sabato 5 marzo 2011
La ricchezza dei tiranni
Moises Saman for The New York Times
The Economist,
Le rivolte in Nordafrica e in Medio Oriente hanno fatto salire il prezzo del greggio oltre i cento dollari al barile. Tutto il mondo teme una crisi petrolifera. Dopo la Libia, tocca all’Arabia Saudita? I commenti della stampa internazionale
Un mese fa il greggio costava 96 dollari al barile e Hosni Mubarak governava l’Egitto. Ora se n’è andato, il suo governo è stato rovesciato dalle manifestazioni popolari che stanno scuotendo il Nordafrica e il Medio Oriente. E il prezzo del petrolio ha raggiunto i 114 dollari. Non c’è da stupirsi: la regione produce il 35 per cento del petrolio mondiale. Dalla Libia arrivano 1,7 degli 88 milioni di barili prodotti ogni giorno in tutto il mondo.
A far impennare il prezzo del petrolio non è stata l’interruzione degli approvvigionamenti: il rincaro da record è arrivato prima che alcune società petrolifere annunciassero tagli alla produzione e che i porti del paese fossero chiusi. I prezzi del petrolio, fa notare Adam Sieminski della Deutsche Bank, sono inluenzati anche dalle aspettative. Ai mercati petroliferi inoltre
non piacciono le sorprese.
La caduta di Mubarak e le rivolte in Libia, Bahrein, Yemen, Iran e Algeria (che insieme forniscono un decimo del petrolio mondiale) hanno fatto aumentare il prezzo del greggio di almeno il 20 per cento. La preoccupazione è che il difondersi delle rivolte possa tradursi in uno shock paragonabile a quello dell’embargo petrolifero del 1973, della rivoluzione iraniana o dell’invasione irachena del Kuwait.
Oggi la produzione del petrolio è più globalizzata di quanto non fosse durante quelle crisi. Negli anni settanta si concentrava soprattutto nel golfo Persico e da allora i mercati sono stati invasi da un mare di petrolio proveniente dall’America Latina, dall’Africa occidentale e da altre regioni.
Principali produttori di petrolio: dato in barili al giorno
con indicazione (in rosso) dei paesi attualmente in rivolta
Nel 2009 la Russia ha superato l’Arabia Saudita come primo fornitore di greggio mondiale e la quota di petrolio prodotta dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) è passata dal 51 per cento della metà degli anni settanta a poco più del 40 per cento.
La globalizzazione della produzione petrolifera non ha diminuito l’importanza dell’Opec. Al momento i mercati sono cauti. Con la ripresa dei paesi ricchi e il boom asiatico, le riserve accumulate durante la crisi economica stanno diminuendo di nuovo. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea), nel 2010 la domanda è aumentata di 2,7 milioni di barili al giorno, e secondo i calcoli della Deutsche Bank nel 2011 è destinata a crescere di altri 1,7 milioni. Molti produttori stanno vendendo a pieno regime e l’Opec possiede l’unico petrolio di scorta.
Se il petrolio della Libia smettesse di scorrere, gli importatori dovrebbero rivolgersi all’Arabia Saudita, che sarebbe in grado di soddisfare le esigenze dell’Europa, il mercato della Libia, nel giro di poche settimane. L’Opec sostiene di poter estrarre sei milioni di barili al giorno ma forse esagera. Gli analisti ritengono che la quantità reale sia più vicina ai 4-5 milioni, in gran parte nelle mani dei sauditi. Questo sarebbe più che suiciente per colmare il vuoto lasciato dalla Libia ma farebbe avvicinare il giorno in cui la crescente domanda mondiale esaurirà tutte le riserve. Gli analisti della banca Nomura sostengono che basterebbe una battuta d’arresto delle esportazioni algerine per portare il prezzo del petrolio a 220 dollari al barile.
Lo scenario peggiore sarebbe un’interruzione degli approvvigionamenti da parte dell’Arabia Saudita. Questa preoccupazione è diventata più forte dopo le rivolte in Bahrein, che produce poco petrolio ma è di grande importanza strategica per il golfo Persico, dove transita il 18 per cento del petrolio mondiale. I sauditi temono che le proteste della popolazione sciita del Bahrein possano estendersi al loro paese. Le province orientali dell’Arabia Saudita ospitano sia le industrie petrolifere sia la maggior parte degli sciiti, che potrebbero ribellarsi al regime sunnita. Intanto il re ha annunciato che distribuirà al popolo 35 miliardi di dollari.
Scorte strategiche
Quali potrebbero essere gli efetti di una crisi degli approvvigionamenti in Medio Oriente e in Nordafrica? Le crisi petrolifere degli anni settanta spinsero il mondo ad accumulare scorte, come i 727 milioni di barili che formano la riserva strategica di petrolio statunitense, a cui attingere in caso di sconvolgimenti in Medio Oriente o altrove.
Anche la Cina sta costruendo una riserva strategica. Secondo l’Energy information administration statunitense, le scorte nelle mani dei governi e delle industrie di tutto il mondo ammontano a 4,3 miliardi di barili, equivalenti a quasi cinquanta giorni di consumo globale al ritmo corrente.
L’impatto di un’eventuale crisi quindi dipenderà dalla quantità di petrolio che si perderà e per quanto a lungo. Ma l’esempio dell’Iran dimostra che cosa può andare storto. Leo Drollas del Centre for global energy studies sottolinea che l’Iran prerivoluzionario estraeva sei milioni di barili al giorno. Allontanati gli esperti e i capitali occidentali, il nuovo regime non ha più raggiunto quel livello di produzione. Oggi estrae 3,7 milioni di barili al giorno. Il petrolio mediorientale è in gran parte controllato dagli stati ma gli investimenti esteri sono vitali solo per l’industria petrolifera del Nordafrica. Se emergessero regimi più ostili agli stranieri, potrebbero esserci efetti duraturi sulla produzione.
Il mondo può forse sopportare una crisi di breve durata. Ma se i prezzi del petrolio salissero molto e rimanessero alti per un lungo periodo, i danni potrebbero essere molto gravi per le economie in ripresa. Per quanto riguarda la possibilità di ridurre il peso del Medio Oriente come fornitore di petrolio a livello mondiale, non vale neanche la pena di parlarne. Probabilmente la forte domanda asiatica farà di nuovo aumentare la quota Opec della produzione di petrolio. E questa regione travagliata avrà ancora il potere di causare problemi.
venerdì 4 marzo 2011
Elezioni a Cagliari......Capitale
Sergio Gabriele Cossu
Essere indipendentisti significa, prima di ogni altra cosa al mondo, accettare di fare parte di un progetto "globale" che preveda la rottura del legame che ci vincola a poteri esterni, siano essi politici economici o culturali, nella piena consapevolezza di raggiungere l'autodeterminazione.
Il compito di ogni indipendentista è adoperarsi interamente nel perseguire tale obiettivo, sfruttando ogni singola occasione perché le componenti della nazione siano sensibilizzate fino al coinvolgimento totale, la sola condizione, in un contesto democratico, che possa favorire il raggiungimento dell'indipendenza. Nel frattempo ognuno ha il dovere di occuparsi di fatti che riguardino la società in cui vive, secondo la propria sensibilità e formazione sociale, oltre che culturale, ma essi, però, non dovranno mai e poi mai avere la priorità su tutto ciò che serva a questo popolo per unirsi, coalizzarsi, compattarsi intorno al suo obiettivo primario.
La soggettività di ogni movimento va esperita nella piena e legittima funzione, propria del formatore che lavora sulle inclinazioni ideologiche di ogni aderente, con il quale possa condividere la forma socio - istituzionale desiderata per il futuro stato indipendente, e contemporaneamente, nella fase intermedia, dovrà responsabilmente dare il proprio contributo perché l'unione delle componenti indipendentista sia realizzata.
Qualsiasi altro espediente metterebbe in una posizione contraddittoria coloro che si definiscono indipendentisti, dato che agirebbero, sebbene in buona fede, in ragione di interessi contingenti e avulsi dal progetto globale: esempio, fare indipendentismo sostenendo i partiti italiani, cioè gli stessi soggetti politici che rappresentano tutto ciò che di italiano si vuole combattere, essendo notorio che il potere colonizzante si sostanzia, soprattutto, attraverso il loro operato senza distinzione di sigle e di etichette.
E' un dovere di tutti fare in modo che i sardi vedano in noi l'esempio della "coesione" su questioni che potrebbero avere risvolti epocali per loro, e che fino adesso, in Sardegna, abbiamo visto essere prerogativa solo dei partiti italiani.
Sardigna Natzione Indipendentzia ha fatto suo, sin dalla nascita, questo principio: siamo quelli che hanno sempre sostenuto l'unità di tale forze come condizione necessaria per influire nel panorama politico sardo, il quale, voglio ricordare, oggi è monopolizzato dalle forze italianiste proprio a causa della nostra frammentazione.
Oggi i partiti italiani sono in grado di raccogliere solo il 40% dei consensi dei sardi - il resto è rappresentato dall'astensionismo e dai soggetti politici che non si riconoscono con Roma - rendendoli di fatto una minoranza, tra l'altro, in sensibile calo. Ciò significa che le potenzialità di metterli "all'angolo" dipenderà dalla nostra esclusiva capacità di coalizzarci, ma anche dai nuovi consensi che deriverebbero a seguito della nuova immagine vincente che ci daremo tra i soggetti non ancora schierati, i quali, come già detto, sono la vera maggioranza relativa.
Le prossime elezioni di Cagliari rappresentano un banco di prova importante.
Per la sua importanza, la capitale della Sardegna sarà soggetta, ancora una volta, a sperimentare le forme consuete della contrapposizione politica tipica dei melodrammi romani, in una prevedibile sequela di giochi che avranno come fine quello di assicurarsi che gli equilibri di potere rimangano immutati.
Immancabilmente tutte le sigle che rispecchiano i partiti italiani saranno presenti, e con loro gli schieramenti i quali esprimeranno i soliti programmi.
Vuole l'indipendentismo inserirsi autorevolmente all'interno di questa lotta con un programma di rottura rispetto al passato?
Ma soprattutto vuole farlo dando un segnale ai sardi che l'indipendentismo è deciso a fare fronte comune a partire da Cagliari?
Il buon senso di chi è fedele all'idea di vedere il popolo sardo finalmente unito suggerirebbe di si!
Voglio evitare di invadere il campo dei Cagliaritani i quali sono i soli aventi diritto di entrare nel merito delle loro questioni cittadine, per ribadire che dalla nostra capitale può, realmente, partire quel segnale che, senza nessuna ombra di retorica, potrebbe rappresentare una svolta verso il cammino per l'indipendenza di tutta la Sardegna. Nelle prossime settimane verranno avanzate delle proposte a questo riguardo. Il mio suggerimento è quello di considerare le varie proposte alla luce di quanto qui è stato detto, che corrisponde a brevi linee a ciò che la stragrande maggioranza dei sardi desidera. Sta solo a noi diventare i sud tirolesi della situazione, mostrando come fanno loro, che la "nostra" è vera volontà di agire da popolo, e che la disunione è stata solamente un capitolo triste della nostra storia, a cui abbiamo saputo porre rimedio per il bene della nostra terra.
Fintzas a s'indipendentzia!
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mercoledì 2 marzo 2011
Parliamo di linguaggio
ilmanifesto
Nella Metafisica Aristotele dice: inchiodali al loro linguaggio. Parla dei sofisti di basso livello, dei Megariti, di quella gente che non argomenta in modo preciso, che cerca di buttare tutto in caciara, il cui unico scopo è la delegittimazione dell'avversario. Negli ultimi tempi la battaglia delle truppe cammellate berlusconiane vede in campo i riservisti: dopo la fanteria d'assalto degli yes-man, i Bondi e i Quagliarello, c'è stato il tempo dei cecchini, i Feltri, i Lavitola, i Sallusti,
Sallusti e Feltri
quelli che sparavano ad altezza uomo ripetutamente, qualunque fosse il Boffo di turno da affondare. Ora la strategia sembra più raffinata: sono tornati da qualche settimana a questa parte a aver voce gli intellettuali sedicenti. Un Giuliano Ferrara che prende per il culo Umberto Eco su Kant, un Antonio Ricci che si riscopre debordiano e fa il verso alle femministe sul Corpo delle donne, detournando il documentario di Lorella Zanardo con un filmatino mandato in onda a Matrix, la cui tesi era: anche Repubblica usa le tette per vendere. Se è questo il livello, il conflitto viene da dire è finalmente culturale. Dopo che l'opposizione parlamentare (il Pd in primis) ha fallito nell'arginare la sua deriva populista, dopo che quella istituzionale (la nuova destra di Fini, la morale comune) è stata miseramente azzoppata, ora tocca a noi, a chi crede che il berlusconismo sia soprattutto una malattia del capitalismo avanzato, un virus che avremmo inoculato comunque anche se Berlusconi ipse non fosse ancora al governo con una maggioranza di 320 parlamentari.
Del resto è anche lui stesso, in prima persona, che in questi giorni è tornato a pugnare, tutto preso in una lunga sessione di tecniche di rovesciamento. Va ovunque ci sia da ribaltare, in una specie di tour da guitto per le piazze di paese. Uomini, donne, correte: è arrivato l'attorino! Ha fatto il numero d'"er reuccio de' Testaccio" alla Fondazione Zeffirelli (altro intellettuale redivivo) - ente neonato grazie a cinque milioni e mezzo di fondi sganciati dalla Regione Lazio che serviranno a costruire un mausoleo mentre ancora il Maestro Zeffirelli è in vita, mentre tutto il cinema della capitale (Centro sperimentale, Casa del Cinema, Metropolitan...) annaspa per la mancanza di finanziamenti. Con un Gianni qualunque (Letta, in questo caso) a fargli da spalla, Pinotto Berlusconi butta là facezie per tutti i palati. Dice: «Oggi sono entrato in Parlamento e anche la sinistra voleva venire al bunga bunga. Che poi sa cosa vuol dire? Andiamo a divertirci andiamo a ballare, andiamo a bere qualcosa...». Ride in faccia al giornalista di Sky che l'ha invitato a un confronto tv, paragonandosi al generale Franco, che se ne fregava delle richieste democratiche.
Poi va nel teatrino dei cristiano riformisti, e rispolvera il repertorio contro i comunisti, spara a zero contro la scuola «che inculca valori diversi da quelli della famiglia» e «contro le adozioni ai single», racconta quando Mamma Rosa lo investì della missione di salvare l'Italia e quando un fantomatico sacerdote russo a dodici anni lo illuminò sul Male rappresentato dal comunismo. Cosa ottiene? Il solito. Le reazioni pavloviane che si aspetta. Da una parte, applausi da stadio: dei claquer i cui bassi istinti di risentimento va a vellicare. Dall'altra, l'indignazione (il giorno dopo): da parte di chi costretto a ribadire l'ovvio, da Bersani a Bocchino, dai blogger degli insegnanti agli editorialisti di Repubblica. Tutti a tenere il punto sul minimo comun denominatore di una società democratica, sul valore fondante della scuola pubblica.
Sembrano i colpi di coda di un dittatore assediato nel bunker, si diceva in questi giorni. Sarà anche la sindrome dell'assediato, ma queste mosse berlusconiane sono lucidi deliri. Anzi, sembra che abbia una strategia chiara nell'affondare il coltello nella piaga proprio nelle contraddizioni della sinistra. Per dire: può permettersi di urlare contro la scuola pubblica e trovare chi lo osanna, proprio perché nell'opinione pubblica di sinistra ci sono state almeno un paio di settimane nelle quali si è dato un incredibile spazio (interviste a tutto campo, ospitate da Fabio Fazio...) al libro catastrofista di Paola Mastrocola sulla scuola. Scusate, ma la paginata di Cesare Segre sul Corriere contro Don Milani e Rodari, contro la scuola dell'uguaglianza, l'ho vista solo io? Scusate, ma l'endorsement del nichilista della domenica Pietro Citati su Repubblica in cui dice che l'Occidente è il luogo del vuoto e del niente, e che nessuno sa più leggere e scrivere, l'ho letto solo io? Se qualcun altro semina, Berlusconi raccoglie. E se delira, almeno non è il solo.
Non è solo nemmeno quando si scaglia contro le adozioni ai single. Su coppie di fatto, tutela dei diritti dei single e degli omosessuali, la sinistra dell'ultimo governo è inciampata ripetutamente, e anche mettiamo che vincesse le elezioni alla prossima tornata, saprebbe proporre un progetto sociale diverso da quello razzista dei machisti oggi al governo?
Ma la tecnica di rovesciamento berlusconiana è studiata fino in fondo. E il giorno dopo, come volevasi dimostrare, arrivano le dichiarazioni stampa in cui si lamenta che è stato travisato: «Non ho mai attaccato la scuola pubblica», «L'insegnamento libero ripudia l'indottrinamento», «Ho solo denunciato l'influenza deleteria dell'ideologia», «Il mio Governo ha avviato una profonda e storica riforma della scuola e dell'Università, proprio per restituire valore alla scuola pubblica e dignità a tutti gli insegnanti che svolgono un ruolo fondamentale nell'educazione dei nostri figli in cambio di stipendi ancora oggi assolutamente inadeguati». Da folle arringapopolo, da puttaniere con il culo flaccido, da millantatore di fidanzate mai apparse, a pacato thatcheriano: eccolo quel fregolismo à la Zelig che conosciamo, quello che ti fa dire che da piccolo volevi fare il carabiniere quando vai alla festa dell'Arma. Mentre il giorno dopo le dichiarazioni della sinistra sono ancora aggrappate al Berlusconi della maschera prima.
Il linguaggio di Berlusconi è performativo, attoriale, ha bisogno di pubblico, di una scenografia: il senso è ancora una volta solo l'effetto, non le intenzioni. Ergo, il suo messaggio per essere contrastato va preso nell'interezza dell'atto performativo. Ritrattazione compresa. E allora, che strategia contrapporre? Inchiodali al loro linguaggio, diceva Aristotele. Quando dicono tutto e il contrario di tutto, quando smentiscono quello che hanno appena detto, fagli riconoscere che esiste il principio di non-contraddizione. Ma se non ammettono nemmeno il principio di non-contraddizione? Beh, in questo caso è Platone che ci viene in soccorso. Anche lui si era trovato molto spesso davanti al problema di chi non gioca su un piano logico del discorso. Capita, perché la nostra anima è tripartita, dice l'inventore della dialettica occidentale: c'è un'anima concupiscibile (l'istinto) che risiede nel ventre, c'è un anima irascibile (la volontà) che risiede nel petto, e c'è un'anima razionale (la ragione) che risiede nella testa. I cattivi politici fanno leva sull'anima concupiscibile per aizzare l'anima irascibile. La politica che dobbiamo praticare può fare il percorso opposto: usare l'anima razionale per generare passione. Ma usare l'anima razionale vuol dire essere capaci ogni giorno di essere autocritici oltre che critici, avere il coraggio di elaborare le contraddizioni (sul ruolo della scuola, sulla laicità, sull'uso della donna nei media, etc...) qui, dalla nostra parte, altrimenti possono cadere mille Berlusconi, ma a essere sconfitti saremo sempre noi.
lunedì 28 febbraio 2011
Alla ricerca di uno stato di diritto: essere cittadini nel mondo arabo
Alla ricerca di uno stato di diritto: essere cittadini nel mondo arabo
Hicham Ben Abdallah Al Alaoui | ||
Tradotto da Il Manifesto |
Non un solo regime democratico, non un solo stato di diritto in tutto il mondo arabo. Questa situazione scandalosa, mentre la democrazia avanza dappertutto nel resto del mondo, in Europa orientale, in America latina, in Africa e in Asia, esaspera l'opinione pubblica dei paesi arabi. Sempre più urbanizzata, meglio istruita, la popolazione chiede a gran voce autentici diritti di cittadinanza, per contrastare con successo il neo-autoritarismo dei poteri e l'offensiva dell'oscurantismo islamista.
La funzione del nucleo familiare
La Rivoluzione tunisina, di Mahjoob, gennaio 2011
Del buon uso dell'islam
(1) Ndr: Ibn Khaldoun (1332-1406) massimo storico e filosofo del Nord Africa, nato a Tunisi, viene considerato un sociologo ante litteram delle società araba, berbera, e persiana. La sua opera principale, “Il libro delle considerazioni sulla storia degli Arabi, dei Persiani e dei Berberi”, ne fa un precursore della sociologia e un filosofo della storia.
venerdì 25 febbraio 2011
Illusioni progressiste
il manifesto
Luciana Castellina fa la domanda giusta: come è successo che uomini e movimenti sui quali erano state riposte tante speranze ed erano stati magnifici nelle lotte di liberazione siano arrivati al punto d...i sollevare il rancore di tanta parte del loro popolo? Le rivolte nel Maghreb e nel Medio Oriente ci interpellano su questo. E così la reazione dei dirigenti al potere, specie di quelli che lo avevano preso con impeto progressista - il libico Muammar Gheddafi e il governo derivante dal Fln algerino.
Non è una domanda diversa da quella che dovremmo farci sul perché le rivoluzioni comuniste hanno subito la stessa sorte. Rispondere che Stalin era un mostro (Stalin e Hitler, stessa razza, tesi degli storici post 1989), e forse anche Lenin, e Mao un pazzo, è derisorio, e del resto non fa che spostare la domanda: perché masse immense e grandi cambiamenti hanno trovato in essi i loro leader? Nel caso di Gheddafi, con le sue uniformi rutilanti e i mantelloni da cavaliere del deserto, la convinzione di essere un liberatore e la disposizione ad ammazzare ed essere ammazzato, l'elemento di delirio è evidente, come i zigzag nei rapporti con le potenze occidentali e il terrorismo. Anche lui all'inizio non parve affatto demente, e non lo era.
Sarebbe interessante seguire alcune ipotesi, anche per l'immediato futuro dei movimenti che stanno scuotendo i paesi arabi. La prima è capire la natura illusoria di un anticolonialismo, spesso declinato come antimperialismo e, più raramente, anticapitalismo, affidato, in presenza di masse incolte, a un'avanguardia forte e risoluta, che più o meno transitoriamente prende il potere e, anche per mezzo di Costituzioni ad hoc, lo difende non solo dagli avversari ma anche contro chiunque lo critica, anche i suoi stessi compagni, vedendovi "oggettivamente" un nemico. E spesso lo è o lo diventa, perché una lotta anticoloniale non si svolge nel vuoto ma in presenza di grandi poteri politici ed economici, che intervengono in ogni spazio o contraddizione presente nel "processo rivoluzionario".
Il quale si difende con misure aspre, ma che sembrano giustificate anche ad osservatori esterni, perché la storia è complicata. Chi avrebbe detto che l'opposizione allo scia di Persia, Reza Palevi, sarebbe stata guidata da un movimento religioso fondamentalista? La Cia non lo aveva sospettato, e molti di noi si sono detti che, dunque, il progresso si fa anche per vie inaspettate, penso non solo al manifesto, ma a Michel Foucault. Invece sbagliavamo come sbagliano Chavez o Lula quando invitano Amadhinejad.
In questo errore è grande la responsabilità dell'Urss da quando difende soltanto i suoi interessi come stato, (e in essi a medio termine perde e si perde), ma anche dei partiti comunisti, che in essa e nelle sue politiche hanno visto la sola barriera rimasta dopo il fallimento delle rivoluzioni in Europa. Quando a Bandung, su iniziativa jugoslava, si delineò il blocco dei paesi non allineati, si deve individuare la causa della loro breve sopravvivenza soltanto nell'antipatia per essi nutrita dalle due superpotenze? Le loro intenzioni di pace erano forti, ma il loro modello sociale era debole. Molto più grave, la decolonizzazione passò presto - liquidati i Patrice Lumumba o Amilcar Cabral - attraverso la formazione di borghesie nazionali (anche su di esse per un certo tempo il movimento comunista sperò) o su forze che, partite anticapitaliste o progressiste attraverso forme di proprietà pubblica, presto soggiacquero o ai problemi di una crescita tutta statalizzata, lo stato ridotto alla sua espressione più rozza, ogni forma di controllo dal basso inesistente o, peggio, a forme diverse di corruzione. Libia e Algeria, in possesso di grandi fonti di energia, sono due esempi affatto diversi di un sequestro di potere che ha sottratto da ogni partecipazione le stesse popolazioni cui erogava alcuni servizi che ne facevano crescere i bisogni, ma che non ha mai coinvolto se non in una rete, più o meno trasparente, di affari o da appelli basati sull'emotività.
E sulle quali la mondializzazione ha indotto un doppio processo: coalizza al vertice le forze economiche, utilizzando gli stati come una agenzia di affari di ambigua proprietà, e produce una immensa massa di lavoratori sfruttati ma in parte crescente acculturati, e dotati di mezzi di comunicazione sconosciuti ai dannati della terra di quaranta anni fa: la folla in piazza Trahir era in possesso di telefonini e conosceva in buona parte Internet, attraverso la quale si era in buona parte formata. Gli sfruttati e oppressi di oggi non sono più gli umiliati e oppressi di allora. Né sono soltanto, come ci è piaciuto di credere dopo l'11 settembre, massa di manovra di imam fondementalisti. Questo nuovo tipo di proletariato - che tale è - non sta più facilmente ai progressismi dispotici, dai quali ha tratto in passato alcuni benefici. E' esso che ha invaso le piazze, che fa vacillare i regimi, che si è fatto scivolar di dosso l'egemonia dell'islamismo in una sua secolarizzazione, esclusion fatta per il potere della dinastia wahabita dell'Arabia saudita. E soprattutto degli ayatollah iraniani, capaci nel medesimo tempo di sviluppare e tenere in gabbia con un sistema del tutto inchiavardato una sia pur riluttante "società civile", cui non permetterà di certo i sussulti del mondo arabo.
In Tunisia e in Egitto sono solo gli eserciti i bizzarri e pericolosi mediatori fra potere e popolazione. Pericolosi, perché anch'essi sono una casta chiusa, e per sua natura fortemente gerarchizzata, nella quale non si dà alternativa fra obbedienza e insurrezione, insurrezione e obbedienza, una necessariamente di seguito all'altra. Non penso, come alcuni amici, che sia da proporsi una sorta di scontro permanente fra movimenti aperti e istituzioni chiuse, e tanto meno che lo sviluppo della persona possa darsi un perpetuo lasciarsi ogni contesto alle spalle, come su questo stesso giornale si suggeriva ai tunisini che sono sbarcati a Lampedusa. Forse qualcuno crescerà nell'esodo, ma non saprei proporre a chi ha appena sbarazzato il paese da una autocrazia di andarsene altrove, non occuparsi di ridare un senso al tessuto sociale da cui viene, e tanto meno di passare nel nostro continente, chiuso in un suo declino. In tutti i paesi dove una forma di dispotismo, ottuso o progressista, ha interdetto l'articolarsi in correnti e progetti di società e il misurarsi nel conflitto, una folla generosa ma atomizzata, e che tale voglia restare, sarà sempre prima o poi preda di un nuovo potere. Non per niente i totalitarismi vietano l'esistenza di corpi intermedi che non siano una loro diretta emanazione.
Il problema delle rivolte arabe - che forse non è giusto neppure chiamare tali - è di darsi forme di partiti e sindacati e regole e divisioni dei poteri che possano costituire leve reali di intervento sui regimi che sempre tendono a formarsi di nuovo. E' un problema anche nostro, e siamo lungi dall'averlo risolto se, nel caso italiano, siamo paralizzati da un personaggio di modesto livello come Berlusconi. C'è in occidente un malessere della democrazia rappresentativa che è impossibile ignorare. Ma non lo risolveremmo se scagliassimo qualche moltitudine su un Palazzo di Inverno; la storia dovrebbe averci insegnato anche questo. La domanda, spalancata oggi dalle folle vincenti di Tunisi e del Cairo, o dalle battaglie in atto in Libia, non è diversa da quella che è venuta maturando nella nostra desolante quotidianità.
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