domenica 19 settembre 2010

Cappellacci ribadisce il no al nucleare

Replica a Veronesi (Pd): vogliamo un altro modello di sviluppo

Domenica 19 settembre 2010
Il presidente della Regione risponde al parlamentare dell'opposizione, che auspica la realizzazione di centrali nell'Isola: «Scelta incompatibile con un programma consolidato, che intendiamo portare avanti con determinazione».
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Non in questa Isola, senza girarci intorno. «La contrarietà al nucleare non è una scelta ideologica, è la ferma volontà di imboccare un'altra strada: quella di un modello di sviluppo che punti sulla valorizzazione del paesaggio, sul turismo, sulle energie rinnovabili e sulla green economy», queste le parole del presidente della Regione, Ugo Cappellacci, in replica alle dichiarazioni del senatore del Pd, Umberto Veronesi. Il quale, due giorni fa, aveva detto: «I sardi dovrebbero essere contenti se dovesse essere costruita una centrale qui. Non ci sono pericoli e la contrarietà al nucleare è solo ideologica, non supportata da argomentazioni scientifiche».
Secondo il governatore «vogliamo puntare verso un modello che crei occupazione senza chiedere ancora una volta alla nostra Isola pesanti sacrifici ed un tributo, anche in termini di immagine, che non siamo più disposti a pagare. La proposta
di realizzare centrali nucleari in Sardegna - ha aggiunto Cappellacci - è irricevibile nel metodo e nel merito: sotto il primo punto di vista, non può essere imposta in spregio alla volontà dei territori; sotto il secondo, è incompatibile con scelte già consolidate, che intendiamo portare avanti con determinazione». «I fautori del nucleare - ha concluso il governatore - predicano contro la logica Nimby (not in my back yard, non nel mio cortile), ma lo fanno sempre nel cortile altrui, lontano dal collegio elettorale di riferimento».
CALAMITÀ NATURALI La giunta, su proposta dell'assessore dei Lavori Pubblici Angelo Carta, ha stanziato 2 milioni 250 mila euro per opere di prevenzione e soccorso per gravi calamità naturali. Sono stati finanziati undici interventi nei comuni di Usini (completamento degli interventi di consolidamento del costone roccioso a nord est dell'abitato), Pula (frana nell'oasi archeologica di Nora), Teulada (bonifica e sistemazione del versante roccioso fra Chia e Teulada), Calasetta (Rio Tupei, interventi strutturali), Arbus (frane nella strada 126), Semestene (frane a Badde Mala), Bonnanaro (frane località Cannisones), Esterzili (messa in sicurezza e stabilizzazione dell'area vicina al depuratore), Cagliari (dissesto idrogeologico in via Peschiera, piazza D'Armi e zone limitrofe), Fluminimaggiore (consolidamento arginature), Monteleone Roccadoria (messa in sicurezza del costone che sovrasta il depuratore) e Posada (lavori sul ponte del riu San Simone). «Provvedimenti come questo - ha dichiarato il presidente Cappellacci - sono indicativi dell'azione capillare della giunta per la sicurezza del nostro territorio».

sabato 18 settembre 2010

Così si spartisce la torta degli incentivi



Ecco perché mafia, criminali e faccendieri investono sull'eolico

Domenica 19 settembre 2010
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di ANTHONY MURONI
unionesarda
C'è il caso del siciliano Vito Nicastri, al quale la Dia ha appena sequestrato beni per 1,5 miliardi di euro, paventando che il “signore del vento” originario di Alcamo sia addirittura il prestanome del boss mafioso Matteo Messina Denaro. E poi c'è quello del suo maestro, l'avvocato di Benevento Oreste Vigorito, che un paio d'anni fa ha “piazzato” al colosso inter
nazionale International power tutte le autorizzazioni per parchi eolici e fotovoltaici da lui accumulate nel sud Italia, in cambio di quasi 1,7 miliardi di euro. In due fanno 3,2: oltre 6 mila dei vecchi miliardi di lire, capitalizzazioni impossibili in ogni altro settore economico. Persino in tempo di new economy.
IL CASO CARBONI Sulla loro scia ci sono anche faccendieri che si riciclano, convertendosi da altri settori della speculazione finanziaria: è il caso di Flavio Carboni, che nell'affare eolico ha per ora rimediato una brutta scottatura. Nessuna autorizzazione, due mesi e mezzo di carcere, che presto diventeranno tre. Due incidenti che comunque gli hanno fruttato, di riffa o di raffa, 3 milioni di euro che i magistrati romani non riescono a trovare. Tre dei 4 milioni che un gruppo di investitori romagnoli gli ha messo a disposizione per fare da “facilitatore” (lo stesso mestiere di Vito Nicastri) nei confronti dei politici sardi.
CAPITALI ILLECITI Perché questo settore è così conveniente e attira capitali spesso illeciti come il miele fa con le mosche? Il segreto è negli incentivi elevatissimi per le energie rinnovabili. Introdotti nel 1999 dal governo di centrosinistra con la durata di otto anni, gli ince
ntivi sono stati poi portati a 12 e quindi, con l'ultima finanziaria Prodi, addirittura a 15. Il che significa che chi tira su una pala non solo becca un incentivo, ma lo becca per tre lustri dal momento in cui comincia a girare. Se gira. Il meccanismo è un po' complesso. Si basa sui cosiddetti certificati verdi, dei veri e propri titoli che si vendono e si comprano alla borsa elettrica. Spiegare la cosa nei dettagli porterebbe via ore.
CERTIFICATI VERDI Basti sapere che mediamente questi certificati verdi cui hanno diritto i produttori valgono 80 euro a megawatt/h. Ai quali vanno aggiunti i soldi che lo stesso produttore incassa per l'energia venduta al sistema e immessa in rete. Una somma che varia fra 60 e 70 euro a megawatt/h nella media italiana ma che in Sicilia sale fino a 90-100
euro.
L'EUROPA Risultato finale: fatti tutti i conti, l'installazione e la
manutenzione d'una pala media costa un milione in Danimarca (lo Stato europeo che più ha investito sull'eolico) e può arrivare a costare in Sicilia, in 15 anni di vita, il quadruplo: 4 milioni. In Europa le pale girano mediamente per 1880 ore in Danimarca, 1960 in Belgio, 2000 in Svizzera, 2046 in Spagna, 2067 in Olanda, 2082 in Grecia, 2233 in Portogallo. Sapete quante ore, da noi? Solo 1466. E la media siciliana, spiegano gli esperti, è ancora più bassa. E allora come mai Terna ha domande di connessione alla rete per il solo eolico pari a 88.171 megawatt, cioè una volta e mezzo la punta massima del consumo italiano, che è di 56 mila megawatt?
NUMERI DA INFARTO L'Anev (fino a non molto tempo fa presieduta dall'ormai plurimiliardario Oreste Vigorito), che riunisce i produttori di energia eolica, stima che al massimo la produzione nel 2020 potrà raggiungere nel nostro paese 16 mila megawatt. Dieci anni prima già ci sono domande per 5 volte quel totale. Altra domanda: come è possibile che la potenza installata in Sicilia sia di 1.140 megawatt, cioè più di un quarto del totale italiano? Che senso c'è a installare pale a vento dove non c'è vento?
RETE IN TILT C'è poi da stupirsi se la corsa all'energia del vento, anche quando appare insensata, continua? Anche là dove i cavi di Terna non sono in grado di sopportare il carico elettrico, come spesso accade lungo la dorsale appenninica meridionale, con punte di crisi paradossali in Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia? Niente energia fornita, niente soldi. Macché: i produttori hanno comunque diritto al saldo per l'energia che «avrebbero prodotto». E anche questo si scarica sulle bollette. Quanto ci costa? I certificati verdi non sono disgregabili per tipologia di fonte d'energia. Ma le cifre contenute a gennaio nella segnalazione dell'Authority al governo lasciano basiti: nel 2008 abbiamo sborsato 1.230 milioni di euro. Per la metà (630 milioni) a causa «dell'eccesso di offerta».
LA SITUAZIONE È ormai degenerata, investendo anche e soprattutto la Sardegna, in considerazione del fatto che la concentrazione degli impianti eolici esistenti (o già autorizzati) è altissima dal Lazio in giù, isole comprese. E questo, come è desumibile dai dati pubblicati sul sito dell'Anev, non tanto perché le condizioni anemometriche siano più convenienti quanto perché i capitali per gli investimenti sono stati concentrati volutamente al centro-sud. Preoccupanti anche le previsioni sul futuro: per la nostra isola si parla di una produzione di 1763 kw/h per abitante, molto di più rispetto al reale fabbisogno. Questo significa che si tratterà di fare soldi, se sarà consentito dalle leggi nazionale e regionale, sfruttando la risorsa paesaggistica e ambientale sarda.
LE INCHIESTE Tutto in barba (i Centri studi non hanno anima, ma solo cuore e testa legata a numeri, investimenti e utili) al quadro a tinte fosche che è tratteggiato dalle inchieste che le procure di mezza Italia stanno conducendo in questi mesi. Indagini che sembrano dimostrare un'altissima percentuale di infiltrazioni di parte di capitali di provenienza illecita, che verrebbero riciclati soprattutto in ragione dell'altissima convenienza economica assicurata dall'investimento.
COSTI ALTISSIMI Un recente studio ha dimostrato che i posti di lavoro creati dall'energia rinnovabile costeranno ai contribuenti sette volte più cari di quelli generati dai sussidi pubblici destinati in questi decenni all'industria. Una proporzione sconvolgente, se si pensa ai fallimenti dei contributi a pioggia erogati per le industrie del centro Sardegna, che hanno prodotto più capannoni vuoti e truffe all'Ue che buste paga reali.
BASSA OCCUPAZIONE I posti di lavoro che sono stati creati nel settore delle rinnovabili nel corso del 2008 sono calcolati tra i 6 e i 15 mila nel settore del fotovoltaico e vicini ai 28 mila nell'eolico. Considerato che i sussidi erogati per il settore hanno sfiorato i 2,3 miliardi di euro, significa che ogni lavoratore nel settore della produzione di energia dal vento è costato 55 mila euro annui, mentre per quelli del solare si scende a 20 mila.
L'AFFARE Come si arriva a calcolare i contributi? Si deve partire da un'analisi del meccanismo dei sussidi Cip6, che dal 1992 trainano non solo i parchi verdi ma anche centrali assimilate, che di ecologico non hanno nulla. A realizzare affari, con ritorni economici che allo stato attuale non sono assicurati da nessun altro investimento, si arriva mettendo assieme il sistema del conto-energia e quello dei certificati verdi, da sempre pagati grazie al sistema dell'addizionale sulle bolletta. Dei 2,3 miliardi già citati (calcolati come differenza tra i finanziamenti che derivano dai cittadini e il valore dell'energia realmente prodotta) appena 1 (il 41 per cento) è stato utilizzato per sviluppare le energie rinnovabili, come eolico, termo-dinamico e biomasse. Il resto se lo sono aggiudicati i grandi gruppi energivori, che hanno invece continuato nel loro lavoro “tradizionale”, emettendo cospicue quantità di CO2 nell'atmosfera.
LA TENDENZA Le previsioni per il futuro, se il trend dovesse rimanere questo, non sono certo più entusiasmanti: da qua al 2020 (data-limite imposta dal protocollo di Kyoto per l'aumento della quota-energia da produrre in modo “pulito”) i posti di lavoro che l'Anev annuncia di poter creare vanno dai 24 ai 45 mila nel settore eolico e tra i 27 e i 46 mila nel foto-voltaico (in totale circa 7 mila in Sardegna). Tutto questo a fronte di circa 31 miliardi di sussidi per il business del vento e 33 per quello del sole. Almeno fino al 2040, quando scadranno le code degli stanziamenti fin qui preventivati.
RISORSE INFINITE A questo punto il differenziale cresce ancora: per ogni posto di lavoro creato saranno state mobilitate risorse tra 500 mila euro e 1,3 milioni nell'eolico, e tra 700 mila e 1,2 milioni nel fotovoltaico. Cifre immense e, finora, tristemente improduttive.
Questo perché si deve anche tener conto del fatto che la produzione di energia è spesso in surplus rispetto alle reali esigenze delle regioni. Tanto che accade che gli impianti vengono autorizzati (generando dunque l'afflusso di capitali per la loro realizzazione) ma non entrano mai in produzione. Situazione che, ancora una volta, viene raccontata dai dati: 3200 domande per 83 mila megawatt, con una previsione che arriva a 152 mila. Tre volte il picco massimo dei consumi nell'intero sistema-Italia.
ASSALTO AL SUD A fare notizia è anche la localizzazione geografica degli investimenti: scorrendo la prima mappa eolica realizzata dall'Anev (consultabile sul sito www.anev.org) si ottengono tutte le informazioni sui parchi eolici presenti nel Bel Paese. Una sorta di censimento, con l'identikit delle società titolari di impianti, il numero di aero-generatori, la potenza di ogni parco eolico e la sua indicazione geografica. Il quadro è preciso: il rapporto tra Sud e Nord d'Italia è di sette a uno, 89 mila megawatt a 12 mila.
IL CASO SARDEGNA Per quel che riguarda la Sardegna le previsioni, che partono dagli investimenti già realizzati e autorizzati, parlano chiaro: l'obiettivo è quello di arrivare a produrre 1750 megawatt da energia eolica: 1763 kw/h per ogni abitante, con una ricaduta occupazionale che potrebbe arrivare a 7050 posti. Il punto di partenza sono i 367 megawatt già prodotti: ne servono, dunque, altri 1383 da far entrare nel circuito entro il 2020. Il picco è previsto per il 2013 (200 Mw), mentre per il 2017 c'è anche una previsione di 100 Mw prodotti attraverso l'off-shore, da ripartire con la Puglia.


Perché Pechino preoccupa gli Stati Uniti

Nel 2009 il budget militare della Cina ha raggiunto i 150 miliardi di dollari,
circa un quinto di quello che ha speso il Pentagono per le guerre in Iraq e
Afghanistan nello stesso anno



Noam Chomsky
internazionale
Tra le presunte minacce alla superpotenza che domina il mondo sta emergendo con forza una nuova rivale: la Cina. E gli Stati Uniti la tengono sotto osservazione. Il 13 agosto uno studio del Pentagono ha osservato che la crescente forza militare della Cina “potrebbe impedire le operazioni delle navi da guerra statunitensi nelle acque internazionali al largo delle coste cinesi”, ha scritto Thom Shanker sul New York Times. Washington teme che “la mancanza di trasparenza della Cina sulle intenzioni delle sue forze armate provochi instabilità in una regione vitale del pianeta”. È invece evidente che gli Stati Uniti vogliono agire liberamente in tutta la “regione vitale del pianeta” vicina alla Cina (come altrove). E ostentano la loro capacità di farlo: hanno un bilancio militare che corrisponde più o meno a quello di tutti gli altri paesi messi insieme, hanno centinaia di basi militari in tutto il mondo e una netta supremazia tecnologica.

Che la Cina non rispetti le norme della cortesia internazionale lo si è capito quando, a luglio, si è opposta alla partecipazione della portaerei a propulsione nucleare George Washington alle esercitazioni militari congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, vicino alla costa cinese. L’occidente, invece, sa benissimo che gli Stati Uniti organizzano queste operazioni per difendere la stabilità del pianeta e la loro stessa sicurezza.

Quando si parla di problemi internazionali, il termine “stabilità” ha un signiicato preciso: il dominio degli Stati Uniti. Quindi nessuno si è sorpreso quando l’ex direttore di Foreign Afairs, James Chace, ha spiegato che nel 1973 per ottenere la “stabilità” in Cile era necessario “destabilizzare” il paese, rovesciando il governo legittimo del presidente Salvador Allende e instaurando la dittatura del generale Augusto Pinochet, ovviamente nell’interesse della stabilità e della sicurezza.

Come tutti sanno, la sicurezza degli Stati Uniti richiede un controllo assoluto. Questa premessa ha ottenuto l’imprimatur uiciale dallo storico dell’università di Yale John Lewis Gaddis in Surprise, security and the American experience, che studia le origini della dottrina della guerra preventiva di George W. Bush. Il principio su cui si basa questa dottrina è che l’espansione è “l’unica via per garantire la sicurezza”, concetto che Gaddis fa risalire a quasi due secoli fa.

Quando Bush ha avvertito i cittadini statunitensi che “in caso di necessità dovevano essere pronti ad agire preventivamente per difendere la loro libertà e la loro vita”, stava riesumando una vecchia teoria e “ribadendo princìpi che molti presidenti avrebbero sicuramente condiviso”. Lo avrebbe fatto anche Bill Clinton, secondo il quale gli Stati Uniti avevano il diritto di usare la forza per garantirsi “libero accesso a mercati chiave, forniture energetiche e risorse strategiche”. William Cohen, segretario alla difesa di Clinton, sosteneva che gli Stati Uniti devono avere
un’immensa forza militare e “schierarla in posizione” in Europa e in Asia “per plasmare l’opi-
nione che gli altri popoli devono avere di noi” e “impedire eventi che potrebbero influire sulla nostra vita e sulla nostra sicurezza”. Questa formula della guerra permanente è una nuova dottrina strategica, che è stata poi ampliata da George W. Bush e da Barack Obama.

Secondo lo studio del Pentagono, nel 2009 il budget militare della Cina ha raggiunto i 150 miliardi di dollari, avvicinandosi a “un quinto di quello che ha speso il Pentagono per le guerre in Iraq e Afghanistan” nello stesso anno e che è solo una minima parte del bilancio militare degli Stati Uniti. Se si parte dall’idea che Washington deve esercitare un “potere indiscusso” su buona parte del mondo, usando la sua “supremazia economica e militare”, e “limitare l’esercizio della sovranità” di quegli stati che potrebbero interferire con i suoi progetti, la preoccupazione americana è comprensibile.

Questi sono i princìpi stabiliti dai massimi esperti statunitensi di politica estera durante la seconda guerra mondiale, quando fu deciso come doveva essere organizzato il mondo dopo il conlitto. Gli Stati Uniti dovevano mantenere il predominio in una “Grande area”,
che comprendeva come minimo tutto l’emisfero occidentale, l’estremo oriente e i territori dell’ex impero britannico, comprese le cruciali risorse energetiche del Medio Oriente. L’Europa poteva anche scegliere una strada indipendente, per esempio il progetto gollista di un continente che andava dall’Atlantico agli Urali.
Ma uno degli scopi del patto atlantico era proprio evitare questo rischio, e il problema rimane ancora oggi, visto che la Nato è diventata una forza gestita dagli Stati Uniti per controllare le infrastrutture del sistema energetico planetario da cui dipende l’occidente.
Da quando sono diventati la prima potenza del pianeta, gli Stati Uniti hanno cercato di mantenere in piedi un sistema di controllo globale. Ma non è un progetto facile da realizzare. Questo sistema comincia a mostrare le sue crepe, con una serie di importanti conseguenze per il futuro. A minacciarlo è una rivale sempre più influente: la Cina. u bt

NOAM CHOMSKY

NOAM CHOMSKY @ AMNESTY INTERNATIONAL TALK
insegna linguistica
all’Mit di Boston.
Il suo ultimo libro
uscito in Italia è Sulla
nostra pelle. Mercato
globale o movimento
globale? (Il Saggiatore
tascabili 2010).





venerdì 17 settembre 2010

La protesta dei pastori, in settemila a Cagliari



Trenta cavalieri aprono il lungo corteo di magliette blu e di sindaci. Molti slogan e qualche sfottò. Qualche uovo lanciato contro il palazzo della Regione ma senza alcuna violenza
di Umberto Aime
lanuova

I pastori a cavallo davanti al Consiglio regionale
CAGLIARI. Ugolino raglia, Andrea scarta, Toto gratta l’asfalto, ruvido, e un barile, vuoto. Marco fa le bizze, ha paura, non vuole scendere, lo metteranno giù di peso. Ebbene sì, qui, in piazza Marco Polo, ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Altro che Mucca Carolina, mascotte di un latte leghista, quello sì protetto da Berlusconi, qua ci sono i Quattro Asinelli. Da parata, protagonisti e interpreti del presidente della Giunta, dell’assessore, di chi è a capo del Consorzio obbligato a difendere il pecorino dalle imitazioni (lo farà davvero?) e del presidente della Coldiretti. È questo il sindacato-nemico, dicono venduto e defunto, un necrologio sei metri per due celebra senza lacrime la sua dipartita. È quella della bandierina giallo-verde: vessillo che sarà subito carabonizzato.



La discesa degli asinelli è il colpo di teatro, è la fantasia messa al servizio della rivolta. Non c’è possibilità di confondere Ugo-Ugolino con Marco, neanche Andrea con Toto. Sono stati battezzati a Lula - da dove arrivano - e poi sul piazzale della Fiera, impacchettati come sono in lenzuola bianche su cui una mano ferma ha scritto, in nero-spray, nome e cognome di ogni bersaglio: Cappellacci, Prato, Meloni e Scalas, nell’ordine. Dalla nascita sono quattro bipedi, oggi quadrupedi destinati alla beffa popolare. Frutto di un’irriverenza agropastorale dunque genuina, e della sfacciataggine di chi è in piazza, a Cagliari, dopo essere partito da Alghero, Olbia, Sassari, Oristano, da Nulvi e Busachi, da Ovodda e Pabillonis, da Ottana e Sedilo, da Ittiri e Olzai, dal Campidano, dal Goceano, dalla Barbagia, dall’Ogliastra e da qualunque altro stazzo conosciuto. Sono qui per salvare ovile, casa e famiglia. Evviva, Siamo tutti pastori. Sono i settemila che ieri fino alle cinque della sera hanno conquistato e riempito viale Diaz, viale Bonaria, via Roma e il portico del Consiglio regionale. Due ore di marcia sotto il sole, un chilometro e mezzo di rabbia, migliaia di passi messi assieme dal Movimento dei pastori sardi.




Erano in tanti, sono stati tutti bravi, buoni e civili, dirà il vicequestore Oreste Barbella, liberato da un peso, ordinare la carica, che sarebbe stato troppo pesante. Anche se qualche tensione c’è stata: per tre volte carabinieri e agenti hanno alzato lo scudo e abbassato le visiere dei caschi anti-sommossa. Cattivi presagi? No, lo hanno fatto solo per dissuadere e tenere a bada i più scalmanati, senza però mai impugnare i manganelli: complimenti, anche loro sono stati bravi, buoni e civili. Anche quando dalla massa è partito un tiro incrociato sull’orribile facciata del Consiglio. Con una decina di uova che hanno centrato le vetrate del Palazzo, proiettili da combattimento delle campagne, molto più leggeri dei due sassi finiti su una finestra del primo piano.



Nient’altro da segnalare, per la cronaca nera. Merito di una cantilena - calmi, pastori, calmi - ripetuta dieci, venti, cento volte dagli organizzatori prima, durante e dopo il corteo. Una voce di pace che è servita da bromuro, altrimenti poteva finire come negli anni novanta, sempre in via Roma: pecore sgozzate e lancio di lacrimogeni. Stavolta niente lacrime e sangue, almeno sull’a cciottolato cagliaritano, negli ovili pene e dolori continuano purtroppo a essere quotidiani. Sessanta centesimi per un litro di latte, una birra costa tre volte tanto nel bar di via Lepanto. È pazzesco. Quattro euro al chilo per un vitello: sono listini da fame. Bisogna resistere.



Bisogna esserci dentro il corteo del duemila-e-dieci, che passerà alla storia come un Sant’Efisio settembrino, una Cavalcata sassarese della protesta. Non è folclore, è l’orgoglio di essere sardi. È una sagra di colori, slogan, bandiere, fischietti, campanacci e striscioni. Sul petto e nelle mani di padri, madri e figli, che avanzano a ondate, ma tenuti a bada da un picchetto d’o nore, eccellente e monumentale: trenta cavalieri, in testa al gruppo. Pariglia perfetta, voluta da Felice Floris e dal suo secondo, Andrea, che gli assomiglia in tutto persino nello sguardo luciferino: incute rispetto, non terrore. Poi dentro ci sono trenta sindaci, quelli che più di altri, insieme ai marescialli in divisa, mattina e sera devono badare all’intifada degli ovili. Stazzi e case impregnati di una miscela esplosiva, l’esasperazione: questa sì che dovrebbe far paura a qualcuno. Sempre.



Qui c’è spazio per tutti: sulla strada, sui marciapiedi, sul Leoncino che è stato già ad Elmas, Olbia, Alghero, a Tramatza e a Porto Rotondo, le altre cinque piazze di una rivoluzione anti-disperazione cominciata il 30 luglio. C’è gente aggrappata ai finestrini di un mastodontico e vuoto Iveco-Eurostar trasporta-latte: nessuno tsunami bianco si abbatterà sul Palazzo. Chi è a piedi indossa le magliette blu del Movimento, che diventano nere se arrivano da Orune, celesti per Olbia, verdi dalla Nurra: è un arcobaleno di tinte e paesi. Viste dall’alto, tutte insieme, sembrano coriandoli, ma non è Carnevale, è una mattina di Passione. Raccontata da Gianni, Franco, Alberto, Anna Laura e Giovanni, che sono di Nulvi, Pattada, Ovodda, Busachi e Nugheddu Santa Vittoria: Siamo alla fame. Siamo ostaggio degli industriali, delle banche, della politica, della burocrazia, degli speculatori, del gasolio, delle bollette. Non vogliamo morire. Non vogliono crepare insieme alle loro ventiduemila aziende agonizzanti. Mai. Chi oggi ha ottantasei anni e munge pecore da quand’era bambino, gonfia il petto dentro un maglioncino su cui il nipotino, quinta elementare, ha scritto: Non t’arrendas como, non ti arrendere adesso. Mai. Siamo tutti pastori, gridano dal fondo del corteo, quando il grosso è già sotto la Regione. Il traguardo è raggiunto, sono tutti vincitori.

C’è chi parla al microfono, sindaci, gente comune, politici, e c’è chi si accalca sotto il Leoncino-palco, altri sindaci, tanta gente comune, ancora politici di una parte e dell’altra. Chi fa l’o norevole vorrebbe accaparrarsi questo Movimento, ma questo è un movimento libero, trasversale e incazzato che non si fa imbrigliare. Anzi, dà fuoco alle tessere di chi lo ha tradito, le associazioni, e scaraventa acqua, birra e vino sulla giacca del presidente della Regione. Che dopo l’incontro con la delegazione ha la forza di salire sul palco-cassone. È un finale a sorpresa. Il coraggio sfacciato piace e a un Ugo Cappellacci, che almeno stavolta non può passare certo per babbeo, i settemila della piazza lo lasciano parlare. Ascoltano in silenzio le sue promesse che per Felice Floris oggi vanno bene al novantacinque per cento, domani si vedrà.



Andrea Prato non ha la stessa fortuna: di lui non si fidano, gli fanno fare una figuraccia. Lo volete sentire? No, no, sotto un tuono di fischi. È una condanna, tremenda come sono tremendi i suoi mocassini bi-colore. Mai visti, neanche ai piedi di un cittadino. Dal parterre a lui gridano di tutto, mandate a quel paese comprese, mentre col presidente la folla è più buona. Gli dà credito, anche se uno di Ovodda si aggrappa alla sponda e grida brutale: Attento a non fregarci. Presidente, non può più sbagliare.


giovedì 9 settembre 2010

Viva l’economia della felicità

I ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti: la loro vita è più stabile

Manuel Castells
www.internazionale.it


Manuel Castells

Tre mesi fa, in un discorso all’università della Carolina del Sud, il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke ha deciso di parlare dell’economia della felicità. Dato che siamo ancora nel bel mezzo della crisi economica più grave degli ultimi cinquant’anni, potrebbe sembrare una scelta frivola.In realtà Bernanke rientra in una corrente sempre più nutrita di professori, politici e imprenditori che stanno cominciando a prendere sul serio quello che i sondaggi mostrano sistematicamente: alla gente interessa soprattutto essere felice, anche se poi ognuno lo intende a suo modo.

Il denaro non fa la felicità e neanche il consumo. Il primo paese che ha deciso di cambiare la sua unità di misura del progresso sostituendo il calcolo del prodotto interno lordo con l’indice di felicità nazionale lorda è il Bhutan. Proposto nel 1972 dal re Jigme Singye Wangchuk, l’indice è diventato il parametro di sviluppo multidimensionale del paese, che combina tra loro quattro obiettivi: uno sviluppo economico equo e sostenibile in cui la crescita si traduca in beneici sociali per i cittadini, la conservazione dell’ambiente naturale, la difesa e la promozione dell’identità culturale butanese, un buon governo che garantisca la stabilità istituzionale e sociale da cui dipende l’armonia della vita quotidiana.

L’indice nazionale di felicità si basa su alcuni princìpi buddisti radicati nella cultura del Bhutan, ma la sua applicazione può essere estesa a qualunque paese o regione che scelga l’armonia come principio di organizzazione sociale. Questa nuova prospettiva di contabilità nazionale si è estesa a tutto il mondo.

Esistono indici comparati dei livelli di felicità che, se volete, potete trovare su internet e dimostrano che il Bhutan, un paese povero con meno di 700mila abitanti, è tra i primi venti al mondo per livello di felicità. Ovviamente tutto dipende dai criteri di misurazione scelti. E in questo i butanesi e i loro amici di altri paesi non sono soli. Sempre più studiosi stanno conducendo ricerche su questo tema, proponendo innovazioni metodologiche che tengono conto anche delle statistiche sullo sviluppo umano.

Così sono emerse alcune cose interessanti. Per esempio che i ricchi sono più felici dei poveri, ma i paesi ricchi non sono più felici di quelli poveri. Gli abitanti della Costarica sono più felici di quelli degli Stati Uniti, perché la felicità dipende dalle aspettative ma anche dalla stabilità. La crescita rapida abbassa il livello di fe- licità perché sconvolge la ruotine quotidiana.

Carol Graham, una ricercatrice della Brookings institution, ha condotto un’indagine in vari paesi e ha scoperto che i fattori chiave della felicità sono una vita privata stabile, rapporti afettivi soddisfacenti, una buona salute e un reddito suiciente. Ma ha anche osservato che la felicità aiuta a essere in buona salute. Dagli studi fatti emergono due fattori fondamentali: la socialità e la capacità di adattamento. Più reti familiari e sociali abbiamo, più siamo felici.

Gli esperti di comunicazione hanno già individuato questo fattore come il motivo determinante del successo dei social network. Più internet, più socialità, sia virtuale che reale. E maggiore è la socialità, maggiore è anche la felicità. Il rapporto con la comunità è essenziale per mantenere l’equilibrio psicologico. Partendo da questo presupposto alcuni programmi di assistenza sociale, per esempio in Canada, prevedono l’organizzazione di attività per i disoccupati che generino reti di relazioni sociali e raforzino l’autostima.

D’altra parte la capacità di adattamento degli esseri umani riesce a gestire delle condizioni di disequilibrio attraverso meccanismi di compensazione nei comportamenti. Bernanke ha citato un paragrafo rivelatore di Adam Smith: “La mente di ogni uomo, prima o poi, torna al suo stato naturale e usuale di tranquillità. Nella prosperità, dopo un certo periodo di tempo, riscende a quel livello; nelle avversità, dopo un certo periodo di tempo, risale a quel livello”. Quest’afermazione, corroborata dagli studi di psicologia economica, spiegherebbe la relativa calma sociale in situazioni di crisi: tutti inziamo per adattarci a cose che ci sembrerebbero insopportabili in altre condizioni.

Ma è proprio questa capacità di accontentarsi a produrre un’armonia che dipende da noi e non dal valore della vita misurato in termini monetari. In in dei conti lo scopo dell’economia classica era rendere felici gli esseri umani. Invece il concetto di felicità, data la diicoltà di misurarlo, si è trasformato in quello di utilità e il suo criterio di misura è diventato il prezzo.

Ma il consumo individuale non può sopperire ai bisogni che il mercato non è in grado di soddisfare, dal bisogno di afetto a quello di difendere i beni comuni (come la natura). Anzi, la fuga nel consumo accentua gli squilibri psicologici. Per questo non è un caso che quando ci viene a mancare il mercato ci sentiamo vuoti. Ma questo vuoto si va riempiendo delle scelte a cui fa riferimento questo nuo- vo ilone di ricerca, sintomo di un profondo cambia- mento culturale: l’economia della felicità. Spero abbiate trascorso delle vacanze felici.


Comunicazione e potere

MANUEL CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e potere (Università Bocconi editore 2009)

Guardando i dati di tutti gli stati del mondo sembrerebbe però che le popolazioni più felici si trovino nell’America centrale!

Ecco la mappa dell’HPI di tutto il mondo:

Cartina dell’Europa che indica il livello di felicità nei vari Stati, calcolato in base all’indice HPI (Happy Planet Index)!

Questo indice prende in considerazione tre variabili: il livello di soddisfazione personale, l’aspettativa di vita e l’impatto ecologico.

A quanto pare, nonostante tutto, pare che in Italia non si stia cosi’ male!

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