martedì 28 giugno 2011

SOLIDARIETA’ ALLE COMUNITA’ IN LOTTA DELLA VAL DI SUSA

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Il progetto TAV per la Val di Susa è una delle creature predilette del neoliberismo europeo; la sua ragione dichiarata, collegare l’Ucraina ai porti atlantici attraverso l’Italia, rivela una concezione predatoria dell’economia e un diritto speciale di devastazione geografica; il costo enorme della sua realizzazione, preventivato nella fase euforica dell’unificazione monetaria, viene rilanciato fino alla lievitazione astronomica di 20 miliardi di euro, nonostante tutta l’economia europea sia oggi circondata dal baratro e l’economia italiana in caduta strutturale si appresti a varare una finanziaria di 50 miliardi di euro.
La mappa continentale della mobilità e la privatizzazione delle ferrovie hanno causato nel sistema ferroviario italiano lo spostamento della storica ripartizione tra prima classe e seconda classe dalle carrozze direttamente agli assi ferroviari: per consentire a pochi di viaggiare su “linee” di primissima classe si sottopongono valli, falde e montagne ad una ingegneria brutale e si costringe la maggioranza dei cittadini a linee ottocentesche, percorsi insicuri e vagoni indecenti. Cosa c’entrino l’Ucraina e la portualità atlantica non si capisce affatto, né si capisce la favola del traffico commerciale su TAV, ma quanto costi alle aree di colonizzazione interna e in primo luogo alla Sardegna questa riduzione propagandistica della mobilità territoriale è noto a chiunque debba prendere una nave o un treno.
Il movimento NO TAV, da dieci anni nemico pubblico comune di tutto lo schieramento politico di centrodestra e di quasi tutto il centrosinistra in Italia, si è imposto come il più radicato e duraturo movimento popolare di resistenza alla marcia continentale del neoliberismo europeo e delle sue devastazioni territoriali; per questo rappresenta non solo un esempio di lotta ma anche il fronte avanzato di una opposizione tra cittadini e stato e tra popoli e oligarchie che inevitabilmente è destinata a ripetersi. Per questo NO TAV significa anche NO NUKE, NO PONTE, NO BASI, NO RADAR: perché le partite più torbide orchestrate in seno alla Commissione europea e affidate ai terminali governativi dei singoli stati e di qui agli squali dell’economia aprono inevitabilmente nuovi fronti di lotta popolare organizzata.
I referendum italiani del 12 giugno si sono svolti nell’orizzonte continentale di una emergenza sociale che spazia da Lisbona, a Madrid e ad Atene; il senso politico dei referendum italiani è il riscontro istituzionale di quelle che in tutto il fronte meridionale dell’Europa sono oggi le prove inconfutabili di fallimento delle politiche di speculazione finanziaria e di privatizzazioni. Ma due sole settimane di tempo trascorse da quel risultato sono state un sufficiente intervallo per consentire agli opportunisti politici di quella vicenda di tornare alla vecchia orchestra; PD e Lega, SEL e PDL hanno aperto sul fronte TAV una danza macabra delle cui conseguenze mostrano di non tener conto: è lo spettacolo di uno schieramento militare costituito da ruspe accompagnate da truppe. E questa è una novità assolutamente pericolosa: chi sono i violenti?
Il movimento popolare di lotta al nucleare costituito un anno fa in Sardegna è una componente attenta a questi avvenimenti; la sua battaglia non si è conclusa col referendum regionale di maggio né coi referendum italiani del 12 giugno: la sua vera battaglia comincia ora. Riprende dalla resistenza del popolo sardo all’occupazione militare, ai poligoni sperimentali e in questi stessi giorni al piano di installazione dei radar costieri, finanziati dalla Commissione Europea, con la scusa del programma di contrasto all’immigrazione extracomunitaria, ma chiaramente integrati nel complesso industriale-militare.
PER UN’EUROPA DEI POPOLI, ECOLOGICA, DEMOCRATICA E SOLIDALE
SOLIDARIETA’ AL MOVIMENTO POPOLARE DELLA VAL DI SUSA
PIENO SOSTEGNO ALLA RESISTENZA NO TAV
NO AI RADAR IN SARDEGNA

Comitato Si.no.nucle

lunedì 27 giugno 2011

Nucleare, a Fukushima situazione sotto controllo. Anzi no

di Ascanio Vitale
ilfattoquotidiano

Ancora il 25 maggio scorso la radioattività accanto alla struttura era in grado di uccidere un uomo in 15 minuti. Nel frattempo è stata registrata una nuova perdita. Intanto, emergono le verità sui dati falsati e sulle negligenze della Tepco
Di nucleare gli italiani non ne vogliono sentir parlare. Il referendum lo da detto chiaramente. Eppure il nostro paese è accerchiato da centrali. Il rischio, insomma, è sempre dietro l’angolo. E nonostante questo, l’ultima tragedia atomica, quella di Fukushima resta tra le righe della cronaca.

Dipinto come un evento ormai risolto, in realtà il disastro giapponese risulta ben lontano dall’essere sotto controllo. Le operazioni di raffreddamento dei tre reattori (edifici n.1-2-3) e della vasca di contenimento delle barre esaurite nell’edificio n.4 continuano giorno e notte, mentre vengono allestite quelle di contenimento e bonifica.

La prima brutta notizia è la constatazione ufficiale delle perdite di materiale fissile dal nocciolo del reattore, causato dal cedimento del contenitore principale e di quello secondario. E’ lo scenario peggiore in un incidente nucleare, comportando la fuoriuscita di radionuclidi estremamente pericolosi e rendendo pressoché impossibile l’intervento di uomini sul posto. I livelli registrati il 25 maggio scorso in alcune aree vicino all’edificio n.3 erano capaci di condannare a morte certa un uomo in meno di 15 minuti. Ad oggi ancora non si conosce lo stato dell’interno dei generatori e non è stato ripristinato neanche uno dei sistemi di raffreddamento, compromessi dall’acqua di mare usata per oltre tre mesi per tentare di evitare il disastro.

La trasparenza dell’industria nucleare tanto sbandierata dagli operatori del settore e ribadita spesso da Enel – la quale resta coinvolta nei progetti all’estero di costruzione di nuove centrali grazie al decreto Marzano del 2003 – si rivela per l’ennesima volta un inganno reiterato.

Ben poca rilevanza ha avuto, infatti, la notizia di un incidente stimato di categoria 3 sulla scala internazionale a una centrale egiziana, dovuto all’esplosione di una pompa del circuito di raffreddamento, che ha causato la dispersione di acqua ad alto contenuto radioattivo. Ancora meno la perdita acclarata, negli ultimi due anni, di Trizio da ben 48 dei 65 reattori commerciali presi in analisi da un’inchiesta dell’Associated Press negli Stati Uniti. Parte del liquido rilasciato ha raggiunto la falda acquifera, contaminando gli acquedotti di diverse località, seppure la notizia sia stata negata dai responsabili degli impianti. Sorte simile toccò in Spagna nel 2008, dove i quantitativi di radioattività dispersa furono valutati in 84.95 milioni di Bequerel a fronte dei 235.000 Bequerel dichiarati da Endesa.

A Fukushima, solo dopo mesi dall‘incidente sono state verificate le accuse mosse verso la Tepco e l’Agenzia per la sicurezza nucleare giapponese, già segnate da un passato di omissis e dati contraffatti, da parte di numerosi gruppi indipendenti di ricerca e organizzazioni ambientaliste. L’ammontare di radioattività emessa in atmosfera e in acqua è più del doppio di quanto fosse stato dichiarato. Poco importa se sia meno di quanto sia stato emesso da Chernobyl: l’incidenza di tumore non è soltanto funzione dell’intensità, del tipo e della durata dell’esposizione, ma anche funzione della densità di popolazione interessata. Ne risulta, quindi, che se a Chernobyl l’incidenza è stata “relativamente” bassa (se tale effetti possano veramente essere cinicamente valutati in termini quantitativi), lo si deve alla scarsa densità di popolazione nell’area circostante di 46 persone per chilometro quadrato. A Fukushima la densità media è di 450 abitanti per chilometro quadrato, quasi 10 volte più alta.

Allo stesso tempo, i costi della bonifica, valutati in oltre 210 miliardi di euro, saranno ben più alti di quelli richiesti in Ucraina e difficilmente ricadranno sulla società elettrica giapponese, già in perdita prima dell’incidente con quasi 9 miliardi di euro di debiti.

E quando non è una notizia celata o distorta, ci pensa il governo a fare il resto, forse per evitare il panico, forse per limitare le polemiche. Se in gran parte del mondo i livelli di contaminazione massimi per un operaio addetto alla manutenzione di una centrale nucleare non superano generalmente i 20 millesimi di Sievert, in Giappone questi limiti erano fissati dal governo a 100 prima dell’incidente e successivamente sono stati innalzati a 250, soglia considerata già critica per la fertilità dei soggetti e per l’aumento esponenziale dei casi di tumore e leucemia.

Si prevede un lavoro di 6-9 mesi per la costruzione delle prime strutture di copertura tramite macchinari comandati in remoto, per poi inviare nuovamente uomini sul posto e completare il lavoro. La bonifica dovrebbe terminare in una finestra temporale variabile tra i 7 e i 10 anni. Ad oggi 7.800 lavoratori sono stati esposti alle radiazioni, alcuni di questi oltre gli stessi limiti fissati dal governo giapponese.

In Giappone, dall’oltre 50% di favorevoli al nucleare nel periodo pre-Fukushima, oggi solo il 37% resta sulle sue posizioni. In Italia, ci si cosparge il capo di cenere, lamentando il blocco della ricerca sul nucleare , quando il nostro paese è dal 1978, senza soluzione di continuità, il terzo Paese in Europa a finanziare la ricerca sul nucleare.

domenica 26 giugno 2011

Rinnovabili, la sfida per produrre energia dal mare

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di Stefano Pisani
ilfattoquotidiano

L’Italia, con i suoi oltre ottomila chilometri di costa, è circondata da una gigantesca fonte di energia rinnovabile: il mare. Un’energia, quella talassica, di cui si sente parlare meno delle più celebri energie del sole e del vento, ma che potrebbe risultare fondamentale ora che il paese sembra aver intrapreso un cammino verso le fonti alternative. E la possibilità di produrre energia elettrica da onde e correnti marine non è ferma solo a livello teorico: gli studi intrapresi finora stanno infatti cominciando a portare oggi i loro frutti, con una serie di brevetti italiani legati a tecnologie che sono in una fase spinta della sperimentazione, quando non già effettivamente messe in opera.

A metà giugno l’Enea (Ente per le Nuove Tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) ha organizzato a Roma un workshop dedicato proprio alle “Prospettive di sviluppo dell’energia dal mare per la produzione elettrica in Italia”, durante il quale i maggiori studiosi nazionali del settore hanno presentato le loro proposte per sfruttare questa immensa energia che avvolge l’Italia e che è equivalente «a quella di sei centrali nucleari come i modelli di centrali Epr da 1.600 Megawatt che si sarebbero dovute costruire qui e che sono state respinte dal referendum» ha spiegato l’oceanologo Marco Marcelli, fondatore del Laboratory of Experimental Oceanology and Marine Ecology e docente all’Università della Tuscia.

Uno dei mari più “generosi” sotto questo aspetto è il mar Tirreno. E’ infatti a Formia che verrà prossimamente installato il sistema Rewec 3, progettato e realizzato dal Natural Ocean Engineering Laboratory (Noel), dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Si tratta di un dispositivo che si innesta all’interno di una normale diga foranea e sfrutta l’energia delle onde attraverso un sistema di camere che comprimono o espandono l’aria in esse contenute per effetto del moto ondoso e quindi fanno azionare delle turbine che, a loro volta, producono energia elettrica.

«Il progetto pilota – spiega Felice Arena, dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, intervenuto al workshop – dovrebbe essere pronto in un paio di anni nella diga foranea della Marina di Cicerone. Dai nostri calcoli abbiamo stimato che un chilometro di installazioni di questo tipo, per esempio lungo la nuova diga foranea di Genova potrebbero produrre circa 8.000 Megawattora ogni anno».

Ma è anche intorno alla Sicilia, e allo Stretto di Messina in particolare, che onde e correnti sono in grado di fornire grandi scorte di energia. Si calcola infatti che dal potenziale delle correnti marine dello Stretto di Messina si potrebbe produrre energia elettrica equivalente al fabbisogno di una città di due milioni di abitanti. Dal 2001, a Messina è stato varato l’impianto Enermar, basato sulla turbina Kobold, nato per lo sfruttamento delle correnti. Kobold (che è attualmente ancorata al largo di Ganzirri, parte nord dello Stretto di Messina, a circa 150 metri dalla costa siciliana) è una turbina idraulica ad asse verticale con pale liberamente oscillanti, brevettata dalla società Ponte di Archimede e sviluppata con la collaborazione del Dipartimento di Progettazione Aeronautica dell’Università di Napoli Federico II. Il sistema produce energia elettrica dalla rotazione della turbina che viene mossa dal mare e dal 2006 è collegato alla rete elettrica nazionale. L’impianto ha una potenza nominale di circa 80 kW con una corrente marina che tocca la velocità di 3 m/s, ma al momento produce circa 25 kW di potenza massima in quanto il punto in cui è installato non è raggiunto dalle correnti più elevate. Si tratta comunque di un progetto di successo che La Ponte di Archimede è riuscita anche a esportare: un secondo impianto di questo tipo sarà infatti installato in autunno in Indonesia e darà energia a un piccolo villaggio nell’isola di Lombok, ad est dell’isola di Bali, finora privo di corrente elettrica.

Se lo Stretto di Messina è così prodigo di energia, è il mare di Sardegna ad avere il maggiore potenziale energetico (Guarda la mappa su www.marescienza.it) fra i mari italiani. In particolare, la costa occidentale sarda e Alghero, dove non a caso è installato in prova il sistema ISWEC (Inertial Sea Wave Energy Converter), progettato dal Dipartimento di Meccanica del Politecnico di Torino. Si tratta di un dispositivo di tipo galleggiante che utilizza l’inclinazione del fianco dell’onda per produrre energia elettrica. L’onda che lo investe induce un moto di beccheggio e in questo modo si crea una oscillazione da cui un generatore elettrico opportunamente controllato estrae energia. Una delle caratteristiche del sistema è che esso è “tarato” proprio per il mar Mediterraneo e, in generale, per tutti i mari chiusi. Gli oceani, infatti, hanno solitamente onde che sono molto diverse da quelle del nostro mar Mediterraneo. Sono infatti onde molto alte e molto potenti e i dispositivi che convertono la loro energia in energia elettrica sfruttano proprio queste caratteristiche. Ma sono inadatti per mari come il Mediterraneo, in cui il parametro più rilevante non è l’altezza dell’onda, ma la frequenza delle onde. Il sistema ISWEC sfrutta appunto questo aspetto, riuscendo ad estrarre energia dal moto ondoso in modo proporzionale al quadrato della frequenza delle onde incidenti. Attualmente, il sistema è in prova in tre località: oltre ad Alghero, appunto, anche a La Spezia e Pantelleria, ed è riuscito a fornire una media di 2600 Megawattora all’anno.

sabato 25 giugno 2011

Quanto costa l’indipendenza .. Scozia un esempio per tutti i paesi che ambiscono all'indipendenza!

Aditya Chakrabortty
The Guardian
Picture of The Scottish Flag - Free Pictures - FreeFoto.com
Aberdeen è una città che ha una sola cosa in testa: il petrolio. Le strade sono tappezzate di cartelli che inneggiano alla “capitale petrolifera d’Europa”. Le vecchie case nobiliari sono diventate uffici per le grandi aziende energetiche, con le foresterie stipate di contabili e avvocati che esaminano contratti. Alla libreria WH Smith dell’aeroporto, per arrivare ai romanzi di Patricia Cornwell bisogna prima passare tra scafali zeppi di volumi sul petrolio.
Il petrolio di Aberdeen è uno dei principali motivi delle rivendicazioni indipendentiste della Scozia. All’inizio del boom del mare del Nord, i nazionalisti scozzesi sostenevano che i proventi del greggio potevano essere usati in due modi: per puntellare l’economia britannica o per modernizzare la Scozia. E si chiedevano: “Vogliamo essere scozzesi ricchi o britannici poveri?”.
La questione è stata risolta circa trent’anni fa da una signora inglese di Grantham. “Margaret Thatcher ha distrutto l’industria britannica e ha pagato i sussidi per i disoccupati con i soldi del petrolio del mare del Nord”, afferma Allan MacAskill, ingegnere petrolifero da più di trent’anni. MacAskill non è un osservatore neutrale – è iscritto allo Scottish national party (Snp) da quando
aveva 18 anni e suo fratello Kenny è ministro della giustizia nel governo di Edimburgo – ma su questo tema il suo punto di vista sembra coincidere con quello della maggior parte della gente del posto.
I movimenti nazionalisti di solito traggono la loro forza da vecchie ingiustizie o da recenti opportunità sprecate. Negli ultimi anni, però, l’Snp si è concentrato su come aumentare il suo potere invece di lamentarsi per i torti del passato. Nelle elezioni regionali del 5 maggio il partito ha conquistato il 53 per cento dei seggi a Holyrood, il parlamento scozzese, nonostante un sistema elettorale studiato apposta per scongiurare maggioranze così ampie. “La carta geografica della Scozia si è improvvisamente tinta di giallo, il colore dell’Snp”, spiega Karen, la responsabile per le relazioni esterne del partito. “Dopo la vittoria dei nazionalisti, in tv si è vista una gran quantità di gente che gridava ‘Scozia! Scozia!’”.
Quella sera stessa l’idea di una Scozia indipendente ha smesso di essere una fantasia ed è diventata una possibilità concreta. E se questa possibilità diventerà realtà lo si deciderà probabilmente ad Aberdeen. In campagna elettorale il leader dell’Snp Alex Salmond ha promesso la “reindustrializzazione del paese”, un processo che dovrà partire proprio da questa città. Ma chi sostiene che il petrolio si sta esaurendo, almeno in parte dice la verità. Una buona metà delle riserve della zona è stata già estratta e tirare fuori il resto sarà più difficile e costoso. Per questo l’Snp ha stilato un piano per sostituire l’industria petrolifera con quella delle energie rinnovabili.
A MacAskill l’idea piace a tal punto che di recente ha abbandonato il settore petrolifero per darsi all’eolico. “Qui ad Aberdeen svilupperemo le tecnologie. E le turbine le faremo costruire a Glasgow. Torneremo a creare posti di lavoro dove un tempo c’erano le nostre industrie”. Nelle sue c’è più entusiasmo che ricerca del proitto: è la risposta scozzese all’idea thatcheriana di “un futuro post-industriale”.

La rivoluzione delle rinnovabili
Per chi è stanco di sentire il leader laburista Ed Miliband e il premier David Cameron discutere dei tagli alla spesa pubblica, assistere al dibattito politico in Scozia è elettrizzante. All’arido approccio manageriale del governo di Londra, Salmond e il suo ministro delle finanze, John Swinney, contrappongono una strategia economica che punta a creare occupazione ed è anche una metafora del rinnovamento nazionale.
Questa retorica, che fa leva sul concetto di una Scozia nuovamente protagonista, sembra far presa.
Ma è allo stesso tempo un’illusione, sostengono gli scettici. Dall’altra parte della città, un gruppo di dirigenti di aziende petrolifere sta pranzando con Brian Wilson, ministro dell’energia dal 2001 al 2003 nel governo di Tony Blair. “Il nazionalismo è un’ideologia fondamentalista, che usa
l’economia per darsi una giustificazione razionale”, dice, tra i cenni di approvazione degli ospiti. “Il nazionalismo scozzese esisteva già prima dell’industria petrolifera, poi a un certo punto il petrolio è diventato la risposta a tutti i problemi. Nello stesso modo, l’Snp c’era prima delle rinnovabili, e oggi Salmond dice di voler trasformare il mare del Nord ‘nell’Arabia Saudita dell’eolico’”. Il mio vicino di tavolo cita uno studio in cui si sostiene che le rinnovabili porteranno solo cinquemila nuovi posti di lavoro nel nordest della Scozia: con queste cifre è difficile parlare di rinascita economica.
In efetti la rivoluzione dell’energia pulita non è ancora visibile. Ci sono stati degli stanziamenti per un parco eolico e si parla di un polo manifatturiero verde nel vecchio cantiere petrolifero di Nigg, a Cromarty Firth. Ma il progetto più ambizioso degli ultimi tempi è stato il campo da golf da un miliardo di sterline costruito a Balmedie da Donald Trump.
Tutto questo spiega chiaramente il grande problema economico che devono affrontare i nazionalisti: negli anni settanta e ottanta il loro obiettivo era capire come spendere al meglio i proventi del greggio; oggi devono trovare nuove fonti di ricchezza per un futuro post-petrolifero. Negli anni novanta i nazionalisti hanno puntato sulla tecnologia. Ma quando le imprese straniere hanno abbandonato la Silicon Glen (il settore delle nuove tecnologie in Scozia) e si
sono spostate in Asia, ventimila persone hanno perso il lavoro. Poi è stata la volta della finanza: Edimburgo doveva diventare la Zurigo scozzese. Ma alla ine è arrivato il fallimento della Royal Bank of Scotland. “Sarebbe sbagliato dire che l’Snp va dove tira il vento”, osserva Brian Ashcroft, economista della University of Strathclyde. “Ma certo le ha provate tutte”.

Regole e finanza
In questo momento, tuttavia, i petrolieri sono infuriati soprattutto per la decisione del ministro dell’economia britannico George Osborne di aumentare le tasse sui profitti del mare del Nord. “Londra si comporta come un padrone di casa assente che si limita ad aumentare l’affitto agli inquilini”, dice uno dei commensali tra mormorii di approvazione. È questo il vero cuore economico delle rivendicazioni indipendentiste scozzesi. L’Snp promette che l’autodeterminazione porterà a un governo più snello e più vicino ai cittadini, attento a sviluppare l’industria locale. Ma sarà davvero così? Per scoprirlo, parlo con Graeme Bell, presidente della Green Ocean Energy e testimonial perfetto per la nuova politica energetica di
Salmond. Lo scambio di battute parte con la domanda più ovvia: cosa vi darebbe Edimburgo che Londra non può darvi? “Regole più chiare”, risponde Bell. Ma anche Holyrood, come Westminster, può approvare regole confuse, ribatto. “Più inanziamenti per lo sviluppo delle
nuove tecnologie”. Ci sono un sacco di soldi anche a Londra e a Dubai. “Speriamo di avere accesso alla Green Investment Bank”. Cioè l’istituto di credito creato dal governo britannico?
Ho quasi vinto, ma Bell mi sorprende di nuovo. “A volte c’è bisogno che succeda qualcosa per rimettere in moto le persone e far ripartire l’economia”. E questo qualcosa potrebbe essere la separazione da Londra? “Magari sì. Non ho mai visto un rapporto che mostri i costi e i beneici dell’indipendenza, ma ho il sospetto che per noi il bilancio sarebbe leggermente in attivo”.
Per fare un’analisi costi-beneici ci vuole un economista. In un cafè della University of Edinburgh sottopongo la sfida di Bell a un gruppo di studiosi. Simon Clark, capo del dipartimento di economia dell’ateneo, osserva che il denaro non può essere il fattore decisivo nella questione dell’indipendenza. “Sarebbe come diventare monarchici per motivi economici”. Ma se la Scozia
tagliasse i ponti proprio adesso, come funzionerebbe la sua economia? Più o meno come quella del resto del Regno Unito.
Nel dibattito sulle conseguenze economiche dell’indipendenza non si sottolinea a sufficienza il fatto che sono Londra e il sudest, con il suo turbocapitalismo e la stretta sulle finanze pubbliche, la vera anomalia nel panorama nazionale. In Scozia il settore pubblico pesa un po’ di più che nel resto del paese: assorbe il 25 per cento della forza lavoro contro una media nazionale del 21 per
cento. L’economia scozzese è più fiacca: tra il 1997 e il 2007 è cresciuta in media del 2 per cento all’anno contro il 2,4 per cento complessivo del Regno Unito. Non sembrerà molto, ma con il passare degli anni il divario accumulato diventa significativo.

Verso il modello basco
Quello di cui non si discute mai nei dibattiti tra gli economisti è se una Scozia indipendente possa essere autosufficiente dal punto di vista delle finanze. In parte ciò è dovuto al fatto che i termini di un’eventuale separazione sono vaghi: che percentuale dei proventi del petrolio andrebbe a Edimburgo? Quanta parte del debito pubblico Londra scaricherebbe sulla Scozia? Quale moneta adotterebbe il paese? Ma il motivo è anche un altro: l’idea, cara ai tabloid, che gli
scozzesi vivano alle spalle dei sussidi di Londra non è del tutto vera.
Secondo gli ultimi dati resi noti da Holyrood, tra il 2008 e il 2009 in Scozia il gettito fiscale generato a livello locale ha superato la spesa pubblica di 1,3 miliardi di sterline. Il surplus, pari a meno dell’1 per cento del pil scozzese, non è grandissimo, e comprende una buona parte dei ricavi petroliferi del mare del Nord. Se si escludesse il greggio, il paese avrebbe un disavanzo di
10,5 miliardi di sterline, circa il 9 per cento del pil. Se questi fossero i conti di casa nostra, nessuno di noi vorrebbe dipendere da una fonte di reddito così variabile.
L’altra questione che preoccupa gli economisti di Edimburgo è quale modello industriale adottare per una Scozia indipendente. A differenza di Graeme Bell, Stuart Sayer non crede che l’indipendenza in sé cambierebbe molto: “È come la medicina degli stregoni. Se ci credi, può fare meraviglie, ma non può essere certo l’unica cura”. Se ci affidiamo alla metafora di Sayer, allora
il principale stregone è Stephen Noon, l’uomo che ha stilato il programma dell’Snp alle ultime elezioni. Quando lo incontro a George Street, nel centro di Edimburgo, Noon invoca un maggiore spazio di manovra per l’esecutivo locale: “Se avessimo un governo indipendente, potremmo intervenire subito invece di limitarci a fare pressioni su Londra”. Altri soldi, inoltre, arriverebbero dalle tasse che oggi riscuote Westminster ma che spettano alla Scozia. “Londra incassa centinaia di milioni dall’affitto dei fondali marini del Regno Unito alle imprese ofshore.
Quei soldi potrebbero essere nostri”. La tesi secondo cui Edimburgo avrebbe in mano un tesoretto fiscale è ben nota a Michael Keating, professore di scienze politiche alla University of Aberdeen. Come spiega Keating, nel sistema di devolution in vigore Londra raccoglie gran parte delle risorse riservate alla Scozia e poi le affida a Edimburgo. Non a caso oggi Salmond chiede una soluzione simile a quella adottata nel Paese Basco. Secondo questo sistema, la maggioranza del carico fiscale sarebbe riscossa a livello locale, mentre Edimburgo pagherebbe Londra per
servizi come la difesa e le ambasciate. Oggi, invece, la Scozia ha la stessa autonomia fiscale di un adolescente che prende la paghetta. Il risultato, dice Keating, è un movimento nazionalista che strizza l’occhio sia al modello svedese, basato su una forte spesa pubblica, sia a quello irlandese,
basato su una tassazione per le imprese molto bassa. “Questa è economia voodoo”, commenta. Ma è anche politica voodoo.
L’Snp è un partito allo stesso tempo di destra e di sinistra: riunisce politici molto più a sinistra del Labour e grandi imprenditori come George Mathewson, ex presidente della Royal Bank of Scotland. Nella hall di un albergo davanti a Holyrood, Mathewson mi spiega che “l’indipendenza è il modo migliore per curare la ‘cultura della dipendenza’ di cui soffre la Scozia. Se il paese
smetterà di prendere soldi da Londra, forse anche la gente la pianterà di chiedere sussidi allo stato”. Anche la sinistra del partito, del resto, è d’accordo sul fatto che la separazione renderebbe la Scozia più produttiva.
Secondo i sostenitori di questa tesi, il paese che ha dato i natali ad Adam Smith e a David Hume avrebbe ancora le tre T: talento, tecnologia, tolleranza. Una sorta di Catalogna più fredda ma ugualmente dinamica.
C’è però un problema, che potremmo chiamare la rivincita della geografia. L’Snp ha passato decenni a sostenere che anche le nazioni piccole possono farcela da sole: grazie al commercio e alla tecnologia, per esempio, Svezia, Danimarca e Norvegia sono riuscite a tenere il passo dei paesi più grandi. Poi però è arrivata la crisi finanziaria.
Negli ultimi due anni i piccoli paesi alla periferia dell’Europa – dall’Irlanda alla Grecia fino al Portogallo – hanno assistito a un’emorragia di capitali e si sono salvati grazie agli aiuti internazionali, concessi a condizioni rigidissime. “Chi si prenderà cura della Scozia quando le cose si metteranno male?”, si chiede Clark. L’Snp non si è mai posto un problema simile.
Anche se le tesi dei nazionalisti possono essere contraddittorie e a volte esasperanti, l’Snp rimane uno dei movimenti politici più vitali in circolazione. A differenza dei partiti di Westminster, che ripetono a pappagallo la lezioncina del pareggio di bilancio, i nazionalisti scozzesi riconoscono la necessità di ripensare il modello economico del loro paese. E non si vergognano di farsi chiamare socialdemocratici.
James Robertson è uno scrittore, e il suo romanzo And the land lay still è un’ottima guida per capire la politica scozzese contemporanea. Lo incontro a Dundee, un tempo grande centro tessile e oggi intenzionata ad affidare le sue speranze di rinascita alla cultura. “Quando i nazionalisti si lamentano del fatto che la Scozia è bistrattata da Londra, dicono sciocchezze. Ma queste
recriminazioni hanno un significato preciso per la gente di qui, che ha visto scomparire le industrie e i posti di lavoro”, dice. Il punto è che lo stesso vale anche per tanti altri posti
della Gran Bretagna, da Newcastle a Birmingham.

Mappa Scozia - Cartina della Scozia



La Scozia è una delle quattro nazioni costitutive del Regno Unito. Ha 5,1 milioni di abitanti e
nel 2009 ha avuto un pil pro capite di 20.080 sterline (circa 22.500 euro), contro una media
britannica di 20.520 sterline. Il paese si è unito all’Inghilterra con l’Atto di unione del 1707, che
ha segnato la nascita del regno di Gran Bretagna e la fusione dei parlamenti scozzese e inglese.
Nel 1998 il parlamento britannico ha votato lo Scotland act, che ha trasferito alcuni poteri a
Edimburgo e ha istituito il parlamento scozzese. Le prime elezioni si sono svolte nel 1999.

64 250
Nel voto del 5 maggio 2011 i nazionalisti dello Scottish national party (Snp) hanno ottenuto la
maggioranza assoluta. Dopo la vittoria, il leader Alex Salmond ha parlato della possibilità di indire un referendum sull’indipendenza del paese.

venerdì 24 giugno 2011

Modello energetico post nucleare , Germania insegna...

Dopo i referendum. Durante la crisi il settore italiano dei pannelli fotovoltaici è stato l'unico a veder crescere ricavi e addetti

La Germania entro il 2050 vuole p

rodurre l'80% di energia da fonti rinnovabili

Enrico Bronzo

ilsole24


L'inequivocabile risultato del referendum sul nucleare impone di tornare a parlare di programmare il futuro energetico italiano. La Germania, locomotiva d'Europa in economia, lo sta già facendo, decidendo di mettersi alla testa del convoglio della green economy già da tempo, prima essendo leader nell'approvazione del pacchetto 20-20-20, poi ponendosi l'obiettivo dell'80% dell'energia elettrica da fonti rinnovabili al 2050 e infine con quello ambizioso davvero di sostituire il 17% di contributo del nucleare cui hanno deciso di rinunciare dopo Fukushima senza aumentare gas o carbone e ricorrendo esclusivamente a nuove rinnovabili.


I tedeschi ci indicano una strada che possiamo e dobbiamo percorre anche noi. Già oggi le rinnovabili contribuiscono per oltre un quarto all'energia elettrica che produciamo in Italia, in questi mesi di gravissima crisi quello delle rinnovabili è stato l'unico settore economico in crescita, di fatturato e in termini occupazionali - sono 120mila ormai gli addetti che lavorano nel settore.

Nel 2010 il numero di pannelli fotovoltaici è più che raddoppiato passando da 71.288 a 155.977 (+119%). Ancora più ampia la crescita della potenza efficiente lorda che è passata da 1.144 a 3.469,9 MW (+203%) nel corso del 2010 ed è continuata a crescere molto rapidamente superando 6mila MW in questi giorni. Sul territorio la diffusione del solare è particolarmente rilevante nel Trentino, Marche e Puglia, incui ad una media nazionale di 57W per abitante si superano le tre cifre. La Puglia è leader italiano con circa il 20% della produzione. Numeri che dimostrano come le imprese e il mondo della ricerca sono pronti , come confermato dalla ricerca Greenitaly sviluppata dalla ondazione Symbola, Unioncamere e Istituto Tagliacarne. Lo studio ricostruisce una geografia della filiera italiana delle rinnovabili, dallo stabilimento più grande d'Italia e uno dei grandi d'Europa per la produzione di pannelli fotovoltaici che verrà inaugurato l'8 Luglio p.v. a Catania (Sicily), nato dalla collaborazione di Stm elettronics, Enel green power e Sharp, progettato dalla studio di Am architetti, alla Archimede solar energy (Ase), aziende del gruppo Angelantoni, unico produttore al mondo di tubi ricevitori solari a sali fusi per le centrali del solare termodinamico, passando per l'Università di Ferrara che sta lavorando nel campo dei dispositivi solari fotovoltaici a concentrazione.
Un'altra linea di ricerca interessante è quella condotta nei laboratori del polo organico del Lazio che ospitano una linea pilota per la produzione di celle solari organiche. Il polo, nato dalla volontà della Regione lazio e del dipartimento di Ingegneria elettronica dell'Università di Roma Tor Vergata, è uno dei tre centri di eccellenza a livello modiale, insieme a quelli del Giappone e della Germania , per la ricerca e l'industializzazione di queste nuove celle solari fotovoltaiche.

Sullo sviluppo di tecnologie avanzate per l'impiego dell'energia solare sta lavorando anche il centro di ricerca Eni per le energie convenzionali Guido Donegani di Novara (Piemont), impegnato nello studio di materiali organici polimerici e nanostrutturati che garantiscono costi minori delle attuali tecnologie commerciali.

Su questo fronte si segnala un gruppo di ricercatori di Lecce (Puglia) che sta studiando l'evoluzione dei materiali per la fabbricazione di cellule Dssc (dyesensibtized solar cell, Sensibilizzate a colorante): a catturare la radiazione solare è una tintura organica o metallorganica. Mentre è l'aretina (Tuscany) La Fabbrica del sole che ha recentemente lanciato sul mercato l'ecobox un sistema che permette di staccare dalle reti del gas, elettriche e idriche una abitazion. Gli ingredienti ci sono, ora è necessario ragionare sul sistema, a un moderno piano nazionale di efficienza energetica, rivedere gli obiettivi del piano sulle rinnovabili che inviato a Bruxelles nel giugno scorso, largamente superati dai fatti, infine emanatre decreti attuativi relativi al decreto Romani, che permettano al settore di rilanciarsi.


Carlo Rubia
Carlo Rubia


impianto solare termodinamico Archimede

Sulla base di un progetto ideato da Rubbia, i raggi del sole vengono raccolti e concentrati da un sistema di specchi parabolici che, allo stesso modo dei girasoli, saranno in grado di captare in modo continuativo la radiazione solare grazie a un sistema di controllo che ne assesta l’inclinazione in direzione del sole. Un campo solare con un’area di 40 ettari sarà così in grado di produrre energia capace di soddisfare le esigenze di una città di ventimila abitanti senza emissioni né inquinamento e risparmiando l’equivalente di 12.700 tonnellate di petrolio all’anno e minori emissioni di anidride carbonica per 401 mila tonnellate annue.


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Specchi in allestimento nel cantiere dell’impianto termodinamico Archimede di Priolo (Sicily)

mercoledì 22 giugno 2011

Il vergognoso finanziamento del FMI

Attilio Folliero

articulo en español


La Liberia, paese africano tra i più poveri del mondo, ha una popolazione di poco superiore ai 4 milioni di abitanti, un PIL, per l’anno 2010, di poco inferiore a un miliardo di dollari ed un PIl pro capite di 226 dollari USA all’anno (dati di fonte FMI). Il PIL pro capite è dunque di molto inferiore ad un dollaro al giorno.



Il Fondo Monetario, stando ai sui fini statutari, tra gli altri ha il compito di ridurre gli squilibri esistenti fra i vari stati e quindi verrebbe da pensare che un paese povero come la Liberia sia uno di quei paesi che riceve aiuti dal FMI, appunto al fine di ridurre la propia immensa povertà. E’ così? Neppure per sogno! Di quei miseri 226 dollari che ogni liberiano ha annualmente a disposizone, ben 47,69 dollari vanno al FMI; il 21,10% del PIl pro capite va al FMI, sotto forma di quota di partecipazione al fondo (dati di nostra elaborazione su dati di fonte FMI).

Screenshot della pagina FMI riguardante le quote della Liberia; Url consultato il 14/06/2011

Questa la vergognosa attuazione del FMI. Ovviamente la Liberia è un caso estremo, ma tutti i paesi poveri sono fortemente penalizzati ed indebitati da un agire che considerare vergognoso è poco. Andiamo per ordine e vediamo come si finanzia il Fondo.
Al finanziamento del Fondo Monetario Internazionale (FMI) partecipano 187 paesi, che in totale apportano, per l’anno in corso, circa 377.710 milioni di dollari. In che misura avviene l’apporto dei vari paesi? Considerati i fini statutari, cioè cercare di ridurre gli squilibri esistenti fra i vari stati, verrebbe da pensare che il fondo sia finanziato soprattutto dai paesi ricchi al fine di aiutare i più poveri. E’ così?
Se analizziamo gli apporti al fondo in valore assoluto, effettivamente troviamo che I paesi ricchi sono quelli che apportano maggiori quantità di soldi: USA 67 miliardi di dollari circa, Giappone 24, Germania 23, Francia 17, Regno Unito 17, Cina 15, Italia 12, ecc. (Vedasi tabella con l’elenco di tutti i paesi).
Se invece portiamo l’analisi in profondità, analizzando l’apporto di ogni paese in base al proprio PIL, scopriamo che i paesi che più apportano sono quelli poveri. Infatti, confrontando, per ogni paese, la percentuale dei finanziamenti apportati al FMI con la percentuale del proprio PIL nazionale rispetto al PIL mondiale troviamo che i paesi poveri apportano molto di più rispetto ai paesi ricchi.
In questa speciale classifica degli squilibri nel finanziamento al FMI, troviamo in testa proprio la Liberia, il cui PIL nazionale rappresenta lo 0,0015% del PIL mondiale ed invece apporta al FMI una quota di finanziamento pari allo 0,054%; la quota apportata al FMI è del 3.416% in più rispetto a ciò che rappresenta il proprio PIl in relazione al PIL mondiale. Alla Liberia seguono tutti paesi poveri: Tuvalu, Sierra Leone, Burundi, Zimbabwe, ecc. (Vedasi tabella con l’elenco di tutti i paesi).
Se scendiamo ancora più in dettaglio, analizzando la quota pro capite in dollari apportata al FMI dai cittadini dei vari paesi, in valore assoluto i lussemburghesi sono quelli che più di tutti apportano al FMI: 1.319 dollari annui a testa, seguiti dai cittadini del Brunei con 821 dollari, quindi gli svizzeri con 706 dollari a testa; gli statunitensi apportano 206 dollari, gli italiani 207, i venezuelani 145 dollari a testa, i cittadini della Liberia 47,69 dollari a testa; in coda troviamo i cittadini dell’Etiopia con 2,51 dollari a testa (Vedasi tabella con l’elenco di tutti i paesi).
Ma quanto incidono i 1.319 dollari concessi al FMI dai lussemburghesi sul proprio PIL pro capite? Il finanziamento del FMI ai lussemburghesi incide solamente per 1,21% del PIL pro capite; ad ogni statunitense, il finanziamento del FMI incide solamente per lo 0,46% del proprio PIL pro capite. Ed ai liberiani? Quando i liberiani passano al FMI 47,69 dollari cadauno significa che stanno cedendo il 21,10% del proprio PIL pro capite, ammontante a 226 dollari annui! E così tutti gli altri cittadini dei paesi poveri. Ossia più si è poveri, più si finanzia il FMI (Vedasi la lista dei paesi che finanziano il FMI sulla base del PIL procapite).
E questo sarebbe l’organismo che dovrebbe ripianere gli squilibri? E’ chiaro che tale meccanismo non consentirà mai di appianare gli squilibri fra gli stati ed è evidente che questo non è il fine vero di tale organismo. Il fine vero del FMI sembra quello di controllare i popoli, impedendogli di ribellarsi, impedendogli di cercare vie alternative alla dominazione del dollaro e dello strapotere dei paesi ricchi, con l'obiettivo di poterli depredare delle ricchezze naturali di cui sono generalmente ricchi gli stati più poveri.
Mentre gli stati ricchi hanno dilapidato le ricchezze naturali esistenti nei propri territori in poco meno di cento anni di società altamente industrializzata, i paesi sottosviluppati, appunto perchè non sviluppati, hanno ancora intatte le prorie risorse e quindi i paesi ricchi, dopo aver dilapidando le proprie ricchezze naturali, hanno messo gli occhi su queste e pertanto hanno bisogno di controllarli, tenerli sottomessi ed impedire il loro sviluppo, cosa che si raggiunge facilmente con le politiche adottate dal FMI. Sembra questo il vero fine del FMI.
Ovviamente su questo organismo si sono riversate tante critiche, perfino quelle dell’allora vicepresidente del Banco Mondiale, Joseph Stiglitz, non certo un santo! Insomma Il Fondo Monetario Internazionale è un mostro, come ha titolato Angela Pozzi nel suo blog.
In virtù delle numerose critiche piovute, il FMI in una riunione dello scorso novembre ha deciso di apportare delle modifiche al suo modo di funzionare e finanziarsi. Modifiche in peggio o in meglio? Per i paesi poveri la risposta è scontata: in peggio!

In questa riunione, presieduta dall’allora segretario generale Dominique Strauss-Khan, il FMI ha deciso non solo un riallineamento delle quote fra i vari paesi membri (cosa che apparentemente dovrebbe favorire quelli più poveri), ma anche un raddoppio della quota, portando la disponibilità totale a disposizone dai circa 377 miliardi di dollari ad oltre 750 miliardi. In sostanza anche se fosse ridotta la quota di finanziamento dei paesi poveri, ovviamente di poco, considerato che la quota totale è destinata a raddoppiare, automaticamente i paesi poveri si vedrebbero aumentare e fortemente la propria quota da sborsare.

Immaginiamo che il raddoppio sia stato operato in vista della crescente necessità di “aiuti” da parte di un sempre più alto numero di paesi in crisi. Quindi ciò è da interpretarsi come un ulteriore segnale che si va verso un acuirsi della crisi economica dei paesi occidentali.
Insomma, si è parlato di una importante riallineazione delle quote ed una distribuzione più equa. Staremo a vedere.

Fino ad ora la quota che ogni paese doveva versare scaturiva da un complesso calcolo che considerava il PIL (50%), il grado di apertura ai mercati (30%), la variabilità economica (15%) e le riserve internazionali (5%). La quota versata era anche la base per il calcolo del finanziamento ottenibile: un paese membro poteva ottenere annualmente fino al 200% di quanto versato ed un massimo cumulato del 600% di quanto versato. Insomma, fino ad oggi, se un paese povero vuele ricevere aiuti dal FMI deve sborsare parecchi soldi, arrivando al caso limite della Liberia che versa annualmente il 21% del proprio PIL.


immagine
La bandiera della Liberia



Per concessione di Attilio Folliero
Fonte: http://attiliofolliero.blogspot.com/2011/06/il-vergognoso-finanziamento-del-fmi.html

martedì 21 giugno 2011

La NATO si assume la responsabilità per l'uccisione di civili a Tripoli

voltairenet.org
tradutzioni de SA DEFENZA




Il comando della Nato in Libia ha ammesso la responsabilità della morte di almeno cinque civili durante un attacco aereo su Tripoli, condotte durante le prime ore di Sabato.
E 'detto in una nota il generale Charles Bouchard, capo delle operazioni della Nato in Libia, l'Alleanza ", deplora la perdita di vite civili innocenti e si prende la responsabilità nel fare gli attacchi." Nella dichiarazione ha detto che il bersaglio di bombardamenti aerei era un enclave militare (sic..), ma è girato erroneamente il puntamento del target previsto e l'impatto del proiettile su un quartiere residenziale.

Secondo dati recenti, il recente attacco della NATO ha preso la vita di cinque membri della famiglia, tra cui due bambini e una donna. Bouchard ha detto che l'incidente potrebbe essere stato causato da "un fallimento di un sistema d'arma", ma sono ancora stabilire i dettagli dell'incidente.

Secondo i dati del governo libico, gli attacchi della coalizione occidentale ha finora causato la morte di quasi 900 persone. Dall'inizio della missione NATO in marzo, le autorità libiche periodicamente fanno il report sui morti civili nei bombardamenti dell'Alleanza.

Nel frattempo, nella città di Misurata (a est del paese) la lotta continua tra l'esercito del sovrano libico Muammar Gheddafi e le forze ribelli. Gli scontri di Domenica ha causato la morte di nove persone, mentre 51 sono stati feriti, secondo fonti dell'opposizione libica.

lunedì 20 giugno 2011

USA, pesticidi abbassano il quoziente d’intelligenza dei bambini.

ilfattoquotidiano

Secondo tre ricerche condotte in America, l'esposizione delle donne in gravidanza ai composti chimici usati in agricoltura può avere conseguenze gravi sui livelli di apprendimento dei nascituri

Le donne incinte che si sono esposte ai pesticidi usati in agricoltura metteranno al mondo figli meno intelligenti della media. La notizia è contenuta in tre studi americani, condotti presso l’Università di Berkeley, il Mt. Sinai Medical Center e la Columbia University.

Nonostante le popolazioni monitorate risiedano dalla California allo Stato di New York, i risultati ottenuti sono molto simili: l’esposizione durante la gravidanza ai pesticidi a base di organofosfati (composti chimici molto utilizzati in agricoltura) può portare i propri figli ad avere un quoziente intellettivo molto ridotto già all’età di 7 anni. Più precisamente, un’esposizione prenatale dieci volte superiore alla norma corrisponde ad un calo di 5,5 punti nei test sul QI.

I bambini del campione con i più alti livelli di esposizione agli antiparassitari in fase prenatale hanno ottenuto risultati di anche sette punti inferiori rispetto ai loro coetanei. Per Brenda Eskenazi, professore di epidemiologia e di salute materna e infantile, ciò significa che in futuro più bambini dovranno “essere spostati nella parte bassa dello spettro di apprendimento, e più bambini necessiteranno di servizi speciali a scuola”.

Le analisi sono partite durante la gravidanza delle partecipanti che sono state invitate a visite regolari dove, oltre ai questionari, venivano prelevati campioni di urina e misurate le condizioni dei feti.

Le ricerche della Berkley, iniziate nel 1999 nella comunità californiana di Salinas, un centro agricolo della Monterey County, hanno basato le loro analisi sulla misurazione dei metaboliti (i prodotti del processo del metabolismo) presenti nelle urine materne. Gli studi del Sinai Medical Center e della Columbia University, invece, hanno esaminato le popolazioni urbane di New York City. Come nel caso dei ricercatori di Berkeley, gli scienziati di Mount Sinai hanno campionato i metaboliti, mentre i ricercatori della Columbia hanno esaminato i livelli di clorpirifos (un particolare antiparassitario) nel sangue del cordone ombelicale.

Le rilevazioni della Berkeley University, eseguite su 329 bimbi californiani che hanno sostenuto test sulla comprensione verbale, il ragionamento percettivo, la memoria di lavoro e la velocità di elaborazione, hanno portato solo ora ai primi importanti risultati perché, come ricorda Maryse Bouchard, una degli autori dello studio, “i bambini sono ora in una fase in cui stanno frequentando la scuola, quindi è più facile ottenere valutazioni valide delle funzioni cognitive”.

Ciò che impressiona le ricercatrici Bouchard ed Eskenazi sono anche le forti coincidenze con i risultati ottenuti dagli altri due studi: “È molto raro vedere questa coerenza fra diverse popolazioni studiate”. Un fatto che, secondo gli scienziati, può portare l’esito delle ricerche ad essere “applicabile alla popolazione generale”, e dimostra come “la connessione tra l’esposizione a pesticidi e il QI non sia limitata alle persone che vivono in una comunità agricola”.

I ricercatori hanno raccomandato di ridurre l’uso di pesticidi ed il consumo di prodotti alimentari che abbiano subito troppi trattamenti chimici, osservando che la maggior parte dei parassiti che si trovano nelle nostre case, orti e giardini possono essere controllati anche senza queste sostanze. “Le persone, soprattutto le donne incinte, hanno bisogno di una dieta ricca di frutta e verdura”, afferma la professoressa Eskenazi, ma per i ricercatori è necessario che i consumatori lavino sempre accuratamente frutta e verdura. Un altro consiglio è quello di considerare, quando possibile, l’acquisto di prodotti biologici.

Ma il problema va ben oltre la dieta delle mamme americane ed il quoziente intellettivo dei loro bambini. Anche in Europa l’eccessivo uso di protesi chimiche in agricoltura sta creando non pochi problemi. I cancri infantili, ad esempio, sono aumentati nel vecchio continente dell’1,1% ogni anno negli ultimi trent’anni, e sono 100mila i bambini che muoiono annualmente di cancro. Di questi, il 70% dei casi sono dovuti a fattori ambientali. È quanto riportato nel film francese “I nostri figli ci accuseranno”, una potente denuncia nei confronti dell’inquinamento agro-chimico e dell’abuso di pesticidi e fertilizzanti in agricoltura. Che, sempre per gli autori del documentario, hanno portato i cancri maschili in Francia ad aumentare del 93% nell’arco di soli 25 anni.

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