Il premier britannico: tassare le transazioni finanziarie
Paolo Gerbaudo
ilmanifesto.it
«Non è accettabile che i benefici del successo siano raccolti da pochi mentre i costi del fallimento vengono pagati da tutti». Intervenendo di fronte ai ministri delle finanze e ai governatori delle banche centrali dei paesi G-20, riuniti a Saint Andrew in Scozia - «patria del golf» e parte del suo collegio elettorale - il primo ministro britannico Gordon Brown ha proposto la creazione di un fondo globale per il salvataggio delle banche, finanziato da una tassa sulla finanza internazionale simile alla Tobin Tax. Ma la proposta di Brown è stata subito silurata dagli altri partecipanti al summit, con il segretario Usa al tesoro Timothy Geithner che ha risposto ruvidamente che il provvedimento «non è una cosa che siamo disponibili a sostenere». Contrario anche il ministro dell'economia Giulio Tremonti, che ha sostenuto che «gli speculatori bisogna fermarli prima, non tassarli dopo».
Nell'ennesimo incontro targato G20 in un 2009 segnato dal tentativo di evitare che la crisi finanziaria si tramuti in una depressione duratura dell'economia globale, la discussione si è concentrata sulle prospettive di recupero accarezzate da alcune economie tra cui l'Italia a dispetto di una disoccupazione galoppante e sulle misure da prendere per garantire quella «crescita sostenuta e sostenibile» di cui si è tanto parlato al vertice G20 di Pittsburgh del settembre scorso.
Brown che ha provato a rivestire i panni di architetto del nuovo sistema finanziario internazionale, che aveva rivendicato nell'aprile scorso al vertice di Londra, ha avvertito che si è «a metà del cammino sulla strada del recupero» e che superata la fase di emergenza acuta è necessaria «una exit strategy dalla crisi» in cui sarà necessario affrontare la «crisi di legittimità del sistema finanziario internazionale» che «ha perso credibilità» dopo il crollo delle borse del settembre 2008.
Il primo ministro britannico ha incentrato il suo discorso sulla necessità di «un nuovo contratto sociale ed economico tra il sistema finanziario e i cittadini».
Obiettivo evitare che in futuro siano di nuovo i contribuenti a dover sborsare i soldi per evitare il collasso dei giganti della finanza. Il fondo globale di salvataggio delle banche proposto a questo scopo, potrebbe essere finanziato secondo Brown in diversi modi, tra cui con l'erogazione da parte delle banche di contributi assicurativi per coprire i rischi del mercato finanziario, oppure attraverso un'imposta globale sulle transazioni finanziarie, che ricorda la Tobin Tax, chiesta in anni recenti da Attac ed altri gruppi altermondialisti.
La proposta del primo ministro è stata accolta positivamente da sindacati e organizzazioni non governative che hanno manifestato vicino al luogo del summit. La Ong britannica Oxfam ha affermato per bocca di un suo portavoce che «per i banchieri sta per arrivare il conto» e ha chiesto che parte del fondo globale sia destinata alle popolazioni dei paesi in via di sviluppo.
Se la proposta di un piano di copertura dei rischi del sistema finanziario internazionale è stata respinta in coro dagli altri paesi del G20, a consolare Brown ci sono un impegno formale del G20 di puntare ad un accordo ambizioso al vertice Onu sul clima a Copenhagen, e la continuazione del «piano di stimolo» da mille miliardi di dollari varato nell'aprile scorso durante il G20 di Londra, nonostante la perplessità di alcuni paesi tra cui Stati Uniti e Germania.
Così anche questa volta della tanto discussa riforma del sistema finanziario globale non si è visto niente. Se le discussioni su un limite agli stipendi dei manager delle banche agitati da Sarkozy al G20 di Pittsburgh si erano tradotte in un nulla di fatto, in questa occasione la stessa sorte è toccata al piano di salvataggio globale proposto da Brown, ansioso di presentarsi come il fautore di una riforma sociale dei mercati globali, ma poco disposto ad accettare un regolamentazione robusta del mercato finanziario voluto da paesi come Germania e Francia ma di cui i broker della City di Londra non vogliono sentir parlare.
lunedì 9 novembre 2009
domenica 1 novembre 2009
Bambino by Alda Merini
Bambino, se trovi l'aquilone della tua fantasia
legalo con l'intelligenza del cuore.
Vedrai sorgere giardini incantati
e tua madre diventerà una pianta
che ti coprirà con le sue foglie.
Fa delle tue mani due bianche colombe
che portino la pace ovunque
e l'ordine delle cose.
Ma prima di imparare a scrivere
guardati nell'acqua del sentimento.
Alda Merini
sabato 31 ottobre 2009
La stele di Nora rivela: sant'Efisio divinità nuragica
CARLO FIGARI
unionesarda.sr
Sant'Efisio non è un martire cristiano, ma il figlio di Jahu/Jahwé, una divinità millenaria adorata dai popoli nuragici simile al Dio degli ebrei. In scrittura semitica viene riportato come Lefe/is-y (le vocali sono incerte perché non venivano scritte) e nel tempo il nome si è tramandato passando da una civiltà religiosa all'altra. Sino all'epoca romana quando Lefe/is-y è diventato il guerriero cristiano Efisio, il santo ancor oggi venerato dai cagliaritani e in tutta l'Isola. È quanto sostiene, in estrema sintesi, uno studioso oristanese che fa risalire le origini nuragiche del nome e del personaggio di Efisio all'epigrafe della stele di Nora, uno dei reperti più importanti e famosi del museo nazionale archeologico di Cagliari. Non è un caso che l'Efisio romano fu martirizzato proprio a Nora, nella zona dove nel 1773 venne trovata la stele con un'iscrizione fenicia sino a oggi ritenuta il documento scritto più antico della storia occidentale. Ma anche questo caposaldo dell'archeologia sarda rischia di essere demolito, insieme al mito di sant'Efisio, dalle clamorose rivelazioni di Gigi Sanna, già noto per le battaglie sull'esistenza di una lingua scritta usata dai popoli dei nuraghi. Ex docente di lingua e letteratura latina e greca, ora insegnante di storia della Chiesa antica presso l'istituto di Scienze religiose di Oristano, ha raccolto le sue tesi in un libro di 250 pagine "La stele di Nora. Il Dio, il Dono, il Santo" (edizioni Ptm) che oggi alle 18 verrà presentato nella sala consiliare del Municipio oristanese.
NUOVO LIBRO Già si annuncia come una bomba, con effetti deflagranti per il
mondo culturale sardo e per gli studiosi di antichità. Gigi Sanna non è nuovo ai clamori delle sue ricerche, spesso duramente criticate e qualche volta persino sbeffeggiate da chi non aveva argomenti validi da opporre. Due anni fa, per avvalorare quanto da tempo va affermando con saggi e convegni, venne in Sardegna Remo Mugnaioni, docente francese dell'università di Lyon, assiriologo di fama mondiale. Questa volta dalla sua ha altri due studiosi di spicco quali Aba Losi, docente di fisica dell'università di Parma e il vice rettore dell'università Pontificia di Cagliari, Antonio Pinna, noto biblista ed esperto di antico ebraico. Entrambi da tempo seguono gli sviluppi degli studi sulla stele e oggi ne discuteranno durante l'incontro in Comune.
Una vicenda complessa, questa delle stele, che potrebbe aprire nuove strade sullo studio della lingua dei cosiddetti nuragici. «Ormai non ho più alcun dubbio che avessero anche una loro lingua scritta» dice Sanna: «Le prove? Sinora ho classificato come nuragici 52 documenti con iscrizioni riportate prevalentemente su pietre, su cocci, su bronzo, come quelle stupende di Tzricotu di Cabras. Tutti documenti scritti con caratteri di alfabeti consonantici semitici. Tra questi documenti nuragici ora può essere inserito il monumento di Nora che, anche sulla base di una rilettura dell'alfabeto fenicio arcaico o protocananeo, contiene una straordinaria scritta con significati solo ieri del tutto inimmaginabili».
LA TRADIZIONE Per l'archeologia ufficiale la stele è scritta in lingua fenicia ed è ritenuta l'iscrizione più antica rinvenuta nell'isola e nel Mediterraneo occidentale. Ricavata da un blocco di pietra fu trovata in un muretto a secco vicino a una chiesa di Pula, il paese che trae origine dall'antica città di Nora fondata dai fenici. Secondo l'interpretazione più nota, l'epigrafe - che si fa risalire al nono/ottavo secolo - riporterebbe la parola b-srdn , cioè «in Sardegna», la prima citazione dell'isola che si conosca. Per alcuni studiosi, invece, la sequenza alfabetica srdn della terza linea farebbe riferimento agli Shardana, che probabilmente vivevano in Sardegna nel'età del bronzo e che facevano parte della coalizione dei "popoli del mare". Guerrieri e navigatori che combatterono anche come mercenari nell'Egitto dei faraoni. Nell'epigrafe si legge all'inizio un'altra parola: b-trss , «in Tartesso», toponimo misterioso dell'antichità citato più volte nella Bibbia.
LE NOVITÀ Ebbene Gigi Sanna spazza via tutto questo: «Intanto non è il più antico documento perché una quarantina di quelli da me studiati e pubblicati sono, per tipologia alfabetica, antecedenti al fenicio arcaico della stele. Inoltre la stessa stele, a mio parere, ha una datazione più alta di quella seguita dai più, riconducibile al 1100 -1000 avanti Cristo». Ma la vera scoperta di Sanna sarebbe un' altra: «L'epigrafe - spiega - non è fenicia, ma nuragica, caratterizzata dalla presenza di una lingua prevalentemente semitica riportata con caratteri di tipologia semitica. Il documento attesta in tutta chiarezza che i costruttori dei nuraghi parlavano anche una lingua semitica e la scrivevano utilizzando, nell'occasione, l'alfabeto fenicio arcaico».
Per lo studioso oristanese b-srd non vuol dire affatto «in Sardegna»: mettendo al giusto posto della sequenza la consonante della linea precedente si ottiene «aba shardan», che vuol dire «padre signore giudice». Le altre parole che precedono «aba shardan», cioè b-trss e w grs sono invece due toponomi sardi uniti dalla congiunzione "e": il primo è il nome di Tharros e l'altro quello di Corras/Cornus.
I DUE ESPERTI Ma non è tutto. La studiosa Aba Losi , con un'osservazione tipica del matematico, ha individuato la ripetitività di tre precise lettere in simmetria, con andamento alto-basso e basso-alto nelle parti laterali dell'epigrafe. «Da lì - afferma Sanna - a concludere che esistesse una seconda lettura "a cornice" della stele il passo è stato breve. Come breve è stato scoprire anche una terza lettura, stavolta centrale, con l'andamento delle lettere in forma di un serpente, uno dei simboli più forti e ricorrenti, insieme al numero tre, nelle iscrizioni di natura religiosa nuragica», sottolinea lo studioso: «Bisogna considerare che gli scribi nuragici si esprimevano con scrittura "a rebus", traducibile evidentemente solo da chi possedeva la complessa chiave di lettura del codice espressivo». Sino a pochi decenni fa gli storici sostenevano che i sardi non avevano una loro scrittura, ma si servivano volta per volta di quella altrui. La stele - chiaramente un monumento religioso a forma fallica (simbolo della potenza creatrice della divinità) - è dedicata al «dio padre giudice signore» ed è un'offerta dei Norani ( mlkt nrns).
LUNGA VITA Questa stele ebbe vita lunghissima a Nora in quanto fu leggibile sino al momento in cui i caratteri fenici furono usati in Sardegna e la lingua semitica compresa se non da tutta, da una parte delle popolazioni residenti. «Non si dimentichi - scrive Sanna nel libro - che la Sardegna mantenne caratteri alfabetici fenici cosiddetti neopunici e ovviamente la parlata semitica sino al terzo secolo dopo Cristo. È presumibile che con l'avvento del Cristianesimo e con l'affermarsi dei caratteri alfabetici romani, che soppiantarono quelli semitici, l'oggetto di culto degli abitanti di Nora cominciò a perdere d' importanza e significato, anche perché sostituito da qualche altro simbolo monumentale per il santo Lefe/is-y. Questo è infatti il nome "incredibile" che si legge alla fine della stele: "Lefe/isy bn ngr" . Nome che, nella lingua parlata locale, da Santu Lefe/isy, per indebolimento della consonante liquida (la elle), diventò Sant' Efisy (poi Efisio). Efisy figlio di ngr, ma anche "figlio del dio padre" aba -shardan, da celebre santo pagano, col tempo, passò pari pari alla venerazione cristiana».
unionesarda.sr
Sant'Efisio non è un martire cristiano, ma il figlio di Jahu/Jahwé, una divinità millenaria adorata dai popoli nuragici simile al Dio degli ebrei. In scrittura semitica viene riportato come Lefe/is-y (le vocali sono incerte perché non venivano scritte) e nel tempo il nome si è tramandato passando da una civiltà religiosa all'altra. Sino all'epoca romana quando Lefe/is-y è diventato il guerriero cristiano Efisio, il santo ancor oggi venerato dai cagliaritani e in tutta l'Isola. È quanto sostiene, in estrema sintesi, uno studioso oristanese che fa risalire le origini nuragiche del nome e del personaggio di Efisio all'epigrafe della stele di Nora, uno dei reperti più importanti e famosi del museo nazionale archeologico di Cagliari. Non è un caso che l'Efisio romano fu martirizzato proprio a Nora, nella zona dove nel 1773 venne trovata la stele con un'iscrizione fenicia sino a oggi ritenuta il documento scritto più antico della storia occidentale. Ma anche questo caposaldo dell'archeologia sarda rischia di essere demolito, insieme al mito di sant'Efisio, dalle clamorose rivelazioni di Gigi Sanna, già noto per le battaglie sull'esistenza di una lingua scritta usata dai popoli dei nuraghi. Ex docente di lingua e letteratura latina e greca, ora insegnante di storia della Chiesa antica presso l'istituto di Scienze religiose di Oristano, ha raccolto le sue tesi in un libro di 250 pagine "La stele di Nora. Il Dio, il Dono, il Santo" (edizioni Ptm) che oggi alle 18 verrà presentato nella sala consiliare del Municipio oristanese.
NUOVO LIBRO Già si annuncia come una bomba, con effetti deflagranti per il
mondo culturale sardo e per gli studiosi di antichità. Gigi Sanna non è nuovo ai clamori delle sue ricerche, spesso duramente criticate e qualche volta persino sbeffeggiate da chi non aveva argomenti validi da opporre. Due anni fa, per avvalorare quanto da tempo va affermando con saggi e convegni, venne in Sardegna Remo Mugnaioni, docente francese dell'università di Lyon, assiriologo di fama mondiale. Questa volta dalla sua ha altri due studiosi di spicco quali Aba Losi, docente di fisica dell'università di Parma e il vice rettore dell'università Pontificia di Cagliari, Antonio Pinna, noto biblista ed esperto di antico ebraico. Entrambi da tempo seguono gli sviluppi degli studi sulla stele e oggi ne discuteranno durante l'incontro in Comune.
Una vicenda complessa, questa delle stele, che potrebbe aprire nuove strade sullo studio della lingua dei cosiddetti nuragici. «Ormai non ho più alcun dubbio che avessero anche una loro lingua scritta» dice Sanna: «Le prove? Sinora ho classificato come nuragici 52 documenti con iscrizioni riportate prevalentemente su pietre, su cocci, su bronzo, come quelle stupende di Tzricotu di Cabras. Tutti documenti scritti con caratteri di alfabeti consonantici semitici. Tra questi documenti nuragici ora può essere inserito il monumento di Nora che, anche sulla base di una rilettura dell'alfabeto fenicio arcaico o protocananeo, contiene una straordinaria scritta con significati solo ieri del tutto inimmaginabili».
LA TRADIZIONE Per l'archeologia ufficiale la stele è scritta in lingua fenicia ed è ritenuta l'iscrizione più antica rinvenuta nell'isola e nel Mediterraneo occidentale. Ricavata da un blocco di pietra fu trovata in un muretto a secco vicino a una chiesa di Pula, il paese che trae origine dall'antica città di Nora fondata dai fenici. Secondo l'interpretazione più nota, l'epigrafe - che si fa risalire al nono/ottavo secolo - riporterebbe la parola b-srdn , cioè «in Sardegna», la prima citazione dell'isola che si conosca. Per alcuni studiosi, invece, la sequenza alfabetica srdn della terza linea farebbe riferimento agli Shardana, che probabilmente vivevano in Sardegna nel'età del bronzo e che facevano parte della coalizione dei "popoli del mare". Guerrieri e navigatori che combatterono anche come mercenari nell'Egitto dei faraoni. Nell'epigrafe si legge all'inizio un'altra parola: b-trss , «in Tartesso», toponimo misterioso dell'antichità citato più volte nella Bibbia.
LE NOVITÀ Ebbene Gigi Sanna spazza via tutto questo: «Intanto non è il più antico documento perché una quarantina di quelli da me studiati e pubblicati sono, per tipologia alfabetica, antecedenti al fenicio arcaico della stele. Inoltre la stessa stele, a mio parere, ha una datazione più alta di quella seguita dai più, riconducibile al 1100 -1000 avanti Cristo». Ma la vera scoperta di Sanna sarebbe un' altra: «L'epigrafe - spiega - non è fenicia, ma nuragica, caratterizzata dalla presenza di una lingua prevalentemente semitica riportata con caratteri di tipologia semitica. Il documento attesta in tutta chiarezza che i costruttori dei nuraghi parlavano anche una lingua semitica e la scrivevano utilizzando, nell'occasione, l'alfabeto fenicio arcaico».
Per lo studioso oristanese b-srd non vuol dire affatto «in Sardegna»: mettendo al giusto posto della sequenza la consonante della linea precedente si ottiene «aba shardan», che vuol dire «padre signore giudice». Le altre parole che precedono «aba shardan», cioè b-trss e w grs sono invece due toponomi sardi uniti dalla congiunzione "e": il primo è il nome di Tharros e l'altro quello di Corras/Cornus.
I DUE ESPERTI Ma non è tutto. La studiosa Aba Losi , con un'osservazione tipica del matematico, ha individuato la ripetitività di tre precise lettere in simmetria, con andamento alto-basso e basso-alto nelle parti laterali dell'epigrafe. «Da lì - afferma Sanna - a concludere che esistesse una seconda lettura "a cornice" della stele il passo è stato breve. Come breve è stato scoprire anche una terza lettura, stavolta centrale, con l'andamento delle lettere in forma di un serpente, uno dei simboli più forti e ricorrenti, insieme al numero tre, nelle iscrizioni di natura religiosa nuragica», sottolinea lo studioso: «Bisogna considerare che gli scribi nuragici si esprimevano con scrittura "a rebus", traducibile evidentemente solo da chi possedeva la complessa chiave di lettura del codice espressivo». Sino a pochi decenni fa gli storici sostenevano che i sardi non avevano una loro scrittura, ma si servivano volta per volta di quella altrui. La stele - chiaramente un monumento religioso a forma fallica (simbolo della potenza creatrice della divinità) - è dedicata al «dio padre giudice signore» ed è un'offerta dei Norani ( mlkt nrns).
LUNGA VITA Questa stele ebbe vita lunghissima a Nora in quanto fu leggibile sino al momento in cui i caratteri fenici furono usati in Sardegna e la lingua semitica compresa se non da tutta, da una parte delle popolazioni residenti. «Non si dimentichi - scrive Sanna nel libro - che la Sardegna mantenne caratteri alfabetici fenici cosiddetti neopunici e ovviamente la parlata semitica sino al terzo secolo dopo Cristo. È presumibile che con l'avvento del Cristianesimo e con l'affermarsi dei caratteri alfabetici romani, che soppiantarono quelli semitici, l'oggetto di culto degli abitanti di Nora cominciò a perdere d' importanza e significato, anche perché sostituito da qualche altro simbolo monumentale per il santo Lefe/is-y. Questo è infatti il nome "incredibile" che si legge alla fine della stele: "Lefe/isy bn ngr" . Nome che, nella lingua parlata locale, da Santu Lefe/isy, per indebolimento della consonante liquida (la elle), diventò Sant' Efisy (poi Efisio). Efisy figlio di ngr, ma anche "figlio del dio padre" aba -shardan, da celebre santo pagano, col tempo, passò pari pari alla venerazione cristiana».
venerdì 30 ottobre 2009
NELLA SEMPLICITA'...................
martedì 27 ottobre 2009
Terra La Guyana avvelenata
Fulvio Gioanetto
ilmanifesto.it
La catastrofe ecologica della Guyana è arrivata alla frontera nord dello stato di Bolivar, Venezuela. Tutto è contaminato: terra, fiumi, popolazioni indigene. Interi villaggi ai margini dei fiumi, come il Cuyuní o il Barima, decimati dai residui del mercurio e del cianuro delle miniere di oro e di diamanti a cielo aperto. L'acqua contaminata, che serve per consumo umano e per irrigare i piccoli orti familiari, trasporta le particelle residuali dei metalli pesanti nei polmoni e nel cervello degli abitanti. La Guyana ha svenduto ciò che restava delle allora imponenti e impenetrabili foreste tropicali umide locali alle compagnie del legname . Niente sembra fermare il massacro ecologico e umano. Un quarto del territorio guyanese è già stato concesso alle compagnie minerarie, dove la Gmcc (l'ente statale statale per la geologia e attività minerarie) ha già approvato ben 14.500 concessioni minerarie e 1800 permessi per dragare i fiumi. Ci sono dentro tutti: aziende minerarie europee, russe, canadesi, statunitensi, cinesi, giapponesi. Addirittura dei sindacati minerari brasiliani, che secondo la stampa partecipano di importanti traffici transfrontalieri di trasporto di minerali. Dalle miniere a cielo aperto di Marudi Mountain, Kartuni, Peter's mine, Oko, Kurupung, Potaro Kurupung, Aranka, Aurora, Lower Puruni tutti estraggono uranio, bauxite, oro, diamanti, granito. Immensi spazi nella controvertida zona di Esequibo, disputata da Venezuela, Colombia e Guyana, sono già zone di estrazione di oro e diamanti. Come i sette progetti minerari delle canadesi Sacre Coeur Minerals Ltd.e Guyana Goldfields Inc.
Fin dal 2005 vari studi del Wwf avevano lanciato l'allarme. Secondo un rapporto della Scuola di Giurisprudenza di Harvard («La Mineria en Guyana; fallas del Gobierno en los Derechos Humanos y Comunidades Indigenas») gli indigeni arawak, kariña, akawaio, pemón e gli abitanti meticci della zona frontaliera sono ormai obbligati a bere acqua piovana perché i fiumi sono contaminati. Secondo il gruppo ambientalista venezuelano Vitalis (http://www.vitalis.net), in tutti i fiumi alla frontiera con la Guyana ci sono centinaia di draghe che estraggono oro e diamanti dai fiumi scaricando poi diesel, benzina e residui. Esistono ormai isole di fango e sabbie puzzolenti in parte dei bordi del fiume Caroni e nella conca del Caura.
La commissione indigena guyanese da anni reclama il diritto ancestrale su 69.200 km di terre , anche se finora le comunità indigene hanno ricevuto solo ambigui titoli di proprietà o di usufrutto solamente in 9.600 km. cuadrati. Dei dodicimila poverissimi abitanti indigeni, un 40% lavora schiavizzato nelle miniere o nei progetti di dragaggio dei fiumi o di disboscamento delle proprie terre. L'alcolismo e la prostituzione generalizzata, i salari miserabili, la perdita di identità sono le ultime conseguenze di questo ecocidio.
Dal lato venezuelano, alcune comunità indigene hanno iniziato a organizzarsi, stanche da tante distruzioni e soprusi. Come in Machiques de Perija, un piccolo punto nella mappa, dove gli indigeni Yukpa, da tempo in mobilizzazione per rivendicazioni territoriali in 20.000 ettari, hanno occupato il municipio in protesta contro la distruzione ecologica e sociale avviata da un progetto minerarie con capitale cino- canadese. Lato guyanese, i 6.000 abitanti della comunitá inidgena del Cuyuní, Mata de Donald, hanno organizzato petizioni e azioni collettive. Appoggiati da un distaccamento dell'esercito, hanno iniziato a distruggere balse e smantellamenti di campamenti minerari.
ilmanifesto.it
La catastrofe ecologica della Guyana è arrivata alla frontera nord dello stato di Bolivar, Venezuela. Tutto è contaminato: terra, fiumi, popolazioni indigene. Interi villaggi ai margini dei fiumi, come il Cuyuní o il Barima, decimati dai residui del mercurio e del cianuro delle miniere di oro e di diamanti a cielo aperto. L'acqua contaminata, che serve per consumo umano e per irrigare i piccoli orti familiari, trasporta le particelle residuali dei metalli pesanti nei polmoni e nel cervello degli abitanti. La Guyana ha svenduto ciò che restava delle allora imponenti e impenetrabili foreste tropicali umide locali alle compagnie del legname . Niente sembra fermare il massacro ecologico e umano. Un quarto del territorio guyanese è già stato concesso alle compagnie minerarie, dove la Gmcc (l'ente statale statale per la geologia e attività minerarie) ha già approvato ben 14.500 concessioni minerarie e 1800 permessi per dragare i fiumi. Ci sono dentro tutti: aziende minerarie europee, russe, canadesi, statunitensi, cinesi, giapponesi. Addirittura dei sindacati minerari brasiliani, che secondo la stampa partecipano di importanti traffici transfrontalieri di trasporto di minerali. Dalle miniere a cielo aperto di Marudi Mountain, Kartuni, Peter's mine, Oko, Kurupung, Potaro Kurupung, Aranka, Aurora, Lower Puruni tutti estraggono uranio, bauxite, oro, diamanti, granito. Immensi spazi nella controvertida zona di Esequibo, disputata da Venezuela, Colombia e Guyana, sono già zone di estrazione di oro e diamanti. Come i sette progetti minerari delle canadesi Sacre Coeur Minerals Ltd.e Guyana Goldfields Inc.
Fin dal 2005 vari studi del Wwf avevano lanciato l'allarme. Secondo un rapporto della Scuola di Giurisprudenza di Harvard («La Mineria en Guyana; fallas del Gobierno en los Derechos Humanos y Comunidades Indigenas») gli indigeni arawak, kariña, akawaio, pemón e gli abitanti meticci della zona frontaliera sono ormai obbligati a bere acqua piovana perché i fiumi sono contaminati. Secondo il gruppo ambientalista venezuelano Vitalis (http://www.vitalis.net), in tutti i fiumi alla frontiera con la Guyana ci sono centinaia di draghe che estraggono oro e diamanti dai fiumi scaricando poi diesel, benzina e residui. Esistono ormai isole di fango e sabbie puzzolenti in parte dei bordi del fiume Caroni e nella conca del Caura.
La commissione indigena guyanese da anni reclama il diritto ancestrale su 69.200 km di terre , anche se finora le comunità indigene hanno ricevuto solo ambigui titoli di proprietà o di usufrutto solamente in 9.600 km. cuadrati. Dei dodicimila poverissimi abitanti indigeni, un 40% lavora schiavizzato nelle miniere o nei progetti di dragaggio dei fiumi o di disboscamento delle proprie terre. L'alcolismo e la prostituzione generalizzata, i salari miserabili, la perdita di identità sono le ultime conseguenze di questo ecocidio.
Dal lato venezuelano, alcune comunità indigene hanno iniziato a organizzarsi, stanche da tante distruzioni e soprusi. Come in Machiques de Perija, un piccolo punto nella mappa, dove gli indigeni Yukpa, da tempo in mobilizzazione per rivendicazioni territoriali in 20.000 ettari, hanno occupato il municipio in protesta contro la distruzione ecologica e sociale avviata da un progetto minerarie con capitale cino- canadese. Lato guyanese, i 6.000 abitanti della comunitá inidgena del Cuyuní, Mata de Donald, hanno organizzato petizioni e azioni collettive. Appoggiati da un distaccamento dell'esercito, hanno iniziato a distruggere balse e smantellamenti di campamenti minerari.
sabato 24 ottobre 2009
La rivolta del popolo calabrese... Adesso ammazzateci tutti
| Tonino Perna
ilmanifesto.it
Per questo sarà una battaglia epocale. Non una questione calabrese, ma una questione nazionale e internazionale perché il mare non conosce frontiere.
ilmanifesto.it
Per secoli i calabresi hanno visto il mare come un pericolo, il vettore su cui passava l’invasore, una distesa acqua e sale di cui non coglievano il senso (anche la letteratura calabrese fino al Novecento ignora il mare). Poi, improvvisamente, la svolta. Dalla metà del secolo scorso, i calabresi hanno abbandonato in massa colline e montagne e hanno occupato gli 800 e passa chilometri di coste. L’hanno fatto spesso in modo selvaggio, come testimoniato dalla estetica delle costruzioni, in modo illegale – la gran parte delle costruzioni hanno usufruito dei vari condoni edilizi - e senza quella cura e quel senso di appartenenza, quel genius loci che lega gli abitanti alla storia di un territorio.
Ma, le nuove generazioni sono in gran parte nate sul mare ed hanno imparato ad amarlo, a viverlo come parte costitutiva della loro identità. Il film di Mimmo Calopresti «Preferisco il rumore del mare» può essere assunto come il punto di svolta, un messaggio emblematico che segna il salto culturale compiuto dalle nuove generazioni. In questi ultimi venti anni sono sorti decine e decine di circoli e centri di vela, canottaggio, wind surf, immersioni e foto subacque, pesca sportiva. Sono decine di migliaia i giovani calabresi emigrati, per ragioni di studio e lavoro, che tornano ogni anno per questo mare e queste spiagge che adorano, che non cambierebbero con nessun altro posto.
Molti di loro saranno ad Amantea sabato, parteciperanno con rabbia e convinzione a quella che sarà sicuramente una grande manifestazione che ha una valenza storica: si tratta della prima rivolta di massa contro la ‘ndrangheta.
Molti di loro saranno ad Amantea sabato, parteciperanno con rabbia e convinzione a quella che sarà sicuramente una grande manifestazione che ha una valenza storica: si tratta della prima rivolta di massa contro la ‘ndrangheta.
Mai sono state scritte, dal cittadino calabrese medio, parole di disprezzo così dure e cariche di rabbia contro i signori della ‘ndrangheta e della politica che hanno prodotto il più grande disastro ambientale nella storia calabrese. In pochi giorni, sono più di trentamila le firme raccolte dal Quotidiano della Calabria per protestare contro l’inerzia del governo e chiedere la bonifica integrale dei fondali marini a Cetraro, Vibo e Capo Bruzzano, e la ricerca delle altre navi affondate. Sindaci della costa dell’Alto Tirreno calabrese, di qualunque colore politico, sono andati a Roma a protestare e saranno centinaia i sindaci che da tutta la Calabria verranno ad Amantea. Niente aveva prodotto tanto sdegno, rabbia, ribellione. Non i settecento morti ammazzati nella guerra di ‘ndrangheta dal 1985 al ’92, non i centinaia di sequestri di persona che colpirono anche molti professionisti locali, non le decine di scandali che coinvolgono una parte significativa della classe politica calabrese. Nemmeno l’efferato omicidio Fortugno, malgrado il clamore nazionale e la nascita di un movimento di giovani «ora ammazzateci tutti» che ebbe un forte lancio mediatico, riuscì a coinvolgere tutta la Calabria e, soprattutto, tanti giovani.
Chi ha trasportato e fatto affondare decine di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi, ha prodotto un disastro ecologico che rischia di fare concorrenza a Chernobil per le conseguenze sulle catene alimentari. La ‘ndrangheta ci ha messo la faccia e ne è uscita a pezzi, ma gli ‘ndranghetisti hanno fatto solo i manovali di questa impresa criminale. I mandanti si trovano nelle sedi delle multinazionali, tra i manager delle centrali termonucleari, i dirigenti dell’Enea di Rotondella, pezzi importanti dello Stato, a partire dai servizi segreti. Un intreccio di interessi che vanno al di là dell’immaginabile e che fa emergere sulla scena della storia una nuova classe dirigente: la borghesia mafiosa. Di fatto è una classe sociale già arrivata al potere in molti paesi – Colombia, Messico, Russia... – e non c’è da stupirsi se in questo bel quadretto sia già finito il nostro paese.
D’altra parte, studiosi di lungo corso come Umberto Santino o il procuratore generale della Repubblica Piero Grasso da anni parlano di «borghesia mafiosa» e non più di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Per la prima volta si va a uno scontro aperto con questa «nuova borghesia» che farà di tutto per insabbiare le indagini, impedire che i fusti vengano ripescati, che altre navi affondate vengano individuate. E’ una lotta impari. Ma questa volta, statene certi, il popolo calabrese non si farà ricacciare sulle montagne. Qui non si tratta di saraceni selvaggi e violenti, di OttoMani che razziavano e fuggivano, qui si tratta di una SolaMano, una Mano Nera che ha messo in discussione il diritto alla vita nel mare e fuori.
giovedì 22 ottobre 2009
"Prospettiva allucinante" cosa può accadere in Sardegna in caso si verifichi una situazione tipo Chernobyl..
Sergio Gabriele Cossu
Prendendo ad esempio la tragica esperienza di Chernobyl e riproponendola in un ipotetico scenario in cui tale disastro dovesse verificarsi nel suolo sardo affiora la prospettiva di un vero genocidio, cioè: pressoché la totale scomparsa della nazione sarda.
Infatti i 900 mila morti diretti e indiretti che vengono attribuiti al disastro di Chernobyl a tutt’oggi, significherebbero per la popolazione sarda la quasi scomparsa, giacché tale cifra corrisponde al 60 % dei residenti in Sardegna.
I 30 mila Km quadrati interessati allo sfollamento iniziale per evitare il fall out radiativo superano abbondantemente la superficie della Sardegna che corrisponde a circa 24.000 Km quadrati.
La stessa superficie che oggi è stata ripopolata degli ucraini e i biellorussi malgrado la presenza di radionuclidi nel suolo, nelle piante e negli animali, secondo i parametri di sicurezza occidentali non dovrebbe essere abitata per almeno 300 anni.
Se succedesse nella nostra isola, la Sardegna contaminata e priva dei suoi abitanti, verrà utilizzata per svolgere esercitazioni di guerre nucleari simulate, esperimenti scientifici ad alto rischio, ma soprattutto come deposito europeo per scorie pericolose di ogni sorta.
Naturalmente l’isola sarà ancora di proprietà dell’Italia e molti stati saranno ben contenti di pagare per ottenere tali servizi.
Il ricavato sarà sicuramente impiegato per pagare i costi ingenti derivanti dalle prestazioni mediche ai superstiti, nonché nella predisposizione di un piano di rientro, attuabile dai 100 ai 300 anni.
I nostri posteri potrebbero ritornare dopo 300 anni: ma chi saranno?
I Sardi superstiti, malati nel fisico e distrutti nell’anima saranno sradicati dai loro luoghi e privati dei loro affetti, costretti ad errare nel mondo in luoghi non sempre amichevoli. Perdendo i contatti con la madre patria perderanno la memoria e con essa la lingua e la cultura. Il genocidio verrà accelerato quando i superstiti del disastro nucleare non saranno più capaci di mantenere i contatti attraverso le generazioni che si susseguiranno.
Scomparirà una civiltà millenaria unica.
Coloro che alla scadenza si presenteranno ad occupare la nostra isola saranno degli individui che non avranno niente a che vedere con noi e con la nostra cultura. Magari saranno i pronipoti dei responsabili della scomparsa della nostra gente
In conclusione , vale la pena di rischiare tutto questo?
Sardi, diciamo di no già adesso all’eventualità di insediamenti nucleari nella nostra terra!
Prendendo ad esempio la tragica esperienza di Chernobyl e riproponendola in un ipotetico scenario in cui tale disastro dovesse verificarsi nel suolo sardo affiora la prospettiva di un vero genocidio, cioè: pressoché la totale scomparsa della nazione sarda.
Infatti i 900 mila morti diretti e indiretti che vengono attribuiti al disastro di Chernobyl a tutt’oggi, significherebbero per la popolazione sarda la quasi scomparsa, giacché tale cifra corrisponde al 60 % dei residenti in Sardegna.
I 30 mila Km quadrati interessati allo sfollamento iniziale per evitare il fall out radiativo superano abbondantemente la superficie della Sardegna che corrisponde a circa 24.000 Km quadrati.
La stessa superficie che oggi è stata ripopolata degli ucraini e i biellorussi malgrado la presenza di radionuclidi nel suolo, nelle piante e negli animali, secondo i parametri di sicurezza occidentali non dovrebbe essere abitata per almeno 300 anni.
Se succedesse nella nostra isola, la Sardegna contaminata e priva dei suoi abitanti, verrà utilizzata per svolgere esercitazioni di guerre nucleari simulate, esperimenti scientifici ad alto rischio, ma soprattutto come deposito europeo per scorie pericolose di ogni sorta.
Naturalmente l’isola sarà ancora di proprietà dell’Italia e molti stati saranno ben contenti di pagare per ottenere tali servizi.
Il ricavato sarà sicuramente impiegato per pagare i costi ingenti derivanti dalle prestazioni mediche ai superstiti, nonché nella predisposizione di un piano di rientro, attuabile dai 100 ai 300 anni.
I nostri posteri potrebbero ritornare dopo 300 anni: ma chi saranno?
I Sardi superstiti, malati nel fisico e distrutti nell’anima saranno sradicati dai loro luoghi e privati dei loro affetti, costretti ad errare nel mondo in luoghi non sempre amichevoli. Perdendo i contatti con la madre patria perderanno la memoria e con essa la lingua e la cultura. Il genocidio verrà accelerato quando i superstiti del disastro nucleare non saranno più capaci di mantenere i contatti attraverso le generazioni che si susseguiranno.
Scomparirà una civiltà millenaria unica.
Coloro che alla scadenza si presenteranno ad occupare la nostra isola saranno degli individui che non avranno niente a che vedere con noi e con la nostra cultura. Magari saranno i pronipoti dei responsabili della scomparsa della nostra gente
In conclusione , vale la pena di rischiare tutto questo?
Sardi, diciamo di no già adesso all’eventualità di insediamenti nucleari nella nostra terra!
mercoledì 21 ottobre 2009
I fusti non si toccano, sindaci avvelenati
Il governo non ripescherà il relitto della Cunsky
Giulia Torbidoni
ilmanifesto.it
ROMA
I fusti non si toccano. Questa è la decisione del ministero dell'ambiente sulla questione della "nave dei veleni" che si trova a largo di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ieri pomeriggio circa 40 sindaci dei comuni calabresi hanno protestato sotto Palazzo Chigi contro «il silenzio del governo sull'intera vicenda». Chiedevano un incontro con qualche esponente della presidenza del consiglio per chiedere lo stato di emergenza e invece sono stati ricevuti dal sottosegretario al ministero dell'ambiente Roberto Menia.
La richiesta dei primi cittadini era quella di bonificare l'area rimuovendo il prima possibile tutti i fusti dello scafo. Menia ha invece esposto le decisioni del ministero, ben diverse da quanto auspicato dai primi cittadini. Il ministero manderà fin da oggi una nave oceanografica che andrà a filmare lo scafo per cercare di capire se si tratta dello stesso di cui ha parlato il pentito ex boss della 'ndrangheta Francesco Fonti. Si tratterebbe della Cunsky. Poi si provvederà ad analizzare il fondale marino per capire se vi sono presenze di scorie tossiche e, con dei sensori, si misurerà il livello di radioattività delle acque a diverse altezze. I fusti restano, perciò, lì dove sono e il malcontento tra i sindaci durante l'incontro era più che palpabile. «Che senso ha analizzare il fondale? Se i fusti sono ancora chiusi il materiale tossico non è uscito. Bisogna rimuoverli e basta» ha chiesto l'assessore regionale all'ambiente Silvio Greco. «Non mi prenda per il culo - ha risposto Menia - e mi faccia il piacere: io sono qui per incontrare i sindaci». Detto fatto: Greco si alza e se ne va e con lui molti sindaci. «Un incontro che non ci soddisfa, ci lascia delusi anche lo scarso impegno dei deputati calabresi» hanno detto alcuni sindaci. «Noi volevamo lo stato di emergenza - ha spiegato il sindaco di Cetraro Giuseppe Aieta - perché i danni li abbiamo già avuti nel turismo e nella pesca». Infatti. I sindaci hanno denunciato un netto calo nel consumo di pesce e una flessione di presenze turistiche già in questo ultimo scorcio di estate. Ma la nota più dolente è lo scarso interesse dei deputati calabresi e il governo centrale sulla vicenda: «Il mare è di competenza del governo centrale - ha detto l'assessore Greco - sono loro che devono fare qualcosa».
È già passato più di un mese, infatti, da quando è stata filmata la presenza della nave. Eppure i sindaci sono stati «costretti a manifestare per avere l'attenzione del governo». Già a maggio, come ci ha detto l'assessore Greco, uno studio evidenziava un aumento di patologie e tumori nella zona di Aiello Calabro. Nonostante le lettere che Greco sostiene di avere scritto al sottosegretario alla presidenza del consiglio Letta, al capo della protezione civile Bertolaso e ad altri esponenti politici, la regione Calabria si è trovata sola ad affrontare la vicenda. «Con l'Arpac si è affittata una nave e siamo andati a vedere se c'era lo scafo che Fonti aveva denunciato già parecchi mesi prima. C'era e lo abbiamo filmato», ha spiegato ancora Greco. Il filmato dura 44 minuti, ma è «insufficiente», secondo Menia, perché «mostra la nave solo da un lato».
Anche ieri pomeriggio i sindaci hanno riscosso poco successo. Con i tricolori a tracolla sono stati sotto Palazzo Chigi per alcune ore. Ogni tanto qualche deputato faceva capolino. Come Ermete Realacci del Pd e Fabio Granata del Pdl che hanno chiesto che «la mozione sulle navi dei veleni sia subito calendarizzata nei lavori d'Aula. Torniamo a ripetere - hanno detto - che si tratta di una vicenda di straordinaria gravità per cui è necessaria la mobilitazione dello Stato ai massimi livelli». O come la deputata del Pdl Iole Santelli che ha cercato di tranquillizzare i sindaci perché «la presenza del governo è garantita e al più presto sarà costituita una task force ad hoc».
Intanto, però, i sindaci dovranno spiegare ai loro cittadini perché il governo non ritiene prioritario rimuovere i fusti. «Anche se c'è il dubbio bisogna portarli via - ha detto il sindaco Aieta - il problema l'abbiamo noi. Se fosse capitato a Portofino a quest'ora la nave sarebbe fuori dal mare da un bel pezzo». E in proposito aleggia anche il dubbio che «non si voglia aprire quei fusti».
I sindaci hanno, però, annunciato la volontà di non arrendersi e di voler andare a fondo della questione, e sperano che la manifestazione ad Amantea sabato prossimo raccolga il malcontento e la preoccupazione di tutti i cittadini perché «non è solo una vicenda nostra. Il mare è di tutti e il giro di rifiuti è internazionale quindi il governo e l'Europa devono fare chiarezza», ha detto Aieta. Alla manifestazione, promossa dal comitato intitolato a Natale de Grazia, l'investigatore morto misteriosamente nel '95, hanno aderito associazioni ambientaliste, sindacati, enti come il Parco del Pollino e comuni calabresi.
Giulia Torbidoni
ilmanifesto.it
ROMA
I fusti non si toccano. Questa è la decisione del ministero dell'ambiente sulla questione della "nave dei veleni" che si trova a largo di Cetraro, in provincia di Cosenza. Ieri pomeriggio circa 40 sindaci dei comuni calabresi hanno protestato sotto Palazzo Chigi contro «il silenzio del governo sull'intera vicenda». Chiedevano un incontro con qualche esponente della presidenza del consiglio per chiedere lo stato di emergenza e invece sono stati ricevuti dal sottosegretario al ministero dell'ambiente Roberto Menia.
La richiesta dei primi cittadini era quella di bonificare l'area rimuovendo il prima possibile tutti i fusti dello scafo. Menia ha invece esposto le decisioni del ministero, ben diverse da quanto auspicato dai primi cittadini. Il ministero manderà fin da oggi una nave oceanografica che andrà a filmare lo scafo per cercare di capire se si tratta dello stesso di cui ha parlato il pentito ex boss della 'ndrangheta Francesco Fonti. Si tratterebbe della Cunsky. Poi si provvederà ad analizzare il fondale marino per capire se vi sono presenze di scorie tossiche e, con dei sensori, si misurerà il livello di radioattività delle acque a diverse altezze. I fusti restano, perciò, lì dove sono e il malcontento tra i sindaci durante l'incontro era più che palpabile. «Che senso ha analizzare il fondale? Se i fusti sono ancora chiusi il materiale tossico non è uscito. Bisogna rimuoverli e basta» ha chiesto l'assessore regionale all'ambiente Silvio Greco. «Non mi prenda per il culo - ha risposto Menia - e mi faccia il piacere: io sono qui per incontrare i sindaci». Detto fatto: Greco si alza e se ne va e con lui molti sindaci. «Un incontro che non ci soddisfa, ci lascia delusi anche lo scarso impegno dei deputati calabresi» hanno detto alcuni sindaci. «Noi volevamo lo stato di emergenza - ha spiegato il sindaco di Cetraro Giuseppe Aieta - perché i danni li abbiamo già avuti nel turismo e nella pesca». Infatti. I sindaci hanno denunciato un netto calo nel consumo di pesce e una flessione di presenze turistiche già in questo ultimo scorcio di estate. Ma la nota più dolente è lo scarso interesse dei deputati calabresi e il governo centrale sulla vicenda: «Il mare è di competenza del governo centrale - ha detto l'assessore Greco - sono loro che devono fare qualcosa».
È già passato più di un mese, infatti, da quando è stata filmata la presenza della nave. Eppure i sindaci sono stati «costretti a manifestare per avere l'attenzione del governo». Già a maggio, come ci ha detto l'assessore Greco, uno studio evidenziava un aumento di patologie e tumori nella zona di Aiello Calabro. Nonostante le lettere che Greco sostiene di avere scritto al sottosegretario alla presidenza del consiglio Letta, al capo della protezione civile Bertolaso e ad altri esponenti politici, la regione Calabria si è trovata sola ad affrontare la vicenda. «Con l'Arpac si è affittata una nave e siamo andati a vedere se c'era lo scafo che Fonti aveva denunciato già parecchi mesi prima. C'era e lo abbiamo filmato», ha spiegato ancora Greco. Il filmato dura 44 minuti, ma è «insufficiente», secondo Menia, perché «mostra la nave solo da un lato».
Anche ieri pomeriggio i sindaci hanno riscosso poco successo. Con i tricolori a tracolla sono stati sotto Palazzo Chigi per alcune ore. Ogni tanto qualche deputato faceva capolino. Come Ermete Realacci del Pd e Fabio Granata del Pdl che hanno chiesto che «la mozione sulle navi dei veleni sia subito calendarizzata nei lavori d'Aula. Torniamo a ripetere - hanno detto - che si tratta di una vicenda di straordinaria gravità per cui è necessaria la mobilitazione dello Stato ai massimi livelli». O come la deputata del Pdl Iole Santelli che ha cercato di tranquillizzare i sindaci perché «la presenza del governo è garantita e al più presto sarà costituita una task force ad hoc».
Intanto, però, i sindaci dovranno spiegare ai loro cittadini perché il governo non ritiene prioritario rimuovere i fusti. «Anche se c'è il dubbio bisogna portarli via - ha detto il sindaco Aieta - il problema l'abbiamo noi. Se fosse capitato a Portofino a quest'ora la nave sarebbe fuori dal mare da un bel pezzo». E in proposito aleggia anche il dubbio che «non si voglia aprire quei fusti».
I sindaci hanno, però, annunciato la volontà di non arrendersi e di voler andare a fondo della questione, e sperano che la manifestazione ad Amantea sabato prossimo raccolga il malcontento e la preoccupazione di tutti i cittadini perché «non è solo una vicenda nostra. Il mare è di tutti e il giro di rifiuti è internazionale quindi il governo e l'Europa devono fare chiarezza», ha detto Aieta. Alla manifestazione, promossa dal comitato intitolato a Natale de Grazia, l'investigatore morto misteriosamente nel '95, hanno aderito associazioni ambientaliste, sindacati, enti come il Parco del Pollino e comuni calabresi.
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