venerdì 17 settembre 2010

La protesta dei pastori, in settemila a Cagliari



Trenta cavalieri aprono il lungo corteo di magliette blu e di sindaci. Molti slogan e qualche sfottò. Qualche uovo lanciato contro il palazzo della Regione ma senza alcuna violenza
di Umberto Aime
lanuova

I pastori a cavallo davanti al Consiglio regionale
CAGLIARI. Ugolino raglia, Andrea scarta, Toto gratta l’asfalto, ruvido, e un barile, vuoto. Marco fa le bizze, ha paura, non vuole scendere, lo metteranno giù di peso. Ebbene sì, qui, in piazza Marco Polo, ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Altro che Mucca Carolina, mascotte di un latte leghista, quello sì protetto da Berlusconi, qua ci sono i Quattro Asinelli. Da parata, protagonisti e interpreti del presidente della Giunta, dell’assessore, di chi è a capo del Consorzio obbligato a difendere il pecorino dalle imitazioni (lo farà davvero?) e del presidente della Coldiretti. È questo il sindacato-nemico, dicono venduto e defunto, un necrologio sei metri per due celebra senza lacrime la sua dipartita. È quella della bandierina giallo-verde: vessillo che sarà subito carabonizzato.



La discesa degli asinelli è il colpo di teatro, è la fantasia messa al servizio della rivolta. Non c’è possibilità di confondere Ugo-Ugolino con Marco, neanche Andrea con Toto. Sono stati battezzati a Lula - da dove arrivano - e poi sul piazzale della Fiera, impacchettati come sono in lenzuola bianche su cui una mano ferma ha scritto, in nero-spray, nome e cognome di ogni bersaglio: Cappellacci, Prato, Meloni e Scalas, nell’ordine. Dalla nascita sono quattro bipedi, oggi quadrupedi destinati alla beffa popolare. Frutto di un’irriverenza agropastorale dunque genuina, e della sfacciataggine di chi è in piazza, a Cagliari, dopo essere partito da Alghero, Olbia, Sassari, Oristano, da Nulvi e Busachi, da Ovodda e Pabillonis, da Ottana e Sedilo, da Ittiri e Olzai, dal Campidano, dal Goceano, dalla Barbagia, dall’Ogliastra e da qualunque altro stazzo conosciuto. Sono qui per salvare ovile, casa e famiglia. Evviva, Siamo tutti pastori. Sono i settemila che ieri fino alle cinque della sera hanno conquistato e riempito viale Diaz, viale Bonaria, via Roma e il portico del Consiglio regionale. Due ore di marcia sotto il sole, un chilometro e mezzo di rabbia, migliaia di passi messi assieme dal Movimento dei pastori sardi.




Erano in tanti, sono stati tutti bravi, buoni e civili, dirà il vicequestore Oreste Barbella, liberato da un peso, ordinare la carica, che sarebbe stato troppo pesante. Anche se qualche tensione c’è stata: per tre volte carabinieri e agenti hanno alzato lo scudo e abbassato le visiere dei caschi anti-sommossa. Cattivi presagi? No, lo hanno fatto solo per dissuadere e tenere a bada i più scalmanati, senza però mai impugnare i manganelli: complimenti, anche loro sono stati bravi, buoni e civili. Anche quando dalla massa è partito un tiro incrociato sull’orribile facciata del Consiglio. Con una decina di uova che hanno centrato le vetrate del Palazzo, proiettili da combattimento delle campagne, molto più leggeri dei due sassi finiti su una finestra del primo piano.



Nient’altro da segnalare, per la cronaca nera. Merito di una cantilena - calmi, pastori, calmi - ripetuta dieci, venti, cento volte dagli organizzatori prima, durante e dopo il corteo. Una voce di pace che è servita da bromuro, altrimenti poteva finire come negli anni novanta, sempre in via Roma: pecore sgozzate e lancio di lacrimogeni. Stavolta niente lacrime e sangue, almeno sull’a cciottolato cagliaritano, negli ovili pene e dolori continuano purtroppo a essere quotidiani. Sessanta centesimi per un litro di latte, una birra costa tre volte tanto nel bar di via Lepanto. È pazzesco. Quattro euro al chilo per un vitello: sono listini da fame. Bisogna resistere.



Bisogna esserci dentro il corteo del duemila-e-dieci, che passerà alla storia come un Sant’Efisio settembrino, una Cavalcata sassarese della protesta. Non è folclore, è l’orgoglio di essere sardi. È una sagra di colori, slogan, bandiere, fischietti, campanacci e striscioni. Sul petto e nelle mani di padri, madri e figli, che avanzano a ondate, ma tenuti a bada da un picchetto d’o nore, eccellente e monumentale: trenta cavalieri, in testa al gruppo. Pariglia perfetta, voluta da Felice Floris e dal suo secondo, Andrea, che gli assomiglia in tutto persino nello sguardo luciferino: incute rispetto, non terrore. Poi dentro ci sono trenta sindaci, quelli che più di altri, insieme ai marescialli in divisa, mattina e sera devono badare all’intifada degli ovili. Stazzi e case impregnati di una miscela esplosiva, l’esasperazione: questa sì che dovrebbe far paura a qualcuno. Sempre.



Qui c’è spazio per tutti: sulla strada, sui marciapiedi, sul Leoncino che è stato già ad Elmas, Olbia, Alghero, a Tramatza e a Porto Rotondo, le altre cinque piazze di una rivoluzione anti-disperazione cominciata il 30 luglio. C’è gente aggrappata ai finestrini di un mastodontico e vuoto Iveco-Eurostar trasporta-latte: nessuno tsunami bianco si abbatterà sul Palazzo. Chi è a piedi indossa le magliette blu del Movimento, che diventano nere se arrivano da Orune, celesti per Olbia, verdi dalla Nurra: è un arcobaleno di tinte e paesi. Viste dall’alto, tutte insieme, sembrano coriandoli, ma non è Carnevale, è una mattina di Passione. Raccontata da Gianni, Franco, Alberto, Anna Laura e Giovanni, che sono di Nulvi, Pattada, Ovodda, Busachi e Nugheddu Santa Vittoria: Siamo alla fame. Siamo ostaggio degli industriali, delle banche, della politica, della burocrazia, degli speculatori, del gasolio, delle bollette. Non vogliamo morire. Non vogliono crepare insieme alle loro ventiduemila aziende agonizzanti. Mai. Chi oggi ha ottantasei anni e munge pecore da quand’era bambino, gonfia il petto dentro un maglioncino su cui il nipotino, quinta elementare, ha scritto: Non t’arrendas como, non ti arrendere adesso. Mai. Siamo tutti pastori, gridano dal fondo del corteo, quando il grosso è già sotto la Regione. Il traguardo è raggiunto, sono tutti vincitori.

C’è chi parla al microfono, sindaci, gente comune, politici, e c’è chi si accalca sotto il Leoncino-palco, altri sindaci, tanta gente comune, ancora politici di una parte e dell’altra. Chi fa l’o norevole vorrebbe accaparrarsi questo Movimento, ma questo è un movimento libero, trasversale e incazzato che non si fa imbrigliare. Anzi, dà fuoco alle tessere di chi lo ha tradito, le associazioni, e scaraventa acqua, birra e vino sulla giacca del presidente della Regione. Che dopo l’incontro con la delegazione ha la forza di salire sul palco-cassone. È un finale a sorpresa. Il coraggio sfacciato piace e a un Ugo Cappellacci, che almeno stavolta non può passare certo per babbeo, i settemila della piazza lo lasciano parlare. Ascoltano in silenzio le sue promesse che per Felice Floris oggi vanno bene al novantacinque per cento, domani si vedrà.



Andrea Prato non ha la stessa fortuna: di lui non si fidano, gli fanno fare una figuraccia. Lo volete sentire? No, no, sotto un tuono di fischi. È una condanna, tremenda come sono tremendi i suoi mocassini bi-colore. Mai visti, neanche ai piedi di un cittadino. Dal parterre a lui gridano di tutto, mandate a quel paese comprese, mentre col presidente la folla è più buona. Gli dà credito, anche se uno di Ovodda si aggrappa alla sponda e grida brutale: Attento a non fregarci. Presidente, non può più sbagliare.


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