venerdì 12 luglio 2013

LO SCANDALO DELLE INTERCETTAZIONI E LE PROSPETTIVE DI UNA NATO "ECONOMICA"

LO SCANDALO DELLE INTERCETTAZIONI E LE PROSPETTIVE DI UNA NATO "ECONOMICA"



DI VALENTIN KATASONOV
















http://www.strategic-culture.org

La zona di libero commercio Stati Uniti/Europa, destinata a promuovere l’integrazione economica, è ora al centro dell’attenzione mediatica mondiale. Per descrivere il progetto viene utilizzato un termine molto accattivante: “NATO Economica”. La questione risale al 2011 e negli ultimi sei mesi ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Lo scorso Febbraio, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama e Josè Manuel Durão Barroso, attuale Presidente della Commissione Europea, hanno espresso la loro disponibilità a dare il via al dibattito sul progetto. Durante il G8 di giugno scorso in Irlanda è stata fissata la data d’inizio dei dibattiti: l’8 Luglio del 2013.

Liberarsi dei dazi doganali ed altre limitazioni può seriamente dare un notevole impulso allo sviluppo economico dell’America del Nord e dell’Europa. E’ vero, già ora i dazi sono molto contenuti, non superano il 5/7% in media. Ma il volume d’affari annuale del cargo marittimo raggiunge quasi il mezzo trilione di euro; quindi il gettito doganale sugli scambi va misurato in milioni e milioni di euro. Esempio: nel 2010 le società chimiche europee hanno versato agli Stati Uniti dazi doganali per circa 700 milioni di euro. Lo stesso vale per le società chimiche statunitensi: hanno pagato all’Europa quasi un miliardo di euro di dazi. 

L’integrazione transatlantica ha delle implicazioni economiche. Le previsioni americane ed europee di PIL, crescita delle esportazioni e dell’occupazione e riduzione del deficit commerciale, sono molto differenti tra loro. 

Spesso si fa riferimento alle cifre fornite dal Primo Ministro Inglese Cameron, che recentemente ha detto che nel giro di pochi anni l’accordo sul libero scambio farà aumentare il PIL europeo di 100 miliardi di sterline (circa 157 miliardi di dollari americani), quello statunitense di 80 miliardi di sterline e il PIL del resto del mondo di 85 miliardi di sterline. 

Secondo la Camera di Commercio statunitense, liberarsi una volta per tutte dei dazi transatlantici avrà come effetto un incremento del volume d’affari degli scambi commerciali di oltre 120 miliardi di dollari entro cinque anni. Il capo della Commissione Europea, Barroso, ha affermato che l’accordo darà un grosso impulso al PIL dell’Unione Europea di mezzo punto percentuale. Secondo lui il reddito sarà misurato in miliardi di euro e verranno creati molti nuovi posti di lavoro: decine e decine di migliaia di cittadini europei troveranno nuove occupazioni. 

Ovviamente, non si tratta solo di economia. L’accordo sul libero scambio, più in generale, allevierà la piaga della civiltà occidentale “pressata” dai paesi al di fuori della zona del “miliardo d’oro”, primo fra tutti la Cina, poi i BRICS (1) ed altri paesi in via di sviluppo. Agli europei questo importa poco, ma per gli USA si tratta di una questione di importanza vitale. Più di una volta Barack Obama ha ribadito che l’accordo tra Stati Uniti e l’Europa non solo assicurerà alle società americane accesso illimitato al mercato europeo, incrementerà le esportazioni e l’occupazione e avrà effetti positivi sul deficit di bilancio, ma cambierà anche i rapporti strategici tra gli Stati Uniti e l’Asia. Ed è proprio su questo ultimo punto che Washington tenta di celare il vero scopo dell’integrazione commerciale transatlantica. 

Zona di libero scambio USA/Europa: pro e contro 

Ecco qui riassunte le opinioni espresse al riguardo da politici, uomini d’affari ed esperti in materia. 

Primo: ci sono scettici da entrambi i versanti dell’Atlantico. Non dicono che non ci saranno effetti positivi per le economie americane ed europee, ma insistono nel dire che le previsioni di aumento degli scambi commerciali, PIL e occupazione sono esagerate. Anche se tali previsioni si rivelassero esatte e oltre ogni dubbio, la crescita attesa non sarebbe comunque sufficiente a tirar fuori l’economia del “miliardo d’oro” dalla crisi in cui ristagna. 

Secondo: ci sono degli europei che temono che con l’avvento dell’accordo di libero scambio transatlantico il “Grande Fratello” si rafforzerà ulteriormente. Dopo la Seconda Guerra Mondiale Washington ha usato gli strumenti della NATO per assumere il controllo delle politiche militari e delle forze armate dell’Europa occidentale. L’accordo di libero scambio transatlantico è visto come una versione “economica” della NATO, che finirà con il destituire l’Europa di ogni sua sovranità. Molti politici europei pensano che questo sia il momento sbagliato per avviare i colloqui con gli Stati Uniti sull’argomento. L’Unione Europea sta attraversando una profonda crisi (2) (di debito, di bilancio e dell’economia), cosa che dà maggior peso contrattuale agli Stati Uniti al tavolo di discussione. 

Altri canali d’informazione minimizzano, sostenendo che le parti dovranno soltanto trovare un accordo sull’eliminazione di tutti i dazi doganali e consentendo la libera circolazione di beni e servizi nello spazio economico transatlantico. Ma ci sono anche altri strumenti oltre ai dazi che proteggono i mercati e gli esportatori, ad esempio gli standard ambientali, le sovvenzioni, le tasse (agevolazioni e esenzioni dal pagamento dei dazi), le condizioni di accesso ai prestiti, ecc.
Le posizioni di alcuni attori del mercato mondiale sono determinate dalle loro prerogative di emissione di denaro, con le banche centrali che agiscono come centri di emissione. Nel caso della NATO Economica, Washington prenderà subito il controllo, grazie ai vantaggi che gli derivano dal sistema della Federal Reserve. Per quanto deboli siano alcuni suoi punti, sarà sempre più forte della BCE. I mezzi d’informazione del vecchio mondo spesso presagiscono che un giorno, nel futuro, l’industria cinematografica europea sarà completamente fagocitata da Hollywood. Anche i difensori dei diritti dei consumatori e gli ecologisti sono alquanto scettici. Yannick Jadot, un europarlamentare, Gruppo dei Verdi / Alleanza Europea Libera, presagisce l’invasione dei prodotti statunitensi in Europa e inorridisce al pensiero di cibi geneticamene modificati, carni agli ormoni e al cloro sui banchi dei supermercati. C’è un grosso divario tra gli standard di sicurezza dei prodotti americani e quelli europei, basati su criteri molto differenti. 

Terzo: i paesi che verranno tagliati fuori della zona di libero scambio transatlantico esprimono forti preoccupazioni. Nel caso in cui tale progetto venisse portato a compimento, l’area interessata coprirà quasi il 50% del PIL mondiale (Messico e Canada ne faranno parte, essendo membri del NAFTA - North American Free Trade Agreement). Esiste una forte possibilità che l’Australia e la Nuova Zelanda entreranno a far parte di questa alleanza integrata. A quel punto il “miliardo d’oro” consoliderà commerci ed economie al suo interno, danneggiando inevitabilmente il progresso economico dei paesi esterni, come la Cina, i BRICS ed il Giappone. 

La bagarre delle intercettazioni 

Non appena è stata fissata all’8 luglio 2013 la data di inizio dei colloqui tra USA ed Europa sulla zona di libero scambio, è scoppiato lo scandalo causato dalle rivelazioni di Edward Snowden su alcuni servizi speciali dedicati ad attività di spionaggio. E l’Europa era proprio il bersaglio principale di queste attività. Sul primo, Washington ha affermato che le attività di intercettazione e di controllo dei messaggi internet erano limitate a personaggi stranieri ad alto profilo, e il solo scopo era quello di prevenire azioni terroristiche. Poi si è venuto a sapere che anche personaggi dell’Unione Europea e di Paesi Membri dell’Unione fossero oggetto di intercettazione “a scopo di prevenzione anti-terroristica”. 

Sotto osservazione 38 tra ambasciate e missioni, considerate dagli USA come bersagli, compreso il quartier generale dell’Unione Europea a Bruxelles; Francia e Germania (3) gli obbiettivi principali: ogni giorni venivano monitorate due milioni di telefonate di persone francesi e quindici milioni di persone tedesche. Berlino e Parigi hanno già preteso spiegazioni da Washington. Il Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz ha affermato che, nel caso tali sospetti saranno confermati, i rapporti bilaterali USA/Europa ne usciranno seriamente danneggiati. Il Commissario dell’Unione Europea per la Giustizia, Viviane Reding, ha detto che l’accordo di libero scambio è a rischio. E ha detto: “dei buoni partner non si spiano l’uno con l’altro”.

Spiare gli alleati… è routine 

Niente di nuovo sotto il sole. Lo scandalo delle intercettazioni in corso è solo un’illustrazione di quello che da tempo era già routine nel mondo “civile”. Basta ricordare ECHELON, la raccolta di segnali intelligenti (SIGINT) e il sistema analisi della rete. Fu sviluppato in seguito ad un accordo segreto concluso tra le intelligence degli USA, Gran Bretagna, Australia, Canada e Nuova Zelanda. ECHELON era in grado di intercettare e controllare il contenuto di telefonate, fax, email ed altri traffici di dati, “spiando” gli strumenti di comunicazione quali trasmissioni satellitari, reti telefoniche pubbliche (che prima trasportavano la gran parte del traffico internet) e collegamenti a micro-onde. 

Era in grado di intercettare fino a 100 milioni di messaggi ogni mese. L’idea di raggiungere un accordo con altri stati e lo sviluppo del sistema, furono iniziati dalla NSA, Agenzia statunitense per la sicurezza nazionale. Gli elementi della rete sono sparsi in tutto il mondo – tra basi militari statunitensi in Germania, le installazioni in Gran Bretagna, nel Pacifico e ad Hong Kong. L’elaborazione dei dati si basa su parole chiave. Vengono utilizzati programmi avanzati di riconoscimento vocale e ottico (OCR) per individuare parole o frasi chiave (chiamate “Dizionario Echelon”) che avrebbero allertato i computer nel segnalare i messaggi per la registrazione o la trascrizione, per le analisi successive. Se s’ inserisce la parola “microprocessore”, ad esempio, il sistema inizia a cercare il termine in tutte le telefonate, messaggi, fax e messaggi elettronici intercettati. L’unica cosa che restava da fare era di capire chi e perchè aveva utilizzato quel termine e chi era il suo interlocutore. 

Secondo esperti occidentali indipendenti, più dell’80% delle intercettazioni sono utilizzate per spionaggio industriale. Echelon è un sistema di spionaggio mondiale. Non favorisce tanto gli interessi del “miliardo d’oro”, ma piuttosto quelli della comunità anglo-sassone, che considera tutti gli europei, tranne i britannici, come rivali da tenere sotto osservazione. Faccio solo un esempio: nel 1995 trapelò la notizia che la National Security Agency utilizzasse ECHELON per intercettare tutti i fax e le telefonate tra il Consorzio AIRBUS e la compagnia aerea nazionale saudita. Si seppe così che AIRBUS pagava laute mazzette ai sauditi per convincerli a concludere l’affare da 6 miliardi di dollari. La National Security Agency passò queste informazioni al governo degli Stati Uniti, il quale riuscì invece a convincere i sauditi a concludere il contratto con Boeing e McDonnell Douglas. Kai Hirschmann, un tedesco esperto di intelligence, nel suo libro “Geheimdienste» (Servizi Segreti) del 2004, spiegava: Primo: dopo la Guerra Fredda l’intelligence economica divenne importantissima, superando e oscurando di gran lunga quella sul terrorismo. Nel 1990, infatti, lo stesso ex direttore della CIA Robert Gates disse che le questioni legate all’economia erano predominanti nella lista delle missioni dell’agenzia. Metà e più degli incarichi della CIA erano di natura economica. 

Secondo: in occidente l’intelligence economica si sommava allo spionaggio industriale delle società private. C’era una specie di “spartizione dei compiti” tra le agenzie d’intelligence private e pubbliche. Quelle pubbliche controllavano ministeri, agenzie di stato, organizzazioni internazionali, ambasciate e missioni commerciali per ottenere informazioni sensibili sulle politiche economiche, finanziarie, commerciali ed industriali dei vari paesi, oltre ad anticipare le posizioni che i vari paesi avrebbero preso in sede di colloqui internazionali, quali fossero gli accordi che stavano per concludere, compresi quelli nascosti, ecc. 

E’ chiaro che gli stati sono sempre coinvolti nello spionaggio industriale, anche se, di solito, limitatamente alle tecnologie militari. L’intelligence di stato svolge missioni che gli vengono assegnate da grandi aziende, soprattutto quando queste partecipano a grosse gare o sono in lizza per accaparrarsi ingenti commesse in paesi esteri. 

Terzo: molti servizi speciali occidentali spiano gli alleati. In altre parole, i paesi del “miliardo d’oro” si spiano a vicenda. E’ un fatto inevitabile in un quadro di competizione. 

Quarto: al giorno d’oggi, la gran parte dei dati viene acquisita con strumenti tecnologici, senza il contributo di intelligence “umana”. I metodi usati sono le intercettazioni, cimici installate negli uffici, nelle macchine, nei fax, sui cavi telefonici, rubando informazioni direttamente dai computer e dai server, elaborando flussi giganteschi di dati trasmessi via internet, accedendo ai messaggi di posta elettronica attraverso le connessioni Skype, ecc. 

Kai Hirschmann ci dice che è da lungo tempo ormai che gli stati fanno ricorso allo spionaggio industriale per avere dei vantaggi economici. L’occidente non è poi così diverso dai suoi “vecchi” amici di “oltre cortina”. Secondo le stime fatte, 23 paesi (compresi i grandi paesi dell’Est), spiano regolarmente gi Stati Uniti. In questo, va detto, gli USA sono impareggiabili. Nel 1994, parlando al Centro di Studi Strategici ed Internazionali, l’ex direttore della CIA James Woolsey disse che gli veniva sempre da sorridere quando le società gli dicevano che non avevano alcun bisogno dell’intelligence. La CIA li aveva già aiutati ad assicurarsi grossi contratti. E sembra alquanto verosimile, se si conosce bene questa materia. Quando i governi assegnano incarichi “economici” alle agenzie d’intelligence, viene naturale pensare che loro stesse sono oggetto di spionaggio sul proprio territorio, da parte di servizi speciali di paesi amici e non amici. 

Prospettive di libero scambio sullo sfondo dello scandalo delle intercettazioni 

Lo scandalo sollevato dalle recenti rivelazioni conferma che il fatto che i servizi speciali degli USA stessero spiando gli alleati Europei non è per niente una novità. La novità è che tutte le controversie di questo tipo in passato si svolgevano a porte chiuse. Ora è venuto tutto a galla. Nonostante tutte le velenose affermazioni rese pubblicamente da funzionari dell’Unione Europea e altri politici europei, non bisogna affatto aspettarsi alcun drastico cambiamento di rotta nei rapporti USA/EU. C’è una piccola possibilità che i colloqui sulla zona di libero scambio possano per ora essere annullati. Nella migliore delle ipotesi potranno essere rimandati di qualche settimana per far sbollire gli animi in Europa. E’ quello che alti funzionari francesi hanno proposto (i francesi hanno preso una posizione piuttosto dura sulla questione). Soprattutto la Germania si sente particolarmente umiliata dagli Anglo-Sassoni, sembra infatti essere il bersaglio primario degli sforzi di spionaggio della NSA. D’altro canto, la Germania è considerata la maggiore minaccia economica. Ciò è anche dimostrato dal fatto che la Germania è vista dagli Stati Uniti non come un paese alleato, ma come una nazione satellite. Angela Merkel, comunque, non sembra particolarmente infastidita: ha fatto sapere di non aver alcuna intenzione di abbandonare i colloqui e neanche di posporli. Alcuni media hanno insinuato che le rivelazioni di Snowden sullo spionaggio Americano sono parte di un deliberato tentativo da parte degli oppositori della “NATO Economica” di evitare la realizzazione della zona di libero scambio, o, perlomeno, di rallentarne la nascita. 

Bisogna dire che la vicenda ha fatto guadagnare agli Europei delle ottime carte, utili per guadagnare tempo e rafforzare le posizioni più deboli, in vista dei colloqui. C’è un’ampia varietà di argomenti all’ordine del giorno. Nessuno si aspetta di vedere l’accordo concluso entro un anno. Ci vorranno almeno due anni. E accadranno tante altre cose in questo tempo. Esempio: la seconda ondata della crisi economica e finanziaria che cambierà i rapporti di forza tra le parti. Secondo me, non possiamo fare alcuna previsione su come questi eventi influenzeranno l’esito dei colloqui USA/EU. 


Valentin Katasonov
Fonte: www.strategic-culture.org
Link: http://www.strategic-culture.org/news/2013/07/07/spying-scandal-and-prospects-for-economic-nato.html
7.07.2013

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63 

1) http://www.strategic-culture.org/news/2013/03/30/brics-new-geopolitical-model-and-russia-foreign-policy-priority.html
2) http://www.strategic-culture.org/news/2013/06/23/discord-mounting-in-the-european-union-i.html 
3) http://www.strategic-culture.org/news/2013/07/01/the-way-anglo-saxons-spy-on-germans.html




mercoledì 10 luglio 2013

L'Agenzia sarda nel dimenticatoio

A parole le forze politiche sono d'accordo, ma la legge rischia di restare nel cassetto 

L'Agenzia sarda nel dimenticatoio 

Sedda (Fiocco verde): «Basta meline, si porti la proposta in Aula»

A parole non c'è forza politica che non l'apprezzi. In concreto, l'Agenzia sarda delle Entrate è caduta nel dimenticatoio prima ancora di approdare in Consiglio. 


Lorenzo Piras




Franciscu Sedda




 SILENZIO
Il ribaltamento dei poteri di riscossione e gestione delle risorse dallo Stato alla Regione affascina per il messaggio sovranista che si porta appresso ma, nel contempo, incute timore. «Non siamo più disposti ad aspettare: si porti la proposta in Aula, altrimenti sarà la dimostrazione che questo Consiglio non crede proprio nella sovranità dei sardi», dice Franciscu Sedda, docente di Semiotica all'Università di Roma-Tor Vergata e presidente del Fiocco Verde, l'associazione che raccolse 31 mila firme a sostegno di una proposta di legge di iniziativa popolare che avrebbe dovuto garantire un passaggio di competenze rivoluzionario. «Si propone la riscossione diretta di tutti i tributi da parte della Regione». In sostanza - spiega Sedda - «diciamo allo Stato: noi ci occupiamo di raccogliere tutte le tasse prodotte in Sardegna. Poi sarà sempre la Regione a restituire allo Stato i tre decimi di Irpef, un decimo di Iva e di accise, circa 1,5 miliardi all'anno». Ancora più chiaro: «Intanto incameriamo i soldi, superiamo la fase delle Finanziarie varate in base a cifre presunte e gestiamo noi, subito, direttamente, gli 8 miliardi che derivano dai sette decimi di Irpef, dai nove decimi dell'Iva e delle accise». Tra gli interventi prospettati anche il superamento di Equitalia, e una riscossione «con aggi massimi del 3%, e non del 9% come oggi, con l'eliminazione degli interessi sugli interessi» e, inoltre, «la verifica e la dilazione dei 4 miliardi di debito delle imprese nei confronti dello Stato per evitare il crollo del sistema economico». Non potevano mancare «meccanismi di vantaggio in parti di territorio circoscritte e per periodi limitati così da attuare una forma embrionale di sovranità fiscale».

L'ACCUSA 
Fin qui la proposta di legge che nel giugno del 2012 è stata presentata, corredata da 26 mila firme, in Consiglio regionale. Tra ottobre e novembre c'è stato pure un passaggio in commissione Bilancio. Stop: «Forse per la Regione è più facile maneggiare e manipolare un tema come quello della Zona Franca in cui c'è un margine di discrezionalità ampio piuttosto che discutere una legge come quella del Fiocco verde che produrrebbe subito risultati concreti. Si parla di riduzione dell'Irpef senza la certezza dei sette decimi, sbandierati ma che lo Stato ci rende quando vuole. Con la proposta di legge siamo noi, nel caso, che rendiamo allo Stato. Fare propaganda è semplice: senza l'Agenzia è inutile discutere del resto».

LA SCOMMESSA 
Critica cui si associa Paolo Maninchedda, consigliere regionale sardista che ha sostenuto la proposta fin dal principio: «Perché è l'inversione da fare, il ribaltamento dei poteri che serve». Ancora Maninchedda: «Il problema del fisco in Sardegna è caratterizzato dall'imprecisione. Mi sono sempre pronunciato a favore della proposta perché è un tassello importante: il fatto che i sardi devono saper esigere e governare le proprie risorse non è un aspetto di politica fiscale ma è un progetto politico».

LA COMMISSIONE
 Per Pietrino Fois (Riformatori), presidente della commissione Bilancio, non esisterebbero freni da parte dei partiti: «Due mesi fa, dopo la ridefinizione dei lavori delle commissioni, era tra le prime tre proposte da discutere. Abbiamo dovuto soprassedere per via della Finanziaria e dei ritardi accumulati sulla legge elettorale».

PDL E PD 
Concetto ribadito da Pietro Pittalis, capogruppo del Pdl: «La Giunta aveva inserito la disposizione in Finanziaria, ma poi è stata stralciata come norma intrusa perché interveniva sull'organizzazione delle strutture regionali», osserva. «Siamo assolutamente d'accordo: è attuabile nella misura in cui si crei un ufficio che non erediti i vizi di Equitalia ma si ponga in un rapporto di dialogo e collaborazione con i cittadini». Giampaolo Diana, capogruppo del Pd, ricorda: «Abbiamo dato la disponibilità anche nei giorni scorsi ad andare in commissione per esitare la proposta e portarla in Consiglio quanto prima. Chiarisco però che dipende dalla maggioranza di centrodestra, anche in questo caso inconcludente e negligente, e non da noi, l'agenda del Consiglio e quella delle commissioni. Senz'altro la proposta entra nel merito della qualità del sistema di riscossione e valorizza il ruolo e la funzione della Regione anche in un tema così delicato».

LE PROSPETTIVE 
A remare contro l'Agenzia è però il tempo. Nonostante le dichiarazioni di circostanza, da qui a dopo l'estate il Consiglio avrà da lavorare su più fronti: la legge sugli enti locali, le norme urgenti sugli ammortizzatori sociali, la legge sulla Zona franca e poi la Finanziaria, che la Giunta si è ripromessa di presentare all'Aula a settembre. Poi sarà campagna elettorale. «Se c'è una volontà unanime siamo disposti a lavorare anche ad agosto», annuncia Pittalis. Quanti saranno d'accordo?

Lo spettro della democrazia


Lo spettro della democrazia

MARCO BASCETTA
Una analisi del paradosso egiziano tra militari, islamici e laici.
Intanto Mansour cerca di formare un nuovo governo: a guidarlo non sarà più El Baradei (nominato vicepresidente, quindi con un ruolo essenziale nella fase di transizione) ma l'ex-ministro delle finanze Hazem El Beblawi. Fra sei mesi le nuove elezioni. La Fratellanza Musulmana ancora in piazza per chiedere la liberazione di Morsi


L'Egitto è in pieno caos. Innumerevoli incognite incombono sull'immediato futuro del paese. Le nubi della guerra civile volano basse e minacciose. Bande armate scorazzano nel Sinai. I soldati sparano sulla folla e uccidono, le carceri si riempiono, l'esercito è l'arbitro e il centravanti della partita. Una infinità di incredibili paradossi si dispiegano sotto gli occhi del mondo. E tutti i nodi delle cosiddette primavere arabe sembrano venire al pettine nella forma più aspra e sanguinosa. Esattamente venti anni prima di questi eventi Bahgat Elnadi e Adel Rifaat , due sociologi di origine egiziana trapiantati in Francia dove pubblicano con lo pseudonimo comune di Mahmoud Hussein, scrivevano: "Nelle grandi capitali dell'emisfero sud, da qualche anno a questa parte la parola d'ordine della libertà mobilita folle numerose come quelle che, nel passato, solo la parola d'ordine dell'indipendenza aveva potuto radunare. E'in atto un cambio di priorità". Per aggiungere subito dopo: "E nondimeno, la democrazia resta, il più delle volte, tanto desiderata quanto irraggiungibile; tanto necessaria quanto fuori portata"( Versante sud della libertà, manifestolibri 1994).
Non vi è dubbio che da Tunisi al Cairo (ma anche in Libia e Siria dove tuttavia il dispositivo della guerra civile è stato attivo fin dall'origine) la domanda di libertà, (che non è sovrapponibile a quella di democrazia), sfociata poi nell'esercizio di un potere destituente, è stata il carburante della rivolta che ha portato alla cacciata di Ben Ali e di Mubarak. Libertà dall' arbitrio di uno stato-nazione che, persa da un pezzo la legittimità derivata dalla stagione delle indipendenze, soprattutto di fronte a una sterminata popolazione giovanile che non ne è stata partecipe e se ne sente infinitamente distante, si risolveva in un sistema di intollerabili privilegi e soprusi tanto ramificati da insidiare ogni aspetto della vita quotidiana di tutti e di ciascuno. Questo scontro frontale e per molti versi viscerale contro l'apparato disciplinare dello stato schierato in difesa dei privilegiati e sistematicamente dedito alla corruzione, presenta, a partire dalle sue forme spontanee, caotiche, perfino improvvisate, molti tratti di quello che potremmo definire un movimento antiautoritario, tanto più vigoroso, quanto più spessa e duratura era stata la cappa che soffocava la libertà dei singoli e soprattutto delle singole. E' la stessa caratteristica che ha segnato, in forma ancora più pura e accentuata, la ribellione turca contro lo "stato etico" in via di edificazione per mano di Erdogan, a colpi di leggi liberticide e precetti morali, seppure in un contesto di soddisfacente crescita economica.
Era inevitabile che questa specifica domanda di libertà entrasse rapidamente in rotta di collisione con la componente islamista delle ribellioni arabe la cui idea di libertà consisteva invece esclusivamente nella possibilità di organizzarsi politicamente alla luce del sole e nel rifiuto degli schemi politici e culturali di derivazione occidentale a cui contrapporre una morale pubblica e privata di stampo tradizionalista e comunitario. Ecco, dunque, il primo paradosso: sull'onda di un movimento antiautoritario viaggiano correnti e formazioni politiche ispirate da una visione autoritaria della politica e della società. E, democraticamente, vincono facendo leva sul disorientamento e su quel tessuto di solidarietà comunitarie e di consuetudini tradizionali che, se non lasciano spazio alcuno alle libertà individuali, consentono tuttavia alla massa degli esclusi dai circuiti economici e culturali della modernità di tirare a campare. Vincono, ma governare con l'ideologia e per l'ideologia non intacca i privilegi e non migliora le condizioni di vita. Gli islamisti non riescono a fare i conti con una società che si è fatta complessa anche negli strati più bassi, né a incarnare una presunta "anima proletaria" contro la presunta "anima borghese" della laicità. Il Corano non prevede la lotta di classe e la passione antimperialista è in evidente declino dopo aver fatto lungamente da alibi a governi corrotti e dittatoriali. Il trucco c'era e tutti lo hanno visto. Il fatto è che il contrasto tra il legame con la tradizione e l'aspirazione a un rinnovamento radicale non attraversa solo la società ma anche gli stessi individui che la compongono. E l'islam politico, anche il più accorto e moderato, non riesce a rinunciare a quel manicheismo che è nei suoi geni, accecato da una pretesa di coerenza fuori dalla storia e dalla vita reale degli individui. Così Erdogan e Morsi si ritrovano in piazza milioni di persone inferocite contro quella che considerano una "dittatura della maggioranza" uscita dalle urne. Impossibile imputare un simile movimento alla manipolazione eterodiretta o alla borghesia occidentalizzata. Lo schema dello scontro di civiltà frana rovinosamente.
E qui, almeno in Egitto, entra in scena il secondo paradosso. Il "movimento antiautoritario", la diffusa domanda di libertà, ricevono la protezione e l'appoggio della più autoritaria delle istituzioni: l'esercito, il quale la mette in atto nel modo che gli è più consono: sparando. Sulla natura dell'istituzione militare nei paesi postcoloniali, sui fattori che ne hanno determinato la superfetazione e l'invadenza nella vita politica ed economica e nelle relazioni internazionali si possono produrre diverse spiegazioni storiche. Certamente in alcuni paesi ha svolto una sua parte nel processo di modernizzazione accentuandone però i tratti tecnocratici e autoritari. Quel che è certo è che la domanda di libertà, nonché quella di una più equa distribuzione della ricchezza non possono che scontrarsi presto o tardi con il principio d'ordine, la struttura gerarchica e le strategie geopolitiche proprie dell'istituzione militare. Essendone schiacciate o spaccando l'unità dell'esercito con il rischio di scatenare la guerra civile. Vent'anni fa Elnadi e Rifaat la mettevano così: di fronte al fallimento dello stato-nazione postcoloniale, tra promesse disattese e politiche di "sviluppo" fallimentari e conservatrici, i movimenti "giungono a una alternativa fondamentale, a una scelta tra due possibili principi di coerenza: o il ritorno indietro o il salto in avanti, o il ristabilimento di un ordine fondato sui valori prenazionali della religione e del costume comunitario, o la ricerca di una modernità più radicale, di una democrazia più laica". Ma è esattamente su questa alternativa che si innestano tutti i paradossi, le contraddizioni, i vicoli ciechi, che gli eventi in corso mettono in luce. La domanda di libertà non riuscirà ad imporsi se non combinata con un elemento di classe, decisamente rivolto contro il potere e la ricchezza dei ceti dominanti nonché contro i diktat del Fondo monetario internazionale e degli altri creditori, e dunque capace di includere la vasta area della povertà. Altrimenti saranno la reazione sanfedista e il potere paternalista e autocratico che la governa ad avere la meglio, con la benedizione delle cancellerie e delle banche di tutto il mondo. E' una lezione antica, quella impartitaci da Vincenzo Cuoco nel suo amaro ma lucidissimo Saggio storico sulla rivoluzione partenopea del 1799.
La laicità può essere garantita da un esercito, perfino da un esercito straniero, la libertà, fatta eccezione per quella dei capitali, non può esserlo. Non è una differenza da poco. Ed è una partita che non si gioca necessariamente nel campo della democrazia parlamentare. I democratici (governi occidentali compresi) che festeggiano un golpe e i comunitaristi che agitano il feticcio della democrazia e del risultato elettorale sono l'esempio evidente della natura spettrale in cui lo schema democratico si dissolve e dell'attrito tra le sue regole formali e la realtà sociale cui pretende di applicarsi. Lo scontro di civiltà è stato inventato, alimentato e agito contro la lotta di classe. Sarebbe ora che quest'ultima, o le forme di conflitto sociale che ne raccolgono l'eredità, si prendessero la loro rivincita.

martedì 9 luglio 2013

Erdogan non cede alla piazza e allontana la Turchia dall'Europa

Erdogan non cede alla piazza e allontana la Turchia dall'Europa 
Il braccio di ferro con gli antigovernativi tiene in scacco il Paese 

di PAOLA PEDUZZI
www.unionesarda.it

L'uomo che sta fermo, in silenzio, in piedi, con le mani in tasca è diventato il nuovo simbolo della piazza turca. Attorno a lui si radunano altre persone, ferme anche loro, finché non diventano troppe e arriva la polizia a disperderle: neppure il silenzio è tollerato in questa Turchia spaccata a metà da una rivolta che non si placa. Ogni giorno ci sono decine di arresti e una prova di forza permanente da quando, alla fine di maggio, sono iniziate le proteste al parco Gezi, in piazza Taksim, che le autorità di Istanbul vogliono sostituire con un rifacimento della caserma Taksim, antico simbolo della cultura ottomana costruita all'inizio dell'Ottocento dal sultano Salimm III (la caserma in realtà era stata trasformata in uno stadio nel Novecento e poi rasa al suolo nel 1940: nel progetto odierno l'edificio ospiterà un centro commerciale). 
La riprogettazione in chiave ottomana della città più cosmopolita della Turchia è una delle ambizioni del premier, Recep Tayyip Erdogan, che di Istanbul è stato il sindaco prima di entrare nella politica nazionale (la città è tuttora guidata da un esponente del partito di governo, l'Akp, islamico moderato). 


IL PROBIZIONISMO

 L'assalto all'urbanistica di Istanbul è andata di pari passo con un'ingerenza del premier nella vita privata dei turchi: non si può fumare, non si può bere, non ci si può baciare in pubblico, si devono fare almeno tre figli e via dicendo. L'islamizzazione della Turchia che va avanti, strisciante ma decisa, da dieci anni, cioè da quando Erdogan è arrivato al potere nel 2003 (l'Akp ha poi vinto le legislative altre due volte alle elezioni), è uscita dalle università, dai centri di potere, dalle epurazioni nell'esercito e una volta che ha toccato la vita quotidiana dei turchi è diventata intollerabile. La piazza raccoglie questa insofferenza, che è più culturale che politica, e affonda le sue radici in una società gelosa delle sue istituzioni e del suo laicismo, in una regione sfinita dagli scontri religiosi. Erdogan è duro con questa protesta: ha iniziato definendo i manifestanti “çapulcu”, sciacalli, e quella parola la si sente ripetere - spesso inglesizzata - in tutti i ritornelli e gli slogan, come la deliziosa canzonetta “Ogni giorno I'm chapulling”. 

I RAID E GLI ARRESTI 

La polizia antiterrorismo da giorni fa raid nelle principali città del paese, soltanto ad Ankara ci sono stati quasi un migliaio di arresti, dopo che le autorità hanno annunciato che avrebbero trattato come terroristi chi continuava ad andare in piazza. «La caccia alle streghe è iniziata», dicono molti commentatori, ricordando che spesso i metodi di Erdogan nei confronti delle opposizioni - a cominciare da quella storica e importante, incarnata nell'esercito e nel kemalismo laico di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna - è stato così: una piccola ma costante vendetta contro chi dissente. In questo modo, già ora l'opposizione all'Akp è diventata quasi un fantasma dal punto di vista politico, e nell'esercito i kemalisti sono stati decimati.
La piazza - che s'è radunata sotto l'organizzazione Taksim Solidarity che rifiuta connotazioni politiche se non la natura anti Erdogan - ha chiesto il rilascio di tutti i cittadini arrestati, ma il governo come unica concessione ha proposto un referendum sulla sorte del parco Gezi. È evidente che Erdogan vuole ridurre la rivolta a una dimostrazione ambientalista in difesa di quattro alberi, usando poi i suoi metodi repressivi per mettere a tacere la voce, ben più articolata, della piazza. La violenza è equiparata: Erdogan ha aperto un'inchiesta sulla polizia (che sappiamo già come andrà a finire) ma ha anche detto che investigherà «uno per uno chi ha fatto provocazioni sui social media e chi ha fornito ogni genere di sostegno logistico alla piazza». 


LA VIOLENZA 

La violenza è però in gran parte usata dalle forze dell'ordine, con quei cannoni che sparano acqua sulla folla mista non si sa a che cosa, ma è una sostanza che toglie il respiro e brucia la pelle. 
La gestione della crisi ha mostrato la frattura all'interno del partito di governo che passa attraverso l'opposizione tra Erdogan e il presidente, Abdullah Gül. Il primo è per le maniere forti, il secondo per un dialogo con la piazza, ma non certo per ragioni umanitarie o illuminate: Gül non vuole ingaggiare uno scontro culturale così forte con metà del paese, soprattutto perché l'anno prossimo ci saranno le elezioni. Erdogan è invece elettoralmente aggressivo: dice che per tre volte ha vinto nelle urne e che se qualcuno non lo vuole lo buttasse fuori con il voto, perché sa di contare su una base di consenso forte per quanto invisibile in questi contesti di rivolta più urbani. Il premier vuole farsi eleggere presidente ed è popolare in molte parti del paese, soprattutto in Anatolia. Gül invece vuole annichilire le ambizioni presidenziali di Erdogan e per farlo usa la piazza, lasciando aperta la soluzione del dialogo e dell'ascolto di quel che i manifestanti dicono. Il suo portavoce è il vicepremier Bulent Arinc. È stato Arinc a costringere Erdogan a un incontro con i rappresentanti della piazza (finito ovviamente nel nulla) ed è stato sempre lui a dover puntualizzare le sue parole quando le agenzie di stampa hanno iniziato ad attribuirgli frasi sull'utilizzo dell'esercito imminente per disperdere le proteste. Non che Arinc non sia a favore dell'utilizzo dell'esercito - di una dittatura stiamo pur sempre parlando - ma lui, cioè Gül, gioca la parte del poliziotto buono. 


IL DIALOGO 

A sostenere la linea del dialogo è anche Fetullah Gülen, multimiliardario con residenza negli Stati Uniti che ha fondato la confraternita islamica Hizmet che controlla decine di moschee in Turchia e fuori ed è proprietario di un grande impero mediatico nel paese. L'Akp deve molta della sua fortuna ai buoni auspici di Gülen, soprattutto Erdogan, ma oggi pare che questo signore chiacchieratissimo e misterioso si sia schierato con Gül, dopo che ha dichiarato: «Questi manifestanti hanno alcune richieste intelligenti».
Nessuno sa dire al momento come si uscirà da questa crisi, e se Erdogan ne verrà fuori più forte (e autoritario) o irrimediabilmente indebolito. Le due anime della Turchia che si combattono in questo momento sono socialmente strutturate in modo identico, sono come due colossi che si scontrano senza faglie sui livelli di reddito o sui livelli culturali: per questo è difficile dire se vince l'intolleranza dei laici (che hanno il grave difetto di non riuscirsi a unire in modo forte: è il difetto di tutte le opposizioni laiche della regione medio orientale e la prima ragione del loro insuccesso) o l'autoritarismo di Erdogan. 
Quel che è certo è che i paesi stranieri non sanno come intervenire né - e questo è peggio - che esito augurarsi. Le Nazioni Unite sono preoccupate, l'Unione europea è preoccupata, gli Stati Uniti sono preoccupati: tutti si augurano che il premier rispetti quel patto simildemocratico che ha siglato con l'occidente con il suo islamismo moderato, ma non sanno che fare se Erdogan dovesse invece decidere di affidarsi più all'islamismo che alla moderazione. L'Unione europea ha grandi responsabilità sulla questione turca: da anni corteggia e scaccia Ankara dal suo consesso, alza le richieste cui la Turchia deve rispondere per poter accedere all'Ue (cosa in sé giusta) salvo poi spaccarsi ogni volta che c'è bisogno di un maggior impegno da parte dei paesi europei nel coinvolgimento della Turchia. L'Europa è molto divisa perché l'ingresso di un paese a maggioranza musulmana creerebbe non pochi problemi all'identità europea (per non parlare dei suoi elementi costituitivi sulle radici giudaico-cristiane), e come spesso accade nel nostro continente ha pensato non di trovare una road map accettabile ma di ignorare il problema.

 
VIA DALL'EUROPA 

Il risultato è che la Turchia si è gradualmente staccata dal suo sogno europeo, e oggi Erdogan è il primo a dire che dell'Europa non gli interessa più granché. Preferisce le sue avventure asiatiche, come quando Ankara si fece mediatrice unica della questione nucleare iraniana, con esiti catastrofici che ancora oggi Erdogan paga nei confronti della leadership di Teheran. Preferisce quel rapporto di timore e insolenza che la lega alla Russia, nonostante adesso la bilancia sembri sempre più pendere per i diktat di Mosca a tutto svantaggio della Turchia (ironia vuole che Erdogan sia spesso paragonato al presidente russo Vladimir Putin: stessa dittatura, stessi metodi, stesse ambizioni da leadership eterna).
La Turchia non guarda più l'Europa, ma questo non sarebbe nemmeno un grande problema (per molti anzi è un sollievo). Il problema ora è tutto per gli americani. Nonostante i tanti sberleffi, Ankara è un alleato della Nato posizionato in modo strategico sia per le risorse energetiche sia come punto d'appoggio (e ben oltre) nella gestione dei conflitti medio orientali. La Turchia è talmente importante che il presidente americano Barack Obama è riuscito a convincere il premier israeliano Benjamin Netanyahu a chiedere scusa a Erdogan per il blitz delle forze speciali di Gerusalemme contro una nave battente bandiera turca che faceva parte di una flottiglia diretta a Gaza (fine maggio del 2010, nove morti). Le relazioni israeliano-turche si erano congelate dopo quell'episodio, e anzi la retorica antisemita di Erdogan era diventata sfacciata, ma Obama ha dovuto chiedere a Netanyahu di chiudere un occhio: perdere la Turchia è troppo rischioso.
La guerra in Siria è il contesto più pericoloso in cui la strategicità della Turchia risulta palese: Erdogan chiede la fine del regime di Bashar el Assad da tanto tempo, ospita i rifugiati siriani e buona parte dell'opposizione alla quale garantisce armi e protezione (compresi i fondamentalisti di al Qaida e questo non sarà a costo zero per la stabilità del paese). Sempre in Turchia sono stati posizionati i Patriot contro Damasco, a dimostrazione dell'imprescindibilità di questo avamposto occidentale nel mezzo di quella regione. Come può ora l'America, che ancora non ha una strategia in Siria e anzi tenta in tutti i modi di trovare una soluzione negoziata (sarebbe meglio dire raffazzonata), perdere la Turchia? Non può.


GLI STATI UNITI 

E da Washington arriva molta preoccupazione ma anche la speranza che Erdogan non sia troppo duro e violento, o almeno che non lo faccia vedere: così si potrà continuare a stare alleati, e a delegare alla Turchia quello che l'America non sa e non vuole più fare in Siria. Almeno fino a quando non interverrà Putin.



domenica 7 luglio 2013

Nuovo piano UE: tutti i conti bancari Europei sono a rischio di prelievi forzosi in stile Cipriota

Nuovo piano UE: tutti i conti bancari Europei sono a rischio di prelievi forzosi in stile Cipriota
By Michael Snyder
tradutz de sadefenza
 Veramente credevate che non avrebbero usato il precedente creato ad arte e messo a segno a Cipro? Giovedì (27.06) i ministri delle finanze dell'UE hanno concordato un nuovo piano scioccante che renderà ogni conto corrente bancario in Europa vulnerabile, soggetto a prelievi forzosi  stile Cipro. 
In altre parole, la confisca dei risparmi a cui abbiamo assistito a Cipro sarà ora utilizzato come modello per i futuri fallimenti bancari in Europa. 
Questo significa che se si dispone di un conto corrente bancario in Europa, ci si può svegliare una mattina e scoprire che ogni centesimo  oltre i 100.000 € potrebbe essere scomparsi. Questo è esattamente quello che è successo a Cipro, e ora i funzionari dell'UE  programmano di rifare la stessa cosa in tutta Europa. Per un bel po 'i funzionari dell'UE hanno insistito che Cipro era un "caso speciale", ma ora vediamo chiaramente che era una bugia. 
Indignazione internazionale per quello che è successo a Cipro è scemata, e ora stanno portando avanti quello che probabilmente avevano già pianificato fin dall'inizio. Perché hanno scelto questo specifico momento di attuare un piano del genere? Stanno anticipando quel vedremo a breve: un'ondata di fallimenti bancari? Sanno qualcosa che non ci dicono?
Sorprendentemente, questo annuncio ha ricevuto poca attenzione dai media internazionali. Il fatto che la confisca dai conti correnti bancari entri a far parte  integrante del piano per salvare le banche europee in difficoltà avrebbe dovuto aver fatto notizia in tutto il mondo. 
 Ecco come la CNN ha descritto il piano ...
I Ministri delle finanze dell'Unione europea Giovedì hanno approvato un piano  per affrontare i futuri salvataggi delle banche, costringendo gli obbligazionisti e gli azionisti (bondholders) a farsi carico  dei salvataggi bancari prima dei contribuenti.
La nuova disposizione procedurale richiede che obbligazionisti, azionisti e grandi risparmiatori con più di 100.000 € di depositi, siano loro i primi a subire le perdite qualora le banche fallissero. I correntisti o risparmiatori con meno di 100.000 € saranno protetti.I fondi dei contribuenti saranno usati solo come ultima risorsa. 
Secondo questo nuovo piano, gli obbligazionisti saranno i primi a "contribuire" quando un salvataggio delle banche è necessario.
Vuoi immaginare cosa sta per accadere ai prezzi dei titoli bancari europei?
Gli azionisti della banca saranno i successivi a contribuire  quando sarà necessario un salvataggio bancario.
Dopo di che, si andrà a prelevare nei conti correnti che hanno più di 100.000 euro nei depositi bancari.
Funzionari UE dichiarano che un tale piano è necessario perché salvare le banche con i soldi dei contribuenti  stava creando troppi problemi ...
L'Unione europea ha speso l'equivalente di un terzo della sua produzione economica per salvare le banche tra il 2008 e il 2011, utilizzando denaro dei contribuenti, ma fatica a contenere la crisi e - nel caso dell'Irlanda - ha quasi mandato in bancarotta il paese.
 Il caso del  "salvataggio" di Cipro a marzo, ha scaricato le perdite sui depositanti risparmiatori,  ha segnato un approccio del fare più duro che può ora, a seguito all'accordo di Giovedì, può essere replicato altrove. 
Oh meraviglia delle meraviglie - la "soluzione cipriota" può ora essere "replicato" in tutta Europa.
Questo piano sarà ora sottoposto al Parlamento europeo per l'approvazione finale. L'obiettivo è di avere questo piano finalizzato entro la fine di quest'anno.
Se si dispone di un conto corrente bancario in Europa con oltre 100.000 euro ,  pensate seriamente cosa fare, se è il caso di portarli fuori adesso .
Non so come dirvelo in altro modo.
A Cipro, ci sono stati pensionati e le piccole imprese che hanno perso centinaia di migliaia di euro  dalla sera alla mattina.
Fate in modo che questo non accada a voi.

E senza dubbio a breve, nei prossimi anni,  vedremo fallire un sacco di banche in Europa. Ciò sarà particolarmente evidente quando si aprirà la prossima grande crisi finanziaria.
Ma anche se non siamo ancora entrati nella prossima grande crisi finanziaria, la depressione economica in Europa continua a peggiorare. Basta prendere in considerazione questi fatti ...
Vendite auto in Europa ha raggiunto il minimo in 20 anni .
-Nel complesso, il tasso di disoccupazione nella zona euro si è assestato al 12,2 per cento . Questo è un nuovo record storico.
-In Italia stanno chiudendo in media di 134 punti vendita al giorno . Nel complesso, dal 2008  hanno chiuso i battenti in Italia 224.000 imprese .
-Si prevede che l'Italia avrà bisogno di chiedere un piano di salvataggio UE entro 6 mesi .
La fiducia dei consumatori in Francia è sceso al minimo storico .
-Il tasso di disoccupazione in Francia è salito al 10,4 per cento . Che è il più alto in 15 anni.
- il  il 57 per cento di tutta la produzione economica in Francia dipende dal Governo.
-Nel mese di maggio, i prestiti delle famiglie in Europa è diminuita al ritmo più veloce degli ultimi 11 mesi .
-Durante il primo trimestre, il reddito disponibile nel Regno Unito è diminuito al ritmo più veloce degli ultimi 25 anni .
-Il tasso di disoccupazione in Spagna è previsto al 28,5 per cento per il prossimo anno.
-Solo pochi anni fa, la percentuale di crediti inesigibili in Spagna era sotto il 2 per cento. Ora si è assestata al 10,87 per cento .
-Il debito pubblico in Spagna è cresciuto del 19,1 per cento negli ultimi 12 mesi da solo.
-Il governo greco afferma che l'economia greca crollerà del 4,5 per cento quest'anno.
-E 'in fase di proiezione che il tasso di disoccupazione in Grecia salirà al 30 per cento nel 2014.
E di certo non aiuta il fatto che la Cina ha in sostanza dichiarato una guerra commerciale  all'Europa, un duro colpo per le sorti delle industrie europee in difficoltà.
Gli americani dovrebbero prestare attenzione a ciò che sta accadendo in Europa. I problemi economici paralizzanti che stanno dilagando in tutto il continente arriveranno anche qui.
E a un certo punto c'è una buona possibilità che vedremo lo stile di confisca  Cipriota in questo paese.
Quindi non mettere tutte le uova nello stesso paniere. E' bene frazionare le risorse in diverse posizioni. Questo rende molto più difficile di essere spazzati via tutti in una volta.
Ciò a cui stiamo assistendo oggi in Europa è un fatto senza precedenti nella storia moderna. 
Essi dichiarano aperta la caccia ai grandi depositi bancari. Alla fine, un sacco di persone in Europa perderà un sacco di soldi.
Assicuratevi di non essere tra loro.

sabato 6 luglio 2013

Zona franca, il fronte si unisce, Fiscalità di vantaggio? Ecco chi pagherebbe


Fiscalità di vantaggio? Ecco chi pagherebbe
Beniamino Moro
Tra i tanti equivoci da chiarire sulla richiesta di instaurare in Sardegna una zona franca integrale, dove far coesistere un insieme di agevolazioni di natura doganale e fiscale che, come sostengono i proponenti, abbiano l'effetto di aumentare la competitività dei nostri prodotti, di rilanciare i consumi e gli investimenti e di allargare la nostra base produttiva, c'è quello di chi paga il costo della fiscalità di vantaggio.

Gli incentivi fiscali, al contrario di quelli finanziari (contributi a fondo perduto e finanziamenti a tasso agevolato) sono un'arma potentissima di sviluppo economico regionale usata in tutta l'Europa. Negli ultimi 25-30 anni, si è assistito a una concorrenza fiscale senza precedenti, con aliquote al ribasso nella tassazione dei profitti d'impresa derivanti da nuovi investimenti. L'Irlanda, ad esempio, con la fiscalità di vantaggio a favore delle nuove imprese che andavano a localizzarsi nel suo territorio, è passata da un Pil pro-capite che negli anni '80 viaggiava, come quello della Sardegna, tra il 70-75% della media europea a un valore che alla vigilia della crisi finanziaria è arrivato intorno al 130%. Mentre la Sardegna è rimasta al palo. È dentro questo filone di pensiero della concorrenza fiscale utilizzata per promuovere lo sviluppo economico delle Regioni in ritardo di sviluppo che il legislatore ha inserito la fiscalità di vantaggio nella legge 42/2009 sul federalismo fiscale.

Per essere applicata nelle Regioni a Statuto speciale, la legge prevede che queste debbano concordare con lo Stato delle norme di attuazione, che adeguino i loro Statuti di autonomia alle previsioni normative della stessa legge 42. Il Trentino-Alto Adige, nella legge finanziaria del 2010, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta, nel 2011, hanno concordato con lo Stato le norme di attuazione dei rispettivi Statuti, con l'inclusione al loro interno della fiscalità di vantaggio. La norma che al riguardo si ripete più o meno identica in entrambe le leggi finanziarie è che la Regione o le Province autonome, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne preveda la possibilità, possono in ogni caso modificare aliquote e prevedere esenzioni e deduzioni, purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale. Più o meno, si tratta dello stesso contenuto della recente Risoluzione della Commissione Autonomia dell'Assemblea sarda che invita la giunta a formulare al governo una proposta di legge che attribuisca alla Regione la potestà di modificare aliquote, prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni sui tributi erariali di spettanza della stessa Regione.

Peraltro, nella sostanza, lo Statuto sardo già contiene all'articolo 10 una norma che attribuisce alla Regione, al fine di favorire lo sviluppo economico dell'Isola, la facoltà di disporre, nei limiti della propria competenza tributaria, esenzioni e agevolazioni fiscali per nuove imprese. Perciò, quando si rivendica nei confronti dello Stato l'immediata costituzione in Sardegna di una zona franca integrale, di che cosa si sta parlando in realtà? Il tavolo tecnico Stato-Regione è senz'altro la sede idonea per specificare nel dettaglio le norme di attuazione della legge 42/2009 che richiedano modifiche dello Statuto regionale, ma sul punto specifico della fiscalità di vantaggio non si scorgono potenziali conflitti con lo Stato, posto che questa misura è prevista dalla stessa legge 42 e coincide con una norma già contenuta nel nostro Statuto di autonomia. Sul fatto cioè che la Regione, nell'uso delle proprie risorse finanziarie, possa gestire a suo piacimento tutte le forme di fiscalità di vantaggio che ritiene opportune, come peraltro ha già fatto con l'Irap, non mi pare che ci siano dubbi, sempre che formalmente segua la strada corretta dell'accordo con lo Stato. Anzi, sarebbe un modo appropriato di gestire le risorse regionali, invece di sprecarle con le attuali pratiche clientelari. Ma la Regione è pronta a pagare per la fiscalità di vantaggio?


Zona franca, il fronte si unisce
Lo. Pi.
Prima lo scontro, poi la condivisione. La maggioranza ritira un ordine del giorno, le quattro mozioni vengono votate all'unanimità, e il Consiglio ritrova l'unità sulla possibilità di approvare, con procedura d'urgenza, una legge che fissi le regole per l'attuazione della Zona franca sarda. I comitati, intervenuti con le bandiere sotto i portici del Palazzo, sperano che sia la volta buona.

LE QUATTRO MOZIONI 

Le mozioni presentate da Giampaolo Diana per il Pd, da Franco Mula per i Riformatori, da Claudia Zuncheddu per Sardigna libera e da Efisio Arbau per La Base - seppur nelle diversità - impegnano il presidente della Regione a farsi garante con lo Stato per il rispetto del decreto legislativo 75 del 1998, che prevede l'attivazione di punti franchi in sei porti sardi e nelle aree industriali contigue, attraverso una deroga della presidenza del Consiglio. 

L'ASPETTO SALIENTE 

Ma l'aspetto politico saliente è che ci sono l'accordo di tutte le forze politiche a discutere con procedura d'urgenza due proposte (a firma di Gianvalerio Sanna del Pd e di Giacomo Sanna del Psd'Az) e l'impegno di esitare una legge che diventerà la proposta dell'assemblea per l'attuazione della Zona franca. Che tutti vogliano le agevolazioni fiscali è assodato. Anche se, per dirla con le parole del consigliere Pd Chicco Porcu, «non si capisce se la maggioranza persegua quella doganale fiscale o quella integrale». 

IL GOVERNATORE 

Zona franca che, per il presidente della Regione Ugo Cappellacci, si ottiene facendo leva su due strumenti normativi: l'articolo 164 del trattato europeo che parla di coesione sociale e territoriale e la legge 42 sulla riforma federale che prevede politiche fiscali di vantaggio per l'insularità. In aula ha lanciato un appello a Renato Soru: «Venga con me, a Roma e in Europa, come il centrodestra fece per la Vertenza entrate». E poi: «Sono pronto a fare un passo indietro, se il problema sono io, così come dice il segretario regionale del Pd, Silvio Lai. Costituiamo un Comitato per il bene della Sardegna». In serata il governatore dirà: «Il pronunciamento unanime è un segnale positivo. L'auspicio è che sia il punto di partenza di un'azione condivisa. Quella per la zona franca è una battaglia che non appartiene a un solo esponente politico, a una fazione piuttosto che un'altra, a un singolo territorio o a un'unica categoria». 

L'OPPOSIZIONE 

Per Giampaolo Diana, autore di una delle quattro mozioni, «nel suo intervento Cappellacci ha dimostrato di non sapere come realizzare la Zona franca. Il fatto che la maggioranza abbia ritirato un ordine del giorno a sostegno del governatore la dice lunga». Ma Pietro Pittalis, capogruppo del Pdl, replica: «L'abbiamo ritirato anche per non dare alibi al Pd e al Psd'Az». Nel merito Diana ha aggiunto: «Le forze politiche devono provare a completare un progetto che, attraverso la fiscalità di vantaggio, metta le imprese nella condizione di scaricare costi del lavoro importanti per allargare la base lavorativa». Insoddisfatta dell'intervento di Cappellacci anche Claudia Zuncheddu mentre Franco Mula ed Efisio Arbau hanno constatato «le distanze tra il Consiglio e l'esterno» e, soprattutto Mula, «il fatto che gli amministratori dei Comuni siano più avanti». 

POLEMICA 

Gianvalerio Sanna a Cappellacci ha chiesto spiegazioni sulle indiscrezioni relative «a un uso dell'autista per scopi privati e sul personale estraneo alla missione». Replica del portavoce del governatore: «Il presidente utilizza l'auto privata anche per le occasioni istituzionali e durante i suoi spostamenti viene accompagnato da due agenti di pubblica sicurezza. Inoltre la Giunta ha ridotto, dimezzandole, anche le auto lasciate in eredità dall'ex assessore Sanna ai Gabinetti della Regione». Silvio Lai, invece, attacca sulla Zona franca: «Se vuole davvero un fronte comune deve fare ben più di un passo indietro e smetterla di fare promesse inattuabili». Anche perché è «un re Mida al contrario».

REAZIONI 

In serata è intervenuta l'europarlamentare Pd Francesca Barracciu. Soddisfatta «per la decisione del Consiglio di procedere speditamente nell'esame delle proposte di legge». Quindi il leader Psd'Az Giacomo Sanna: «Ritengo che l'approvazione di un testo condiviso rappresenti una straordinaria occasione per fare chiarezza sull'istituzione del regime franco e serva a certificare l'unità del popolo sardo su una battaglia storica». Battaglia su cui interviene Felicetto Contu (Udc), che fa ammenda del passato e poi dice: «Quando una bandiera c'è, si prende». 

«F35: nessun veto, Presidente Napolitano»

SA DEFENZA E' CONTRO L'ACQUISTO DEGLI F35 ,  PERCHE' E' STRUMENTO DI MORTE, INOLTRE E' INACCETTABILE COMPRARE AGGEGGI TECNOLOGICI COSI' COSTOSI MENTRE IL POPOLO SOFFRE E GEME PER LA CRISI INVENTATA DALLE BANCHE E DALLE ELITE PRIVATE!


LA REPLICA. Il deputato del Pd risponde al Capo dello Stato sull'acquisto degli aerei
«F35: nessun veto, Presidente»
Scanu a Napolitano: il Parlamento è sovrano per legge

di Augusto Ditel
unionesarda.it
Gian Piero Scanu

Al solo sentir parlare di diktat (posti o subìti), Gian Piero Scanu s'irrigidisce. Democristiano di lungo corso, rischia di beccarsi l'orticaria, così, in assoluto. Figuriamoci se la materia del contendere - attualissima, addirittura rovente negli ultimi giorni - è una spesuccia di 20 miliardi per l'acquisto degli aerei F35. 


I toni del deputato Pd non si smorzano anche se l'accusa del (presunto) veto posto dal Parlamento nei confronti del Governo è arrivata dal Capo dello Stato. «Ma quale veto e veto - manda a dire, con veemenza, a Giorgio Napolitano, l'autore della mozione che ha deciso lo slittamento di ogni decisione sulla quantità dei cacciabombardieri da ordinare alla Lockheed -: è solo l'esercizio della propria sovranità».

Un po' di rispetto, onorevole Scanu.

«Non ho offeso nessuno. Mi sono semplicemente riferito a una legge dello Stato, la 244 del 2012, che assegna al Parlamento (articolo 4) il compito di stabilire di quanti e quali strumenti d'arma si debba dotare il Paese».

Aerei, ma non solo.

«Certo. Aerei, ma anche navi, carri armati... Siamo di fronte a una vera e propria riforma da attuare in sinergia con il Governo, al quale Camera e Senato diranno cosa deve fare, al termine di un'indagine conoscitiva coordinata dalla commissione Difesa della Camera di cui faccio parte come capogruppo del mio partito».
Che ormai è spaccato.

«Rammento che il Pd ha votato all'unanimità la mozione, e mi auguro che mantenga la sua compattezza. Certo, oggi qualcuno storce il naso solo perché è intervenuto il Presidente della Repubblica, che è pur sempre il Capo delle Forze Armate. Ma Napolitano sa bene che il Consiglio Superiore di Difesa, composto da sette ministri, non ha il potere di modificare una legge. Anch'io del resto ho detto la mia dopo la presa di posizione del Csd, in quanto errata».

Sempre i soliti: quando non c'è accordo, si rinvia.

«È un'accusa ingenerosa e capziosa, questa, figlia di un'opposizione che si muove all'insegna dello sconsiderato “tanto peggio tanto meglio”. Eppoi, contesto nel merito il fatto che si sia trattato di un rinvio. È stato un blocco. Di fatto abbiamo ordinato all'esecutivo di non procedere all'acquisizione di alcuno strumento d'armi fino a quando il Parlamento non ultimerà il suo lavoro».

Cioè quando?

«La tempistica è già ben definita. Entro dicembre si riunirà il Consiglio d'Europa (è stato già convocato) al quale spetta il compito di fissare la politica comunitaria su Sicurezza e Difesa. A gennaio 2014 avremo un'idea precisa di come sviluppare l'attività di Difesa. Insomma, bisognerà attendere l'esito della due diligence , poi arriveranno le decisioni».

Quanti F35 sono stati già acquistati?

«A saperlo... C'è chi dice tre, chi sette, chi dieci. Anche questo, come ho avuto modo di stigmatizzare in sede di dichiarazione di voto alla Camera, è un paradosso inaccettabile: non siamo in grado di conoscere il numero esatto degli aerei. Sembra incredibile, ma è proprio così».

Quanto costa un F35?

«A saperlo... Nessuno sa indicare una cifra esatta, ma c'è una spiegazione: a differenza di altri Paesi, l'Italia ha acquistato i prototipi, che notoriamente sono più costosi. Un altro erroraccio».

Quanto sarebbe la spesa totale?

«Per queste ragioni, non lo so indicare, ma comunque siamo nell'ordine di una ventina di miliardi. Del resto, stiamo impiegando un paio di mesi per evitare l'aumento di un punto dell'Iva, e non possiamo utilizzarne qualcosa di più per gli F35? Siccome le armi non sono giocattoli, prima di spendere questa montagna di soldi, bisogna pensarci non una, ma mille volte».

Meglio costruire asili.

«Un'altra sciocchezza contenuta nella mozione dell'opposizione. Chi sa di amministrazione pubblica, non dice queste castronerie. Una somma destinata a qualcosa di specifico, stabilito per legge, non può essere trasferita sic et simpliciter , con un colpo di bacchetta magica, in un altro capitolo di spesa. L'ennesimo esempio di demagogia».

Un passo indietro: la prima ipotesi era di acquistare 131 aerei.

«È corretto».

Poi, il ministro Giampaolo Di Paola scese a 90.

«Giusto. Oggi però sarebbe sbagliato anticipare qualsiasi quantità per le ragioni illustrate poco fa».

Ma questi 90 mezzi sono stati già ordinati?«Lo escludo nella maniera assoluta. Nessun ordine, nessun impegno, nessuna penale in caso di rinuncia. Chi afferma il contrario, mente sapendo di mentire».


Questo lo dice lei.«No, è nei fatti: altrimenti il ministro Di Paola non avrebbe potuto passare in una notte da 131 a 90».


Si dice che gli F35 non siano esenti da difetti, e che non generino molti posti di lavoro.

«L'indagine conoscitiva dovrà analizzare anche questi aspetti non secondari. Potrebbe accadere, ad esempio, che l'acquisto dei mezzi aerei sia più opportuno farlo rivolgendosi al Consorzio Europeo di cui l'Italia fa parte, e non agli Usa. D'altronde sarebbe auspicabile tendere al massimo dell'efficacia e a un'omogeneità dei mezzi di difesa a livello europeo. Così come dovrà essere dimostrato, e soprattutto quantificato, il ritorno in termini occupazionali dell'una e dell'altra opzione».

L'industria militare comunque è una risorsa.

«Non solo lo sottoscrivo, ma aggiungo che non va mandata a fondo. L'Italia però deve procedere con prudenza estrema, perché la materia è estremamente delicata oltreché assai costosa. La Difesa di un Paese è un valore prezioso».

L'articolo 11 della Costituzione però ci ricorda che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa...

«Già. È bene ricordarlo».



► Potrebbe interessare anche: