mercoledì 10 agosto 2011

La svalutazione del dollaro e delle principali monete del mondo rispetto all'oro


Attilio Folliero Аттилио Фолльеро
Cecilia Laya

attiliofolliero.


La scorsa settimana gli USA, per la prima volta nella loro storia, hanno perso la tripla AAA nel rating che qualifica il debito pubblico. E’ molto probabile che ciò determinerà una ulteriore svalutazione del dollaro nei confronti dell’oro. Per comprare una oncia di oro, alla fine di luglio erano necessari 1.628,5 dollari; è probabile che già domani l’oro possa arrivare a 1.700, lanciandosi definitivamente verso i 2.000 dollari.

Ovviamente, rispetto all’oro non si sta svalutando solamente il dollaro, ma tutte le monete, sia pure con percentuali differenti. E’ probabile che a partire da domani, alla riapertura dei mercati, il dollaro possa svalutarsi non solo nei confronti dell’oro, ma anche nei confronti delle altre monete.
Di quanto si è svalutato il dollaro? Il dollaro negli ultimi dieci anni si è fortemente svalutato rispetto all’oro. Alla fine del 2000 per comprare una oncia d’oro erano necessari 274,5 dollari, alla fine di luglio occorrevano - come visto – 1.628,5; ossia, con 100.000 dollari alla fine del 2000 era possibile acquistare 364,36 oncie d’oro; con la stessa quantità di dollari alla fine di luglio del 2011 si acquistavano solamente 61,41 oncie; una svalutazione dell’83,15%.

Nel corso dell’ultimo anno, dalla fine di luglio del 2010 alla fine di luglio del 2011 il dollaro ha perso il 28,2%; infatti un anno fa con 100.000 dollari si acquistavano 85,53 oncie contro le 61,41 di oggi; dall’inizio dell’anno si sta svalutando del 13,69%, dato che alla fine del 2010 con i 100.000 dollari dell’esempio si acquistavano ancora 71,15, circa dieci oncie in più rispetto alla fine di luglio.

Come detto, il dollaro non è l’unica moneta che si sta svalutando; al fine di analizzare la svalutazione del dollaro rispetto alle altre, consideriamo 19 tra le principali monete del mondo, di ogni continente: oltre al dollaro USA, il dollaro canadese per l’America; l’Euro, il franco svizzero, la sterlina inglese, la lira turca ed il rublo russo per l’Europa; lo yen giapponese, il renmimbi yuan cinese, il won coreano, la rupia indiana, la rupia indonesiana, il baht tailandese ed il dong vietnamita per l’Asia; il dirham degli Emirati Arabi ed il Riyal dell’Arabia Saudita per il Medio Oriente; il dollaro australiano per l’oceania; la sterlina egiziana ed il rand sudafricano per l’Africa. Nel sito è possibile consultare i prezzi dell’oro nelle differenti monete, dal 1973 ad oggi.

Consederando quante oncie di oro si potevano acquistare con 100.000 unità di ogni moneta alla fine del 2000, alla fine di luglio 2010, alla fine del 2010 ed alla fine di luglio del 2011 possiamo calcorare per ogni moneta la svalutazione intervenuta negli ultimi dieci anni, nell’ultimo anno e dall’inizio del 2011.

Nella seguente Tabella riportiamo la quantità di oncie d’oro acquistabili con 100.000 unità di ognuna delle 19 monete studiate, alla fine del 2000, alla fine di luglio del 2010, alla fine del 2010 ed alla fine di luglio del 2011. Con questi dati è possibile calcolare, per ogni moneta, la svalutazione intervenuta tra la fine del 2000 e la fine di luglio del 2011, negli ultimi dodici mesi (luglio 2010/luglio 2011) e nel corso del 2011 (fine 2010/fine luglio 2011).

Dalla tabella risulta evidente che tutte le monete hanno subito una forte svalutazione rispetto all’oro, negli ultimi dieci anni e mezzo; il franco svizzero è la moneta che si è svalutata di meno: solamente (si fa per dire) del 65,3%, dato che alla fine del 2000 con 100.000 franchi svizzeri si acquistavano 224,8 oncie d’oro, mentre oggi con la stessa quantità si acquistano 77,9 oncie; il franco svizzero è seguito dal dollaro australiano (-66,6%), dal dollaro canadese (-73,4%), dall’Euro (-74,2%), quindi da tutte le altre. Il dollaro USA - come visto - si è svalutato dell’83,1%; peggio hanno fatto solamente il dong vietnamita (-88,0%), la sterlina egiziana (-89,0%) e la lira turca, svalutatasi del 93,2%.

Negli ultimi dodici mesi (luglio 2010/luglio 2011), il franco svizzero rimane la moneta meno svalutata: solamente 4,7%, seguita dal dollaro australiano (-12,9%); l’euro negli ultimi dodici mesi si è svalutato del 20,8%, il dollaro USA del 28,2%; anche in questo caso solo poche monete si sono svalutate più del dollaro, tra le quali la lira turca svalutatasi del 35,5%.

Nel corso dei primi sette mesi dell’ultimo anno, il franco svizzero si è rivalutato del 2,0% rispetto all’oro; il franco svizzero è l’unica moneta che non solo tiene, ma acquista valore rispetto all’oro; tutte le altre perdono: l’Euro del 7,5%, il dollaro USA del 13,6% e la lira turca del 20,8%, come sempre peggior moneta, tra quelle prese in considerazione.

Questo, dunque il quadro della valutazione delle monete rispetto all’oro, alla vigilia del fantomatico accordo (2 agosto 2011) che ha evitato all’ultimo momento il default degli USA, accordo che comuqnue non ha impedito agli USA di vedersi ribassata la propia qualificazione del debito, dalla triple A ad AA+.

La svalutazione del debito USA sicuramente determinerà modifiche nel valore delle monete rispetto all’oro e soprattutto del dollaro rispetto alle altre monete; ossia è prevedibile che il dollaro perda valore sia rispetto all’oro che rispetto alle altre monete. In sostanza continua e si accentua la svalutazione di quella che fu la moneta di riferimento per i commerci mondiali dalla fine della seconda guerra mondiale.

Quantità di oro (oncie) acquistabili con 100.000 unità di ogni moneta a fine 2000, a fine luglio 2010, a fine 2010 ed a fine luglio 2011 e le rispettive variazioni percentuali

N
Moneta
31/12/2000
30/07/2010
31/12/2010
29/07/2011
Var % 2000/2011
Var % ultimi 12 mesi
Var % Anno 2011
1
Swiss franc
224,847
81,762
76,33
77,907
-65,35%
-4,7%
2,06%
2
Australian dollar
202,478
77,438
72,93
67,452
-66,69%
-12,9%
-7,51%
3
Canadian dollar
242,587
83,056
71,60
64,357
-73,47%
-22,5%
-10,12%
4
Euro
342,103
111,446
95,45
88,241
-74,21%
-20,8%
-7,55%
5
Japanese yen
3,191
0,987
0,88
0,796
-75,07%
-19,4%
-9,32%
6
Thai baht
8,399
2,650
2,36
2,059
-75,49%
-22,3%
-12,77%
7
Chinese renmimbi
44,019
12,626
10,80
9,540
-78,33%
-24,4%
-11,64%
8
Korean won
0,288
0,072
0,06
0,058
-79,78%
-19,4%
-7,10%
9
Indonesian rupiah
0,038
0,010
0,01
0,007
-80,82%
-24,5%
-8,54%
10
South African rand
48,133
11,712
10,75
9,151
-80,99%
-21,9%
-14,91%
11
Pound sterling
544,288
133,969
111,39
100,798
-81,48%
-24,8%
-9,51%
12
Indian rupee
7,806
1,843
1,59
1,390
-82,20%
-24,6%
-12,67%
13
Russian ruble
12,716
2,823
2,33
2,254
-82,27%
-20,1%
-3,28%
14
Saudi riyal
97,151
22,811
18,97
16,374
-83,15%
-28,2%
-13,69%
15
UAE dirham
99,201
23,290
19,37
16,719
-83,15%
-28,2%
-13,69%
16
US dollar
364,365
85,543
71,15
61,406
-83,15%
-28,2%
-13,69%
17
Vietnamese dong
0,025
0,004
0,00
0,003
-88,01%
-32,9%
-17,49%
18
Egyptian pound
93,667
15,005
12,26
10,307
-89,00%
-31,3%
-15,91%
19
Turkish lira
543,585
56,783
46,23
36,615
-93,26%
-35,5%
-20,80%

martedì 9 agosto 2011

Ghjurnate Internaziunale di Corti 2011


Cunferenza di Stampa "SULIDARITA CAMPERA" -... di Corsica_Libera

Siamo al trentesimo anno della manifestazione internazionale di Corti, una manifestazione che conta, nel tempo, di centinaia di delegazioni di natzioni senza stato.

Quest'anno si è svolta, come al solito, una bella manifestazione fiornate molto luminose e soleggiate , aria fresca e frizzante di montagna, tante le delegazioni intervenute (sardi, irlandesi, catalani, baschi, kanak..) tra cui per la prima volta anche la delegazione di Tahitiana.

Corsica Libera si candida ad entrare nella AEL (Associazione Europa Libera), il PSdAz (partidu sardu) per bocca del segretario natzionale Giovanni Colli si fa garante per la partecipazione dei fratelli Corsi all'associazione democratica AEL.

Questa adesione , comporta un cambio di rotta e di strategie politiche nella pratica quotidiana per la libertà de la Corsica; è un grande dibattito che si sta svolgendo da mesi nei movimenti corsi e anche ne la FLNC.

Ogni natzione senza stato si batte affinchè vengano riconosciuti i diritti dei loro popoli di potersi autodeterminare e gestire per conto e volontà loro; se democratzia deve essere, di questa realtà si deve tenere conto, altrimenti non si parli a sproposito quando si condannano i governi totalitari presenti nel mondo; se poi non si da la giusta e dignitosa libetà alle situazioni della natzioni senza stato interne dentro al blocco "di stati democratici".

Le Ghjurnate Internaziunale di Corti , significano questo: intendono rivendicare che a ogni soggetto natzionale venga riconosciuta la libertà di costituirsi democraticamente stato per darsi strutture statuali proprie riconosciute da le Natzioni Unite, affinchè il loro esistere possa esprimersi e camminare con una propria legge costituzionale di stato libero con pari dignità a tutti gli altri esistenti in terra e decidere finalmente come tutti gli altri da se la propria storia in piena libertà, rispettando i diritti individuali e di libera espressione.
SOVRANI IN CASA NOSTRA!


CORSICA - GHIURNATE INTERNAZIUNALE 2011 - INDIPENDENTISTI E AUTONOMISTI UNITI PER LA PRISE DE PUVUOIR NEL 2014

pubblicata da Bustianu Cumpostu il giorno martedì 9 agosto 2011 alle ore 23.23

I sardi, Bustianu Cumpostu di SNI, Gavino Sale di IRS, Giovanni Colli del PSd’Az insieme ai baschi di Batasuna e Askatasuna, ai catalani di S.I. Catalunia, ai Kanaki di USTKE, agli irlandesi del Sinn Féin e ai Polenisiani del partito Tavini-Tahiti sono stati graditi ospiti internazionali al trentennale de le Ghjurnate Internaziunale di Corti 5-6-7 agosto 2011.

Giornate molto importanti per l’alto livello del dibattito, nel quale è intervenuta anche la consigliere regionale indipendentista Claudia Zuncheddu, e per gli obiettivi che i corsi si propongono di conseguire nel loro agire politico e specialmente in occasione delle elezioni regionali del 2014.

Presa del potere regionale nel 2014 – Indipendentisti e autonomisti, nel dibattito su “solution politique et alternative nazionaliste” hanno condiviso il progetto di presentarsi uniti alle elezioni regionali del 2014 e puntare al governo della Corsica. I buoni risultati conseguiti nelle precedenti tornate elettorali hanno convinto Jean-Guy Talamoni a farsi promotore dell’ambito progetto, secondo il quale “ la coesione d’insieme non nuoce affatto alla necessaria pluralità della famiglia nazionalista” e puo puntare alla “ prise de povuoir en 2014” perché “ mai come oggi il nostro popolo è stato altrettanto minacciato , ma mai come oggi la sua presa di coscienza è stata così elevata”.

Legge sulla residenza – In seguito ad un referendum autogestito, effettuato nel comune di Sisco, dove il 74% ha votato si alla proposta di concedere la residenza in Corsica solo dopo 10 anni di domiciliazione effettiva e alla presa d’atto del fatto da parte del Consiglio Regionale corso, i nazionalisti si propongono di ripetere il referendum in tutta l’isola.

Soluzione politica globale per i prigionieri politici – J.G. Talamoni ha chiesto che ai prigionieri politici corsi venga riconosciuto lo stesso stato di “partigiani” della resistenza francese contro l’invasore tedesco e non di “terroristi” , creando i presupposti per una soluzione politica del problema.

Ufficializzazione della lingua corsa – Facendo leva sull’approvazione della mozione presentata dagli indipendentisti di Corsica Libera, in merito all’ufficializzazione della lingua corsa, ci si propone dI trasformare la mozione in legge e creare i presupposti didattici e pedagogici.

Grande ammirazione, gli indipendentisti corsi, hanno manifestato per i risultati eccezionali conseguiti dalla nazione sarda nel referendum contro il nucleare e concordando pienamente con Bustianu Cumpostu, che aveva citato l’evento nel suo intervento, hanno riconosciuto al referendum la valenza indipendentista per aver chiamato il popolo sardo a riaffermare la sovranità su proprio territorio nazionale.

IL COORDINATORE NAZIONALE SNI

Bustianu Cumpostu


martedì 2 agosto 2011

IL SEME SOTTO LA NEVE

di Francesco Codello
libertaria



Un anarchico pragmatico, questa era la definizione ricorrente di Colin Ward
morto l’11 febbraio.Inglese,nato nel 1924, architetto, insegnante, giornalista
e scrittore ha pubblicato oltre trenta libri di argomento politico, urbanistico
e pedagogico.Ward è una figura di primo piano dell’anarchismo.I suoi libri
pubblicati in italiano: Anarchia come organizzazione (1996), Dopo
l’automobile (1992), Acqua e comunità (2003),L’anarchia. Un approccio
essenziale (2008), Conversazioni con Colin Ward (a cura di David Goodway,
2003) tutti pubblicati da Elèuthera. E La città dei ricchi e la città dei poveri
(1998), Il bambino e la città (2000).Mentre il Bollettino dell’Archivio
G. Pinelli (supplemento al n.30) ha pubblicato L’anarchismo pragmatico
di Colin Ward. Qui ne tratteggia la figura e il pensiero Francesco Codello,
dirigente scolastico a Treviso, autore di Educazione e anarchismo (1995),
La buona educazione (2005),Vaso, creta o fiore? (2005), Né obbedire
né comandare (2009) e Gli anarchismi (2009)


«Come si reagirebbe alla scoperta che la società in cui si vorrebbe realmente vivere c’è già (…), se non si tiene conto, ovviamente, di qualche piccolo guaio come sfruttamento, guerra, dittatura e
gente che muore di fame? Questo libro vuol proprio dimostrare che una società anarchica,
una società che si organizza senza autorità, esiste da sempre, come un seme sotto la neve, sepolta sotto il peso dello stato e della burocrazia, del capitalismo e dei suoi sprechi, del privilegio e delle ingiustizie, del nazionalismo e delle sue lealtà suicide, delle religioni e delle loro superstizioni e separazioni» [1].

In questa citazione è compendiata tutta la ricerca a cui Colin Ward [2] ha dedicato la vita di
attento indagatore della società con l’intento di dimostrare che l’anarchia non è una visione,
basata su congetture, di una società futura, quanto piuttosto un modo del tutto umano di
organizzarsi, ben radicato da sempre nella concreta esperienza della vita quotidiana, che funziona a fianco delle tendenze spiccatamente autoritarie della nostra società e nonostante
quelle.

La domanda che fin dal 1961 Ward si pone è se, come anarchici, si è sufficientemente rispettabili (Anarchism and Respectability, 1961), vale a dire se la qualità delle idee e proposte libertarie
sono meritevoli di rispetto, in quanto suggeriscono concrete soluzioni libertarie ai problemi
del vivere sociale, da preferirsi a quelle autoritarie.
Uno degli aspetti più interessanti e nuovi (nel panorama anarchico) è costituito dal fatto che
tra gli oltre venti libri da lui scritti (senza contare l’enorme numero di articoli pubblicati in
una varietà di periodici non solo libertari), solo due sono esplicitamente riferiti all’anarchia,
mentre tutte le sue ricerche sono indirizzate a un’ampia gamma di problematiche sociali
(educazione, urbanistica, politica, architettura, costumi e comportamenti sociali, economia...)
utilizzando sempre fonti e studi, oltre che esperienze, di provenienza e orientamento culturali
vari.

Ward scriveva infatti già nel 1958: A mio modo di vedere la caratteristica più saliente del «libro che non c’è» sul movimento anarchico del ventesimo secolo non dovrebbe tanto essere il superamento delle concezioni proprie ai pensatori classici dell’anarchismo, Godwin, Proudhon, Bakunin, Kropotkin, ma la rielaborazione che ne è stata fatta, la loro estensione ad ambiti più vasti. Si è trattato di un processo selettivo che ha respinto il perfezionismo, la fantasticheria utopistica, il romanticismo cospirativo, l’ottimismo rivoluzionario, prendendo dai classici dell’anarchismo le idee più valide, non quelle più discutibili… E vi ha infine inglobato l’apporto concreto offerto dalle scienze sociali del nostro secolo, in particolare dalla psicologia e dall’antropologia, oltre che dall’evoluzione tecnica [3].

Le influenze culturali anarchiche e libertarie
Per sua stessa ammissione Colin Ward dichiara che questo quesito e questa idea dell’anarchia
non è nuova nel panorama dei pensatori e nella storia dei movimenti libertari, ma è stata sicu-
ramente poco ripresa e non sviluppata, al di fuori di qualche intuizione peraltro minoritaria. Si può quindi sostenere che essa rappresenta un’idea sostanzialmente originale e diviene una sfida nuova con cui misurarsi.

Lo stesso Ward individua in alcuni autori i suoi punti di riferimento principali, senza tralasciare gran parte della tradizione storica dell’anarchismo stesso, ma cercando di privilegiarne quegli elementi non obsoleti o chiaramente insoddisfacenti.
Le principali influenze culturali (non le uniche ovviamente) verso le quali si sente debitore, ce
le ricorda egli stesso, e sono quelle di William Godwin e Mary Wollstonecraft per l’educazione, Alexander Herzen per la politica, Pëtr Kropotkin per l’economia, Martin Buber per la sociologia, William Richard Lethaby e Walter Segal per l’architettura, Patrick Geddes e Paul Goodman per la pianificazione urbanistica [4].

Accanto a questi riferimenti, diciamo originari, egli assume e sviluppa molte altre indagini e ricerche, privilegiando quegli studi più originali e attuali in grado di portare dati e riscontri certi
alla sua tesi di fondo. Infatti nelle varie bibliografie che accompagnano i suoi scritti sono molto più citati autori e ricercatori che nulla hanno a che fare con l’anarchismo, ma che hanno indagato a fondo aspetti diversi di un problema, arrivando a conclusioni che possono
essere utilmente e facilmente portate a suffragio di una visione libertaria.

Il pensiero di Colin Ward arriva in Italia grazie soprattutto a pochi anarchici riuniti attorno al-
l’esperienza dei Gaf (Gruppi anarchici federati) e in particolare alla rinnovata gestione delle
Edizioni Antistato (curata da Amedeo Bertolo e Rossella di Leo) e alla rivista Volontà (diretta da
Luciano Lanza). Saranno proprio questi e pochi altri anarchici che accoglieranno con piacere la
sfida innovativa che l’anarchico inglese aveva lanciato fin dagli inizi degli anni Sessanta attra-
verso, soprattutto, le pagine di quella indimenticabile rivista che è stata Anarchy [5].

1. Colin Ward, Anarchy in Action, (1973) ora Anarchia come organizzazione, Elèuthera, Milano, varie edizioni, qui 2006.
2. Per una biografia intellettuale di Colin Ward vedi: David Goodway, Conversazioni con Colin Ward. Lo sguardo anarchico, Elèuthera, Milano, 2003; Stuart White, Un anarchismo rispettabile?, Bollettino Archivio Pinelli, n. 30, Milano, 2007; Francesco Codello, La lezione di Colin Ward, in A rivista anarchica, Milano, n. 2/2010; Id., Il seme sotto la neve. Intervista a Colin Ward, in Libertaria, Milano, n. 3/2001. David Goodway, Anarchist Seeds Beneath the Snow, Liverpool University Press, Liverpool, 2007, pp. 309-325.
Alla Colonia Berneri. Colin Ward nel 1952 in visita alla colonia marina fondata da Giovanna Caleffi, la vedova di Camillo Berneri, con Cesare Zaccaria a Piano di Sorrento nel 1951 nel nome della figlia MariaLuisa morta nel 1949. Un’esperienza che si chiude nel 1957
3. Colin Ward, The Unwritten Handbook, in Freedom, Londra, 28 giugno 1958.
4. Cfr.: Colin Ward, Influences. Voices of Creative Dissent, Green Books, Bideford, 1991.
5. Sulla esperienza di Ward (fondatore) alla rivista Anarchyvedi l’introduzione dello stesso al volume da lui curato, A Decade of Anarchy (1961-1970), Freedom Press,
Londra, 1987. Il volume contiene una scelta di articoli dalla rivista su vari argomenti di diversi autori.
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhjG8QcWlmIOUm0ZNraETYFomNQoKmnAGisT2HcqQBFFor-n1Oov_AxeTIPmqsSkN5mblE8vkbzEIC8fc3q5IjRBklOlWdPvlLhkNyLQXlpOBRCpcDtz7egaPB7kZ5P43rMLKnYdRkuGc0/s660/untitled.bmp

Il tesoro delle corporation

de su espressu
espresso

I colossi americani del business hanno accumulato un milione e mezzo di miliardi di dollari di guadagni all'estero. Vogliono farli rientrare per rilanciare l'economia in cambio di uno sconto fiscale. Ma Obama nicchia. Perché teme che ci sia un trucco

LA PROPOSTA DELLE MULTINAZIONALI AMERICANE E' LA STESSA CHE HANNO OTTENUTO QUELLE ITALIANE DA TREMONTI: PAGARE IL 5% DEL CAPITALE ANZICHE' IL 35% PER FAR RIENTRARE I CAPITALI IN USA...


Il terreno fu sondato da una coppia d'eccezione: l'amministratore delegato di Cisco Systems John Chambers e il presidente di Oracle Safra Catz. I due decisero di uscire allo scoperto il 20 ottobre dell'anno scorso con un articolo a loro firma sul Wall Street Journal. Esordirono dicendo che era loro intenzione dare una mano a Barack Obama per far ripartire l'economia e accelerare la creazione di nuovi posti di lavoro.
Come? L'idea era semplicissima.

Leggete Chambers e Catz: "C'è un trilione (un milione di miliardi, ndr) di dollari che le società americane hanno guadagnato nelle loro operazioni all'estero e che potrebbe essere riportato negli Stati Uniti. Quel denaro, una volta rientrato, potrebbe essere investito per creare posti di lavoro nel Paese, per rinforzare il patrimonio delle aziende, per la ricerca e lo sviluppo, e in altro ancora". Beh, che cosa aspettano le multinazionali che hanno tutti questi soldi inutilizzati all'estero a portarli a casa per creare altra ricchezza e uscire ancora più velocemente da una stagione di crisi?

Siamo pronti, annunciarono Chambers e Catz. Ma...c'è sempre un ma in queste storie. Continuate a leggere l'op-ed pubblicato dal Wall Street Journal: "Per le società americane far ritornare a casa questi guadagni significa incorrere in una significativa sanzione: ovvero, pagare una tassa del 35 per cento. Questo vuol dire che le società americane possono, senza tante conseguenze, utilizzare i loro guadagni esteri per investire in qualsiasi Paese del mondo, eccetto che negli Stati Uniti". La legge degli Stati Uniti prevede che i profitti che le società americane fanno all'estero siano tassati solo nel momento in cui vengono portati a casa: fino a che stanno fuori il fisco non li può toccare.

Se quella dell'ottobre scorso fu l'apertura degli amministratori delegati e dei presidenti delle multinazionali made in Usa, mercoledì 15 giugno 2011 si è svolto a Washington un convegno dove una moltitudine di manager ha reso pubblica la proposta che, in via riservata, era stata presentata al presidente Obama e al Segretario al Tesoro Timothy Geithner sotto il nome di "Repatriation Holiday", la festa del rimpatrio. Noi portiamo a casa i soldi che adesso sono nelle casseforti delle nostre società estere diventando così i protagonisti di un nuovo stimolo all'economia e il governo ci regala un bello sconto fiscale. Quanto? Dal teorico 35 per cento, che è la aliquota prevista per la Corporation tax, al 5 per cento, 30 punti in meno, ovvero una montagna di denaro in più a disposizione delle multinazionali.

La Casa Bianca non ha risposto né sì né no. Obama ha detto: "Se ne parla solo quando l'intera materia fiscale sarà affrontata". Ovvero, scordatevi un regalo così grande fino a quando i repubblicani insistono per mantenere in vita gli sconti fiscali a coloro che guadagnano più di 250 mila dollari e rifiutano ogni accordo sui tagli di bilancio e sulla manovra fiscale che servono a porre il governo al riparo di un sicuro default se non si alza il tetto del deficit programmato. E dimenticate ogni Festa del Rimpatrio mentre milioni di americani non hanno lavoro o sono alle prese con seri problemi di bilancio familiare. Sulla scia di Obama si è messo il ministro Geithner.

Ma come, le aziende private offrono una sponda al governo dicendosi pronti a riportare i soldi fermi all'estero per iniettarli nel sistema economico interno e la Casa Bianca non afferra al volo l'occasione? Obama è affetto da cecità ideologica? Eppure si tratta di una montagna di dollari. Molti di più di quelli di cui avevano parlato nel loro articolo Chambers e Catz. All'estero, secondo i dati del Tesoro, ci sono un trilione e mezzo di dollari. Se si scorre un primo, parziale elenco delle società, è come fare l'appello del fior fiore dell'economia americana. La Pfizer e la Merck, giganti della farmaceutica hanno all'estero rispettivamente 48 e 40 miliardi di dollari, Johnson & Johnson 37, Citigroup 32, la Ibm 31, Procter & Gamble 30, PepsiCo 26,6, Hewlett-Packard 21,9, Coca-Cola 20,8, Google 17,5, Bristol-Myers Squibb 16,4, Oracle 13, DuPont 12,6, Apple e Dell 12,3 ciascuna, Intel 11,8, McDonald's 11, Morgan Stanley 5,1 miliardi di dollari.

Quando però l'enfasi della proposta, l'eccitazione della battaglia lobbystica e i fuochi d'artificio dell'elenco di miliardi di dollari in attesa di rientrare si posano come la sabbia dopo una tempesta di vento, le cose appaiono naturalmente un po' diverse. Basta guardare alla storia recente degli Stati Uniti. Senza andare troppo lontano nel tempo, ma fermandosi all'ottobre del 2004. Alla Casa Bianca c'era George W. Bush al quale le grandi corporation fecero la stessa proposta che hanno avanzato oggi a Obama. Condita sempre dalla previsione che il denaro avrebbe finito per creare nuovi posti di lavoro e sarebbe stato massicciamente investito in ricerca e sviluppo e in nuovi impianti. Bush e i suoi ministri, la stessa pattuglia che non ha mosso un dito contro le deviazioni della finanza che hanno portato l'America e il mondo al collasso economico del 2008, applaudirono e si adoperarono perché fosse varata una legge apposita per abbattere l'aliquota fiscale dal teorico 35 per cento all'effettivo 5,25 per cento (in realtà, tra deduzioni, semplificazioni, codicilli vari le società americane pagano una corporate tax che si aggira sul 27 per cento). Una volta approvato il super sconto fiscale, le cose andarono in modo molto differente.

Lo ha raccontato al New York Times Kristin J. Forbes, professoressa di economia alla Sloan School of Mangement del Mit e che ha guidato un gruppo di studio sugli effetti del Repatriation Holiday per conto del National Bureau of Economic Research. Premessa, la professoressa Forbes non è accusabile di partigianeria anti azienda e anti repubblicana, visto che è stata nel Council of Economic Advisers di W. Bush: "Per ogni dollaro riportato a casa, non è stato speso neanche un centesimo in nuovi impianti, ricerca e sviluppo, nuove assunzioni o aumenti di stipendio".

Dunque, una presa in giro in salsa patriottica, quella delle multinazionali. Continuando la lettura del rapporto della Forbes, si scopre che hanno utilizzato il denaro per riacquistare azioni proprie, per distribuire dividendi agli azionisti e per premiare i manager di vertice con bonus in contanti e stock option. C'è chi - è il caso della Merck - ha approfittato del rientro di capitale per ristrutturare l'azienda, licenziare migliaia di lavoratori e tacitare una class action miliardaria di clienti cui era stato venduto un farmaco che aveva creato più problemi che curato malattie.

Visto così, il niet di Obama assume un sapore diverso. Ma in questa storia c'è anche un personaggio che gioca due parti in commedia. E' Jeffrey Immelt, l'amministratore delegato della General Electric, la multinazionale delle multinazionali, la società che paga in assoluto meno tasse di tutti in America grazie a una costante e martellante azione di lobby che consente di ridurre i profitti interni ed esteri con mille cavilli fiscali. Immelt non è solo il numero uno della Ge: a gennaio è stato chiamato da Obama alla testa del Council for Jobs and Competitiveness. E allora ha provato a formulare una proposta intermedia: vuole il Repatriation Holiday, ma sostiene che il denaro che rientra andrebbe utilizzato per creare una grande banca privata specializzata in prestiti finalizzati alle infrastrutture del Paese. La proposta è caduta nel disinteresse generale delle grandi corporation e qualche amministratore delegato si è chiesto se Immelt fosse stato colpito da improvviso statalismo acuto.

Adesso tutto è fermo, l'opinione corrente è che fino alle prossime elezioni presidenziali (novembre 2012) non accadrà nulla. Ma chi ha cominciato questa battaglia non intende per nulla arrendersi. Anzi ha deciso di cominciare a fare sul serio pressione sull'amministrazione. La Cisco Systems ha annunciato il 21 luglio che è pronta a ridurre il personale di 6.500 unità, 4.500 licenziati il resto in pensione anticipata volontaria.

Quanti altri faranno come il ceo John T. Chambers per far cambiare opinione a Barack Obama?

http://www.zerohedge.com/sites/default/files/images/user5/imageroot/draghi/Cash%20vs%20UST.jpg

domenica 31 luglio 2011

Il nuovo antisemitismo



Uri Avnery אורי אבנרי

http://zope.gush-shalom.org
tradutzioni de Sa Defenza

Il ministro della propaganda nazista, il dottor Joseph Goebbels, chiama il suo capo, Adolf Hitler, dal telefono degli inferi.

"Mein Führer", esclama eccitato. "Notizie dal mondo. Sembra che eravamo sulla strada giusta, dopo tutto. ” L'antisemitismo sta conquistando l'Europa! "
"Bene!" Il Führer dice: "Sarà la fine dei Giudei!"

"Hmmm ... beh ... non esattamente, mein Führer. Sembra che abbiamo scelto i Semiti sbagliati. I nostri eredi, i nuovi nazisti, stanno per annientare gli arabi e tutti gli altri musulmani in Europa. "Poi, con una risatina:" Dopo tutto, ci sono molti più musulmani che ebrei da sterminare. "

"Ma per quanto riguarda gli ebrei?" insiste Hitler .
"Tu non ci crederai: i nuovi nazisti amano Israele, lo Stato ebraico - e Israele li ama!"


L'atrocità commessa questa settimana dal norvegese neo-nazista - è un caso isolato? Estremisti di destra in tutta Europa e negli Stati Uniti stanno già declamando all'unisono: "Egli (Breivik ndr) non appartiene a noi! Lui è solo un individuo solitario con una mente squilibrata! Ci sono pazzi ovunque! (dicono) ” Non si può condannare un intero campo politico per le azioni di una singola persona! "

Suona familiare. Dove abbiamo sentito, prima, parlare così?

Naturalmente, dopo l'assassinio di Yitzhak Rabin.

Non vi è alcun collegamento tra l'omicidio di massa di Oslo e l'assassinio di Tel Aviv. Oh c'è?


"Odio" montaggio immagine di Juan Kalvellido


Durante i mesi che hanno preceduto l'assassinio di Rabin, una campagna di odio crescente è stata orchestrata contro di lui. Quasi tutti i gruppi di destra israeliani erano in competizione tra loro per vedere chi lo demonizzava più efficacemente.

In una dimostrazione, una foto-montaggio di Rabin in uniforme di ufficiale SS era sfilata dentro. Sul balcone che si affaccia questa sulla dimostrazione, Binyamin Netanyahu potrebbe essere stato visto applaudire selvaggiamente, mentre una bara finta di "Rabin" è sfilata sotto. Gruppi religiosi hanno inscenato, una cerimonia cabalistica di stampo medievale in cui Rabin fu condannato a morte. Rabbini anziani hanno preso parte alla campagna. Nessuna voce di destra o religiosa è stata sollevata nell'ambito del macrabo avvertimento.

L'omicidio effettivo è stato infatti svolto da un singolo individuo, Yigal Amir, un ex colono , studente di una università religiosa. Si ritiene generalmente che prima dell'atto si sia consultato con almeno un anziano rabbino. Come Anders Behring Breivik, l'assassino di Oslo, ha progettato il suo gesto con attenzione, per un lungo periodo, e ha giustiziato a sangue freddo. Non aveva complici.

O ne ha avuti? Se non tutti, gli istigatori, chi sono suoi complici? Se non i responsabili demagoghi spudorati, come Netanyahu, che sperava di cavalcare il potere sull'onda dell'odio, paure e pregiudizi?

Come si è scoperto, i loro calcoli sono stati confermati. Meno di un anno dopo l'assassinio di Rabin, Netanyahu giunse al potere. Ora la destra è dirigente in Israele, diventando sempre più radicale, di anno in anno, e, ultimamente, sembra, di settimana in settimana. Vincitori fascisti ora giocano un ruolo di primo piano nella Knesset.

Tutto questo - il risultato di tre colpi sparati da un singolo fanatico, a seguito di parole di cinici demagoghi si sono mostrate mortalmente serie.

L'ultima proposta dei nostri fascisti, direttamente dalla bocca di Avigdor Lieberman, è quello di abrogare il coronamento di Rabin: gli accordi di Oslo. Quindi torniamo a Oslo.

Quando ho sentito la notizia circa l'oltraggio di Oslo, avevo paura che i responsabili potessero essere stati alcuni musulmani pazzi. Le ripercussioni sarebbero state terribili. Infatti, in pochi minuti, un gruppo musulmano stupido già vantava di aver effettuato questa impresa gloriosa. Fortunatamente, l'attuale assassino di massa si è arreso nella scena del crimine.

Lui è il prototipo di un nazista antisemita della nuova ondata. Il suo credo consiste nella supremazia bianca, fondamentalismo cristiano, l'odio per la democrazia e lo sciovinismo europeo, mescolato con un odio virulento dei musulmani.

Di questo credo ora spuntano propaggini in tutta Europa. Piccoli gruppi radicali dell'ultra-destra si stanno trasformando in dinamiche dei partiti politici, prendono posto nei parlamenti e diventano persino kingmakers qua e là. I paesi che sembravano sempre essere modelli di sanità mentale politico improvvisamente producono fascisti sobillatori del tipo più disgustoso, anche peggio del US Tea Party, un altro frutto di questo nuovo Zeitgeist. Avigdor Lieberman è il nostro contributo a questo illustre campionato del mondo (world-wide league) .

Una cosa che quasi tutti questi gruppi di ultra-destra europei e americani hanno in comune è la loro ammirazione per Israele. Nel suo manifesto politico di 1500 pagine , sul quale aveva lavorato per lungo tempo, l'assassino di Oslo ha dedicato un'intera sezione a questo. Ha proposto una alleanza della destra estrema europea e Israeliana. Per lui, Israele è un avamposto della civiltà occidentale nella lotta mortale con il barbaro Islam. (Questa reminiscenza ricorda un pò la promessa di Theodor Herzl (1) che il futuro Stato ebraico sarebbe stato un "avamposto della cultura occidentale contro la barbarie asiatica"?)

Parte dei professi filo-sionisti di questi gruppi islamofobici è, naturalmente, pura finzione, progettata per camuffare il loro carattere neo-nazista .Se amate gli ebrei, o lo Stato ebraico, non si può essere un fascista, giusto? Ci puoi scommettere che potete! Tuttavia, credo che la maggior parte di questa adorazione di Israele è del tutto sincero.
Israeliani di destra , che sono corteggiati da questi gruppi, sostengono che non è colpa loro che tutti questi mercanti di odio sono attratti da loro. Di fronte a esso, è certamente vero. Eppure non si può non chiedersi: perchè sono così attratto? Oppure, in che cosa consiste questa attrazione? Questo non giustifica un certo serio esame di coscienza?

Son venuto a conoscenza della gravità della situazione quando un amico ha attirato la mia attenzione su alcuni blog tedeschi anti-islamici .

Queste effusioni sono copie quasi identiche alle lettere delle diatribe di Joseph Goebbels . La stessa demagogia e slogan. La stessa base di accuse. La stessa demonizzazione. Con una piccola differenza: al posto degli ebrei, questa volta ci sono gli Arabi che stanno minando la civiltà occidentale, una seducente Cristianità, riporta a dominare il mondo. I Protocolli dei Savi di Mecca.

Il giorno dopo gli eventi di Oslo mi è capitato di guardare la TV Al Jazeera del network inglese, uno dei migliori al mondo, e ho visto un programma interessante. Per un'ora intera, il giornalista ha intervistato per strada gente italiana sui musulmani. Le risposte sono state scioccanti.

Le Moschee dovrebbero essere vietate. Sono luoghi dove i musulmani complottano per commettere crimini. In realtà, non hanno bisogno di moschee per tutti - hanno bisogno solo di un tappeto per pregare. I musulmani vengono in Italia per distruggere la cultura italiana. Sono parassiti, diffondono la droga, la criminalità e le malattie. Devono essere buttati fuori, fino all'ultimo uomo, donna e bambino. (ndr probabilmente interviste fatte al nord italia a leghisti)

Ho sempre considerato gli italiani alla mano, gente amabile. Anche durante l'Olocausto, si sono comportati meglio di molti altri popoli europei. Benito Mussolini è diventato un fanatico antisemita solo durante le ultime fasi, quando era diventato totalmente dipendente da Hitler.

Eppure eccoci qui, appena 66 anni dopo che i partigiani italiani hanno impiccato il corpo di Mussolini per i piedi in un luogo pubblico a Milano ( pzl Loreto) - e oggi una forma molto peggiore dell'antisemitismo è dilagante nelle strade italiane, come nella maggior parte [o "molti"? ] di altri paesi europei.

Naturalmente, vi è un problema reale. I musulmani non sono esenti da colpe per la situazione. Il loro comportamento li rende facili bersagli. Come gli ebrei nel loro tempo.

L'Europa è in un dilemma. Hanno bisogno di "stranieri" - e sono tutti musulmani - a lavorare per loro, a mantenere forte la loro economia, e, a pagare le pensioni dei loro anziani. Se tutti i musulmani fossero lasciati andar via domani mattina dall'Europa, il tessuto della società in Germania, Francia, Italia e molti altri paesi sarebbe un dramma, sociale ed economico.

Eppure molti europei sono sconcertati quando vedono questi "stranieri", con le loro strane lingue, manierismi e vestiti che affollano le strade, cambiando il carattere di molti quartieri, aperture di negozi, sposare le loro figlie, in competizione con loro in molti modi. Fa male. Come il ministro tedesco ha detto una volta: "Abbiamo portato qui lavoratori, e ho scoperto che avevamo portato degli esseri umani!"

Si può capire questi europei, fino ad un certo punto. L'immigrazione provoca problemi reali. La migrazione dal Sud povero al ricco Nord è un fenomeno del 21 ° secolo, a causa della disuguaglianza che soffrono le nazioni. Ha bisogno di un'altra politica europea sull'immigrazione, un dialogo con le minoranze e integrazione e multiculturalismo.
Non sarà facile.

Ma questa ondata di islamofobia va ben oltre. Come uno tsunami, può causare devastazione.



Molti dei numerosi partiti e gruppi islamofobici ricordano l'atmosfera della Germania agli inizi del 1920, quando i gruppi e milizie "völkisch" stavano diffondendo il loro veleno odioso, e una spia dell'esercito chiamato Adolf Hitler si era guadagnato allori come oratore antisemita .

Sembravano irrilevanti, marginali, addirittura folli. (i nazisti)
Molti ridevano di questo uomo Hitler , il pagliaccio chapliniana baffuto.

Ma il fallito putsch (colpo di stato) nazista del 1923 è stato seguito da quello del 1933, quando i nazisti presero il potere, e nal 1939, quando Hitler ha iniziato la seconda guerra mondiale, e nel 1942, quando le camere a gas sono stati messe in funzione.

E' dall'inizio che sono critici, quando opportunisti politici si rendono conto che è la paura e suscitare l'odio e il modo più semplice per arrivare di fortuna al potere, quando disadattati sociali diventano fanatici nazionalisti e religiosi, quando si attaccano le minoranze inermi diventa accettabile e la politica lo legittima , quando divertenti uomini si trasformano in mostri.

È che il dottor Goebbels che sento ridere dall'inferno?



Note de Sa Defenza

(1) Theodor Herzl Insieme a Max Nordau, Herzl è il padre del sionismo e il fondatore del Movimento sionista al congresso di Basilea del 1897, in cui venne eletto presidente. Sostenne il diritto degli ebrei di fondare uno stato ebraico, in Palestina o in Uganda (come proposto dagli Inglesi). Questa patria sarebbe dovuta servire per accogliere gli ebrei che avessero voluto o non avessero potuto vivere serenamente nel paese in cui abitavano. (http://it.wikipedia.org/wiki/Theodor_Herzl)

giovedì 28 luglio 2011

Quegli schiaffi del Governo italiota alla Sardinya

maddalena

sardegna24

La Giunta Sarda censura il Governo Italiano dopo la clamorosa vicenda della vendita della Tirrenia, ma già in passato la storia del "Governo amico" si era rivelata una bufala. Ecco un piccolo riassunto delle puntate precedenti.

SASSARI-OLBIA. Lo scippo dei 520 milioni per la 4 corsie

Il 6 marzo del 2009 il Cipe sottrae 520 milioni di euro destinati alla costruzione della quattro corsie Olbia-Sassari. La somma era stata riconosciuta dal governo Prodi tra le opere per il G8 di La Maddalena

G8 BYE BYE. Il governo toglie il summit a La Maddalena

«Ci spiace non avere potuto avvertire il presidente Cappellacci». Con queste parole, il 23 aprile 2009, il presidente del Consiglio annuncia che il vertice sarebbe stato spostato nella città devastata dal terremoto

FERROVIE. L’Isola perde 800 milioni per aggiornare la rete

Dal contratto di servizio per gli investimenti nella rete ferroviaria si scopre che la Sardegna è stata esclusa e le sono stati sottratti circa 800 milioni per interventi tra Olbia, Golfo Aranci, Sassari e San Gavino.

ENTRATE. I quattro miliardi di trasferimenti mancati

La vertenza entrate aveva stabilito trasferimenti Irpef e Iva alla Sardegna per circa 4 miliardi di euro. Ma quei soldi non arrivano, ufficialmente per la mancanza di un regolamento attuativo mai varato

PATTO DI STABILITÀ. Fitto contro il Consiglio regionale

È il mese di febbraio quando il Consiglio vota una legge per estendere dall’ambito locale a quello regionale i parametri sui vincoli di spesa. Il ministro Fitto ricorre contro la normativa alla Consulta

TIRRENIA. Venduta alla Cin all’insaputa della Regione

Lo scorso 24 luglio il Governo, con un colpo di mano inatteso, firma il contratto con la Cin per la vendita di Tirrenia. La giunta regionale viene completamente esclusa dall’accordo e grida allo scippo.

mercoledì 27 luglio 2011

La crisi ideologica del capitalismo occidentale

Joseph E. Stiglitz
Emigrazione Notizie
http://www.project-syndicate.org/commentary/stiglitz140/English

tradutzini de Simona Polverino

Solo qualche anno fa, un’influente ideologia – che sosteneva il libero mercato senza vincoli – portò il mondo alla rovina. Anche nel suo periodo di massimo splendore, cioè dall’inizio degli anni 80 fino al 2007, il capitalismo deregolamentato in stile americano portò enorme benessere materiale solamente alle persone più facoltose dei paesi ricchi del mondo. In realtà, durante la supremazia trentennale di questa ideologia, la maggior parte degli americani ha visto i propri redditi ridursi o stagnarsi anno dopo anno.

La crescita della produzione negli Stati Uniti non è andata di pari passo con la sostenibilità economica. Con un’enorme fetta del reddito nazionale americano riservato a pochi eletti, la crescita poteva persistere solamente puntando su consumi sostenuti da una montagna di debiti.

Ero, io stesso, tra i convinti assertori che la crisi finanziaria avrebbe insegnato agli americani (e non solo) l’esigenza di una maggiore uguaglianza, una regolamentazione più forte e un migliore equilibrio tra mercato e governo. Ma ahimè, le cose non sono andate così. La rinascita di un’economia influenzata dalla destra, spinta come sempre dall’ideologia e da interessi egoistici, minaccia nuovamente l’economia globale – o almeno le economie di Europa e America, dove queste idee continuano a proliferare.

Negli Usa, questa rinascita della destra, i cui sostenitori cercano evidentemente di abrogare le leggi alla base della matematica e dell’economia, ora minaccia di imporre un default sul debito nazionale. Se il Congresso autorizzerà spese che eccedono le entrate, si registrerà un deficit, e questo deficit dovrà essere finanziato. Invece di bilanciare attentamente i benefici di ogni programma di spesa pubblica con un aumento della pressione fiscale volta a finanziare quei benefici, la destra si ostina ad utilizzare metodi eccessivi; non consentire al debito nazionale di crescere impone che le spese siano allineate alle tasse.

Resta però aperta la questione su quali spese abbiano la priorità; se non diamo priorità alle spese destinate a pagare gli interessi sul debito nazionale, il default sarà inevitabile. Inoltre, ridurre le spese in questo momento, nel mezzo di una crisi provocata dall’ideologia del libero mercato, non farebbe che prolungare la fase di contrazione.

Dieci anni fa, in pieno boom economico, gli Usa hanno registrato un surplus talmente ampio che minacciava di eliminare il debito nazionale. I tagli fiscali e le guerre proibitive, una forte recessione e i costi del sistema sanitario alle stelle – alimentati in parte dalla scelta dell’amministrazione Bush di lasciare carta bianca alle case farmaceutiche sulla determinazione dei prezzi, pur trattandosi di denaro pubblico – hanno rapidamente trasformato l’elevato surplus in un deficit record in tempi di pace.

I rimedi per il deficit americano si desumono immediatamente da queste considerazioni: rimettere in sesto l’America stimolando l’economia; porre fine alle irragionevoli guerre; ridurre i costi delle operazioni militari e dei farmaci; e aumentare le tasse, almeno per i ricchi. Ma la destra non farà nulla di tutto ciò, anzi sta già facendo pressioni per ottenere ulteriori sgravi fiscali per le aziende e gli abbienti, oltre ai tagli previsti sugli investimenti e sulla previdenza sociale che mettono in pericolo il futuro dell’economia americana e mandano in frantumi ciò che resta del contratto sociale. Nel frattempo, il settore finanziario americano esercita forti pressioni per svincolarsi dalle regole, così da poter riprendere la precedente e disastrosamente spensierata condotta.

Le cose vanno leggermente meglio in Europa. Mentre la Grecia e altri paesi affrontano la crisi, la medicina quotidiana è semplicemente rappresentata da un mix di vecchia austerity e privatizzazione, che sortirà solo l’effetto di impoverire e rendere vulnerabili i paesi coinvolti. Questa soluzione non ha funzionato in Asia orientale, in America Latina e in altre regioni, e non funzionerà nemmeno questa volta in Europa. In realtà ha già dato esiti fallimentari in Irlanda, Lituania e Grecia.

Esiste un’alternativa: una strategia di crescita economica appoggiata dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale. La crescita infonderebbe fiducia circa la possibilità che la Grecia ripaghi i propri debiti, facendo crollare i tassi di interesse e dando maggiore spazio al fisco per dar vita ad ulteriori investimenti volti a rilanciare la crescita. La crescita stessa aumenta il gettito fiscale e riduce la necessità di ricorrere alle spese sociali, come i sussidi per la disoccupazione. E la fiducia generata da questa situazione porta ulteriore crescita.

Malauguratamente, i mercati finanziari e le economie di destra hanno sostenuto l’esatto contrario: credono che l’austerità produca fiducia, e che questa fiducia produca crescita. Ma l’austerità mina la crescita, peggiorando la posizione fiscale del governo, o comunque ottenendo minori miglioramenti di quanto promettano i fautori dell’austerity. In entrambi i casi, la fiducia ne risente, e si mette in moto una spirale al ribasso.

Abbiamo davvero bisogno di un altro esperimento così costoso che abbraccia idee già fallite ripetutamente? No, ma sembra che nonostante tutto dovremo sopportarne un altro. L’eventualità che l’Europa oppure gli Usa non riescano a ritornare a un livello di crescita robusta potrebbe avere ripercussioni negative sull’economia globale. L’eventuale fallimento di entrambi i sistemi sarebbe disastroso – anche se i principali paesi emergenti hanno raggiunto un livello di crescita sostenibile. Sfortunatamente, a meno che a prevalere non sia la saggezza, il mondo punta dritto verso questo baratro.

tlaxcala

sabato 23 luglio 2011

Il grande tabù


di Massimo Dadea
sardegna24

Perché una parte importante della sinistra considera l’idea indipendentista un tabù intoccabile? Che cosa impedisce di confrontarsi con una opzione istituzionale che non è più appannaggio di una ristretta élite culturale ma è penetrata in profondità nella società sarda?

Spesso dietro quel tabù si nasconde un pessimismo disperante nei confronti dei sardi, sulle loro capacità. Altre volte è il frutto di una paura ancestrale: quella di recidere il cordone ombelicale con la madre patria. Eppure indipendenza non vuol dire cingere la Sardegna con il filo spinato, né erigere una palizzata intorno alle nostre coste e neanche buttare a mare ciò che di buono ha fatto lo Stato italiano in tutti questi anni. L’indipendenza non è di per sè una cosa buona o cattiva e nemmeno la panacea di tutti i mali, ma semplicemente uno strumento per poter decidere in piena libertà, nel solo interesse dei sardi.

Sono solo alcuni dei quesiti cui dovrebbe cercare di rispondere il Pd sardo, impegnato nella costruzione di un moderno partito riformista, autonomo e federato con il Pd nazionale. Non solo il Pd, ma la sinistra nel suo complesso dovrebbe recuperare su questi temi un’inerzia che dura da decenni. La sensazione è che l’elaborazione si sia come cristallizzata e che si continui a vivacchiare su unariflessione che risale alla prima metà del secolo scorso. Un’elaborazione oramai vecchia, perché figlia del suo tempo. Concetti quali Autonomia, Specialità e Identità non possono essere riproposti con le stesse modalità e significati con cui furono elaborati dai Padri dell’Autonomia. E allora, parafrasando Theodor Adorno, si potrebbe dire che «non si tratta di conservare il passato ma di realizzare le sue speranze».

Incominciamo a prendere atto che l’Autonomia speciale è finita. L’Autonomia così come è venuta configurandosi è oramai uno strumento inadeguato rispetto ai bisogni di autogoverno e di autodeterminazione del popolo sardo. Sì, popolo sardo. Un popolo è tale se si riconosce a esso un’identità peculiare, distinta. L’identità di un popolo è la sua storia, le sue tradizioni, la sua arte, la sua cultura, la sua lingua, il suo ambiente, il suo paesaggio, il suo essere parte di un’isola “distante”. Tutto questo fa di quel popolo una comunità distinta, portatrice di diritti particolari: una Nazione che aspira a diventare Stato.

Bisogna però velocemente uscire dalle nebbie di un frasario che nasconde spesso l’assenza di contenuti. È’ venuto il momento di iniziare a mettere i piedi nel piatto, definendo obiettivi, contenuti e percorsi, prima che altri decidano per noi, contrabbandando per riforma istituzionale, il “federalismo”, quella che è una mera riforma fiscale che accentuerà le differenze tra le regioni, a tutto vantaggio di quelle ricche. Proviamo allora a tratteggiare un percorso ea ipotizzare i contenuti del nuovo patto costituzionale tra la Sardegna e lo Stato italiano. Prima di tutto deve essere un patto tra eguali, che riconosca “formalmente” il principio dell’inviolabilità del rapporto singolo della Sardegna con lo Stato. Non un generico accordo che coinvolga la Sardegna nel calderone delle altre regioni. Sul piano “sostanziale” deve contenere più poteri, più sovranità, soprattutto su quei temi dove più incidente è la presenza dello Stato: servitù militari, energia, paesaggio, ambiente, patrimonio archeologico, ruolo internazionale.

Elemento caratterizzante ed innovativo del patto costituzionale deve essere la definizione di apposite procedure istituzionali, concordate e condivise tra le parti, a conclusione delle quali, e solo dopo l’indizione di un referendum consultivo, si concretizzerebbe la scelta indipendentista. In buona sostanza, il vero principio costituzionale regolatore del processo, risiede nel consenso, nella condivisione, nel reciproco rispetto, nella pari dignità.L’indipendenza della Sardegna sarebbe affidata a un accordo tra le parti, ad una scelta condivisa e consensuale, legittimata da un pronunciamento del popolo sardo, nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

22 luglio 2011

mercoledì 20 luglio 2011

Secessione monetaria? I possibili scenari

Marko Papic, Robert Reinfrank e Peter Zeihan

stratfor

The Jihadist Strategic Dilemma

La crisi dell´euro e le opzioni proibitive che potrebbero disinnescarla. Berlino può rilanciare il marco tedesco o la Grecia uscire dall´euro: due ipotesi che spiegano la gravità della crisi della moneta unica e quali conseguenze possono determinarsi.
Nonostante i migliori sforzi degli europei per tenere insieme l´unione monetaria, continuano a circolare voci di un prossimo collasso dell´eurozona. Alcuni nel mondo finanziario ipotizzano addirittura che la frustrazione tedesca potrebbe portare Berlino ad uscire dall´eurozona; mentre all´ultimo incontro dei leader europei il presidente francese Nicolas Sarkozy era sembrato minacciare di serrare i ranghi se Berlino non avesse aiutato la Grecia. Nel frattempo molti in Germania, incluso il cancelliere Angela Merkel hanno proposto di creare un meccanismo con cui la Grecia o le altre economie ultra indebitate e non competitive dell´area euro possa essere espulsa in futuro, se non sarà capace di rimediare alla sua attitudine a spendere irresponsabilmente. Voci, indizi, minacce, proposte e veline "da fonti bene inserite" sembrano tutte puntare dritto al tema caldo in Europa al momento, ovvero, la rifondazione dell´area euro tramite l´uscita della Germania o l´espulsione della Grecia. Affrontiamo il tema chiedendoci innanzitutto se questa opzione esista.

La geografia dell´unione monetaria europea
Quando si affronta la questione del futuro dell´euro, è importante ricordare che le basi economiche della moneta non sono tanto importanti quanto le basi politiche. Senza una decisione politica a monte che renda la moneta cartacea la forma di pagamento ufficiale nei commerci, essa sarebbe senza valore. Ciò vuol dire che un governo deve avere la volontà e la capacità di imporre la moneta come forma di pagamento del debito, e che il rifiuto di accettarla è punibile, senza limite alcuno, dalla legge. Il problema dell´euro è che esso cerca di sovrapporre una dinamica monetaria ad una geografia che non necessariamente si presta ad uno "spazio" economico o politico comune. L´eurozona ha una banca centrale, la Bce, e quindi ha un´unica politica monetaria, che si applica tanto a chi sta nel nord quanto a chi sta nel sud Europa. Ecco quindi il fondamentale dilemma geografico dell´euro. L´Europa è il secondo più piccolo continente ma ha il secondo maggior numero di Stati ammassati sul suo territorio. Non è una coincidenza. L´abbondanza di penisole, grandi isole e catene montuose crea le condizioni morfologiche che spesso consentono alle più piccole realtà politiche di persistere. Così, il Montenegro è sfuggito alla presa degli Ottomani, proprio come hanno fatto gli irlandesi con gli inglesi. Nonostante questo mosaico politico, l´abbondanza di fiumi navigabili, gli ampi golfi e le coste frastagliate hanno facilitato i movimenti di merci e di idee nel continente, incoraggiando l´accumulazione del capitale grazie ai bassi costi di trasporto, al tempo stesso promuovendo quella rapida diffusione dei progressi tecnologici che ha consentito ai vari Stati europei di diventare sorprendentemente ricchi. Cinque delle prime dieci economie mondiali sono in Europa, nonostante le popolazioni relativamente esigue. Però la rete fluviale e i mari d´Europa non sono integrati da un unico fiume dominante o da una direttrice navale, il che implica che la generazione di capitale si verifica in centri economici piccoli e localizzati. Ad oggi, e nonostante una grande integrazione politica ed economica, l´Europa non ha la sua New York. Qui, il Danubio ha Vienna, il Po ha Milano, il Mar Baltico ha Stoccolma, la Renania ha sia Amsterdam che Francoforte e il Tamigi ha Londra. Una pluralità di centri del capitale che si sovrappone poi a quello degli Stati europei, che presidiano gelosamente il loro capitale e quindi il loro sistema bancario. Nonostante questa pluralità di centri di potere economico e per estensione politico, vi sono Stati che, a causa della loro geografia, non hanno accesso ad un proprio centro capitalistico. A parte la valle del Po nel nord Italia e per un tratto il Rodano l´Europa meridionale non ha un grande fiume utile per i commerci. Di conseguenza, l´Europa settentrionale è più urbanizzata, industriale e tecnocratica, mentre quella meridionale tende ad essere più rurale, agricola e povera di capitali.

L´introduzione dell´euro
Vista l´ondata di volatilità economica che ha investito l´eurozona negli ultimi trimestri e le sfide rappresentate dall´imposizione di un unico sistema monetario a una geografia e una storia così articolata, è facile oggi scordarsi il motivo per cui l´eurozona è stata istituita in origine. La Guerra fredda ha reso possibile l´Unione europea. Per secoli, l´Europa è stata la sede di imperi feudali e Stati. Dopo la Seconda guerra mondiale, è divenuta la patria di nazionalità lacerate, la cui sicurezza era affidata agli Stati Uniti. Con gli accordi di Bretton Woods, gli Stati Uniti costruirono un sistema economico regionale capace di rilanciare le fortune dell´Europa occidentale sotto l´egida militare di Washington. Sgravati dal peso della competizione bellica, gli europei non solo furono liberi di perseguire la crescita, ma anche di sfruttare l´accesso illimitato al mercato americano per alimentare quella crescita. L´integrazione economica europea per massimizzare queste opportunità era un´opzione assolutamente sensata. Gli Usa incoraggiarono l´integrazione politica ed economica perché dava una base politica all´alleanza militare imposta all´Europa, cioè la Nato. Ecco come nacque la Comunità economica europea l´antenato dell´attuale Unione europea. Quando gli Usa abbandonarono la parità aurea del dollaro nel 1971 (per motivi in gran parte non correlati alle vicende europee), Washington abrogò essenzialmente il regime di cambi fissi di Bretton Woods che era legato allo standard. Una conseguenza fu il panico in Europa. Le monete fluttuanti resero inevitabile la competizione tra valute in Europa, quella stessa competizione che aveva contribuito alla Grande depressione quaranta anni prima. Quasi immediatamente si impose la necessità di limitare questa competizione, prima con il coordinamento delle monete inizialmente centrato sul dollaro, e poi dal 1979 sul marco tedesco. Lo spettro di una Germania riunificata nel 1989 diede nuovo vigore all´integrazione economica. L´euro era in grande misura un tentativo di dare a Berlino gli incentivi necessari per non staccarsi dal progetto della Ue. Ma per spingere Berlino a condividere la sua moneta con il resto dell´Europa, l´eurozona fu modellata sulla Bundesbank e sul marco tedesco. Per entrare nell´area, un Paese deve rispettare rigorosi "criteri di convergenza" progettati per sincronizzare l´economia del Paese candidato a quella della Germania. I parametri includono un deficit di bilancio pari al 3% del Prodotto interno lordo; un livello del debito pubblico al di sotto del 60% del Prodotto interno lordo; un´inflazione annuale non superiore all´1,5 punti percentuali al di sotto della media dell´inflazione annuale dei tre Paesi minori; e un periodo di prova di due anni durante il quale la valuta nazionale dei Paesi candidati, dovrà fluttuare entro una fascia di oscillazione con l´euro del 15%. Mentre cominciano a manifestarsi incrinature nel sostegno politico ed economico all´euro, è chiaro comunque che i criteri di convergenza non sono riusciti a superare le diverse identità geografiche e storiche. La violazione greca del Patto di crescita e stabilità è chiaramente la più clamorosa, ma in pratica tutti i Paesi membri incluse Francia e Germania, che hanno contribuito alla stesura del Patto hanno contravvenuto alle sue regole fin dal principio.

La meccanica dell´uscita dall´euro
I trattati europei al momento obbligano ogni Stato membro eccetto Danimarca e Gran Bretagna, che hanno negoziato il loro opt-out a divenire parte dell´eurozona. L´espulsione forzata o autoimposta è tecnicamente illegale, o al più richiederebbe l´approvazione di tutti e 27 gli Stati membri (poco importa il motivo per cui uno Stato membro dovrebbe approvare la sua stessa espulsione). Anche se fosse possibile, è certo che ci sono membri attuali e candidati che sarebbero cauti a stabilire un tale precedente, specialmente se la loro situazione fiscale potesse assomigliare a quella di Atene. Un´opzione creativa potrebbe consentire all´Unione europea di espellere tecnicamente senza violare i trattati. Si tratterebbe di creare una nuova Unione europea senza lo Stato colpevole (la Grecia, nel nostro caso) e di stabilire una nuova eurozona all´interno del nuovo perimetro istituzionale. Si tratta di manipolazioni che non necessariamente distruggerebbero la Ue; i suoi membri "semplicemente" ricreerebbero le sue forme senza il partner di cui non si preoccupano più. Anche se creativa, è una soluzione ancora piena di incognite. In un´eurozona così ridimensionata, la Germania sarebbe la potenza senza rivali, qualcosa di cui il resto d´Europa potrebbe non essere esattamente entusiasta. Se Francia e Benelux ricostruissero l´area con Berlino, l´economia tedesca salirebbe dal 26,8% del prodotto nella versione eurozona 1.0 al 45,6% nella versione 2.0. Anche Stati esplicitamente esclusi sarebbero soggetti a devastanti contraccolpi: le economie sud-europee potrebbero semplicemente andare in default per qualsiasi livello di debito detenuto da istituzioni della nuova eurozona.
Tenendo presenti queste due complicazioni politiche, ci rivolgiamo ora ai due scenari di rifondazione dell´eurozona oggi maggiormente discussi.

Scenario 1: la Germania rilancia il marco tedesco
L´uscita dall´euro per la Germania è riconducibile alle passività potenziali che Berlino patirebbe se Portogallo, Spagna, Italia ed Irlanda seguissero la Grecia lungo la via del default. Mentre si prepara a votare per il contributo da 123 miliardi di euro all´interno del dispositivo da 750 miliardi che si aggiungerebbe quindi ai 23 miliardi di euro già approvati per Atene la questione se "ne valga la pena" deve essere al centro dei pensieri di ogni politico tedesco. E questo è particolarmente vero nel momento in cui cresce l´opposizione politica al piano di salvataggio, sia tra gli elettori tedeschi che tra i partner e gli alleati della coalizione Merkel. Nelle ultime rilevazioni, il 47% dei tedeschi si è detto a favore dell´adozione del marco. Inoltre, la coalizione di governo ha perso una cruciale elezione regionale lo scorso 9 maggio, un segno di crescente insoddisfazione verso la Cdu e il suo alleato, l´Fdp. Anche se è riuscita a mantenersi in piedi durante i passaggi del salvataggio greco, ci sono ora seri dubbi che la Merkel sia in grado di fare lo stesso nei prossimi mesi.
La Germania non lascerebbe l´eurozona per salvare la sua economia o per liberarsi dai propri debiti, ma piuttosto per evitare il peso finanziario del sostegno alle economie del Club Med e della loro capacità di ripagare la montagna di debiti (3 trilioni di euro). Ad un certo punto, la Germania potrebbe decidere di tagliare le perdite fino a 500 miliardi di euro, che è all´incirca l´esposizione delle banche tedesche al debito del Club Med e stabilire che ulteriori salvataggi sarebbero perdite di danaro in un pozzo senza fondo. Inoltre, la Germania potrebbe sì fare affidamento sulla Bce per violare le sue regole ed avviare la politica di acquisto del debito dai governi in difficoltà dell´eurozona con denaro di nuova creazione ("quantitative easing"), ma ciò di per sé costituirebbe un salvataggio. Il resto dell´area, inclusa la Germania, pagherebbe con l´indebolimento dell´euro. Se questa deriva dovesse prevalere, significherebbe che la situazione si è molto deteriorata. L´eurozona offre alla Germania considerevoli benefici economici. I suoi vicini non sono in grado di contrastare le esportazioni tedesche con la svalutazione competitiva, e le esportazioni tedesche a loro volta hanno guadagnato quote di export nell´eurozona, sia al suo interno che nei confronti del resto del mondo. Dall´adozione dell´euro, il costo unitario del lavoro nel Club Med è aumentato rispetto a quello tedesco di circa il 25%, consolidando ulteriormente il vantaggio competitivo della Germania. Prima che la Germania possa riutilizzare il marco, dovrebbe istituire nuovamente la sua banca centrale, ritirare le riserve dalla Bce, stampare la moneta nazionale e ridenominare attività e passività nazionali in marchi. Potrebbe non essere un processo facile e senza ostacoli, ma certo per la Germania sarebbe molto più agevole che per altri Stati membri. Il marco tedesco aveva una reputazione molto solida di valuta forte quando la rinomata Bundesbank guidava la politica monetaria tedesca. Se la Germania fosse in grado di reintrodurre la sua moneta nazionale, difficilmente gli europei potrebbero credere che i tedeschi si sono dimenticati di come si guida una banca centrale la memoria istituzionale nazionale riemergerebbe rapidamente, ristabilendo la credibilità sia della Bundesbank che, per estensione, del marco tedesco. Dal momento che così si sostituirebbe una moneta più debole e in fase calante con una più forte e stabile, se pure i mercati finanziari non accogliessero a scatola chiusa il cambio, certamente sarebbero assai meno riluttanti ad accettarlo dalla Germania che da altri Paesi membri. E così Berlino non sarebbe necessariamente costretta a ricorrere a restrizioni pesanti ai flussi di capitale, per bloccare patrimoni in fuga dalla conversione. Probabilmente, sarebbe in grado di ridenominare tutto il suo debito in marchi tedeschi attraverso bond swap. I mercati accetterebbero il cambio perché probabilmente avrebbero assai più fede nel marco sostenuto dalla Germania che nell´euro sostenuto dal resto dei Paesi dell´eurozona. Riportare in circolazione il marco sarebbe comunque un processo complicato, e probabilmente con danni collaterali, in particolare per il settore finanziario. Le banche tedesche detengono gran parte del debito emesso dal Club Med, che probabilmente andrebbe in default nel caso che la Germania abbandonasse l´euro. Se si arrivasse vicini al punto di rottura tra Germania ed eurozona, queste perdite sarebbero probabilmente poca cosa in confronto ai costi economici e politici di rimanere dentro l´eurozona e sostenerne finanziariamente l´esistenza.

Scenario 2: la Grecia lascia l´euro
Se Atene fosse in grado di controllare la propria politica monetaria, sarebbe manifestamente anche in grado di "risolvere" i due maggiori problemi che affliggono oggi l´economia greca. In primo luogo, potrebbe alleggerire notevolmente la sua situazione finanziaria. La banca centrale greca potrebbe stampare monete e acquistare debito sovrano, scavalcando la mediazione del mercato creditizio. In secondo luogo, la reintroduzione della moneta nazionale consentirebbe ad Atene di svalutarla successivamente, il che stimolerebbe la domanda estera per le esportazioni greche e promuoverebbe la crescita economica. Così, non avrebbe più bisogno di sottoporsi al doloroso processo di "svalutazione interna" con le misure di austerità che sono state imposte ai greci come condizione per il salvataggio da parte del Fondo monetario internazionale e della Ue. Se Atene dovesse reintrodurre la moneta nazionale al fine di controllare la politica monetaria, il governo, però, dovrebbe prima riuscire a farla circolare (una condizione necessaria per la svalutazione). Il primo problema pratico è che nessuno vorrà questa nuova moneta, principalmente perché sarebbe chiaro che il governo la rimette in circolazione per poi svalutarla. A differenza dell´aggancio all´euro dove la partecipazione era motivata dai benefici effettivi e percepiti di adottare una moneta forte e stabile e di incamerare tassi di interesse più bassi, nuovi flussi e la possibilità di fare transazioni in molti nuovi mercati lo "sganciamento dall´euro" non offre tali incentivi ai mercati: a) la dracma non sarebbe una moneta forte, dato che lo scopo della sua reintroduzione è la svalutazione; b) la dracma sarebbe probabilmente accettata solo all´interno della Grecia, e anche lì non ovunque una condizione che probabilmente durerebbe per qualche tempo; c) la reintroduzione unilaterale della dracma vedrebbe probabilmente la Grecia esclusa dall´eurozona, e probabilmente anche dall´Unione europea, in base alle regole sopra citate. Il governo dovrebbe essenzialmente chiedere agli investitori e agli elettori di firmare un contratto sociale che lo stesso poi, chiaramente, intenderebbe abrogare in futuro, se non immediatamente, una volta che ne sia in grado. Quindi, l´unico modo per diffondere la dracma sarebbe con l´uso della forza. Lo scopo non sarebbe di convertire ogni asset denominato in euro in dracme, ma piuttosto di mettere le mani su una massa sufficiente di asset da cui partire per trasmettere la scossa necessaria alla diffusione della dracma. Per essere fatto in modo efficace, il governo dovrebbe minimizzare la quota di capitali che si preparano a fuggire con prelievi o trasformazione in beni facilmente sottraibili al fisco. Per fare ciò, sarebbero necessari restrizioni sui movimenti di capitale e la chiusura di alcune banche, e probabilmente anche l´uso della forza per prevenire disordini ancora più estesi di quelli visti finora. Una volta che il danaro è stato messo sotto chiave, il governo poi convertirebbe forzosamente i patrimoni bancari letteralmente rimpiazzandoli con somme analoghe in moneta nazionale. Ai greci sarebbe consentito effettuare prelievi soltanto nelle nuove dracme, appositamente trasferite dal governo alle banche per i servizi alla clientela. Al tempo stesso, tutte le spese e i pagamenti del settore pubblico sarebbero effettuati in moneta nazionale, per stimolarne la circolazione. Il governo dovrebbe poi trasmettere la propria determinazione a perseguire chiunque scambi euro sul mercato nero, pena la totale perdita di valore della nuova moneta. Dato che nessuno, a parte il governo, vorrebbe mai agire in questa maniera, al sentore che esso potrebbe muoversi in questa direzione, la prima cosa che i greci vorranno fare è di ritirate tutti i depositi da ogni sportello, dove il loro patrimonio sarebbe a rischio. Analogamente, la prima cosa che farebbero gli investitori e ricordiamoci che la Grecia è un Paese tanto povero di capitali quanto la Germania ne è ricca è di tagliare ogni esposizione. Quindi, la conversione forzosa dovrebbe essere coordinata e definitiva, e cosa più importante di tutte dovrebbe essere il più possibile inattesa. Realisticamente parlando, l´unico modo per compiere questa transizione senza fare impazzire l´economia greca, lacerandone il tessuto sociale, sarebbe di coordinarla con organizzazioni in grado di fornire assistenza e vigilanza. Se l´Fmi, la Bce o gli Stati membri dell´eurozona coordinassero il periodo di transizione e magari nel frattempo offrissero un qualche sostegno al valore della moneta nazionale, aumenterebbero le possibilità di una transizione non completamente distruttiva. È difficile immaginare le circostanze in cui questo aiuto si manifesti, attraverso un pacchetto che farebbe impallidire per dimensioni i 110 miliardi di euro attualmente sul tavolo. Perché se le popolazioni d´Europa sono così riluttanti a salvare la Grecia ora, che cosa penserebbero se i loro governi si prendessero ancora più rischi pur di sostenere l´intero sistema finanziario di un ex membro dell´eurozona, aiutandolo così a sfuggire alle sue responsabilità di debitore verso il resto dell´area?

Dilemma europeo
L´Europa si trova perciò di fronte ad un nodo gordiano. Da una parte, la geografia del continente presenta un numero di incongruità che non possono essere superate senza uno sforzo erculeo (e politicamente impopolare) da parte dell´Europa meridionale e da un compromesso (ugualmente poco attraente) da parte dell´Europa settentrionale. Dall´altra parte, il costo dell´uscita dall´eurozona in particolare in un momento di calamità finanziaria globale, quando questa mossa potrebbe far precipitare in una crisi ancora maggiore è, a dir poco, spaventoso. Ne risulta un enigma che, ad un certo punto, potrebbe prevedere una soluzione, attraverso la ricostruzione dell´area euro. Ma la rete di relazioni economiche, politiche, legali e istituzionali la rende quasi impossibile. Che abbia o meno senso, il costo dell´uscita è proibitivo.

www.formiche.net

lunedì 18 luglio 2011

Immaginiamo che muoia l'euro

di Bill Emmott
Traduzione di Anna Bissanti
espresso

Il destino della moneta unica è legato a quello della Grecia.

E comunque tutto è nelle mani di Angela Merkel

I recenti scontri ad Atene

(18 luglio 2011) I recenti scontri ad Atene

Inopinatamente, durante la crisi finanziaria globale e ancora in seguito, in tempi più recenti, per tutto il tempo della crisi del debito dei governi della zona euro, sono stati considerati del tutto normali comportamenti e situazioni di regola ritenuti impensabili o inverosimili. Di conseguenza, adesso è giunto il momento di esaminare un'altra idea inimmaginabile: la fine dell'euro, non tanto per prevederne la scomparsa - in quanto al momento non lo penso - bensì per comprendere come e perché tale fine potrebbe effettivamente verificarsi.

Per molti aspetti, Londra è un luogo poco appropriato dal quale procedere a un'attenta valutazione dell'euro, dal momento che la nostra città è piena di politici e commentatori visceralmente contrari al progetto della valuta unica sin dall'inizio, al punto che le loro critiche di allora ormai appaiono quasi un pio desiderio. Almeno per un aspetto, però, sono ed erano valutazioni esatte, in quanto hanno sempre fatto presente che la valuta unica europea era un progetto politico e non un progetto economico. Quindi è esatto: se mai l'euro dovesse morire, morirà per motivazioni politiche.

Nondimeno, nei suoi 12 anni di vita in linea generale l'euro è parso stare a cuore soprattutto agli economisti, che riuscivano ad annoiare a morte chiunque parlando di politiche monetarie comuni e disquisendo se la zona euro fosse da un'ottica meramente tecnica un'"optimum currency area", un'area ottimale per una valuta unica. Da questo punto di vista la delusione è stata palese: la questione di capire se una valuta potesse funzionare in termini economici è sempre stata di fatto una questione politica, connessa all'eventualità che i Paesi della zona euro fossero disposti a improntare le proprie scelte di politica interna per far sì che la valuta comune funzionasse.

Per molti anni questa faccenda è rimasta nascosta, per il fatto che i Paesi in cui le scelte politiche rischiano ora di essere le più difficili e dure - soprattutto le nazioni dell'Europa meridionale come Portogallo, Spagna, Grecia e Italia, ovvero quelle nelle quali l'intervento statale e l'interazione tra denaro pubblico e politica sono stati più rilevanti - sono proprio quelle che a suo tempo hanno tratto i maggiori benefici adottando l'euro.

Con il vistoso attenuarsi del rischio di inflazione, i tassi di interesse sono scesi e tutti questi Paesi sono stati in grado di prendere in prestito capitali facilmente e con poca spesa. La tesi principale a supporto dell'euro - e in particolare il fatto che una volta rimossa la possibilità di svalutare la moneta ogni Paese avrebbe dovuto necessariamente riformare la propria economia per renderla più flessibile e dinamica - si è rivelata una favola. I prestiti a basso prezzo hanno fatto sembrare le riforme non indispensabili. La politica dell'euro, al contrario, è apparsa affascinante. La crisi del debito sovrano in corso dal 2009 ha cambiato le cose. I tre Paesi che avevano sottoscritto prestiti e sono già insolventi - Portogallo, Grecia e Irlanda - per poter accedere ai prestiti del Fondo monetario internazionale e del nuovo Fondo per la stabilità europea sono stati costretti a prendere decisioni politiche difficili su riforme e tagli di budget. Del resto, il loro è un passo inevitabile, in quanto non possono ottenere ulteriori capitali in prestito dai mercati finanziari a prezzi abbordabili. A fronte dello spettro di una simile eventualità, anche la Spagna ha varato riforme molto rigorose, e in reazione a ciò folle di manifestanti indignati hanno riempito le strade e le piazze.

La questione italiana, di cui si parla nei mercati finanziari, verte in sostanza su un unico punto: capire se anche l'Italia è a rischio. Grazie alla sua politica di controllo fiscale rigorosa attuata sin dal 2008 non dovrebbe esserlo, e quantunque il debito pubblico italiano sia ormai al 120 per cento del Pil - il secondo peggiore della zona euro, subito dopo quello greco - l'Italia di fatto amministra un surplus di bilancio al lordo del computo dei pagamenti sugli interessi, uno degli unici due Paesi europei a farlo (l'altro è la Germania). Nonostante ciò, l'Italia è tuttora a rischio, qualora la politica interna - contrassegnata dall'ansia di Silvio Berlusconi e della Lega Nord di tagliare le tasse e di avere la meglio su Giulio Tremonti - vanificasse la credibilità di un tale rigoroso controllo fiscale.

Fino a questo momento, la politica in relazione alla crisi è stata semplice. I Paesi insolventi hanno dovuto far fronte a scioperi e a violente manifestazioni di piazza, e perseguire i tagli di bilancio decisi. I Paesi europei settentrionali, più solidi, hanno dovuto rendersi disponibili a finanziare nuovi prestiti per mantenere a galla i Paesi del sud d'Europa ed evitare che andassero in default. In realtà, i prestiti che hanno erogato sono stati un mezzo col quale sostenere le loro stesse banche, soprattutto in Germania e in Francia, giacché in caso di default della Grecia o del Portogallo quelle banche avrebbero subito ingenti perdite. Eppure tale comportamento non è stato ancora messo in discussione a livello politico.

E' proprio questo che adesso potrebbe cambiare, e insieme a ciò anche la politica dell'euro cambierebbe radicalmente. Quando è iniziata la crisi di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, uno degli stereotipi ripetuti più di frequente era che anche se la situazione economica sembrava negativa, i leader dei più importanti Paesi dell'Eurozona avevano la volontà politica di assicurare la sopravvivenza della moneta unica. La tedesca Angela Merkel e il francese Nicolas Sarkozy avrebbero fatto "tutto ciò che era necessario" per salvare l'euro: dal punto di vista politico non potevano permettere che morisse.

Per la prima volta, però, questo principio è adesso messo in discussione sul serio. Si avvicina infatti il momento in cui saranno Germania, Francia e altri Paesi nordici europei a dover effettuare difficili scelte politiche, e non più i paesi dell'Europa meridionale. Ciò dipende dal fatto che ciò che un tempo era inimmaginabile - un default, o per meglio dire una ristrutturazione del debito da parte della Grecia, tendente a ridurre l'onere degli interessi sul debito e le proprie scadenze - è ormai in corso di pianificazione da parte dei banchieri e delle autorità tedesche. Si tratta di uno sviluppo gradito, in quanto per certi aspetti una ristrutturazione del debito era inevitabile. Per quanto rigide siano le sue politiche fiscali interne e le sue riforme, il governo greco potrebbe anche non potersi permettere di accollarsi il proprio fardello di debiti e la sua economia potrebbe riprendersi soltanto grazie a un miracolo. Il mese prossimo, o poco più in là, dovrebbero tenersi dei negoziati sulle modalità con le quali questa ristrutturazione avrà luogo, ma a prescindere da quanto gradita sia, è inevitabile che sul piano politico potrà anche essere rischiosa.

Infatti, il pericolo nasce prima di tutto dalla circostanza che per la prima volta i costi fiscali dell'euro per i contribuenti tedeschi e dell'Europa del nord in genere diventeranno reali ed espliciti, e ciò avverrà quando le banche dovranno ammortizzare le loro perdite, quando dovranno applicare tassi inferiori, e quando - come è probabile - alcune di loro avranno bisogno di interventi tampone finanziati dai contribuenti. Se la ristrutturazione del debito si limiterà alla sola Grecia il pericolo sarà relativamente contenuto, in quanto la Grecia produce solo il 3 per cento del Pil della zona euro e ogni perdita imputabile a prestiti ad Atene sarà gestibile.

Il vero pericolo, piuttosto, nascerà da una questione estremamente più difficile e complessa, ovvero capire in che modo limitare alla sola Grecia la ristrutturazione. I mercati inizieranno a fare congetture sulla possibilità che analoghe procedure si possano rendere necessarie per Portogallo, Irlanda e addirittura Spagna, che è al dodicesimo posto nella classifica mondiale delle economie. Se anche uno solo di questi Paesi dovesse ottenere una cancellazione del debito, che ne sarà dell'Italia, che è la settima economia al mondo?

A quel punto le politiche interne dell'euro in Germania potrebbero diventare rischiose. Gli elettori tedeschi sono consapevoli di aver tratto benefici dall'euro; sanno che la loro è un'economia forte, e che un'Unione europea stabile e ben funzionante è sicuramente positiva per loro. Ma in ogni caso i tedeschi non hanno alcuna intenzione di pagare di tasca propria un prezzo diretto e troppo alto per questo, trasferendo tramite le ristrutturazioni del debito i capitali ai Paesi dell'Europa del sud. Per sostenere l'euro, pertanto è necessario trovare una definizione diversa per la Grecia rispetto agli altri Paesi e ciò significa imporre nuove sanzioni ad Atene con lo scopo di scoraggiare il Portogallo e gli altri Stati dall'imboccare la strada intrapresa dai greci. A sua volta ciò implica di effettuare una scelta ben precisa: estromettere la Grecia dall'euro per scongiurare la possibilità che altri Paesi ricevano lo stesso trattamento, oppure correre il rischio di offrire accordi per una riduzione del debito a tutti i Paesi dell'Europa del sud, innescando violente reazioni contro l'euro in Germania.

Se la cancelliera Angela Merkel sbaglierà a effettuare questa scelta, allora - nel turbinare delle recriminazioni politiche - l'euro potrebbe avere i giorni contati.


Emmott è giornalista, scrittore, ex direttore di "The Economist", collaboratore di "The Times"; il suo libro più recente è "Forza Italia - Come ripartire dopo Berlusconi" (Rizzoli)

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