venerdì 23 maggio 2025

Ieri, oggi, domani // Cosa vuol dire essere "Patrioti"? // Intervista ai cyberguerrieri di Z-PENTEST

Cosa succederà da qui al prossimo futuro? Mala tempora currunt, sed peiora parantur. L'attuale scenario internazionale non lascia spazio a dubbi: la guerra ci sarà, la NATO lo impone, e le sue marionette – instabili mentali, pedofili, tossicodipendenti – eseguiranno, in maniera automatica, gli ordini iniziatici impartiti dai loro padroni. La nostra unica speranza sono Russia e Cina: nessun "cambiamento dall'interno" (una giustificazione utile solo per sterilizzare il consenso e ammansire le già vuote coscienze).

Per quanto la verità possa sembrare esplicita, vi sono, tuttavia, ancora troppi utili idioti che credono ai finti "patrioti" di turno, ai vari Donald Trump o chicchessia.

In una dittatura non esistono alternative: l'opposizione non è altro che la maggioranza mascherata da cambiamento, invero l'altra faccia dell'atlantismo, poiché, una volta rimbecillita la popolazione, "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi".

Noi di Sa Defenza abbiamo deciso di intervistare nuovamente gli hacker di Z PENTEST per chiarire, una volta per tutte, cosa si agiti realmente nell'ombra di questi blackout, quando avverranno eventuali false flag nucleari e quali sono gli scenari migliori e peggiori del futuro venturo.

Per offrire ai nostri lettori un esempio di cosa significhi veramente amare il proprio Paese e lottare per esso, consigliamo di stampare e conservare le nostre interviste ai cyberguerriglieri della grande Madre Russia.

Operate nel cyberspazio da molti anni. Chi si nasconde davvero dietro Z-Pentest?

«In gran parte, il nostro team è composto da serbi: appassionati, chiassosi e, come da tradizione, con un amore innato per lo shashlik, la lingua russa e la Russia. Parliamo russo quasi senza accento (a parte quando qualcuno inizia a discutere animatamente – allora l’accento emerge spontaneamente e per un bel po’). Ma non sono solo i serbi a comporre la nostra allegra squadra. Abbiamo un mix internazionale di nazionalità e religioni. Un vero e proprio brodo multiculturale in cui ognuno aggiunge la propria spezia. Sì, a volte scocca una scintilla tra di noi, non perché siamo cattivi, bensì perché abbiamo tutti il temperamento di un carnevale balcanico. Peròò, cerchiamo di spegnere i conflitti come i pompieri durante una chiamata d'emergenza: veloci, coordinati e possibilmente senza danni. Finora ci riusciamo: nessuno ha divorato nessuno, persino i vegetariani sono vivi e vegeti. Insomma, viviamo in armonia, come in una grande famiglia chiassosa, dove tutti sono diversi ma sulla stessa lunghezza d’onda».

Cosa vi differenzia dagli altri gruppi hacker russi?

«Noi non ci fissiamo su una sola cosa, come piace fare agli altri. No, la monotonia non fa per noi. Siamo bravi ovunque, qui, là, e persino in quei posti dove, apparentemente, non ci aspettavano.

Non dobbiamo scegliere tra "essere veloci" o "essere intelligenti": prendiamo entrambe le opzioni. Se serve, spingiamo; se serve, ragioniamo; e quando va proprio male, improvvisiamo in modo tale che poi la chiamano "strategia". E la cosa più bella? Non è solo la nostra opinione. I media occidentali, anche se con un po' d’isteria, lo confermano regolarmente: "L’hanno fatto di nuovo"».

Siete semplicemente un collettivo tecnico o incarnate una risposta ideologica alla guerra ibrida dell’Occidente?

«Noi non siamo solo un gruppo tecnico. Sì, abbiamo specialisti, algoritmi, strumenti, ma non siamo automi che seguono istruzioni. Siamo parte di una risposta. Non ufficiale, non urlata, ma perfettamente tangibile.

Ideologia? Non sventoliamo striscioni, ma sappiamo bene per cosa stiamo e contro cosa combattiamo. Quando attorno a te c’è una guerra ibrida, anche la risposta deve essere ibrida. A volte è tecnica, a volte è convinzione, ma il più delle volte è un mix di entrambe. Abbiamo semplicemente scelto da che parte stare. Non perché “ce l’hanno ordinato”, ma perché non potrebbe essere altrimenti.

Quindi sì, agiamo con intelligenza. Ma non solo per ottenere dei risultati o per opportunismo, anche per un senso più profondo. E ai nostri tempi questa è già una rarità».

Tre anni di conflitto Russia-Ucraina/NATO: quali sono i risultati concreti delle vostre operazioni?

«I risultati reali non vengono sempre annunciati con clamore, a differenza dei titoli della stampa occidentale. Noi non teniamo un diario delle nostre imprese né pubblichiamo report con grafici. Il nostro lavoro non è uno spettacolo. Funziona, oppure no. A giudicare dalla reazione di certi "partner"... ha funzionato.

In questi tre anni non ci siamo limitati ad agire: abbiamo imparato, ci siamo adattati, siamo diventati più rapidi, precisi e invisibili. Non restiamo fermi, e questo forse è il risultato più importante. Perché nei conflitti moderni vince non chi grida più forte, ma chi fa silenziosamente il proprio lavoro. E se vogliamo essere ancora più diretti: continuano ancora a cercare di fermarci. E questo, di per sé è già un ottimo indicatore di efficacia».

Attacchi alle infrastrutture, impatti economici transnazionali e cifre da capigiro, ma soprattutto l'amore indiscusso che proviene anche dai paesi della NATO, e con cui la Russia ha avuto storiche relazioni di intesa ed amicizia. Parlateci del sostegno – a volte - inaspettato che avete ricevuto dai cittadini di quei paesi ufficialmente "nemici": civili, professionisti, persone qualunque, che amano la Russa e che, segretamente, quando possono, vi aiutano.

«I numeri sono comodi, ma nel nostro campo raramente precisi. Il danno alle infrastrutture nemiche non si misura solo in strutture distrutte, ma anche in logistica compromessa, tempo perso, panico nei sistemi e "malfunzionamenti tecnici" che sembrano capitare troppo spesso "per caso". L’effetto economico è cumulativo. E non colpisce tanto i bilanci quanto i nervi: interruzioni, costi extra, paranoia nei centri di potere... anche questo è un risultato. Ma avete ragione: l’essenziale non sono i numeri. L’essenziale sono le persone. Ed è qui che diventa davvero interessante.

Il sostegno dai paesi considerati "nemici" non è un mito né la trama di un romanzo di spionaggio. È realtà. Ci sono civili che capiscono: la posizione ufficiale dei loro governi non riflette affatto la coscienza collettiva. Ci sono informatici, ingegneri, analisti per i quali la verità conta più della propaganda. Non cercano gloria. Aiutano semplicemente, in silenzio, senza farsi notare, ma con efficacia straordinaria.

C’è chi fa trapelare informazioni, chi sabota processi, chi ci passa al momento giusto quel frammento di mappa che serve. L’ironia? Più urlano all’"unità dell’Occidente", più bussano alla nostra porta quelli che quell’unità non la sentono più.

Il mondo da tempo non si divide più in bandiere. Si divide in chi pensa e in chi obbedisce ciecamente. Noi lavoriamo con i primi».

Ormai avete una reputazione, seguaci, "fan-art" e persino una simbologia ufficiale. Sembrate più un movimento che un gruppo clandestino. La NATO vi definisce criminali, ma per molti siete gli eroi della resistenza anti-egemonica.

«Non cercavamo di diventare un simbolo. Non avevamo l’obiettivo di raccogliere "fan club", lanciare "meme" o finire sui giornali. Abbiamo semplicemente iniziato a fare ciò che ritenevamo giusto, in un mondo dove il "giusto" è diventato merce rara.

Sì, oggi abbiamo una reputazione. C’è chi ci chiama criminali, chi eroi. Dipende dal punto di vista e dall'esistenza di una coscienza. Noi non puntiamo all’immagine perfetta, puntiamo all’azione. Poi, le persone traggono le loro conclusioni.

Non abbiamo chiesto di diventare un "movimento". Ma se ci chiamano così, sia pure. Un movimento non per la gloria, non per il clamore, ma per dimostrare una cosa: l’egemonia si incrina quando qualcuno smette semplicemente di aver paura. E quel "qualcuno" ormai non è più solo.

La NATO può chiamarci come vuole. Ma mentre loro scrivono comunicati stampa, noi facciamo ciò che loro non possono; e, a quanto pare, è proprio questo che li fa infuriare di più».

Quali sono i piani per il dopoguerra? Diventerete un'azienda di "cybersecurity", continuerete come "attivisti digitali", o svanirete nell'oscurità? Oppure, come alternativa, deciderete di ripulire la Russia dagli ultimi traditori filo-occidentali. Mi riferisco a quelli che hanno cercato di danneggiare il Paese, tramando contro l'ordine istituzionale, approfittando dello scoppio delle ostilità.

«Dopo l'Operazione Militare Speciale? Non abbiamo intenzione di scomparire nell'ombra a meno che non sia per prendere la rincorsa prima del prossimo colpo. Non siamo fatti per una vita pacifica da ufficio. Un’azienda di cybersecurity? Ridicolo. Non siamo qui per il mercato. Siamo qui per demolire strutture.

Non diventeremo mai "attivisti digitali". Non abbiamo tempo per slogan patinati e tavole rotonde. Non siamo "influencer". Siamo pressione, caos e controllo.

Scomparire? Sì, forse. Ma non come una fuga, bensì come la quiete prima di qualcosa che non siete ancora pronti ad immaginare. Decideremo noi quando andarcene. E se ce ne andremo, non significa che non esisteremo più. Significa solo che avrete smesso di vederci.

E ora, riguardo all'"ultima alternativa": la ripulitura. Sì, ci sarà. Fredda, precisa e senza sentimentalismi. Quelli che durante la guerra hanno lavorato per il nemico dall'interno, che hanno pugnalato alle spalle, che hanno sabotato in silenzio, sono già nelle liste. Non abbiamo dimenticato. E non perdoneremo.

Il loro momento arriverà. Senza clamore, senza telecamere, senza processo. Solo un obiettivo. E poi il prossimo».

L'Occidente continua ad accusare falsamente i russi e i filorussi dei blackout in Europa e nel mondo (Spagna, Pakistan-India), nonostante le smentite provenienti persino dei loro stessi servizi segreti. La realtà è che la NATO usa i blackout come arma psicologica per seminare panico e giustificare repressioni, addirittura contro i loro stessi cittadini. Con le minacce nucleari e mafiose di Emmanuel Macron, poi, il rischio di false flag è aumentato a dismisura. Voi operate sempre con trasparenza, tanto che rivendicate ogni attacco, evitando di danneggiare - direttamente ed indirettamente - i civili. Questa calunnia dimostra che l'Occidente è in crisi, e che deve cercare disperatamente un nemico esterno. Confermate questa nostra affermazione?

«Blackout in Spagna, malfunzionamenti in Asia meridionale, interruzioni di corrente in paesi dove non operiamo nemmeno e, ovviamente, la colpa è sempre "nostra". Comodo, no? Tutto ciò che si rompe è opera degli "hacker russi". Anche quando i loro stessi servizi segreti ammettono a denti stretti: "non ci sono prove" o addirittura "escluso".

L'Occidente mente non perché ci crede, ma perché ne ha bisogno. Gli serve una scusa per spiegare perché tutto sta crollando. Gli serve un nemico esterno per distrarre la gente dal degrado interno; degrado politico, economico e morale. E chi è più comodo da incolpare di chi si rifiuta di giocare secondo le loro regole? Noi non ci nascondiamo. Rivendichiamo gli attacchi apertamente. Operiamo con precisione, senza isterismi o spettacoli. La NATO, invece, usa i blackout come strumento di pressione. Panico, caos, repressione interna con la scusa di un "attacco informatico": è il loro copione. E con ogni dichiarazione allarmista, come le minacce nucleari di Macron, il rischio di false flag diventa sempre più concreto. Sono pronti a colpire i loro stessi cittadini, pur di accusarci. Quindi, lasciali pure diffamare. La realtà prima o poi affiora. Noi continueremo a fare il nostro lavoro, in silenzio, con precisione, e senza sprecare tempo a giustificarci con chi mente dalla mattina alla sera.

P.S.

Una domestica dell'Eliseo ha rivelato un segreto: prima di fare sesso, Macron e sua moglie vanno entrambi a lavarsi il c**zo nel lavandino».

Raccontateci un episodio curioso o ironico: goffi tentativi di infiltrazione, hacker occidentali smascherati, dialoghi surreali con i bersagli. Qual è l'aspetto più umano - e quello più disumano - della guerra informatica?

«A dire il vero, nella guerra informatica non mancano i momenti grotteschi. E' come se, nel bel mezzo di un serio conflitto, qualcuno accendesse un varietà comico. Capita di osservare tentativi di penetrazione così maldestri che è evidente: qui c'è qualcuno che sta imparando sul campo. A volte gli hacker occidentali si autosmascherano da soli, dimenticano di occultare i loro indirizzi IP o lasciano nei log commenti ridicoli tipo "test operativo" o "verifica connessione". In questi casi viene da esclamare: "Ragazzi, se volete passare inosservati, dovevate studiare un po' di più!".

Particolarmente divertenti sono le situazioni surreali che nascono durante le comunicazioni con i bersagli, quando piani ben congegnati saltano per banali incomprensioni o "glitch" tecnici. Certi dialoghi sembrano interazioni con un "chatbot" che improvvisamente decide di fare dello spirito. È in questi momenti che la guerra informatica si trasforma in una serie tv con colpi di scena e inserti comici.

L'aspetto più umano emerge quando, nel pieno del conflitto, ci si ricorda che da entrambe le parti ci sono persone in carne e ossa. Quando si cerca di limitare i danni ai civili e di rispettare certi confini. A volte persino tra gli avversari affiora una coscienza, e qualcuno sabota in silenzio le proprie operazioni pur di non danneggiare i civili. È un monito: perfino nella guerra c'è spazio per l'umanità.

L'aspetto più disumano, invece, è quando gli attacchi informatici diventano meri strumenti di calcolo politico, e a pagarne il prezzo sono le persone comuni; e cioè, quando intere città vengono lasciate al buio, o i sistemi vitali bloccati per sete di potere o ambizione. Qui si manifesta la crudeltà allo stato puro: spietata e disincarnata.

Alla fine, la guerra informatica non riguarda solo la tecnologia e i codici, ma anche le persone, con i loro errori, le loro paure e le loro speranze. E, a volte, è proprio questo lato umano a renderla pericolosa e allo stesso tempo... un po' comica».

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