidente può aver rafforzato la determinazione di Zelensky a resistere, mentre la mancanza di entusiasmo (degli Stati Uniti, ndr) può aver spinto il presidente ucraino ad accantonare la via della diplomazia». Un ruolo chiave lo ebbe certamente «la rinnovata fiducia nella possibilità di vincere la guerra sul campo. La ritirata russa da Kiev e da altre grandi città dell’Ucraina nordorientale e la prospettiva di ricevere più armi dall’Occidente (con le strade di Kiev tornate sotto il controllo ucraino) cambiarono gli equilibri militari. E spesso l’ottimismo sul campo rende i belligeranti meno interessati a raggiungere un compromesso al tavolo dei negoziati».

Ovviamente, nessuno può dire se alla fine Putin avrebbe accettato le condizioni contenute nelle bozze predisposte dalle due delegazioni, molte delle quali suggerite dagli ucraini. Una cosa è certa: visto come sono andate le cose, ritirarsi dal negoziato, da parte di Kiev, dell’America e dell’Europa è stato un tragico errore. Che in particolare Francia, Gran Bretagna, Germania e Polonia, ovvero i famosi «volenterosi», rischiano di ripetere con pretese e protagonismi che nulla hanno a che fare con la volontà di raggiungere un cessate il fuoco. Gli errori del 2022 sono costati centinaia di migliaia di vittime (tra morti e feriti), dando vita a una guerra lunga e sanguinosa, come l’Europa non vedeva da 80 anni. Pensare che Kiev potesse non solo resistere all’invasione, ma anche vincere la guerra, sconfiggendo la Russia, è stata un’illusione a cui certamente ha in qualche modo contribuito l’Occidente. Dunque, in vista di un possibile incontro a Istanbul, l’auspicio è che ci siano meno vertici di volenterosi e più voglia di pace. Come dice papa Leone XIV, disarmiamo le parole, ma - aggiungo io - anche Macron e compagni.

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