Iglesias manifestazione per la pace |
Domenica mattina del 27 novembre c.a., Iglesias ci accoglie sorridente, alla luce di un tiepido sole mattutino, mostra il meglio di sé in mirabili squarci di verde e di roccia.
È lei, l’ex città mineraria, che la Tavola Sarda della Pace ha scelto quest’anno per dar vita alla tradizionale Marcia, la diciannovesima per esattezza. Lei, cittadina proiettata all’autosviluppo e alla promozione dell’economia locale, suo malgrado coinvolta nell’infernale logica del businesses degli armamenti.
Le controverse vicende legate allo stabilimento di Rwm (gruppo tedesco Rheinmetall), che progetta, produce e vende sistemi d’arma subacquei, mine marine, sistemi di sicurezza e armamento, bombe e testate di guerra, e lo spauracchio del suo ampliamento con annesso poligono per test esplosivi nelle località comprese fra Matt’e Conti a Domusnovas e San Marco a Iglesias, è storia nota.
Tra i tanti, comunque mai abbastanza, anche Sa Defenza naturalmente è qui: voce tra le voci, volti tra i volti, passi fra i passi in cammino verso auspicati nuovi orizzonti.
Perché mai, una infame economia di guerra spacciata per filantropica tutela delle democrazie, potrà offrire terreno fertile per lo sviluppo del benessere dei popoli: mentre questi aprono ai legami familiari e amicali, quelli, gli Stati, stabiliscono confini; mentre questi definiscono scambi e collaborazioni, quelli, i Governi, firmano sanzioni; mentre questi auspicano la libera circolazione, quelli, i Ministeri, impongono tessere e marchi infami.
Il corteo si muove dalla zona industriale Sa Stoia, attraversa le strade della cittadina con tappe di significativo rilevo. Tra gli sguardi degli abitanti incuriositi e dei passanti e l’eco di qualche canto in limba, camminano uomini, donne, bambini, fanno capolino striscioni e bandiere, i risolini e le corse dei piccoli.
È a loro che guardo e, inevitabilmente, mi pervade un forte un senso di colpa misto all’infrenabile bisogno di agire, di non stare a guardare.
Inevitabilmente torno alla mia giovinezza e prendo concretamente atto del momento in cui, nella leggerezza di quei giorni, la guerra smise di essere un brano sul testo scolastico per mostrarmi drammaticamente tutta la sua realtà; di quando, in una mattina di scuola come tante, l’insegnante mi mise in mano un libretto, uno di quelli troppo spesso relegati nel dimenticatoio delle biblioteche scolastiche, e mi disse “leggi”, “leggi a voce alta e chiara”.
Ora lo propongo a voi, come se ve lo leggessi appunto a voce alta e chiara, nella speranza di toccare in ognuno di voi, in ogni adulto che avrà la bontà di leggere, quel senso di responsabilità a cui il momento storico inevitabilmente ci chiama.
Iglesias manifestazione per la pace |
‹‹Mi guardo gli scarponi, grandi e goffi, in cui entrano con grosse pieghe i pantaloni; in quei tubi si ha l’aspetto forte e robusto: ma quando al bagno ci spogliamo, riveliamo ad un tratto la gracilità delle gambe e delle spalle. Allora non siamo più soldati, ma quasi ancora fanciulli; nessuno ci crederebbe capaci di portare lo zaino. È un curioso momento, quando siamo nudi; ritorniamo borghesi e per un istante ci par quasi di esserlo.
Francesco Kemmerich al bagno pareva piccolo e sottile, come un fanciullo. Ora e lì, disteso; perché poi? Vorrei far sfilare tutto il mondo davanti a questo letto, e dire: “Questi è Franz Kemmerich, diciannove anni e mezzo; non vuol morire. Non lasciatelo morire!”.
Le idee mi si confondono. Quest’aria che puzza di creolina e di bruciato ingorga i polmoni, è un’aria pigra e densa, che soffoca.
Si fa buoi. Il volto di Kemmerich si sbianca, spicca sui cuscini con tale pallore che pare risplendere. La bocca si muove adagio. Mi avvicino e lo sento mormorare: “Se trovate il mio orologio, mandatelo a casa”.
Non contraddico più: non c’è scopo. Persuaderlo ormai è impossibile. La mia impotenza mi affligge; quella fronte dalle tempie incavate, quella bocca tutta denti, quel naso sottile! E la povera grassona che piange a casa, a cui bisognerà pure scrivere: almeno avessi già spedito la lettera! Infermieri vanno e vengono intorno, con boccette e con secchie. Uno si avvicina, getta uno sguardo a Kemmerich e si allontana; probabilmente aspetta, avrebbe bisogno di utilizzare quel letto.
Io mi stringo al mio povero Cecco e parlo, come se con ciò lo potessi salvare: “Forse andrai al convalescenziario sul Klosterberg. Franz, sai, in mezzo ai villini. Dalla finestra allora puoi vedere tutta la campagna, fino ai due alberi all’orizzonte. È la stagione più bella ora, quando il grano matura; verso sera, sotto il sole, i campi sembrano di madreperla. E il viale dei pioppi lungo il fiume, dove andavamo a pescare, ricordi? Potrai di nuovo farti un acquario, e allevare pesci, potrai uscire senza domandare permesso a nessuno e perfino suonare il pianoforte, se vuoi”.
Mi chino sul suo volto, ora tutto in ombra. Respira ancora, piano. Ha la faccia bagnata, piange. Bel lavoro che ho combinato, con le mie stupide ciarle!
“Ma Cecco!” Gli abbraccio le spalle e metto la mia testa accanto alla sua. “Vuoi dormire ora?”
Non risponde: le lacrime gli colano sulle guance. Vorrei asciugarle, ma il mio fazzoletto è troppo sporco.
Passa un’ora; sospeso al suo volto ne spio ogni espressione, se per caso volesse dire ancora qualcosa. Oh se aprisse quella bocca, a gridare!
Ma no, non fa che piangere, con la testa piegata da un lato. Non parla della sua mamma, dei fratelli, non dice nulla; ha lasciato già dietro di sé tutto ciò: oramai è solo, solo con la sua piccola vita di diciannove anni; e piange perché essa lo abbandona.
Questo è il più disperato e più grave congedo, a cui abbia assistito: quantunque sia stato terribile anche per Tiedjen; un colosso, forte come un orso, che urlava invocando la madre e terrorizzato, gli occhi stravolti, con una baionetta teneva lontano il medico, finché si accasciò all’improvviso.
Ed ecco che Kemmerich comincia a rantalore.
Salto in piedi, brancolo fuori dalla sala, chiamando: “Dov’è il medico? Dov’è il medico?”. Quando vedo la tunica bianca lo afferro: “Venga presto, Franz Kemmerich muore”. Lui si libera con uno strattone e domanda all’infermiere che gli sta accanto: “Che cosa dice?”. Quello risponde: “Letto 26; amputazione del femore”.
“Che diamine volete che ci faccia” m’investe: “ho amputato cinque gambe oggi”; mi spinge da parte, dice all’infermiere: “Guardate un po’ voi” e corre alla sala operatoria.
Io fremo di rabbia, mentre cammino accanto all’infermiere. Egli mi guarda in faccia e dice: “Una operazione dietro l’altra; da stamane alle cinque; roba da pazzi, ti dico; oggi ancora sedici morti; il tuo è il diciassettesimo. Arriveremo certamente a venti….”.
Mi sento venir meno, non ne posso più. Non ho più la forza di bestemmiare, a che scopo? Vorrei lasciarmi cadere a terra e non rialzarmi più.
Eccoci al letto: Kemmerich è morto. Ha la faccia ancora umida di pianto. Gli occhi sono semiaperti, gialli come vecchi bottoni di corno.
L’infermiere mi dà una gomitata: “Vuoi prendere la sua roba?”.
Faccio cenno di sì. Lui prosegue: “Bisogna portarlo via subito, il letto ci occorre d’urgenza. Guarda fuori, sono distesi per terra”.
Prendo la roba, distacco a Kemmerich la piastrina di riconoscimento. L’infermiere domanda il libretto personale: non si trova. Dev’essere rimasto in fureria, dico io, e me ne vado. Dietro di me stanno già tirando Kemmerich su un telo da tenda.
Fuori, l’oscurità ed il vento sono come una liberazione. Respiro a pieni polmoni. L’aria mi alita in volto calda e dolce come non mai. Immagini di ragazze, di praterie in fiore, di nuvole bianche mi attraversano il cervello. I miei piedi si muovono sempre più presto, sempre più presto, di corsa. Passano dei soldati, i loro discorsi mi eccitano senza ch’io capisca. La terra è percorsa da fluidi che per le piante dei piedi si trasfondo in me. La notte è carica di elettricità, il brontolio del fronte sembra una lontana musica di tamburi. Le mie membra si muovono snodate, sento i tendini agili nel moto, respiro, soffio, mi scuoto.
La notte vive, io vivo……››
Tratto da: Niente di nuovo sul fronte occidentale – di Erich M. Remarque (1927).
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