mercoledì 27 luglio 2011

La crisi ideologica del capitalismo occidentale

Joseph E. Stiglitz
Emigrazione Notizie
http://www.project-syndicate.org/commentary/stiglitz140/English

tradutzini de Simona Polverino

Solo qualche anno fa, un’influente ideologia – che sosteneva il libero mercato senza vincoli – portò il mondo alla rovina. Anche nel suo periodo di massimo splendore, cioè dall’inizio degli anni 80 fino al 2007, il capitalismo deregolamentato in stile americano portò enorme benessere materiale solamente alle persone più facoltose dei paesi ricchi del mondo. In realtà, durante la supremazia trentennale di questa ideologia, la maggior parte degli americani ha visto i propri redditi ridursi o stagnarsi anno dopo anno.

La crescita della produzione negli Stati Uniti non è andata di pari passo con la sostenibilità economica. Con un’enorme fetta del reddito nazionale americano riservato a pochi eletti, la crescita poteva persistere solamente puntando su consumi sostenuti da una montagna di debiti.

Ero, io stesso, tra i convinti assertori che la crisi finanziaria avrebbe insegnato agli americani (e non solo) l’esigenza di una maggiore uguaglianza, una regolamentazione più forte e un migliore equilibrio tra mercato e governo. Ma ahimè, le cose non sono andate così. La rinascita di un’economia influenzata dalla destra, spinta come sempre dall’ideologia e da interessi egoistici, minaccia nuovamente l’economia globale – o almeno le economie di Europa e America, dove queste idee continuano a proliferare.

Negli Usa, questa rinascita della destra, i cui sostenitori cercano evidentemente di abrogare le leggi alla base della matematica e dell’economia, ora minaccia di imporre un default sul debito nazionale. Se il Congresso autorizzerà spese che eccedono le entrate, si registrerà un deficit, e questo deficit dovrà essere finanziato. Invece di bilanciare attentamente i benefici di ogni programma di spesa pubblica con un aumento della pressione fiscale volta a finanziare quei benefici, la destra si ostina ad utilizzare metodi eccessivi; non consentire al debito nazionale di crescere impone che le spese siano allineate alle tasse.

Resta però aperta la questione su quali spese abbiano la priorità; se non diamo priorità alle spese destinate a pagare gli interessi sul debito nazionale, il default sarà inevitabile. Inoltre, ridurre le spese in questo momento, nel mezzo di una crisi provocata dall’ideologia del libero mercato, non farebbe che prolungare la fase di contrazione.

Dieci anni fa, in pieno boom economico, gli Usa hanno registrato un surplus talmente ampio che minacciava di eliminare il debito nazionale. I tagli fiscali e le guerre proibitive, una forte recessione e i costi del sistema sanitario alle stelle – alimentati in parte dalla scelta dell’amministrazione Bush di lasciare carta bianca alle case farmaceutiche sulla determinazione dei prezzi, pur trattandosi di denaro pubblico – hanno rapidamente trasformato l’elevato surplus in un deficit record in tempi di pace.

I rimedi per il deficit americano si desumono immediatamente da queste considerazioni: rimettere in sesto l’America stimolando l’economia; porre fine alle irragionevoli guerre; ridurre i costi delle operazioni militari e dei farmaci; e aumentare le tasse, almeno per i ricchi. Ma la destra non farà nulla di tutto ciò, anzi sta già facendo pressioni per ottenere ulteriori sgravi fiscali per le aziende e gli abbienti, oltre ai tagli previsti sugli investimenti e sulla previdenza sociale che mettono in pericolo il futuro dell’economia americana e mandano in frantumi ciò che resta del contratto sociale. Nel frattempo, il settore finanziario americano esercita forti pressioni per svincolarsi dalle regole, così da poter riprendere la precedente e disastrosamente spensierata condotta.

Le cose vanno leggermente meglio in Europa. Mentre la Grecia e altri paesi affrontano la crisi, la medicina quotidiana è semplicemente rappresentata da un mix di vecchia austerity e privatizzazione, che sortirà solo l’effetto di impoverire e rendere vulnerabili i paesi coinvolti. Questa soluzione non ha funzionato in Asia orientale, in America Latina e in altre regioni, e non funzionerà nemmeno questa volta in Europa. In realtà ha già dato esiti fallimentari in Irlanda, Lituania e Grecia.

Esiste un’alternativa: una strategia di crescita economica appoggiata dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale. La crescita infonderebbe fiducia circa la possibilità che la Grecia ripaghi i propri debiti, facendo crollare i tassi di interesse e dando maggiore spazio al fisco per dar vita ad ulteriori investimenti volti a rilanciare la crescita. La crescita stessa aumenta il gettito fiscale e riduce la necessità di ricorrere alle spese sociali, come i sussidi per la disoccupazione. E la fiducia generata da questa situazione porta ulteriore crescita.

Malauguratamente, i mercati finanziari e le economie di destra hanno sostenuto l’esatto contrario: credono che l’austerità produca fiducia, e che questa fiducia produca crescita. Ma l’austerità mina la crescita, peggiorando la posizione fiscale del governo, o comunque ottenendo minori miglioramenti di quanto promettano i fautori dell’austerity. In entrambi i casi, la fiducia ne risente, e si mette in moto una spirale al ribasso.

Abbiamo davvero bisogno di un altro esperimento così costoso che abbraccia idee già fallite ripetutamente? No, ma sembra che nonostante tutto dovremo sopportarne un altro. L’eventualità che l’Europa oppure gli Usa non riescano a ritornare a un livello di crescita robusta potrebbe avere ripercussioni negative sull’economia globale. L’eventuale fallimento di entrambi i sistemi sarebbe disastroso – anche se i principali paesi emergenti hanno raggiunto un livello di crescita sostenibile. Sfortunatamente, a meno che a prevalere non sia la saggezza, il mondo punta dritto verso questo baratro.

tlaxcala

sabato 23 luglio 2011

Il grande tabù


di Massimo Dadea
sardegna24

Perché una parte importante della sinistra considera l’idea indipendentista un tabù intoccabile? Che cosa impedisce di confrontarsi con una opzione istituzionale che non è più appannaggio di una ristretta élite culturale ma è penetrata in profondità nella società sarda?

Spesso dietro quel tabù si nasconde un pessimismo disperante nei confronti dei sardi, sulle loro capacità. Altre volte è il frutto di una paura ancestrale: quella di recidere il cordone ombelicale con la madre patria. Eppure indipendenza non vuol dire cingere la Sardegna con il filo spinato, né erigere una palizzata intorno alle nostre coste e neanche buttare a mare ciò che di buono ha fatto lo Stato italiano in tutti questi anni. L’indipendenza non è di per sè una cosa buona o cattiva e nemmeno la panacea di tutti i mali, ma semplicemente uno strumento per poter decidere in piena libertà, nel solo interesse dei sardi.

Sono solo alcuni dei quesiti cui dovrebbe cercare di rispondere il Pd sardo, impegnato nella costruzione di un moderno partito riformista, autonomo e federato con il Pd nazionale. Non solo il Pd, ma la sinistra nel suo complesso dovrebbe recuperare su questi temi un’inerzia che dura da decenni. La sensazione è che l’elaborazione si sia come cristallizzata e che si continui a vivacchiare su unariflessione che risale alla prima metà del secolo scorso. Un’elaborazione oramai vecchia, perché figlia del suo tempo. Concetti quali Autonomia, Specialità e Identità non possono essere riproposti con le stesse modalità e significati con cui furono elaborati dai Padri dell’Autonomia. E allora, parafrasando Theodor Adorno, si potrebbe dire che «non si tratta di conservare il passato ma di realizzare le sue speranze».

Incominciamo a prendere atto che l’Autonomia speciale è finita. L’Autonomia così come è venuta configurandosi è oramai uno strumento inadeguato rispetto ai bisogni di autogoverno e di autodeterminazione del popolo sardo. Sì, popolo sardo. Un popolo è tale se si riconosce a esso un’identità peculiare, distinta. L’identità di un popolo è la sua storia, le sue tradizioni, la sua arte, la sua cultura, la sua lingua, il suo ambiente, il suo paesaggio, il suo essere parte di un’isola “distante”. Tutto questo fa di quel popolo una comunità distinta, portatrice di diritti particolari: una Nazione che aspira a diventare Stato.

Bisogna però velocemente uscire dalle nebbie di un frasario che nasconde spesso l’assenza di contenuti. È’ venuto il momento di iniziare a mettere i piedi nel piatto, definendo obiettivi, contenuti e percorsi, prima che altri decidano per noi, contrabbandando per riforma istituzionale, il “federalismo”, quella che è una mera riforma fiscale che accentuerà le differenze tra le regioni, a tutto vantaggio di quelle ricche. Proviamo allora a tratteggiare un percorso ea ipotizzare i contenuti del nuovo patto costituzionale tra la Sardegna e lo Stato italiano. Prima di tutto deve essere un patto tra eguali, che riconosca “formalmente” il principio dell’inviolabilità del rapporto singolo della Sardegna con lo Stato. Non un generico accordo che coinvolga la Sardegna nel calderone delle altre regioni. Sul piano “sostanziale” deve contenere più poteri, più sovranità, soprattutto su quei temi dove più incidente è la presenza dello Stato: servitù militari, energia, paesaggio, ambiente, patrimonio archeologico, ruolo internazionale.

Elemento caratterizzante ed innovativo del patto costituzionale deve essere la definizione di apposite procedure istituzionali, concordate e condivise tra le parti, a conclusione delle quali, e solo dopo l’indizione di un referendum consultivo, si concretizzerebbe la scelta indipendentista. In buona sostanza, il vero principio costituzionale regolatore del processo, risiede nel consenso, nella condivisione, nel reciproco rispetto, nella pari dignità.L’indipendenza della Sardegna sarebbe affidata a un accordo tra le parti, ad una scelta condivisa e consensuale, legittimata da un pronunciamento del popolo sardo, nel pieno rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

22 luglio 2011

mercoledì 20 luglio 2011

Secessione monetaria? I possibili scenari

Marko Papic, Robert Reinfrank e Peter Zeihan

stratfor

The Jihadist Strategic Dilemma

La crisi dell´euro e le opzioni proibitive che potrebbero disinnescarla. Berlino può rilanciare il marco tedesco o la Grecia uscire dall´euro: due ipotesi che spiegano la gravità della crisi della moneta unica e quali conseguenze possono determinarsi.
Nonostante i migliori sforzi degli europei per tenere insieme l´unione monetaria, continuano a circolare voci di un prossimo collasso dell´eurozona. Alcuni nel mondo finanziario ipotizzano addirittura che la frustrazione tedesca potrebbe portare Berlino ad uscire dall´eurozona; mentre all´ultimo incontro dei leader europei il presidente francese Nicolas Sarkozy era sembrato minacciare di serrare i ranghi se Berlino non avesse aiutato la Grecia. Nel frattempo molti in Germania, incluso il cancelliere Angela Merkel hanno proposto di creare un meccanismo con cui la Grecia o le altre economie ultra indebitate e non competitive dell´area euro possa essere espulsa in futuro, se non sarà capace di rimediare alla sua attitudine a spendere irresponsabilmente. Voci, indizi, minacce, proposte e veline "da fonti bene inserite" sembrano tutte puntare dritto al tema caldo in Europa al momento, ovvero, la rifondazione dell´area euro tramite l´uscita della Germania o l´espulsione della Grecia. Affrontiamo il tema chiedendoci innanzitutto se questa opzione esista.

La geografia dell´unione monetaria europea
Quando si affronta la questione del futuro dell´euro, è importante ricordare che le basi economiche della moneta non sono tanto importanti quanto le basi politiche. Senza una decisione politica a monte che renda la moneta cartacea la forma di pagamento ufficiale nei commerci, essa sarebbe senza valore. Ciò vuol dire che un governo deve avere la volontà e la capacità di imporre la moneta come forma di pagamento del debito, e che il rifiuto di accettarla è punibile, senza limite alcuno, dalla legge. Il problema dell´euro è che esso cerca di sovrapporre una dinamica monetaria ad una geografia che non necessariamente si presta ad uno "spazio" economico o politico comune. L´eurozona ha una banca centrale, la Bce, e quindi ha un´unica politica monetaria, che si applica tanto a chi sta nel nord quanto a chi sta nel sud Europa. Ecco quindi il fondamentale dilemma geografico dell´euro. L´Europa è il secondo più piccolo continente ma ha il secondo maggior numero di Stati ammassati sul suo territorio. Non è una coincidenza. L´abbondanza di penisole, grandi isole e catene montuose crea le condizioni morfologiche che spesso consentono alle più piccole realtà politiche di persistere. Così, il Montenegro è sfuggito alla presa degli Ottomani, proprio come hanno fatto gli irlandesi con gli inglesi. Nonostante questo mosaico politico, l´abbondanza di fiumi navigabili, gli ampi golfi e le coste frastagliate hanno facilitato i movimenti di merci e di idee nel continente, incoraggiando l´accumulazione del capitale grazie ai bassi costi di trasporto, al tempo stesso promuovendo quella rapida diffusione dei progressi tecnologici che ha consentito ai vari Stati europei di diventare sorprendentemente ricchi. Cinque delle prime dieci economie mondiali sono in Europa, nonostante le popolazioni relativamente esigue. Però la rete fluviale e i mari d´Europa non sono integrati da un unico fiume dominante o da una direttrice navale, il che implica che la generazione di capitale si verifica in centri economici piccoli e localizzati. Ad oggi, e nonostante una grande integrazione politica ed economica, l´Europa non ha la sua New York. Qui, il Danubio ha Vienna, il Po ha Milano, il Mar Baltico ha Stoccolma, la Renania ha sia Amsterdam che Francoforte e il Tamigi ha Londra. Una pluralità di centri del capitale che si sovrappone poi a quello degli Stati europei, che presidiano gelosamente il loro capitale e quindi il loro sistema bancario. Nonostante questa pluralità di centri di potere economico e per estensione politico, vi sono Stati che, a causa della loro geografia, non hanno accesso ad un proprio centro capitalistico. A parte la valle del Po nel nord Italia e per un tratto il Rodano l´Europa meridionale non ha un grande fiume utile per i commerci. Di conseguenza, l´Europa settentrionale è più urbanizzata, industriale e tecnocratica, mentre quella meridionale tende ad essere più rurale, agricola e povera di capitali.

L´introduzione dell´euro
Vista l´ondata di volatilità economica che ha investito l´eurozona negli ultimi trimestri e le sfide rappresentate dall´imposizione di un unico sistema monetario a una geografia e una storia così articolata, è facile oggi scordarsi il motivo per cui l´eurozona è stata istituita in origine. La Guerra fredda ha reso possibile l´Unione europea. Per secoli, l´Europa è stata la sede di imperi feudali e Stati. Dopo la Seconda guerra mondiale, è divenuta la patria di nazionalità lacerate, la cui sicurezza era affidata agli Stati Uniti. Con gli accordi di Bretton Woods, gli Stati Uniti costruirono un sistema economico regionale capace di rilanciare le fortune dell´Europa occidentale sotto l´egida militare di Washington. Sgravati dal peso della competizione bellica, gli europei non solo furono liberi di perseguire la crescita, ma anche di sfruttare l´accesso illimitato al mercato americano per alimentare quella crescita. L´integrazione economica europea per massimizzare queste opportunità era un´opzione assolutamente sensata. Gli Usa incoraggiarono l´integrazione politica ed economica perché dava una base politica all´alleanza militare imposta all´Europa, cioè la Nato. Ecco come nacque la Comunità economica europea l´antenato dell´attuale Unione europea. Quando gli Usa abbandonarono la parità aurea del dollaro nel 1971 (per motivi in gran parte non correlati alle vicende europee), Washington abrogò essenzialmente il regime di cambi fissi di Bretton Woods che era legato allo standard. Una conseguenza fu il panico in Europa. Le monete fluttuanti resero inevitabile la competizione tra valute in Europa, quella stessa competizione che aveva contribuito alla Grande depressione quaranta anni prima. Quasi immediatamente si impose la necessità di limitare questa competizione, prima con il coordinamento delle monete inizialmente centrato sul dollaro, e poi dal 1979 sul marco tedesco. Lo spettro di una Germania riunificata nel 1989 diede nuovo vigore all´integrazione economica. L´euro era in grande misura un tentativo di dare a Berlino gli incentivi necessari per non staccarsi dal progetto della Ue. Ma per spingere Berlino a condividere la sua moneta con il resto dell´Europa, l´eurozona fu modellata sulla Bundesbank e sul marco tedesco. Per entrare nell´area, un Paese deve rispettare rigorosi "criteri di convergenza" progettati per sincronizzare l´economia del Paese candidato a quella della Germania. I parametri includono un deficit di bilancio pari al 3% del Prodotto interno lordo; un livello del debito pubblico al di sotto del 60% del Prodotto interno lordo; un´inflazione annuale non superiore all´1,5 punti percentuali al di sotto della media dell´inflazione annuale dei tre Paesi minori; e un periodo di prova di due anni durante il quale la valuta nazionale dei Paesi candidati, dovrà fluttuare entro una fascia di oscillazione con l´euro del 15%. Mentre cominciano a manifestarsi incrinature nel sostegno politico ed economico all´euro, è chiaro comunque che i criteri di convergenza non sono riusciti a superare le diverse identità geografiche e storiche. La violazione greca del Patto di crescita e stabilità è chiaramente la più clamorosa, ma in pratica tutti i Paesi membri incluse Francia e Germania, che hanno contribuito alla stesura del Patto hanno contravvenuto alle sue regole fin dal principio.

La meccanica dell´uscita dall´euro
I trattati europei al momento obbligano ogni Stato membro eccetto Danimarca e Gran Bretagna, che hanno negoziato il loro opt-out a divenire parte dell´eurozona. L´espulsione forzata o autoimposta è tecnicamente illegale, o al più richiederebbe l´approvazione di tutti e 27 gli Stati membri (poco importa il motivo per cui uno Stato membro dovrebbe approvare la sua stessa espulsione). Anche se fosse possibile, è certo che ci sono membri attuali e candidati che sarebbero cauti a stabilire un tale precedente, specialmente se la loro situazione fiscale potesse assomigliare a quella di Atene. Un´opzione creativa potrebbe consentire all´Unione europea di espellere tecnicamente senza violare i trattati. Si tratterebbe di creare una nuova Unione europea senza lo Stato colpevole (la Grecia, nel nostro caso) e di stabilire una nuova eurozona all´interno del nuovo perimetro istituzionale. Si tratta di manipolazioni che non necessariamente distruggerebbero la Ue; i suoi membri "semplicemente" ricreerebbero le sue forme senza il partner di cui non si preoccupano più. Anche se creativa, è una soluzione ancora piena di incognite. In un´eurozona così ridimensionata, la Germania sarebbe la potenza senza rivali, qualcosa di cui il resto d´Europa potrebbe non essere esattamente entusiasta. Se Francia e Benelux ricostruissero l´area con Berlino, l´economia tedesca salirebbe dal 26,8% del prodotto nella versione eurozona 1.0 al 45,6% nella versione 2.0. Anche Stati esplicitamente esclusi sarebbero soggetti a devastanti contraccolpi: le economie sud-europee potrebbero semplicemente andare in default per qualsiasi livello di debito detenuto da istituzioni della nuova eurozona.
Tenendo presenti queste due complicazioni politiche, ci rivolgiamo ora ai due scenari di rifondazione dell´eurozona oggi maggiormente discussi.

Scenario 1: la Germania rilancia il marco tedesco
L´uscita dall´euro per la Germania è riconducibile alle passività potenziali che Berlino patirebbe se Portogallo, Spagna, Italia ed Irlanda seguissero la Grecia lungo la via del default. Mentre si prepara a votare per il contributo da 123 miliardi di euro all´interno del dispositivo da 750 miliardi che si aggiungerebbe quindi ai 23 miliardi di euro già approvati per Atene la questione se "ne valga la pena" deve essere al centro dei pensieri di ogni politico tedesco. E questo è particolarmente vero nel momento in cui cresce l´opposizione politica al piano di salvataggio, sia tra gli elettori tedeschi che tra i partner e gli alleati della coalizione Merkel. Nelle ultime rilevazioni, il 47% dei tedeschi si è detto a favore dell´adozione del marco. Inoltre, la coalizione di governo ha perso una cruciale elezione regionale lo scorso 9 maggio, un segno di crescente insoddisfazione verso la Cdu e il suo alleato, l´Fdp. Anche se è riuscita a mantenersi in piedi durante i passaggi del salvataggio greco, ci sono ora seri dubbi che la Merkel sia in grado di fare lo stesso nei prossimi mesi.
La Germania non lascerebbe l´eurozona per salvare la sua economia o per liberarsi dai propri debiti, ma piuttosto per evitare il peso finanziario del sostegno alle economie del Club Med e della loro capacità di ripagare la montagna di debiti (3 trilioni di euro). Ad un certo punto, la Germania potrebbe decidere di tagliare le perdite fino a 500 miliardi di euro, che è all´incirca l´esposizione delle banche tedesche al debito del Club Med e stabilire che ulteriori salvataggi sarebbero perdite di danaro in un pozzo senza fondo. Inoltre, la Germania potrebbe sì fare affidamento sulla Bce per violare le sue regole ed avviare la politica di acquisto del debito dai governi in difficoltà dell´eurozona con denaro di nuova creazione ("quantitative easing"), ma ciò di per sé costituirebbe un salvataggio. Il resto dell´area, inclusa la Germania, pagherebbe con l´indebolimento dell´euro. Se questa deriva dovesse prevalere, significherebbe che la situazione si è molto deteriorata. L´eurozona offre alla Germania considerevoli benefici economici. I suoi vicini non sono in grado di contrastare le esportazioni tedesche con la svalutazione competitiva, e le esportazioni tedesche a loro volta hanno guadagnato quote di export nell´eurozona, sia al suo interno che nei confronti del resto del mondo. Dall´adozione dell´euro, il costo unitario del lavoro nel Club Med è aumentato rispetto a quello tedesco di circa il 25%, consolidando ulteriormente il vantaggio competitivo della Germania. Prima che la Germania possa riutilizzare il marco, dovrebbe istituire nuovamente la sua banca centrale, ritirare le riserve dalla Bce, stampare la moneta nazionale e ridenominare attività e passività nazionali in marchi. Potrebbe non essere un processo facile e senza ostacoli, ma certo per la Germania sarebbe molto più agevole che per altri Stati membri. Il marco tedesco aveva una reputazione molto solida di valuta forte quando la rinomata Bundesbank guidava la politica monetaria tedesca. Se la Germania fosse in grado di reintrodurre la sua moneta nazionale, difficilmente gli europei potrebbero credere che i tedeschi si sono dimenticati di come si guida una banca centrale la memoria istituzionale nazionale riemergerebbe rapidamente, ristabilendo la credibilità sia della Bundesbank che, per estensione, del marco tedesco. Dal momento che così si sostituirebbe una moneta più debole e in fase calante con una più forte e stabile, se pure i mercati finanziari non accogliessero a scatola chiusa il cambio, certamente sarebbero assai meno riluttanti ad accettarlo dalla Germania che da altri Paesi membri. E così Berlino non sarebbe necessariamente costretta a ricorrere a restrizioni pesanti ai flussi di capitale, per bloccare patrimoni in fuga dalla conversione. Probabilmente, sarebbe in grado di ridenominare tutto il suo debito in marchi tedeschi attraverso bond swap. I mercati accetterebbero il cambio perché probabilmente avrebbero assai più fede nel marco sostenuto dalla Germania che nell´euro sostenuto dal resto dei Paesi dell´eurozona. Riportare in circolazione il marco sarebbe comunque un processo complicato, e probabilmente con danni collaterali, in particolare per il settore finanziario. Le banche tedesche detengono gran parte del debito emesso dal Club Med, che probabilmente andrebbe in default nel caso che la Germania abbandonasse l´euro. Se si arrivasse vicini al punto di rottura tra Germania ed eurozona, queste perdite sarebbero probabilmente poca cosa in confronto ai costi economici e politici di rimanere dentro l´eurozona e sostenerne finanziariamente l´esistenza.

Scenario 2: la Grecia lascia l´euro
Se Atene fosse in grado di controllare la propria politica monetaria, sarebbe manifestamente anche in grado di "risolvere" i due maggiori problemi che affliggono oggi l´economia greca. In primo luogo, potrebbe alleggerire notevolmente la sua situazione finanziaria. La banca centrale greca potrebbe stampare monete e acquistare debito sovrano, scavalcando la mediazione del mercato creditizio. In secondo luogo, la reintroduzione della moneta nazionale consentirebbe ad Atene di svalutarla successivamente, il che stimolerebbe la domanda estera per le esportazioni greche e promuoverebbe la crescita economica. Così, non avrebbe più bisogno di sottoporsi al doloroso processo di "svalutazione interna" con le misure di austerità che sono state imposte ai greci come condizione per il salvataggio da parte del Fondo monetario internazionale e della Ue. Se Atene dovesse reintrodurre la moneta nazionale al fine di controllare la politica monetaria, il governo, però, dovrebbe prima riuscire a farla circolare (una condizione necessaria per la svalutazione). Il primo problema pratico è che nessuno vorrà questa nuova moneta, principalmente perché sarebbe chiaro che il governo la rimette in circolazione per poi svalutarla. A differenza dell´aggancio all´euro dove la partecipazione era motivata dai benefici effettivi e percepiti di adottare una moneta forte e stabile e di incamerare tassi di interesse più bassi, nuovi flussi e la possibilità di fare transazioni in molti nuovi mercati lo "sganciamento dall´euro" non offre tali incentivi ai mercati: a) la dracma non sarebbe una moneta forte, dato che lo scopo della sua reintroduzione è la svalutazione; b) la dracma sarebbe probabilmente accettata solo all´interno della Grecia, e anche lì non ovunque una condizione che probabilmente durerebbe per qualche tempo; c) la reintroduzione unilaterale della dracma vedrebbe probabilmente la Grecia esclusa dall´eurozona, e probabilmente anche dall´Unione europea, in base alle regole sopra citate. Il governo dovrebbe essenzialmente chiedere agli investitori e agli elettori di firmare un contratto sociale che lo stesso poi, chiaramente, intenderebbe abrogare in futuro, se non immediatamente, una volta che ne sia in grado. Quindi, l´unico modo per diffondere la dracma sarebbe con l´uso della forza. Lo scopo non sarebbe di convertire ogni asset denominato in euro in dracme, ma piuttosto di mettere le mani su una massa sufficiente di asset da cui partire per trasmettere la scossa necessaria alla diffusione della dracma. Per essere fatto in modo efficace, il governo dovrebbe minimizzare la quota di capitali che si preparano a fuggire con prelievi o trasformazione in beni facilmente sottraibili al fisco. Per fare ciò, sarebbero necessari restrizioni sui movimenti di capitale e la chiusura di alcune banche, e probabilmente anche l´uso della forza per prevenire disordini ancora più estesi di quelli visti finora. Una volta che il danaro è stato messo sotto chiave, il governo poi convertirebbe forzosamente i patrimoni bancari letteralmente rimpiazzandoli con somme analoghe in moneta nazionale. Ai greci sarebbe consentito effettuare prelievi soltanto nelle nuove dracme, appositamente trasferite dal governo alle banche per i servizi alla clientela. Al tempo stesso, tutte le spese e i pagamenti del settore pubblico sarebbero effettuati in moneta nazionale, per stimolarne la circolazione. Il governo dovrebbe poi trasmettere la propria determinazione a perseguire chiunque scambi euro sul mercato nero, pena la totale perdita di valore della nuova moneta. Dato che nessuno, a parte il governo, vorrebbe mai agire in questa maniera, al sentore che esso potrebbe muoversi in questa direzione, la prima cosa che i greci vorranno fare è di ritirate tutti i depositi da ogni sportello, dove il loro patrimonio sarebbe a rischio. Analogamente, la prima cosa che farebbero gli investitori e ricordiamoci che la Grecia è un Paese tanto povero di capitali quanto la Germania ne è ricca è di tagliare ogni esposizione. Quindi, la conversione forzosa dovrebbe essere coordinata e definitiva, e cosa più importante di tutte dovrebbe essere il più possibile inattesa. Realisticamente parlando, l´unico modo per compiere questa transizione senza fare impazzire l´economia greca, lacerandone il tessuto sociale, sarebbe di coordinarla con organizzazioni in grado di fornire assistenza e vigilanza. Se l´Fmi, la Bce o gli Stati membri dell´eurozona coordinassero il periodo di transizione e magari nel frattempo offrissero un qualche sostegno al valore della moneta nazionale, aumenterebbero le possibilità di una transizione non completamente distruttiva. È difficile immaginare le circostanze in cui questo aiuto si manifesti, attraverso un pacchetto che farebbe impallidire per dimensioni i 110 miliardi di euro attualmente sul tavolo. Perché se le popolazioni d´Europa sono così riluttanti a salvare la Grecia ora, che cosa penserebbero se i loro governi si prendessero ancora più rischi pur di sostenere l´intero sistema finanziario di un ex membro dell´eurozona, aiutandolo così a sfuggire alle sue responsabilità di debitore verso il resto dell´area?

Dilemma europeo
L´Europa si trova perciò di fronte ad un nodo gordiano. Da una parte, la geografia del continente presenta un numero di incongruità che non possono essere superate senza uno sforzo erculeo (e politicamente impopolare) da parte dell´Europa meridionale e da un compromesso (ugualmente poco attraente) da parte dell´Europa settentrionale. Dall´altra parte, il costo dell´uscita dall´eurozona in particolare in un momento di calamità finanziaria globale, quando questa mossa potrebbe far precipitare in una crisi ancora maggiore è, a dir poco, spaventoso. Ne risulta un enigma che, ad un certo punto, potrebbe prevedere una soluzione, attraverso la ricostruzione dell´area euro. Ma la rete di relazioni economiche, politiche, legali e istituzionali la rende quasi impossibile. Che abbia o meno senso, il costo dell´uscita è proibitivo.

www.formiche.net

lunedì 18 luglio 2011

Immaginiamo che muoia l'euro

di Bill Emmott
Traduzione di Anna Bissanti
espresso

Il destino della moneta unica è legato a quello della Grecia.

E comunque tutto è nelle mani di Angela Merkel

I recenti scontri ad Atene

(18 luglio 2011) I recenti scontri ad Atene

Inopinatamente, durante la crisi finanziaria globale e ancora in seguito, in tempi più recenti, per tutto il tempo della crisi del debito dei governi della zona euro, sono stati considerati del tutto normali comportamenti e situazioni di regola ritenuti impensabili o inverosimili. Di conseguenza, adesso è giunto il momento di esaminare un'altra idea inimmaginabile: la fine dell'euro, non tanto per prevederne la scomparsa - in quanto al momento non lo penso - bensì per comprendere come e perché tale fine potrebbe effettivamente verificarsi.

Per molti aspetti, Londra è un luogo poco appropriato dal quale procedere a un'attenta valutazione dell'euro, dal momento che la nostra città è piena di politici e commentatori visceralmente contrari al progetto della valuta unica sin dall'inizio, al punto che le loro critiche di allora ormai appaiono quasi un pio desiderio. Almeno per un aspetto, però, sono ed erano valutazioni esatte, in quanto hanno sempre fatto presente che la valuta unica europea era un progetto politico e non un progetto economico. Quindi è esatto: se mai l'euro dovesse morire, morirà per motivazioni politiche.

Nondimeno, nei suoi 12 anni di vita in linea generale l'euro è parso stare a cuore soprattutto agli economisti, che riuscivano ad annoiare a morte chiunque parlando di politiche monetarie comuni e disquisendo se la zona euro fosse da un'ottica meramente tecnica un'"optimum currency area", un'area ottimale per una valuta unica. Da questo punto di vista la delusione è stata palese: la questione di capire se una valuta potesse funzionare in termini economici è sempre stata di fatto una questione politica, connessa all'eventualità che i Paesi della zona euro fossero disposti a improntare le proprie scelte di politica interna per far sì che la valuta comune funzionasse.

Per molti anni questa faccenda è rimasta nascosta, per il fatto che i Paesi in cui le scelte politiche rischiano ora di essere le più difficili e dure - soprattutto le nazioni dell'Europa meridionale come Portogallo, Spagna, Grecia e Italia, ovvero quelle nelle quali l'intervento statale e l'interazione tra denaro pubblico e politica sono stati più rilevanti - sono proprio quelle che a suo tempo hanno tratto i maggiori benefici adottando l'euro.

Con il vistoso attenuarsi del rischio di inflazione, i tassi di interesse sono scesi e tutti questi Paesi sono stati in grado di prendere in prestito capitali facilmente e con poca spesa. La tesi principale a supporto dell'euro - e in particolare il fatto che una volta rimossa la possibilità di svalutare la moneta ogni Paese avrebbe dovuto necessariamente riformare la propria economia per renderla più flessibile e dinamica - si è rivelata una favola. I prestiti a basso prezzo hanno fatto sembrare le riforme non indispensabili. La politica dell'euro, al contrario, è apparsa affascinante. La crisi del debito sovrano in corso dal 2009 ha cambiato le cose. I tre Paesi che avevano sottoscritto prestiti e sono già insolventi - Portogallo, Grecia e Irlanda - per poter accedere ai prestiti del Fondo monetario internazionale e del nuovo Fondo per la stabilità europea sono stati costretti a prendere decisioni politiche difficili su riforme e tagli di budget. Del resto, il loro è un passo inevitabile, in quanto non possono ottenere ulteriori capitali in prestito dai mercati finanziari a prezzi abbordabili. A fronte dello spettro di una simile eventualità, anche la Spagna ha varato riforme molto rigorose, e in reazione a ciò folle di manifestanti indignati hanno riempito le strade e le piazze.

La questione italiana, di cui si parla nei mercati finanziari, verte in sostanza su un unico punto: capire se anche l'Italia è a rischio. Grazie alla sua politica di controllo fiscale rigorosa attuata sin dal 2008 non dovrebbe esserlo, e quantunque il debito pubblico italiano sia ormai al 120 per cento del Pil - il secondo peggiore della zona euro, subito dopo quello greco - l'Italia di fatto amministra un surplus di bilancio al lordo del computo dei pagamenti sugli interessi, uno degli unici due Paesi europei a farlo (l'altro è la Germania). Nonostante ciò, l'Italia è tuttora a rischio, qualora la politica interna - contrassegnata dall'ansia di Silvio Berlusconi e della Lega Nord di tagliare le tasse e di avere la meglio su Giulio Tremonti - vanificasse la credibilità di un tale rigoroso controllo fiscale.

Fino a questo momento, la politica in relazione alla crisi è stata semplice. I Paesi insolventi hanno dovuto far fronte a scioperi e a violente manifestazioni di piazza, e perseguire i tagli di bilancio decisi. I Paesi europei settentrionali, più solidi, hanno dovuto rendersi disponibili a finanziare nuovi prestiti per mantenere a galla i Paesi del sud d'Europa ed evitare che andassero in default. In realtà, i prestiti che hanno erogato sono stati un mezzo col quale sostenere le loro stesse banche, soprattutto in Germania e in Francia, giacché in caso di default della Grecia o del Portogallo quelle banche avrebbero subito ingenti perdite. Eppure tale comportamento non è stato ancora messo in discussione a livello politico.

E' proprio questo che adesso potrebbe cambiare, e insieme a ciò anche la politica dell'euro cambierebbe radicalmente. Quando è iniziata la crisi di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, uno degli stereotipi ripetuti più di frequente era che anche se la situazione economica sembrava negativa, i leader dei più importanti Paesi dell'Eurozona avevano la volontà politica di assicurare la sopravvivenza della moneta unica. La tedesca Angela Merkel e il francese Nicolas Sarkozy avrebbero fatto "tutto ciò che era necessario" per salvare l'euro: dal punto di vista politico non potevano permettere che morisse.

Per la prima volta, però, questo principio è adesso messo in discussione sul serio. Si avvicina infatti il momento in cui saranno Germania, Francia e altri Paesi nordici europei a dover effettuare difficili scelte politiche, e non più i paesi dell'Europa meridionale. Ciò dipende dal fatto che ciò che un tempo era inimmaginabile - un default, o per meglio dire una ristrutturazione del debito da parte della Grecia, tendente a ridurre l'onere degli interessi sul debito e le proprie scadenze - è ormai in corso di pianificazione da parte dei banchieri e delle autorità tedesche. Si tratta di uno sviluppo gradito, in quanto per certi aspetti una ristrutturazione del debito era inevitabile. Per quanto rigide siano le sue politiche fiscali interne e le sue riforme, il governo greco potrebbe anche non potersi permettere di accollarsi il proprio fardello di debiti e la sua economia potrebbe riprendersi soltanto grazie a un miracolo. Il mese prossimo, o poco più in là, dovrebbero tenersi dei negoziati sulle modalità con le quali questa ristrutturazione avrà luogo, ma a prescindere da quanto gradita sia, è inevitabile che sul piano politico potrà anche essere rischiosa.

Infatti, il pericolo nasce prima di tutto dalla circostanza che per la prima volta i costi fiscali dell'euro per i contribuenti tedeschi e dell'Europa del nord in genere diventeranno reali ed espliciti, e ciò avverrà quando le banche dovranno ammortizzare le loro perdite, quando dovranno applicare tassi inferiori, e quando - come è probabile - alcune di loro avranno bisogno di interventi tampone finanziati dai contribuenti. Se la ristrutturazione del debito si limiterà alla sola Grecia il pericolo sarà relativamente contenuto, in quanto la Grecia produce solo il 3 per cento del Pil della zona euro e ogni perdita imputabile a prestiti ad Atene sarà gestibile.

Il vero pericolo, piuttosto, nascerà da una questione estremamente più difficile e complessa, ovvero capire in che modo limitare alla sola Grecia la ristrutturazione. I mercati inizieranno a fare congetture sulla possibilità che analoghe procedure si possano rendere necessarie per Portogallo, Irlanda e addirittura Spagna, che è al dodicesimo posto nella classifica mondiale delle economie. Se anche uno solo di questi Paesi dovesse ottenere una cancellazione del debito, che ne sarà dell'Italia, che è la settima economia al mondo?

A quel punto le politiche interne dell'euro in Germania potrebbero diventare rischiose. Gli elettori tedeschi sono consapevoli di aver tratto benefici dall'euro; sanno che la loro è un'economia forte, e che un'Unione europea stabile e ben funzionante è sicuramente positiva per loro. Ma in ogni caso i tedeschi non hanno alcuna intenzione di pagare di tasca propria un prezzo diretto e troppo alto per questo, trasferendo tramite le ristrutturazioni del debito i capitali ai Paesi dell'Europa del sud. Per sostenere l'euro, pertanto è necessario trovare una definizione diversa per la Grecia rispetto agli altri Paesi e ciò significa imporre nuove sanzioni ad Atene con lo scopo di scoraggiare il Portogallo e gli altri Stati dall'imboccare la strada intrapresa dai greci. A sua volta ciò implica di effettuare una scelta ben precisa: estromettere la Grecia dall'euro per scongiurare la possibilità che altri Paesi ricevano lo stesso trattamento, oppure correre il rischio di offrire accordi per una riduzione del debito a tutti i Paesi dell'Europa del sud, innescando violente reazioni contro l'euro in Germania.

Se la cancelliera Angela Merkel sbaglierà a effettuare questa scelta, allora - nel turbinare delle recriminazioni politiche - l'euro potrebbe avere i giorni contati.


Emmott è giornalista, scrittore, ex direttore di "The Economist", collaboratore di "The Times"; il suo libro più recente è "Forza Italia - Come ripartire dopo Berlusconi" (Rizzoli)

venerdì 15 luglio 2011

Intervista a Pino Aprile, autore di "Terroni"

Partito «sardo», l'aggettivo non basta

Luciano Marrocu

sardegna24

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiBTUTGObPCm-VngH8T52qS5gwleHu9-QVdvupi64vJMPN-hJEx8iYXjaZgfkUKn1WRyle85SeALjTR-LKAROgHseOq_TOdf09xInG4UtjU8wVgrC60MbNyy5VA4w6_fuM9ETETf9b05NI/s1600/aaaaaaaaaaaaa.jpgA ogni nuova legislatura, arrivavano nella capitale del Regno alla spicciolata, gli undici eletti sardi del Parlamento nazionale, dopo un viaggio interminabile, chi sbarcava a Genova, chi a Livorno, chi a Civitavecchia. Poi, una dopo l'altra, si susseguivano le sedute, per lo più spese dai sardi nel silenzio, e arrivava immancabile l'angosciosa domanda: che ci faccio qui? Si rispondevano che il loro compito più importante era difendere gli interessi sardi.

Seguiva la dolorosa constatazione che, in Parlamento, gli interessi isolani non contavano nulla e che il massimo che si poteva sperare era strappare una commissione d'inchiesta destinata a rivelare agli italiani ciò che i sardi sapevano benissimo e cioè che in Sardegna si moriva di fame. Già circolava nella seconda metà dell'Ottocento la prima idea di “partito dei sardi”, ma ogni volta l'idea non aveva seguito, di fronte alla constatazione che non solo quel partito era ben difficile da costruire ma che anche se lo si fosse costruito poco o nulla avrebbe potuto di fronte a un sistema di alleanze tra interessi forti (piemontesi, lombardi, toscani, siciliani) che teneva la Sardegna ai margini estremi.

Una scorciatoia sembrò trovarla il più brillante dei parlamentari sardi dell'età liberale, Francesco Cocco-Ortu. Divenuto ministro fece in modo che il governo finalmente pensasse alla Sardegna. La legislazione speciale, promossa da Cocco-Ortu, toccava il nodo decisivo del sottosviluppo dell'isola finanziando una serie di interventi pubblici che costituirono la premessa del grande sviluppo idroelettrico degli anni Venti. Commentò qualcuno in quegli anni, che dove il potenziale e fantasmatico “partito dei sardi” aveva fallito, aveva invece avuto successo il singolo uomo politico sardo, grazie sopratutto alla sua personale capacità di integrarsi nel gruppo dirigente liberale nazionale.

Comunque fosse, la guerra spazzò via il sistema stesso che aveva reso possibili i successi del coccortismo. Il nuovo “partito dei sardi” nacque fuori dal Parlamento (e per certi aspetti contro di esso) nelle trincee. La grottesca autocandidatura al macello promossa dalla pagine de L'Unione Sarda - “I Sardi ottimo materiale di guerra”, titolava il quotidiano nella primavera del 1915 - fu presa tragicamente sul serio dagli stati maggiori italiani, e di sardi nel corso della guerra ne morirono molti. Nacque però, con la guerra, un vero partito dei sardi. Con l'avvento del fascismo, l'idea che i sardi potessero esprimere una loro rappresentanza politica non fu cancellata del tutto, esprimendosi anche attraverso quella peculiarissima esperienza che fu il sardo-fascismo.

Ciò spiega come la ripresa democratica trovasse il sardismo politico più vitale che mai, anche se profondamente lacerato al suo interno. Da quel momento, attraverso vicende diverse sia sotto il profilo delle alleanze sia sotto quello elettorale, il reale punto di forza del sardismo rimane la capacità di diffusione al di là dei suoi confini per così dire naturali e storici. La stagione più feconda della vicenda del Pci sardo nel secondo dopoguerra è legata al nome di due suoi dirigenti, Renzo Laconi e Umberto Cardia, che si sono spesi, anche attraverso scritti e ricerche di notevolissimo spessore intellettuale, per reinventare, in chiave sardista, le ragioni e le prospettive del comunismo sardo.

A questa esperienza, come anche all'esperienza del Psd'Az di Mario Melis, dovrebbero riandare non solo i partiti di sinistra e di centro sinistra ma tutti i partiti impegnati ora, come si legge, a una corsa a chi per per primo mette il distintivo di “partito dei sardi”. Si vorrebbe insomma che non ci si limitasse a usare l'aggettivo “sardo” a scopi di marketing elettorale. Una cosa è cercare di vendere un'acquavite dicendo che è sarda, altra cosa fare un partito. Un progetto in questo senso deve ritrovare le sue radici, chiarire le sue ragioni, affrontare problemi politici e istituzionali. Insomma, tutti siamo d'accordo che “sardo è bello”. E poi?


giovedì 14 luglio 2011

Un partito sardo riformatore e aperto

Gesuino Muledda
sardegna24


Sardinian Sustainability Film Festival

Nella civiltà della comunicazione qualsiasi atto crea novità nelle relazioni, al di là di quanto di pratico possa determinare. L’atto in sé costituisce fatto politico e pratico. Così la decisione del Pd di andare a celebrare un congresso fondativo per un partito autonomo dal partito italiano è novità effettuale che pone a tutti gli altri soggetti politici e sociali l’esigenza di rapportarsi con questa nuova prospettiva. Al di là di quanto concretamente questa proposizione, in questo momento, possa avere possibilità di successo.

D’altra parte questo proponimento non nasce per caso. Credo sia evidente che questo nuovo impegno sia maturato nel contesto del dibattito sullo stato della autonomia regionale, sulla adeguatezza della organizzazione dello Stato italiano, sulla realtà dell’Unione europea inquadrando il tutto in una visione complessiva del nuovo ordine mondiale. Per trovare soluzioni per il buon governo degli interessi del popolo sardo.

Perché, quindi, un partito riformista di Sardegna? Il tema all’ordine del giorno della sovranità del popolo sardo, da tutti riconosciuto, pone l’esigenza dell’esercizio di questa sovranità da parte del popolo sovrano attraverso lo strumento dei partiti che ne organizzano la realizzazione. Popolo sovrano, partiti sovrani. Partiti di Sardegna. Credo che, nella fase politica attuale, la fase costituente per la riscrittura dello Statuto della Regione autonoma debba prevedere, altrettanto, una fase costituente della politica e delle sue forme organizzate.

Una fase costituente che, di per sé, deve prevedere una forte mobilitazione e un forte impegno di partecipazione popolare; fatto di liberazione da precedenti rigide appartenenze; superamento di certezze conservatrici, contaminazione di culture, di esperienze politiche e sociali; strategie culturalmente innovative; strategie di lungo respiro per la storia del futuro. È il momento di decidere quale storia dovrà farsi il popolo sardo. Nel nuovo ordine mondiale. L’identità, la consapevolezza dell’essere popolo e nazione, deve affermarsi non come autoreferenzialità ma come impegno a farsi riconoscere per la specificità di un progetto di sviluppo che contenga la cultura delle radici, la forza della innovazione, la tutela e la valorizzazione del proprio territorio; la volontà di stare alla pari con tutti i popoli; rapporti positivi tra diversi, innanzitutto in Europa. Un’Europa, Stato federale di popoli, democratica.

In quest’ottica va preso atto che, in Europa, gli Stati-Nazione di stampo ottocentesco sono finiti e che non sono riproponibili Stati-Nazione con le stesse caratteristiche ancorché ammantate dalle mitologie delle piccole patrie. Il popolo sardo deve concorrere alla formazione del popolo europeo, che per vecchie e recenti eredità nazionalistiche, non esiste e rischia di non esistere mai. Convinto che l’Europa senza la Sardegna sarebbe più povera; e la Sardegna senza l’Europa non avrebbe alcuna prospettiva. È chiaro che il contesto sommariamente delineato pretende una nuova forte soggettività del popolo sardo chiamato a formare, contemporaneamente, un nuovo progetto di sviluppo culturalmente alto, socialmente partecipato, istituzionalmente innovativo, economicamente produttivo e competitivo. E, soprattutto, non subalterno verso un liberalismo globale governato dalla multinazionali o verso visioni provinciali, condizionate da un passatismo debole culturalmente e senza alcuna prospettiva.

In questo senso l’orizzonte europeo e internazionalista è il terreno del confronto e della sfida. Questo è il sardismo dell’oggi e del domani. Per governare questo progetto servono, oggi, sovranità e partiti sovrani. Partiti di Sardegna. Credo che, per quanto se ne conosce, la proposta del Pd di celebrare un proprio congresso per cambiare la propria ragione sociale in senso federale, sia debole se deve essere un evento che riguarda solo i suoi gruppi dirigenti e i suoi militanti. Cosa di per sé, comunque apprezzabile e importante. Ma non avrebbe la forza di una proposta aperta rivolta alla società sarda per una forte mobilitazione di intelligenze e di speranze che possa portare a un soggetto politico nuovo, capace di fare sintesi alta di cultura, e di sensibilità sociali, e di esperienze. E che permanga pluralista al suo interno e verso l’esterno.

Io penso a un percorso politico costituente, necessario per tutti i soggetti che abbiano interesse e motivazione a parteciparvi, non per la pur necessaria riconsiderazione anche autocritica delle rispettive esperienze, ma per costruire orizzonti di speranza per darsi l’impegno a costruire la storia futura della Sardegna. Nella consapevolezza che in questo processo potranno e dovranno formarsi i nuovi dirigenti e della politica e della società sarda. Per attuare questo progetto serve che i gruppi dirigenti attuali si convincano della necessità di un grande slancio di impegno generoso che superi egoismi e particolarismi, superando tutti gli istinti di conservazione per una nuova feconda stagione della nostra storia.

mercoledì 13 luglio 2011

Tante piazze un solo popolo

Salvatore Cubeddu
sardegna24

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L’autunno minaccia di essere più caldo dell’estate, per arrivare alla dichiarazione dello sciopero generale intorno a Cgil, Cisl e Uil e alla più grande manifestazione della Sardegna. E poi, cosa c’è da attendere? E ora? Può essere utile provare a ragionarci da subito. Come quasi sempre, la storia della Sardegna è singolare, anche questa nostra che, da 150 anni, ci lega allo Stato italiano.

Lo sguardo volto a inseguire il Continente non ci nasconde che i piedi (e la pancia) è qui che si spostano (e si nutrono). E combattono: siamo in presenza di un popolo che nelle sue varie espressioni sociali non fa che riunirsi e manifestare nelle proprie strade e fuori. Come non si fa da nessuna parte, con tanta insistenza e con tale continuità. Il modello rivendicativo è quello di Cgil, Cisl e Uil, passato attraverso l’elaborazione scenografica delle lotte studentesche e operaie, condizionato dalla necessità di alimentare di continuo l’attenzione amplificatrice dei media.

È a partire dal Sulcis che, sia i pastori che gli artigiani e i commercianti, iniziano ad organizzarsi, lì si individuano il carattere, gli obiettivi e le difficoltà di queste nuove aggregazioni. Diciamolo subito: l’estensione della vertenzialità dagli operai alle categorie autonome avviene nel momento in cui essa, avendo percorso le sue potenzialità conflittuali, manifesta tutta la sua debolezza e per molti versi domanda il suo superamento. Allorché, dal miglioramento salariale e delle condizioni di lavoro, le richieste sindacali si estendono alla difesa e alla creazione dei posti di lavoro (tema sul quale sbatte da quarant’anni la vertenza Sardegna), del prezzo del latte e della difesa dagli assalti del fisco, si entra nella “politica”. La macroeconomia - cioè lo sviluppo, i prezzi e il fisco - rappresentano i principali temi della politica (economica e oltre) e con essa devono fare i conti.

Ormai, per esperienza o per una giusta intuizione, i movimenti operanti in Sardegna hanno capito la lezione. Dalle loro condizioni personali e familiari, i lavoratori, i commercianti, i pastori, i cittadini sardi tutti, sono consapevoli che c’è un tempo per la propria battaglia personale e familiare e c’è un tempo per la battaglia di un popolo, il proprio, il popolo sardo. Questi tempi oggi coincidono: la lotta per il posto di lavoro accade insieme al tempo della battaglia contro le servitù militari, contro l’oppressione del fisco, per il giusto prezzo del latte, per la difesa dell’ambiente. È come se arrivassero a un rinnovato appuntamento precedenti e singole vertenze: l’oppressione fiscale dei nostri paesi, che nella seconda parte dell’Ottocento finanziò le guerre d’indipendenza e poi l’industrializzazione del triangolo industriale; la diffusione delle greggi su tutto il territorio, nella produzione del pecorino ‘romano’, e la conseguente rivolta dei reduci della prima guerra mondiale per il prezzo del latte; l’espropriazione delle miniere da parte del capitale internazionale e le lotte dei minatori per una precaria esistenza; l’alternativa non trovata all’industrializzazione petrolchimica che ci lascia solo macerie fumanti e cassintegrati; fino all’incredibile e recente costruzione delle città del commercio, hanno distrutto gli esercizi commerciali nel tempo in cui lo Stato applica in Sardegna studi di settore che trovano senso e parametri in realtà più ricche.

E’ come se tutti i problemi degli ultimi centocinquant’anni si concentrassero in un’unica stagione. Come se tutti i nodi domandassero contemporaneamente di essere sciolti. Come se tutte le questioni si riunissero in un unicum: “Sardegna, fortza paris: libertà! libertà! libertà!”. Quello dell’altro giorno in via Roma a Cagliari è il grido del popolo dei liberi, che si chiamino commercianti e artigiani, pastori e contadini, studenti e operai. Vogliono esserlo. Ma ancora non lo sono. Quell’unica bandiera dellaSardegna esaltata, quel solo inno cantato (‘procurad’’e moderare’) diconotanto di più delle nostre analisi. È proprio un fatto curioso festeggiare i veri nostri 150 anniversari! Dovremmo parlarne ancora a lungo.

13 luglio 2011

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