mercoledì 13 giugno 2012

Sardinya: Michela Murgia «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»

Celestino Tabasso
www.unionesarda.it


La scrittrice di Cabras racconta per Einaudi uno scorcio di infanzia sullo stagno «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»
 Michela Murgia e “L'incontro”, da oggi nelle librerie
Un'estate allo stagno. Tre preadolescenti che vanno, sotto il solleone di Cabras, alla scoperta dell'amicizia e dell'appartenenza a un gruppo, a un quartiere, a una parrocchia. A una comunità.
E intanto si divertono, scherzano e si spaventano come dei Tom Saywer aromatizzati alla bottarga.
Si intitola “L'incontro” (112 pagine, 10 euro) il libro di Michela Murgia che Einaudi manda oggi nelle librerie e che l'autrice presenterà venerdì a Cagliari insieme a Francesco Abate nella biblioteca provinciale di Monte Claro, «perché è giusto andare nelle biblioteche, che oggi vivono un pessimo momento».


Michela Murgia, abbiamo consumato ettari di carta e fontane d'inchiostro per raccontare al mondo che il sardo è un solitario, un individualista, e lei scrive un romanzo su un ragazzino isolano che scopre il fascino del pronome “noi”.«Quella dell'individualismo è una leggenda nera e falsissima: la cultura sarda è coesa e comunitaria. Certo, ci piace molto descriverci come degli orsi delle caverne, ma è l'opposto della realtà. Giusto per fare un esempio: in nessun'altra regione d'Italia esiste un'associazione di librai, categoria di “singoli” per eccellenza. A volte non ce ne rendiamo conto, ma da noi regna il presente plurale».


Che cosa è?«Un verbo specifico che ho inventato per indicare quel fenomeno tipicamente nostro... che so, mi fallisce l'azienda e dico:“Eh, noi sardi non siamo imprenditori”, litigo con qualcuno e commento: “ Siamo sempre i soliti, pocos, locos y malunidos”, Marco Carta vince a Sanremo e andiamo tutti in estasi per il nostro trionfo. Insomma: il disastro del singolo è un fallimento collettivo, e il successo del singolo è il riscatto di un popolo. Dopo che ho vinto il Campiello, per strada i lettori italiani mi dicevano “brava”, i sardi mi dicevano “grazie”».


E dopo aver scoperto il “noi”, i tre amici del racconto arrivano a definire il “loro”: gli altri, gli estranei. È una metafora della misteriosa e vessatissima questione dell'identità sarda? Il sardo che si definisce a contrario, in quanto non romano, non italiano?«Il punto è quello, ma non è in questi termini che lo porrei. È pacifico che il sardo non è romano né italiano. La categoria dell'alterità è chiara, perfettamente comprensibile. Il problema è quando l'altro viene da dentro, non da fuori. Alla fine del libro dichiaro il mio debito verso l'antropologo Benedetto Caltagirone per il suo “Identità sarde”. La sua inchiesta lo porta a girare per il Barigadu - e non a caso sceglie un'area meno definita, meno nitida della Barbagia o del Campidano - alla ricerca del Cab'e Susu, il Settentrione. Nel primo centro gli spiegano che per arrivare al Cab'e Susu deve andare pochi chilometri più a Nord: è lì che comincia quella famosa area. Ma una volta arrivato gli spiegano che il Cab'e Susu comincia un po' più su, deve salire ancora un po'. E va avanti così, all'inseguimento di questo Altrove che è sempre altrove, fino a quando una vecchia gli spiega con più precisione degli altri: il Cab'e Susu è dove noi non siamo . È da questa scintilla che nasce il mio racconto».


Il differenziarsi.«Sì. Dentro una comunità si può essere tutti diversi ma il confine, il distinguo, non si nota finché qualcuno non si incarica di evidenziarlo».


Nel libro non c'è solo un'analisi, metaforica, dell'identità sarda e dei meccanismi di circoscrizione di una comunità. Il suo libro per qualche pagina fa resuscitare gli acquisti fatti su Postal Market, il ghiacciolo Lemonissimo, la benda di Capitan Harlock... Sembrava impossibile avere nostalgia degli orridi anni Ottanta.«Sono stufa di sentir dire che gli Ottanta furono orridi: sono stati anni meravigliosi che oggi vengono ingiustamente criticati, perché tutti attribuiscono a quel periodo pecche e guai nati in altri momenti. Io chiedo ufficialmente il riscatto degli Anni Ottanta».


Vabbè. E comunque per essere un'autentica estate Anni Ottanta, manca un elemento fondamentale.«Sarebbe?».
La tivù.«Perché, lei nelle estati degli Anni Ottanta guardava la televisione?».


Non si usava?«Ma quando mai. L'estate '80 funzionava così: compiti fino alle tre, massimo tre e mezza, e poi via in strada. C'erano da organizzare gli agguati con le cerbottane, bisognava scegliere il posto sui gelsi per gli appostamenti... Aveva voglia Bimbumbam a trasmettere cartoni animati: eravamo noi, i cartoni animati, e non c'era Paolo Bonolis capace di tenerci in casa».


Si dice che per far funzionare un racconto vanno benissimo il sesso e/o la violenza. Ma anche i topi, un bel branco di topi in agguato nel buio, funzionano alla perfezione.«Non so. Di sicuro è stata un'esperienza molto forte da vivere, più che da raccontare. Ma non ho sviluppato la fobia, ed è già qualcosa».


“L'incontro” si legge di slancio. Significa che è stato laborioso scriverlo?«È stato così. Anche perché, come dire, questa storia ha una storia. La trama l'avevo in testa da molto tempo, e quando il Corriere della Sera, più o meno un anno fa, mi chiese un racconto per una collana di inediti decisi di raccontare le vicende di quell'estate. Il fatto è che una volta arrivata al numero di cartelle che mi chiedeva il Corriere, mi resi conto che non avevo né il tempo né lo spazio per raccontare molte delle cose che avevo in mente. A quel punto ho consegnato quel che avevo scritto, anche se a malincuore, ma ho tenuto i diritti e dopo averne parlato con Einaudi ho ripreso in mano il testo e in qualche settimana ho reso giustizia ai personaggi scomparsi nella prima versione».

lunedì 11 giugno 2012

Sardinya: Accordo Podda-Granarolo .. addio ad un'altra eccellenza sarda

Sa Defenza pubblica due articoli "sull'esproprio" di una un'altra azienda sarda: il gruppo Podda, azienda di qualità, fagocitata da una società emiliana il gruppo agro-industriale  Granarolo; 
stessa sorte  a quella del Banco di Sardegna già fagocitato  anni fa da un'altro gruppo emiliano il gruppo bancario: Banca Popolare Emilia Romagna.

Enrico Pilia
www.unionesarda.it
Nasce una nuova società per la distribuzione dei formaggi realizzati a Sestu; 
Accordo Podda-Granarolo Latte, intesa commerciale con il colosso bolognese
Oggi alle 15, in uno studio legale al centro di Cagliari, la famiglia Podda e il direttore generale della Granarolo, Giampietro Corbari, si ritrovano per fondare una nuova società. Se l'accordo si dovesse chiudere positivamente, oggi sarà il primo giorno della Casearia Podda, la nuova compagnia del settore lattiero-caseario che sarà controllata al 65 per cento dalla Granarolo - il colosso nazionale del latte - e al 35 dalla Ferruccio Podda spa, la seconda società sarda del settore dopo la cooperativa di Arborea.
Nessuna cessione dell'azienda, nessun passaggio di consegne o di quote, tantomeno un passo indietro dei Podda: «Siamo felici per questa trattativa, pronti a firmare se riterremo che l'accordo sia vantaggioso per tutti», dice Sandro Podda, amministratore delegato della storica società del latte, nata nel 1952 grazie al padre Ferruccio. Quella piccola rivendita di latte sfuso oggi è un'azienda che fattura 15 milioni di euro, con una produzione di formaggi e un'elevata qualità dei prodotti che hanno suscitato l'interesse della Granarolo, che di milioni ne fattura 850 all'anno.

LE CRITICHE 
In un documento diffuso ieri pomeriggio, gli indipendentisti di A Manca hanno espresso forti critiche sull'accordo, chiamando in causa la classe politica che - secondo il testo diffuso via mail dal direttivo politico di A Manca - assiste senza muovere un dito allo shopping nell'Isola delle grandi compagnie nazionali: «Un colosso italiano dell'economia ci porta via uno dei prodotti di eccellenza della nostra economia».
Secondo Sandro Podda «niente di più sbagliato, la nostra azienda non perde pezzi né cede quote, l'accordo con Granarolo - se dovesse andare in porto - permetterà a noi di poter utilizzare nuovi canali commerciali e a loro di commercializzare il nostro formaggio pecorino, visto che oggi non è un prodotto che realizzano».

I DETTAGLI
 Ferruccio Podda e il figlio Sandro restano al comando della società sarda, mentre è proprio della “newco” Casearia Podda che si parlerà questo pomeriggio nell'incontro decisivo con il manager della Granarolo. Alla fine della cena, prevista in un ristorante di viale Regina Margherita, potrebbe esserci anche il brindisi alla neonata società. L'accordo commerciale prevede che l'immobile di Sestu rimanga alla famiglia Podda, che lo affitta nella nuova società. «La Granarolo non entra nella Ferruccio Podda». sottolinea l'amministratore delegato, «saranno i nostri prodotti a viaggiare di più». La produzione per “alimentare” il nuovo marchio cagliaritano spetterà ai Podda, mentre sarà la Granarolo a mettere a disposizione la sua imponente struttura logistica e le reti di distribuzione, sia per la Sardegna che per il resto d'Italia. La lettera d'intenti è stata già firmata, il faccia a faccia di oggi prelude a un'intesa storica.



GRANAROLO ACQUISISCE STABILIMENTI PODDA. ARBOREA SI ESPANDE. QUALI CONSIDERAZIONI?


Di Corda M. & Bomboi A. – Ass.ne U.R.N. Sardinnya.
http://www.sanatzione.eu/

Economia: 11 giugno, si chiude l’accordo Granarolo-Podda. La società italiana dovrebbe incorporare il 65% degli stabilimenti Podda SPA, lasciando ad Alessandro e Ferruccio Podda il 35% della seconda azienda lattiero-casearia dell’isola nata nel 1952.

La Podda conferirà la rete commerciale e di produzione alla Granarolo, mentre quest’ultima fornirà il servizio logistico e di distribuzione regionale all’impresa Sarda.

Partiamo da un presupposto, quando un’azienda locale diventa appetibile ad una più grande significa che ha ben operato e consolidato la propria rete commerciale nel territorio. I Podda hanno creato un eccellenza del settore che per qualità e fatturato (15 milioni di euro annui) si pone al secondo posto del mercato locale, dopo la 3A di Arborea.

Le fusioni e le acquisizioni vanno dunque valutate positivamente -a prescindere dalla nazionalità- quando puntano ad incrementare il proprio fatturato nel mercato (e possibilmente salvando tutti gli operatori coinvolti nella filiera). Ma una politica commerciale si valuta in base ai contenuti ed agli effetti che produce. Sotto questo punto di vista la linea dei Podda appare ben diversa dal gruppo 3A. Infatti, mentre la 3A nel 2012 ha avviato un piano di espansione commerciale nel nord Italia e quindi verso un nuovo mercato, i Podda hanno realizzato un accordo di segno inverso, perché sarà la Granarolo ad introdursi nel nostro mercato, con tutto ciò che consegue in termini di fatturato a vantaggio dei nuovi investitori italiani rispetto agli imprenditori Sardi.

Sarà inoltre opportuno valutare quali effetti avrà questo accordo nelle produzioni locali dell’ovicaprino, anche alla luce dell’acquisizione da parte del gruppo 3A di Arborea delle Fattorie Girau di San Gavino avvenuto a fine 2011, inedita partnership oltre il latte vaccino con le quali l’azienda arborense punta ad integrare il proprio fatturato annuo superando i 140 milioni di euro.

Quale politica commerciale si riserverà di adottare la Granarolo nei confronti dell’ovicaprino Sardo? E come intenderà porsi la Arborea nei confronti del colosso italiano appena entrato nel nostro mercato? Riteniamo sempre più attuale l’ipotesi di creare un Antitrust Sardo a garanzia della trasparenza, della libera concorrenza e della tutela degli operatori commerciali e degli utenti presenti sul territorio, al fine di evitare zone d’ombra che rischiano di danneggiare i generali interessi economici della Sardegna. Non è pensabile che il nostro sistema economico divenga preda di gruppi esterni senza trarne il minimo vantaggio in termini di espansione commerciale e solidità occupazionale. Elementi di cui la politica Sarda dovrebbe tenere conto in ragione del fatto che “essere italiani” per noi Sardi non significa nulla in termini di ricaduta economica per il territorio nel momento in cui il fatturato di un determinato settore esce dal nostro tessuto economico. Anche la zona franca avrebbe aiutato non poco.

Persino la 3A di Arborea, nonostante sia occupata ad espandere la sua penetrazione in nuovi mercati, risente dell’italianizzazione del suo brand rispetto al valore aggiunto della tipicità Sarda. Un esempio? Nella sua nuova politica commerciale, la Arborea non ha esaltato il “made in Sardinia” (peraltro inesistente sul piano formale), ma il “made in Italy”, e contrassegnando il suo restyling con il motto: “L’isola felice delle mucche”.

Chi ha illustrato il nuovo payoff aziendale? Luciano Negri, valido direttore di marketing ma che dimostra l’assenza di una imprenditorialità locale diffusa e dedita alla promozione del nostro valore aggiunto (anche in termini linguistici Sardi).
Naturalmente i responsabili di questo deficit di valorizzazione territoriale nel campo della formazione, del management e del marketing vanno ricercati nelle università Sarde, anzi, nelle università italiane di Sardegna.
L’assenza di una seria formazione territoriale è la punta dell’iceberg di un tessuto socioeconomico incapace di valorizzare e di incrementare l’efficacia della sua performance, consentendo dunque situazioni nelle quali l’imprenditore -in questo come in altri settori- non solo non è protagonista ma è subordinato al rango di chi è obbligato dal contesto ad accodarsi.

domenica 10 giugno 2012

SARDINYA: Maria Marongiu, Una vita per l'indipendentismo

Cristina Cossu
www.unionesarda.it




 Maria Marongiu, titolare dell'Alfa editrice: vorrei rifare Sa Republica sarda 


 Una vita per l'indipendentismo 


«Per la lingua sarda servirebbe una battaglia unitaria»




Maria ha ricordi bellissimi e una missione: difendere l'identità del popolo sardo. Per quasi quarant'anni ha combattuto accanto al suo uomo, con le parole, gli scritti, le manifestazioni, il teatro, l'attività nelle scuole, i festival. 


Poi lui se n'è andato, abbattuto dal cancro, e lei ha continuato a lottare. «Perché non possiamo affrontare il futuro se non partiamo dalle radici». 


Porta avanti, praticamente da sola, l'Alfa editrice, da un ufficio pieno di carte e di quadri all'ingresso di Quartu, stampa i suoi libri a Ortacesus, «dove c'è una bella tipografia», sta pensando seriamente di rifondare, almeno on line, Sa Republica sarda , giornale bilingue uscito dal 1977 al 2009, che ha ospitato articoli di Francesco Masala e Ugo Dessy, Giovanni Lilliu e Eliseo Spiga. Punto di riferimento politico per le idee nazionalitarie e indipendentiste, strumento di denuncia contro il colonialismo e la globalizzazione, sostegno alla diffusione della lingua sarda e alle battaglie per le minoranze, l'autodeterminazione, i diritti civili, l'emarginazione. 


Maria Marongiu è nata a Osilo cinquantotto anni fa, ha tre figli, suo marito, Gianfranco Pinna, è morto nel 2003 e la guarda serio da una grande fotografia appesa alla parete. Vicino, un ritratto di Bettino Craxi. «Collaborava con noi, usava lo pseudonimo di Edmond Dantes. Nel '93 Gianfranco pubblicò una serie di pezzi critici sull'operato della magistratura, contattò l'ex leader socialista che, secondo lui, rappresentava il simbolo dell'accanimento moralizzatore e dello strapotere delle procure rosse. Forte di queste convinzioni, diede vita a numerose iniziative che miravano a sensibilizzare l'opinione pubblica e a riportare l'Italia sulla via della giustizia e della verità. Poi, per la scomparsa di Craxi, l'editoriale si intitolava: “Ucciso come Matteotti”, un crimine di Stato». Posizione discutibile, ma tant'è, devozione pura.


Gianfranco. Lo ha seguito sempre e in tutto.«Era un giornalista e un editore eccezionale. Ma sopra ogni altra cosa era un attivista, ribelle e libertario».


Come vi siete conosciuti?«A Sassari, grazie ad amici comuni. Io ero giovane, avevo 21 anni, lui dieci di più. Gravitava nell'area della sinistra, poi si è avvicinato al pensiero di Antonio Simon Mossa ed è rimasto folgorato. Ci siamo sposati poco dopo, a Nuoro, nella chiesetta dell'Ortobene, i testimoni di nozze erano Bainzu Piliu e Giannino Guiso. Avevamo chiesto una cerimonia in sardo, il vescovo non l'ha concessa e il parroco ha dovuto dire messa in italiano. Allora il sardo, ufficialmente, nelle scuole, era tabù, se non si era criminalizzati poco ci mancava»

E così avete fondato il mensile “Sardigna”.«Alla fine del '76 uscì il numero zero della rivista, diretta da Gianfranco Pintore. Fu il prologo di Sa Republica sarda , pubblicata dal maggio '77, il direttore era Gustavo Buratti, intellettuale democratico e sensibile. L'obiettivo era di radunare sotto la testata, personalità della cultura, della politica, dell'economia».


Poi vi siete trasferiti a sud.«Sì, perché avevamo problemi di tipografia. Qui abbiamo iniziato a stampare a Tutto quotidiano , la tiratura media era di duemila copie, ma in alcune occasioni siamo arrivati a quota centomila». 


A quel punto, a Cagliari, è nata la casa editrice Alfa.«Pubblicavamo anche periodici indipendentisti, Iskra , Boge , e libri, come ora. Tanti libri, tre, quattro all'anno, saggistica etnica, romanzi, volumi di storia, manuali per gli studenti».


Ci racconti la militanza politica.«Nel 1982 Gianfranco, con Angelo Caria, Giampiero Marras e Bore Ventroni, promosse a Bauladu la riunione di tutte le organizzazioni politico-culturali anticolonialiste, nazionalitarie e indipendentiste dell'Isola, dalla quale scaturì il movimento Sardinna e Libertade . Al congresso costitutivo c'erano Fabrizio De André e Simone De Beauvoir».


E oggi, quale indipendentismo? Lei per chi vota?«Io sono amica di tutti, purtroppo la nostra maledizione sta nel personalismo. Ho apprezzato per le comunali di Cagliari la candidatura a sindaco di Claudia Zuncheddu, mi piace Cappellacci quando fa la flotta sarda e la messa in mora dello Stato in lingua sarda, usate per la prima volta in una rivendicazione. Queste battaglie devono diventare patrimonio di tutti: per l'uso della lingua dobbiamo fare quello che abbiamo fatto per le servitù militari».


Vive bene a Quartu?Ci sono tante Quartu diverse. Purtroppo il vuoto culturale è desolante, un tempo il fermento esisteva. La città è ricca di tradizione e di feste meravigliose, eppure non si riesce a promuoverle. C'è una sola libreria e la biblioteca non è considerata un servizio essenziale».

Sardinya; Su matessi de Catalunya: «Indipendenza, non finisce qui Il popolo sardo si pronuncerà»


Giuseppe Meloni 
www.unionesarda.it



«Indipendenza, non finisce qui; Il popolo sardo si pronuncerà» 


Spunta l'idea di consultazioni autogestite come in Catalogna 


Sarà un referendum alla catalana (ma senza cipolla, a differenza dell'aragosta). 
Nonostante la bocciatura del quesito proposto da Doddore Meloni, gli indipendentisti non rinunciano a chiedere ai sardi di pronunciarsi sull'ipotesi di una repubblica autonoma nell'Isola.
 E contano di prendere ispirazione da quel che hanno fatto a Barcellona e dintorni: dei referendum autogestiti, non ufficiali, organizzati da forze politiche e attivisti per portare la popolazione a pronunciarsi in favore dell'indipendenza o contro. 


L'IDEA 
È l'intenzione annunciata dallo stesso Doddore Meloni subito dopo che l'Ufficio regionale per i referendum ha respinto la sua richiesta di una consultazione sull'argomento. Ed è anche l'idea, seppur ancora embrionale, di altri movimenti indipendentisti. «Il referendum, in un modo o nell'altro, si farà», prevede Omar Onnis, presidente di Progres-Progetu Republica. Ovviamente, un'iniziativa autogestita - avendo un valore puramente politico - avrebbe successo solo con una grande affluenza popolare. In Catalogna hanno fatto così, hanno messo su banchetti e urne artigianali e chiamato a raccolta i cittadini. I voti in favore dell'indipendenza hanno superato il 90%, ma a dare grande forza alle consultazioni è stata la partecipazione straordinaria. Anche nell'Isola, una mobilitazione limitata a pochi manipoli di attivisti resterebbe velleitaria. Altro impatto avrebbe una folla in fila ai seggi. 


SENTIMENTI DIFFUSI 
Da questo punto di vista, Onnis è ottimista: «C'è forte interesse per questo tema. Lo dimostrano il recente sondaggio dell'Università di Cagliari, le 30mila firme raccolte dal Fiocco verde su una proposta di sovranità fiscale, e la stessa iniziativa di Doddore». Progres aveva espresso dubbi sull'opportunità della scelta di Maluentu, «ma la bocciatura di quel referendum - riflette il presidente - è opinabile anche sotto il profilo giuridico. Lo stesso Ufficio regionale non aveva obiettato alcunché ai dieci quesiti per cui si è votato un mese fa, eppure alcuni aprivano forti dubbi di legittimità: come quello contro le Province storiche previste dalla Costituzione e dallo Statuto speciale». L'ipotesi di referendum autogestiti sarà presto valutata dalle varie forze indipendentiste: «Ancora nulla di definito», precisa Onnis. «Comunque se i sardi vorranno l'indipendenza, prima o poi ci arriveranno, a meno che non siano bloccati con la repressione. La comunità internazionale riconosce il diritto ad autodeterminarsi». 


«SERVE UN PROGETTO» 
Qualche dubbio in più da parte di Salvatore Melis, segretario dei Rossomori: «Non crediamo all'indipendenza fatta coi colpi di mano. Non abbiamo firmato il referendum di Doddore perché riteniamo che, prima, vada costruito un progetto politico-istituzionale». A partire da atti di governo concreti: «Molti strumenti già sanciti dallo Statuto speciale», riprende, «come le zone franche e non solo, non sono stati mai attuati e non per colpa dello Stato, ma per nostre incapacità. Iniziamo ad appropriarci delle competenze su scuola ed energia, o di quelle dell'Anas, che assurdamente gestisce soldi regionali». 


«LIBERTÀ VIGILATA» 
Invece Claudia Zuncheddu (Sardegna libera) è d'accordo con chi guarda alla Catalogna o alla Scozia: «Il processo di condivisione sui temi dell'autogoverno e dell'indipendenza è democratico e popolare, comporta un ampio coinvolgimento di coscienze, persone e organizzazioni che promuovano una trasformazione culturale e politica». Ma la bocciatura del referendum di Maluentu «rappresenta un gravissimo attacco al diritto di espressione dei cittadini sardi. È una situazione di libertà limitata e vigilata». Anche dalla Zuncheddu arriva un richiamo al «diritto internazionale all'autodeterminazione. Di fronte alla crisi economica che vede la Sardegna sempre più piegata, impoverita e vilipesa, la classe politica italiana dimostra di aver paura che noi sardi possiamo fare a meno dell'Italia e autogestire le nostre risorse, creando benessere e prosperità per famiglie e imprese».

sabato 9 giugno 2012

Rivoluzione d'ISLANDA a RE-AZIONE


ISLANDA
By Deena StrykerDaily Kos
http://www.dadychery.org/2011/12/18/iceland-ongoing-revolution/



"Ci hanno detto che se abbiamo rifiutato le condizioni della comunità internazionale, si sarebbe divenuti la Cuba del Nord. Ma se avessimo accettato, ci sarebbe diventati la Haiti del Nord. "

Bandiere del Che e l'Islanda a proteste anti-austerity.

La storia di un programma radiofonico italiano, sulla rivoluzione in corso l'Islanda è un meraviglioso esempio di quanto poco i nostri media ci racconta il resto del mondo. 


Gli americani possono ricordare che all'inizio della crisi finanziaria del 2008, l'Islanda è andata letteralmente in bancarotta. I motivi sono stati citati solo di sfuggita, e da allora, questo poco conosciuto membro dell'Unione europea ricadde nel dimenticatoio. 


Da quattro anni in Islanda - quell’isola glaciale attribuita all’Europa, che riposa in mezzo all’Atlantico del Nord, con appena 300.000 abitanti - succedono cose interessanti e nuove che non appaiono sui media corporativi dell’Occidente, confermando la manipolazione inesorabile di cui l’umanità è oggetto per il controllo che, sui mezzi di stampa mondiali, esercitano la super-potenza e le oligarchie ad essa legate. 


 In Islanda non ha avuto luogo una rivoluzione sociale, ma è successo qualcosa di quasi altrettanto grave per l’alta gerarchia della finanza: una rivoluzione contro la tirannia delle banche capitaliste in un mondo globalizzato con radici che portano inesorabilmente a Wall Street. 


 Anche se, grazie alle sue centrali geotermiche, l’Islanda gode di grande indipendenza energetica, il paese dispone di scarse risorse naturali e la sua economia, dipendente per un 40% dalle esportazioni della pesca, è per questo molto vulnerabile. 


Come gli altri paesi europei, si era indebitata con la speculazione bancaria per vivere al di sopra delle sue possibilità reali nel sistema finanziario neoliberista spinto dagli Stati Uniti, ai quali ora l’economia reale sta presentando il conto 


Per far fronte agli effetti di una crisi devastatrice, quattro anni fa il suo governo nazionalizzò le principali banche del paese e, per rappresaglia, Londra congelò tutti gli attivi di 300.000 clienti britannici e 910 milioni di euro investiti nelle banche islandesi da amministrazioni locali e enti pubblici del Regno Unito. 


L’isola dovette investire 3.700 milioni di euro di denaro pubblico per rimborsare quei clienti. Con un debito bancario islandese equivalente a parecchie volte il suo PIL, la moneta perse valore, la Borsa sospese le sue attività e il paese andò in bancarotta. Proteste di massa davanti al Parlamento a Reykjavik, la capitale islandese, obbligarono nel 2009 a convocare elezioni anticipate che, a loro volta, provocarono le dimissioni del Primo Ministro conservatore e di tutto il suo governo in blocco. 


Un progetto di legge, ampiamente dibattuto in parlamento, ipotizzava di scaricare su tutti i cittadini dell’isola il rimborso alle banche britanniche e danesi del debito di 3.500 milioni di euro, che avrebbero dovuto essere pagati mensilmente per i prossimi 15 anni. La popolazione scese nelle strade chiedendo di sottoporre a referendum tale legge. 


Il Presidente non lo accettò e non la ratificò, nonostante che il progetto contasse su 44 dei 66 voti in Parlamento. Venne convocato il referendum e il NO al pagamento ottenne il 93% dei voti. 


Davanti ad una tale vittoria della rivoluziona pecifica islandese, il Fondo Monetario Internazionale congelò ogni aiuto all’Islanda finchè non si fosse risolto il problema del pagamento del debito. 


 Il governo dispose un’inchiesta per accertare le responsabilità della crisi e cominciarono gli arresti dei banchieri e degli alti dirigenti. L’Interpol emise un ordine di cattura e tutti i banchieri implicati abbandonarono il paese. 


In questo contesto viene eletta un’assemblea per redarre una nuova Costituzione, che raccolga le lezioni apprese dalla crisi e che sostituisca quella attuale. Per questo si ricorre direttamente al popolo sovrano, rappresentato da 25 cittadini senza affiliazione politica eletti tra 522 candidati proposti. 


L’assemblea costituente lavora dal febbraio 2011 ad un progetto di Charta Magna a partire dalle raccomandazioni raggiunte in varie assemblee celebrate in tutto il paese. Il progetto dovrà poi essere approvato dal Parlamento attuale e da quello che si costituirà dopo le prossime elezioni legislative. 


 La ripresa economica sperimentata dall’isola dopo essersi liberata dal carico parassitario del debito con le banche viene vista dalle cupole capitlistiche europee come un esempio pericoloso per paesi chiamati “morosi” come la Grecia e l’Irlanda. 


Soprattutto perchè i recenti successi che l’Islanda ha avuto hanno portato molti economisti a ritenere che sia stato proprio il collasso delle banche ciò che più ha favorito tali successi. Non solo perchè l’economia islandese non è crollata con la soluzione alla crisi del non pagamento del debito, ma perchè il 2011 si è chiuso con una crescita del 2,1% che diventerà dell’1,5% nel 2012, cifra che triplica quella dei paesi della zona euro. 


Gran parte di questa crescita si basa su incrementi produttivi, principalmente nel settore turistico e nell’industria della pesca. Ciò contrasta con il quadro che mostrano altre economie europee, rallentate o in declino. 


L’Islanda ha dimostrato che, con il recupero della sua sovranità, giustizia e dignità sono andate di pari passo. Politici e banchieri corrotti sono stati processati. E, quale riaffermazione della sua indipendenza, l’Islanda è diventata – lo scorso ottobre – il primo paese europeo a riconoscere la Palestina come nazione indipendente, qualcosa che nessun paese sottomesso al giogo della banca internazionale capitalista ha potuto fare.

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