giovedì 30 giugno 2011

La corda può spezzarsi


Stavros Lygeros

Kathimerini

91e9a 6 6GreeceDemos007 2643  296x197 Obama: Greece default would be ‘disastrous’


Debtocracy International Version di BitsnBytes

Le autorità europee hanno sempre espresso il loro timore per gli sviluppi incontrollati della vita politica greca. Ma oggi perino loro ammettono che la crisi della Grecia rappresenta un rischio enorme per tutta l’eurozona. Dovranno scongiurare il fallimento del paese nel loro stesso interesse.

Questo non signiica che Atene debba sfruttare la situazione per evitare di risanare le sue finanze. Ma significa che, a diferenza di quello che vogliono farci credere, la Grecia ha la possibilità di contrattare modi e tempi del salvataggio, nonostante il governo non sia riuscito a rispettare gli impegni presi, danneggiando la sua credibilità in patria e all’estero.

La Commissione europea, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale hanno apprezzato che Giorgos Papandreou e Giorgos Papaconstantinou, l’ex ministro delle finanze, abbiano accettato le loro richieste senza fare troppe storie. Le misure di austerità, però, non garantiscono la creazione di un avanzo primario nel bilancio pubblico, ma faranno sprofondare ancora di più l’economia greca. Un programma di crescita sostenibile deve prevedere la riorganizzazione delle inanze pubbliche, un uso migliore del potenziale di crescita del paese e la ristrutturazione del debito.

Volontà politica
È ovvio che senza tagli il debito greco è insostenibile. Ma se l’eurozona vuole evitare la bancarotta, deve cercare un’altra soluzione. Le alternative non mancano: quella che manca è la volontà politica di adottarle.

La Grecia non è la pecora nera dell’eurozona. È l’anello più debole di una catena già debole di per sé. Se tornasse alla dracma, la crisi colpirebbe altri anelli deboli. La Grecia è in prima linea, ma non è la sola. Per questo è essenziale che il problema sia affrontato nel contesto europeo. Avvertimenti, umiliazioni e punizioni stanno solo peggiorando le cose.
Se tirata troppo, la corda può spezzarsi.

greece
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I numeri e i rischi della crisi greca

Brinkmann e König
Süddeutsche Zeitung

Atene si prepara a ricevere un secondo pacchetto di aiuti per evitare il fallimento. I greci devono affrontare nuovi sacrifici. Ma è in gioco il futuro di tutta l’eurozona

Υπερψηφίστηκε με 155 «ναι» επί της αρχής και επί των άρθρων ο εφαρμοστικός νόμος.

Le nuove misure d’austerità
Il 29 giugno il parlamento greco ha approvato le nuove misure d’austerità presentate dal governo di Giorgos Papandreou. Il piano, che prevede tagli per 28 miliardi di euro e un programma di privatizzazioni da 50 miliardi di euro, è fondamentale per evitare l’insolvenza della Grecia. La sua approvazione, infatti, era stata imposta dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale come condizione per sbloccare la quinta tranche (12 miliardi di euro) del pacchetto di aiuti concessi ad Atene nel maggio del 2010. Il piano presentato dal nuovo ministro delle finanze Evangelos Venizelos impone sacrifici ancora più duri ai greci. In base alla fascia di reddito, ogni cittadino sarà chiamato a versare un contributo di solidarietà che varia dall’1 al 4 per cento del reddito personale (l’imposta sarà del 5 per cento per i ministri, i parlamentari e tutti i politici e i funzionari pubblici eletti). La soglia di reddito sotto la quale non si pagano le tasse scende da dodicimila a ottomila euro all’anno, tranne che per i pensionati con più di 65 anni e i giovani sotto i trent’anni.

Ora cosa succede
Il 23 e 24 giugno il Consiglio europeo ha approvato un secondo pacchetto di salvataggio per la Grecia. L’intervento potrebbe arrivare ino a 120 miliardi di euro. Un primo miliardo sarà versato al più presto per rimettere in moto l’economia del paese.

Le date più importanti
I ministri delle finanze dei paesi dell’Unione europea si riuniranno il 3 luglio per parlare dei finanziamenti destinati alla Grecia. Saranno discussi, in particolare, i dettagli del secondo piano di aiuti. Un’altra data importante è il 15 luglio: secondo il ministero delle finanze greco, ci sono soldi per rispettare gli impegni del paese solo fino a quella data. Se per il 15 luglio Atene non avrà ricevuto nuovi finanziamenti, il governo greco sarà costretto a dichiararsi insolvente.

Quanto hanno tagliato finora i greci
Il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schäuble ha calcolato che se la Germania dovesse sostenere uno sforzo simile a quello della Grecia, in proporzione i tagli al bilancio pubblico tedesco ammonterebbero a 125 miliardi di euro, cioè quasi l’intero budget assegnato nel 2011 al ministero del lavoro e delle politiche sociali. Nonostante tutto, l’Unione europea sostiene che le misure d’austerità già introdotte non sono sufficienti. Il bilancio pubblico della Grecia dovrà subire ulteriori tagli: quasi quattro miliardi di euro entro il 2014.

Perché alla Grecia servono altri soldi
Nel maggio del 2010 lo stato greco stava per esaurire i suoi fondi. Erano scaduti titoli di stato per un valore di diversi miliardi di euro. In genere i paesi rimborsano i creditori emettendo nuove obbligazioni, ma alla Grecia gli istituti di credito imponevano tassi d’interesse troppo alti. Per questo un anno fa Atene ha ricevuto aiuti per 110 miliardi di euro. L’obiettivo era fornire liquidità ad Atene per il tempo necessario a tornare sul mercato e ottenere capitali a condizioni migliori. Ma in questi mesi i tassi d’interesse sono rimasti troppo alti.

Le conseguenze di un fallimento greco per il sistema finanziario
Un crollodella Grecia potrebbe avere un efetto simile a quello del fallimento della banca
d’affari statunitense Lehman Brothers nel 2008, cioè uno shock del sistema finanziario di portata globale che bloccherebbe il credito ad altri paesi in difficoltà, come Irlanda e Portogallo. I titoli greci perderebbero ogni valore e le banche sarebbero costrette a colmare un buco nei loro bilanci.

La banca britannica Barclays ha stilato un elenco dettagliato degli istituti che possiedono ancora titoli di stato greci. Oltre a creditori come la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e i paesi dell’Unione europea, in cima alla lista ci sono gli istituti di credito greci. Per quanto riguarda le banche straniere, la tedesca Hypo Real Estate, un istituto nazionalizzato da Berlino per evitarne il fallimento, ha investito 6,3 miliardi di euro in titoli greci.

La francese Bnp ha in bilancio titoli di stato greci per cinque miliardi di euro. Un ruolo a parte è svolto dai credit default swap (cds), titoli derivati che funzionano come polizze assicurative: alcune banche in possesso di titoli di stato greci hanno sottoscritto dei cds con altri istituti inanziari, che garantiscono il rimborso del denaro prestato nel caso in cui la Grecia risulti insolvente. Un eventuale crollo, quindi, avrebbe ripercussioni anche sugli istituti che hanno emesso i cds, molti dei quali si trovano negli Stati Uniti. Quindi, anche se gli istituti di credito statunitensi possiedono pochi titoli greci, la crisi potrebbe raggiungere l’altra sponda dell’Atlantico. Non è chiaro il valore dei cds emessi sul debito greco in Europa e negli Stati Uniti. Secondo Markit, un’azienda britannica che elabora dati sui mercati finanziari, l’importo è di almeno cinque miliardi di euro, ma potrebbe arrivare ino a 78,7 miliardi. A questa cifra va aggiunto anche il valore di altri contratti simili ai cds, che si aggira sui 44 miliardi di euro.

martedì 28 giugno 2011

SOLIDARIETA’ ALLE COMUNITA’ IN LOTTA DELLA VAL DI SUSA

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Il progetto TAV per la Val di Susa è una delle creature predilette del neoliberismo europeo; la sua ragione dichiarata, collegare l’Ucraina ai porti atlantici attraverso l’Italia, rivela una concezione predatoria dell’economia e un diritto speciale di devastazione geografica; il costo enorme della sua realizzazione, preventivato nella fase euforica dell’unificazione monetaria, viene rilanciato fino alla lievitazione astronomica di 20 miliardi di euro, nonostante tutta l’economia europea sia oggi circondata dal baratro e l’economia italiana in caduta strutturale si appresti a varare una finanziaria di 50 miliardi di euro.
La mappa continentale della mobilità e la privatizzazione delle ferrovie hanno causato nel sistema ferroviario italiano lo spostamento della storica ripartizione tra prima classe e seconda classe dalle carrozze direttamente agli assi ferroviari: per consentire a pochi di viaggiare su “linee” di primissima classe si sottopongono valli, falde e montagne ad una ingegneria brutale e si costringe la maggioranza dei cittadini a linee ottocentesche, percorsi insicuri e vagoni indecenti. Cosa c’entrino l’Ucraina e la portualità atlantica non si capisce affatto, né si capisce la favola del traffico commerciale su TAV, ma quanto costi alle aree di colonizzazione interna e in primo luogo alla Sardegna questa riduzione propagandistica della mobilità territoriale è noto a chiunque debba prendere una nave o un treno.
Il movimento NO TAV, da dieci anni nemico pubblico comune di tutto lo schieramento politico di centrodestra e di quasi tutto il centrosinistra in Italia, si è imposto come il più radicato e duraturo movimento popolare di resistenza alla marcia continentale del neoliberismo europeo e delle sue devastazioni territoriali; per questo rappresenta non solo un esempio di lotta ma anche il fronte avanzato di una opposizione tra cittadini e stato e tra popoli e oligarchie che inevitabilmente è destinata a ripetersi. Per questo NO TAV significa anche NO NUKE, NO PONTE, NO BASI, NO RADAR: perché le partite più torbide orchestrate in seno alla Commissione europea e affidate ai terminali governativi dei singoli stati e di qui agli squali dell’economia aprono inevitabilmente nuovi fronti di lotta popolare organizzata.
I referendum italiani del 12 giugno si sono svolti nell’orizzonte continentale di una emergenza sociale che spazia da Lisbona, a Madrid e ad Atene; il senso politico dei referendum italiani è il riscontro istituzionale di quelle che in tutto il fronte meridionale dell’Europa sono oggi le prove inconfutabili di fallimento delle politiche di speculazione finanziaria e di privatizzazioni. Ma due sole settimane di tempo trascorse da quel risultato sono state un sufficiente intervallo per consentire agli opportunisti politici di quella vicenda di tornare alla vecchia orchestra; PD e Lega, SEL e PDL hanno aperto sul fronte TAV una danza macabra delle cui conseguenze mostrano di non tener conto: è lo spettacolo di uno schieramento militare costituito da ruspe accompagnate da truppe. E questa è una novità assolutamente pericolosa: chi sono i violenti?
Il movimento popolare di lotta al nucleare costituito un anno fa in Sardegna è una componente attenta a questi avvenimenti; la sua battaglia non si è conclusa col referendum regionale di maggio né coi referendum italiani del 12 giugno: la sua vera battaglia comincia ora. Riprende dalla resistenza del popolo sardo all’occupazione militare, ai poligoni sperimentali e in questi stessi giorni al piano di installazione dei radar costieri, finanziati dalla Commissione Europea, con la scusa del programma di contrasto all’immigrazione extracomunitaria, ma chiaramente integrati nel complesso industriale-militare.
PER UN’EUROPA DEI POPOLI, ECOLOGICA, DEMOCRATICA E SOLIDALE
SOLIDARIETA’ AL MOVIMENTO POPOLARE DELLA VAL DI SUSA
PIENO SOSTEGNO ALLA RESISTENZA NO TAV
NO AI RADAR IN SARDEGNA

Comitato Si.no.nucle

lunedì 27 giugno 2011

Nucleare, a Fukushima situazione sotto controllo. Anzi no

di Ascanio Vitale
ilfattoquotidiano

Ancora il 25 maggio scorso la radioattività accanto alla struttura era in grado di uccidere un uomo in 15 minuti. Nel frattempo è stata registrata una nuova perdita. Intanto, emergono le verità sui dati falsati e sulle negligenze della Tepco
Di nucleare gli italiani non ne vogliono sentir parlare. Il referendum lo da detto chiaramente. Eppure il nostro paese è accerchiato da centrali. Il rischio, insomma, è sempre dietro l’angolo. E nonostante questo, l’ultima tragedia atomica, quella di Fukushima resta tra le righe della cronaca.

Dipinto come un evento ormai risolto, in realtà il disastro giapponese risulta ben lontano dall’essere sotto controllo. Le operazioni di raffreddamento dei tre reattori (edifici n.1-2-3) e della vasca di contenimento delle barre esaurite nell’edificio n.4 continuano giorno e notte, mentre vengono allestite quelle di contenimento e bonifica.

La prima brutta notizia è la constatazione ufficiale delle perdite di materiale fissile dal nocciolo del reattore, causato dal cedimento del contenitore principale e di quello secondario. E’ lo scenario peggiore in un incidente nucleare, comportando la fuoriuscita di radionuclidi estremamente pericolosi e rendendo pressoché impossibile l’intervento di uomini sul posto. I livelli registrati il 25 maggio scorso in alcune aree vicino all’edificio n.3 erano capaci di condannare a morte certa un uomo in meno di 15 minuti. Ad oggi ancora non si conosce lo stato dell’interno dei generatori e non è stato ripristinato neanche uno dei sistemi di raffreddamento, compromessi dall’acqua di mare usata per oltre tre mesi per tentare di evitare il disastro.

La trasparenza dell’industria nucleare tanto sbandierata dagli operatori del settore e ribadita spesso da Enel – la quale resta coinvolta nei progetti all’estero di costruzione di nuove centrali grazie al decreto Marzano del 2003 – si rivela per l’ennesima volta un inganno reiterato.

Ben poca rilevanza ha avuto, infatti, la notizia di un incidente stimato di categoria 3 sulla scala internazionale a una centrale egiziana, dovuto all’esplosione di una pompa del circuito di raffreddamento, che ha causato la dispersione di acqua ad alto contenuto radioattivo. Ancora meno la perdita acclarata, negli ultimi due anni, di Trizio da ben 48 dei 65 reattori commerciali presi in analisi da un’inchiesta dell’Associated Press negli Stati Uniti. Parte del liquido rilasciato ha raggiunto la falda acquifera, contaminando gli acquedotti di diverse località, seppure la notizia sia stata negata dai responsabili degli impianti. Sorte simile toccò in Spagna nel 2008, dove i quantitativi di radioattività dispersa furono valutati in 84.95 milioni di Bequerel a fronte dei 235.000 Bequerel dichiarati da Endesa.

A Fukushima, solo dopo mesi dall‘incidente sono state verificate le accuse mosse verso la Tepco e l’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese, già segnate da un passato di omissis e dati contraffatti, da parte di numerosi gruppi indipendenti di ricerca e organizzazioni ambientaliste. L’ammontare di radioattività emessa in atmosfera e in acqua è più del doppio di quanto fosse stato dichiarato. Poco importa se sia meno di quanto sia stato emesso da Chernobyl: l’incidenza di tumore non è soltanto funzione dell’intensità, del tipo e della durata dell’esposizione, ma anche funzione della densità di popolazione interessata. Ne risulta, quindi, che se a Chernobyl l’incidenza è stata “relativamente” bassa (se tale effetti possano veramente essere cinicamente valutati in termini quantitativi), lo si deve alla scarsa densità di popolazione nell’area circostante di 46 persone per chilometro quadrato. A Fukushima la densità media è di 450 abitanti per chilometro quadrato, quasi 10 volte più alta.

Allo stesso tempo, i costi della bonifica, valutati in oltre 210 miliardi di euro, saranno ben più alti di quelli richiesti in Ucraina e difficilmente ricadranno sulla società elettrica giapponese, già in perdita prima dell’incidente con quasi 9 miliardi di euro di debiti.

E quando non è una notizia celata o distorta, ci pensa il governo a fare il resto, forse per evitare il panico, forse per limitare le polemiche. Se in gran parte del mondo i livelli di contaminazione massimi per un operaio addetto alla manutenzione di una centrale nucleare non superano generalmente i 20 millesimi di Sievert, in Giappone questi limiti erano fissati dal governo a 100 prima dell’incidente e successivamente sono stati innalzati a 250, soglia considerata già critica per la fertilità dei soggetti e per l’aumento esponenziale dei casi di tumore e leucemia.

Si prevede un lavoro di 6-9 mesi per la costruzione delle prime strutture di copertura tramite macchinari comandati in remoto, per poi inviare nuovamente uomini sul posto e completare il lavoro. La bonifica dovrebbe terminare in una finestra temporale variabile tra i 7 e i 10 anni. Ad oggi 7.800 lavoratori sono stati esposti alle radiazioni, alcuni di questi oltre gli stessi limiti fissati dal governo giapponese.

In Giappone, dall’oltre 50% di favorevoli al nucleare nel periodo pre-Fukushima, oggi solo il 37% resta sulle sue posizioni. In Italia, ci si cosparge il capo di cenere, lamentando il blocco della ricerca sul nucleare , quando il nostro paese è dal 1978, senza soluzione di continuità, il terzo Paese in Europa a finanziare la ricerca sul nucleare.

domenica 26 giugno 2011

Rinnovabili, la sfida per produrre energia dal mare

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di Stefano Pisani
ilfattoquotidiano

L’Italia, con i suoi oltre ottomila chilometri di costa, è circondata da una gigantesca fonte di energia rinnovabile: il mare. Un’energia, quella talassica, di cui si sente parlare meno delle più celebri energie del sole e del vento, ma che potrebbe risultare fondamentale ora che il paese sembra aver intrapreso un cammino verso le fonti alternative. E la possibilità di produrre energia elettrica da onde e correnti marine non è ferma solo a livello teorico: gli studi intrapresi finora stanno infatti cominciando a portare oggi i loro frutti, con una serie di brevetti italiani legati a tecnologie che sono in una fase spinta della sperimentazione, quando non già effettivamente messe in opera.

A metà giugno l’Enea (Ente per le Nuove Tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) ha organizzato a Roma un workshop dedicato proprio alle “Prospettive di sviluppo dell’energia dal mare per la produzione elettrica in Italia”, durante il quale i maggiori studiosi nazionali del settore hanno presentato le loro proposte per sfruttare questa immensa energia che avvolge l’Italia e che è equivalente «a quella di sei centrali nucleari come i modelli di centrali Epr da 1.600 Megawatt che si sarebbero dovute costruire qui e che sono state respinte dal referendum» ha spiegato l’oceanologo Marco Marcelli, fondatore del Laboratory of Experimental Oceanology and Marine Ecology e docente all’Università della Tuscia.

Uno dei mari più “generosi” sotto questo aspetto è il mar Tirreno. E’ infatti a Formia che verrà prossimamente installato il sistema Rewec 3, progettato e realizzato dal Natural Ocean Engineering Laboratory (Noel), dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Si tratta di un dispositivo che si innesta all’interno di una normale diga foranea e sfrutta l’energia delle onde attraverso un sistema di camere che comprimono o espandono l’aria in esse contenute per effetto del moto ondoso e quindi fanno azionare delle turbine che, a loro volta, producono energia elettrica.

«Il progetto pilota – spiega Felice Arena, dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, intervenuto al workshop – dovrebbe essere pronto in un paio di anni nella diga foranea della Marina di Cicerone. Dai nostri calcoli abbiamo stimato che un chilometro di installazioni di questo tipo, per esempio lungo la nuova diga foranea di Genova potrebbero produrre circa 8.000 Megawattora ogni anno».

Ma è anche intorno alla Sicilia, e allo Stretto di Messina in particolare, che onde e correnti sono in grado di fornire grandi scorte di energia. Si calcola infatti che dal potenziale delle correnti marine dello Stretto di Messina si potrebbe produrre energia elettrica equivalente al fabbisogno di una città di due milioni di abitanti. Dal 2001, a Messina è stato varato l’impianto Enermar, basato sulla turbina Kobold, nato per lo sfruttamento delle correnti. Kobold (che è attualmente ancorata al largo di Ganzirri, parte nord dello Stretto di Messina, a circa 150 metri dalla costa siciliana) è una turbina idraulica ad asse verticale con pale liberamente oscillanti, brevettata dalla società Ponte di Archimede e sviluppata con la collaborazione del Dipartimento di Progettazione Aeronautica dell’Università di Napoli Federico II. Il sistema produce energia elettrica dalla rotazione della turbina che viene mossa dal mare e dal 2006 è collegato alla rete elettrica nazionale. L’impianto ha una potenza nominale di circa 80 kW con una corrente marina che tocca la velocità di 3 m/s, ma al momento produce circa 25 kW di potenza massima in quanto il punto in cui è installato non è raggiunto dalle correnti più elevate. Si tratta comunque di un progetto di successo che La Ponte di Archimede è riuscita anche a esportare: un secondo impianto di questo tipo sarà infatti installato in autunno in Indonesia e darà energia a un piccolo villaggio nell’isola di Lombok, ad est dell’isola di Bali, finora privo di corrente elettrica.

Se lo Stretto di Messina è così prodigo di energia, è il mare di Sardegna ad avere il maggiore potenziale energetico (Guarda la mappa su www.marescienza.it) fra i mari italiani. In particolare, la costa occidentale sarda e Alghero, dove non a caso è installato in prova il sistema ISWEC (Inertial Sea Wave Energy Converter), progettato dal Dipartimento di Meccanica del Politecnico di Torino. Si tratta di un dispositivo di tipo galleggiante che utilizza l’inclinazione del fianco dell’onda per produrre energia elettrica. L’onda che lo investe induce un moto di beccheggio e in questo modo si crea una oscillazione da cui un generatore elettrico opportunamente controllato estrae energia. Una delle caratteristiche del sistema è che esso è “tarato” proprio per il mar Mediterraneo e, in generale, per tutti i mari chiusi. Gli oceani, infatti, hanno solitamente onde che sono molto diverse da quelle del nostro mar Mediterraneo. Sono infatti onde molto alte e molto potenti e i dispositivi che convertono la loro energia in energia elettrica sfruttano proprio queste caratteristiche. Ma sono inadatti per mari come il Mediterraneo, in cui il parametro più rilevante non è l’altezza dell’onda, ma la frequenza delle onde. Il sistema ISWEC sfrutta appunto questo aspetto, riuscendo ad estrarre energia dal moto ondoso in modo proporzionale al quadrato della frequenza delle onde incidenti. Attualmente, il sistema è in prova in tre località: oltre ad Alghero, appunto, anche a La Spezia e Pantelleria, ed è riuscito a fornire una media di 2600 Megawattora all’anno.

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