lunedì 25 marzo 2013
martedì 19 marzo 2013
Processo Quirra. Il gup Nicola Clivio riesce a schivare la patata bollente
Processo Quirra.
Il gup Nicola Clivio
riesce a schivare la patata bollente
Il giudice Clivio nell’udienza 11/03/ 2013 è riuscito a scansare la patata bollente e a rimandare la scomoda decisione del rinvio a giudizio degli imputati eccellenti. Lo stratagemma è il solito: l’ennesima puntata della telenovela “Ricerca scientifica infinita” in auge dal lontano 2001. Ha scelto come protagonista Mario Mariani, docente del Politecnico di Milano, gli ha dato l’incarico di svolgere la solita indagine geochimica al solito “ scopo di verificare se l’area del poligono sia o sia stata contaminata dalle sostanze chimiche tossiche e dalle sostanze radioattive (..) e se eventuali valori superiori alla norma potevano essere conseguenza dello svolgimento delle attività militari”.
Gli avvocati degli accusati esultano e inneggiano alla “significativa vittoria”. Rimarcano che “il gup ha evidentemente ritenuto di non condividere le conclusioni del pm Fiordalisi e dei suoi consulenti”, “ha ritenuto le carte dell’accusa insufficienti per i rinvii a giudizio”
La decisione del giudice Clivio comporta:
1 Il non accoglimento, non solo delle “perizie di parte” della Procura, ma anche dell’indagine super partes dell’Arpas che la contaminazione l’ha rilevata e misurata.
2 Dilazione all’infinito dei tempi . Il gup ha concesso al perito sei mesi e il perito, a ragione, ha già ventilato la proroga, infatti, deve rifare le indagini svolte dall’Università di Siena e dalla SGS (messe sotto accusa) e l’indagine dell’Arpas. Ciascuna delle tre ha richiesto un tempo tecnico di oltre due anni.
Se il perito individuerà la contaminazione la telenovela avrà un’ulteriore puntata centrata sull’aspetto sanitario. Il giudice nominerà un altro perito per accertare il nesso tra sostanze rintracciate - patologie - decessi ….e cosi via scientificamente indagando fino al secolo venturo.
Se il perito individuerà la contaminazione la telenovela avrà un’ulteriore puntata centrata sull’aspetto sanitario. Il giudice nominerà un altro perito per accertare il nesso tra sostanze rintracciate - patologie - decessi ….e cosi via scientificamente indagando fino al secolo venturo.
3 Prescrizione più che probabile di vari reati e conseguente proscioglimento o alleggerimento dei capi d’accusa. Fin da ora, Codice alla mano, si possono fare sicuri pronostici su generali e imputati eccellenti che la faranno franca.
4 Riproposizione di una metodologia di ricerca che si è rivelata da tempo poco adeguata, la stessa usata nel 2001 dall’UNEP (United Nations Environment Program) in Kosovo dove sono state sparate dieci tonnellate di uranio impoverito, stando alle documentazioni Nato corredate dalle mappe dei punti d’impatto. La “classica” analisi geochimica delle matrici ambientali (suolo, acqua, aria ecc. ) ha rilevato: “Non esiste alcuna contaminazione diffusa e misurabile”. L’UNEP, però, ha concluso con l’ ammissione di avere usato una metodologia non idonea e ha indicato metodologie più consone.
Le valutazioni che hanno portato Gettiamo le Basi a rigettare formalmente, come componente del Comitato Territoriale d’Indirizzo Politico istituito dal ministro della Difesa, sia il Capitolato Tecnico del Piano di Monitoraggio (marzo 2008), sia i risultati presentati a febbraio e luglio 2011, includono la valutazione di inadeguatezza, fondata anche sulle argomentazioni dell’UNEP, del lotto più nevralgico affidato dalla Nato alla SGS. A riprova: il consulente tecnico della Procura, prof. Lodi Rizzini, ha cercato le sostanze radioattive dove e come andavano cercate, nelle ossa degli uccisi ha trovato le “introvabili” sostanze radioattive, il torio, molto più pericoloso del più chiacchierato uranio.
Le valutazioni che hanno portato Gettiamo le Basi a rigettare formalmente, come componente del Comitato Territoriale d’Indirizzo Politico istituito dal ministro della Difesa, sia il Capitolato Tecnico del Piano di Monitoraggio (marzo 2008), sia i risultati presentati a febbraio e luglio 2011, includono la valutazione di inadeguatezza, fondata anche sulle argomentazioni dell’UNEP, del lotto più nevralgico affidato dalla Nato alla SGS. A riprova: il consulente tecnico della Procura, prof. Lodi Rizzini, ha cercato le sostanze radioattive dove e come andavano cercate, nelle ossa degli uccisi ha trovato le “introvabili” sostanze radioattive, il torio, molto più pericoloso del più chiacchierato uranio.
Scienza a parte, basta un briciolo di buon senso per capire che le sostanze radioattive e tossiche, se sparate o fatte brillare, si frantumano in un aerosol di polveri sottili e sottilissime, si disperdono a grandi distanze, non restano strette strette appollaiate su un albero o una roccia nel punto d’impatto, non resistono immobili per anni e anni alla forza dei venti, al dilavamento delle piogge, alla voracità di capre, api e pesci, in gran parte sono trasferite nel corpo di chi l’aerosol respirò, quel formaggio, quel miele, quel pesciolino mangiò e si ammalò.
5 Non considerazione del nesso specifico tra i sistemi d’arma usati nel Pisq e i contaminanti (certificati!) che rilasciano nell’ambiente (esempio: missile Tow-amianto; propellenti aerospaziali-coktail di veleni dai nomi seducenti o impronunciabili). Le ditte produttrici di ordigni bellici, per obbligo di legge, informano la cittadinanza che vive nei pressi dello stabilimento dei contaminanti utilizzati e della classe di rischio. Paradossalmente nessuna informazione è dovuta alla popolazione che vive dove le sostanze tossiche e/o nocive sono sparate nell’ambiente e si degradano in altre più pericolose. Il rischio è ben più alto di quello legato alla manipolazione controllata dei singoli componenti e reattivi. Se non si acquisisce l’informazione, pubblica e facilmente accessibile, sulle sostanze tossiche e/o nocive contenute nei vari ordigni la “presunta” contaminazione del Pisq è desinata a restare nel regno del mistero.
L’indagine epidemiologica . La Magistratura e il perito nominato dal tribunale terranno conto dello studio epidemiologico promosso da Regione e Commissione del Senato. I risultati sono previsti per il prossimo giugno. L’attesa però è superflua, anche in questo caso è sufficiente esaminare la metodologia di ricerca adottata per conoscere fin da ora le conclusioni: “Non si riscontrano eccedenze significative di patologie tumorali”. La strage, “l’epidemia” di tumori, leucemie, linfomi, alterazioni genetiche sarà “scientificamente” normalizzata e cancellata.
Comitato sardo Gettiamo le Basi
Tel 3467059885—070823498
Tel 3467059885—070823498
sabato 16 marzo 2013
Franca Zona travolta da una bufala, anzi da una mandria. Risposta all'amico Luciano Caveri
Luciano Caveri è un caro e antico amico valdostano, è stato parlamentare, parlamentare europeo, consigliere regionale e presidente della Giunta regionale della Val d'Aosta.
La biografia sul suo blog può fornire altri dati in abbondanza sulla qualità politica di questo uomo che fra l'altro è un gran amico della Sardegna.
Assieme ( alleanza delle minoranze linguistiche) abbiamo inviato al Parlamento europeo due parlamentari sardi Michele Columbu e Mario Melis.
Conosce profondamente la questione zona franca e partendo come sottolinea dallo Statuto valdostano che prevede la zona franca extra doganale per tutta la regione e che ancora non è stata completata da una legge dello Stato mai emanata dal 1948, nel suo stile scarno da giornalista ha fotografato la situazione in Sardegna sulla Zona franca, con cognizione di causa profonda e distaccata.
Purtroppo e cortesemente, con parole adatte per non offendere, fotografa quella che per molti neofiti è una loro grande scoperta, la battaglia storica per la zona Franca sarda, evidenziando la farsa che si sta perpetrando , da parte di capipopolo demagogici e populisti ai quali è stata offerta una sponda fasulla da politici nella stessa misura demagogici e populisti.
Leggere documenti e proclami senza capo né coda, rispetto ai quali viene il dubbio che siano stati scritti come in una trance onirica, veder diffondere bufale a piene mani, fa venire tanta tristezza ma anche accapponare la pelle a fronte dell'entusiasmo popolare e la grande mobilitazione entusiastica che stanno evocando fra i sardi.
Specchio del degrado politico dell'autonomia sarda e di settori importanti della nostra società quali la stampa e l'informazione radiotelevisiva e bisogna dire anche del web, sono la disinformazione e la complessiva ignoranza della questione e delle legislazioni interessate, dato che riportano pedissequamente affermazioni campate in aria, sbagliate, a volte al limite del grottesco, che vari apprendisti stregoni diffondono ormai da troppo tempo e malauguratamente con un certo successo di pubblico e di claque.
Specchio del degrado politico dell'autonomia sarda e di settori importanti della nostra società quali la stampa e l'informazione radiotelevisiva e bisogna dire anche del web, sono la disinformazione e la complessiva ignoranza della questione e delle legislazioni interessate, dato che riportano pedissequamente affermazioni campate in aria, sbagliate, a volte al limite del grottesco, che vari apprendisti stregoni diffondono ormai da troppo tempo e malauguratamente con un certo successo di pubblico e di claque.
È drammaticamente straordinario come a volte e in periodi di grande crisi la psicologia delle masse possa indirizzare verso binari morti se non proprio verso un sicuro deragliamento un treno quale quello della Zona franca, partito tanti anni fa e avanzato fra tante difficoltà sino ai giorni nostri.
Solo da poco si avverte una reazione di idee e di etica politica da parte di singoli e piccoli gruppi di liberi pensatori che però vengono additati da fanatici settari di un carro di Tespi che gira la Sardegna diffondendo sogni ed errori, quali rematori contrari, sabotatori della zona Franca e altre simili amenità .
È un fenomeno già studiato da Elias Canetti ( ed altri analisti e politologi) nel suo insuperato libro "psicologia delle masse" e che invito a leggere, quando analizza come la massa, un movimento nascente, nasce, vive e muore, in situazioni di crisi storica , sociale ed economica e senz'altro culturale.
Ciò dipende a mio avviso dalla crisi dello Stato unitario e dell'Autonomia sarda che prima che economica è politica.
Non bisogna sottrarsi alla discussione, malgrado si avvertano segni di intolleranza e di violenza per ora solo verbale, perché la questione della sovranità fiscale, così come quella della lingua sarda, è fondamentale per elaborare una teoria dello Stato sardo.
Perché solo avendo un idea, un progetto del futuro Stato sardo, chiamatelo Repubblica o come volete, si può pensare di uscire dalla crisi attuale che è solo agli inizi, provando anche a risolvere i problemi minuti, giornalieri, contingenti delle famiglie, dei giovani, delle categorie emergenti e produttive e dei più deboli sardi.
Una soluzione, parziale, riformista, a piccoli passi verso la sovranità fiscale e quindi verso la Zona franca generalizzata a tutta la Sardegna è puntare le forze verso un primo obiettivo ( che i demagoghi stanno ancora colpevolmente eludendo con i loro salti della quaglia ), cioè l'attuazione del decreto 75/98 che ha istituito le zone franche sarde dotandole di perimetrazioni realistiche e regole che le vedano operare in regime di annullata fiscalità doganale e sopratutto di ridotta fiscalità sulle imposte dirette ed indirette di reale vantaggio per dare produzioni di beni e servizi e libertà di commercio, di trasporti ed occupazione. Cagliari, Porto Torres, Olbia, Arbatax, PortoVesme ed Oristano stanno attendendo dal 1998.
Si sta ripetendo il fenomeno psicologico e drammaticamente politico che avvenne quando Lussu propose l'adozione per la Sardegna dello Statuto siciliano.
Venne rifiutato in nome di un obiettivo più alto che poi non venne raggiunto anzi ci fruttò un aborto di Autonomia.
Oggi si rifiutano le zone franche già istituite nel '98 in nome di una Zona franca di fantasia e tutta ideologica che però non arriverà mai se prima non si realizzassero le zone franche che ho ricordato e non si facessero altri decreti attuativi dell'Art.12 dello Statuto o vere e proprie riforme di alcuni suoi articoli che ne ampliassero le competenze alla fiscalità.
A molti santoni della Zona franca sfugge che appunto non è eliminando la fiscalità, che creerebbe problemi insopportabili al bilancio regionale ma abbassandola in maniera mirata e con misure diverse per prodotti e servizi diversi che si ottiene quella che modernamente si chiama fiscalità di vantaggio.
Il vantaggio è ciò che si deve ottenere. Ma vantaggio rispetto a chi? Chi e che cosa devono essere i punti di riferimento per ridurre la pressione fiscale?
Evidentemente il primo elemento di vantaggio deve servire ad eliminare lo svantaggio e deve essere l'abbattimento dei costi superiori rispetto a quelli medi italiani ed europei dei fattori di produzione di beni e servizi che penalizzano l'isola per l'insularità e per altri fattori storici economici, culturali e infrastrutturali.
Un ulteriore abbassamento di fiscalità diretta ed indiretta andrebbe fatto per ottenere l'attrattività per capitali, tecnologie, imprese ed imprenditori che sarebbero per questo attratti ad investire in Sardegna. La fiscalità di vantaggio sarebbe quindi anche una boccata d'ossigeno, una vera respirazione bocca a bocca per l'intero sistema economico sardo e per le imprese produttrici di beni e servizi che già vi operano anche nel turismo e commercio e nell'agroindustria e allevamento e deroghe alla PAC.
Con la contemporanea ascesa dell'occupazione si può ben prevedere che in cinque anni solo la messa in attività delle zone franche già decise col decreto 75/98 darebbero almeno 50.000 nuovi posti di lavoro senza tener conto dell'indotto. E scusate se è poco.
Il buon senso, la coscienza ed anche la scienza questo ci consiglierebbe e in seguito, ottenuto ciò che ci spetta si potrà seguitare in avanti per strappare la libertà fiscale in tutta la Sardegna, progettata come serve a noi sardi e non come un paese della Cuccagna che è propagandato dal carro di Tespi che gira per le piazze sarde.
Rivitalizzata l'economia, cambiato il modello di sviluppo imposto dal colonialismo, dato lavoro e reddito a padri di famiglia e a ragazzi e ragazze saremo meno poveri e miserabili di come siamo ridotti adesso a chiedere l'elemosina allo Stato e alle sue corporazioni magari per procrastinare produzioni superate, mangia miliardi, velenose o vendere la nostra terra, il nostro ambiente come farebbe un padre di famiglia alla fame nera avviando alla prostituzione i propri figli, avremo quindi la forza per ambire ad altri e più alti obiettivi di libertà.
Devo dire che però non sono ottimista nel breve e medio periodo perché vedo prevalere per adesso il populismo e l'avventurismo che trovano terreno fertile nella disperazione della gente e purtroppo anche nell'ignoranza che contamina la speranza genuina nel diritto e l'aspirazione ad una vita migliore e più giusta alimentando fanatismo ed intolleranza.
Vittima di tutto questo può essere l'idea stessa di zona franca e di tutto ciò che essa sottende, a fronte della grande disillusione e disincanto che può seguire al crollo di sogni e speranze quando si riveleranno o irrealizzabili o concretizzabili in misura ben minore
Tutto questo perché la Sardegna ed i sardi sono oggi come un gregge senza pastore, con una classe dirigente e politica screditata e ignorante delle minime competenze culturali atte ad elaborare qualsiasi progetto sulla fiscalità di vantaggio che hanno osteggiato per oltre mezzo secolo.
La Sardegna si trova anche senza un partito politico ( nel vero senso della parola non cloni dei partiti che tifano per il colonialismo purchè li faccia sopravvivere come intermediari che possa rappresentare la nazione sarda, la sua complessità ed identità e i suoi obiettivi di libertà e autodecisione ( anche quelli parziali di zona franca ) come invece i tempi drammatici che stiamo attraversando e che vedono il crollo dello Stato italiano centralista, richiederebbero.
Apprendo adesso che sarebbe arrivata la risposta dela Commissione europea alla lettera inviatagli per comunicargli l'unilaterale e fasulla attivazione della zona franca sarda, la sua lettura se si avrà il coraggio e la trasparenza di renderla integralmente pubblica ci darà elementi di ulteriore analisi e riflessioni.
Farsi da soli la "zona franca"
LUCIANO CAVERI
Leggi una cosa così e ti stupisci:"E' passata sotto tono la notizia che dal 24 giugno prossimo la regione Sardegna, comprese le isole minori, diverrà "zona franca". Non si capisce bene perché i vari telegiornali e le maggiori testate giornalistiche abbiano sottaciuto una notizia così importante. In ogni caso c'è da dire che questo evento per la seconda isola più grande d'Italia riveste un'importanza fondamentale sia per i residenti che per il resto degli italiani".
Poi ne leggi un'altra così e passi dal dubbio allo sghignazzo: "Dal prossimo 24 giugno andare a vivere in Sardegna oppure andare semplicemente a trascorrerci le vacanze potrebbe risultare davvero conveniente. Si apprende infatti da una delibera del Consiglio regionale risalente allo scorso 12 febbraio che la Regione Autonoma della Sardegna ha stabilito l'attivazione di un regime doganale di "zona franca" esteso a tutto il territorio regionale. L'isola andrebbe dunque ad affiancare le città di Livigno, Campione d'Italia, Messina e Livorno, i porti franchi di Trieste, Venezia ed Ancona e la Regione Val d'Aosta, che godono di questo particolare trattamento".
Ovvio che chi scrive quest'ultimo articolo non sa che è vero che lo Statuto valdostano prevedeva la "zona franca", ma mai è stata applicata e dunque il fatto non è vero. La deliberazione per il "caso sardo" è, invece, verissima e pure le iniziative di spinta politica annunciate dal presidente dell'Isola, Ugo Cappellacci, ma siamo di fronte ad una castronata. Mai Roma e men che meno Bruxelles potrebbero accettare nulla di simile in questa fase storica. Sembra di sentire chi in Valle d'Aosta propone buoni benzina a gogò, tablet per tutti, dice che il Casinò va bene e che "Cva" non assume gente "amica" e che le turbine cinesi per le centrali funzionano come degli orologi svizzeri.
Per altro - scusate la digressione e torno al punto - mentre lo Statuto valdostano è chiarissimo sin dal 1948 - articolo 14: "Il territorio della Valle d'Aosta è posto fuori della linea doganale e costituisce zona franca. Le modalità d'attuazione della zona franca saranno concordate con la Regione e stabilite con legge dello Stato" - quello sardo è debolissimo con una frasettina smilza all'articolo 12: "Saranno istituiti nella Regione punti franchi".
Pochino per una zona franca integrale, oltretutto auto-statuita, non si sa sulla base di quali poteri e competenze. Insomma non se ne parla della questione - e lo dico con dispiacere per gli amici sardi, cui ci legano l'autonomia speciale e il fatto che il grande Emilio Lussu sia stato relatore del nostro Statuto - per la semplice ragione che è un'iniziativa destinata a giacere su di un binario morto.
Le strade sono più complesse che un atto come quello su cui si dovrebbe basare la rivoluzione e sfugge come si possa conciliare con un ordinamento fiscale basato su una compartecipazione ad una fiscalità che crollerebbe.
Mentre spero che le nostre elezioni regionali consentano di ragionare sulla "nostra" zona franca e le sue eventuali e realistiche possibilità di farne ancora qualcosa. Ma non con una delibera puramente dimostrativa.
venerdì 15 marzo 2013
Zona franca sarda attivata o ingannata?
Zona franca sarda attivata o ingannata?
Mario Carboni
Mentre la Sardegna affonda e la gente chiede la Zona franca per la Sardegna e la vorrebbe subito, sembra che si giochi con le parole invece di compiere atti concreti alimentando a volte aspettative o irrealizzabili o ottenibili con ancora altri sforzi e il superamento di difficili ostacoli politici, legislativi e pratici.
Specchio di una situazione di crisi e di confusione è l'emergere di un nuovo linguaggio, una orwelliana neolingua, con termini nuovi e parole ambigue improprie in un certo senso ingannatrici e manipolatorie, che appartengono più al campo della politica politicante come arte dell'in-possibile con la dissimulazione dei problemi e delle difficoltà proprie di una Autonomia sarda in putrefazione, piuttosto che a quelli di un corretto rapporto dialettico fra popolo e governanti.
La Zona franca sarda non esiste ancora in nessun luogo e si presume che passerà diverso tempo per vedere i sardi beneficiati da questa soluzione politico economica, cuore di un percorso ormai secolare di autogoverno e sovranità fiscale.
Risulterebbe invece, si fa credere e molti ingenui ci credono anche per la diffusione di documenti ufficiali, che da qualche giorno la Zona franca sarda sia stata attivata come se fosse un ordigno telecomandata dei talebani, l'apertura di un cancello di un giardino delle delizie, le portiere di una automobile, attivabili con un telecomando verbale e scritto, perchè inviato a tutte le massime autorità da Bruxelles a Roma.
Siamo nella società della comunicazione e forse l'attivazione della zona franca sarda riguarda più una realtà virtuale o mistico-magica nella quale la parola attivazione è un mantra che ha il potere, per il solo fatto di essere scritta o pronunciata, di materializzare dal nulla la zona franca della Sardegna per la quale lottiamo ancora invano da ben prima dell'Autonomia del 1948.
Peccato che gli unici termini utilizzabili che corrispondano a concretezza siano realizzazione ( vedi l'Art.12 dello Statuto ), istituzione ( vedi il Decreto legisl. 10 marzo 1998 n. 75 che appunto ha istituito le zone franche di Cagliari, Olbia, Porto Torres, Porto Vesme, Oristano e Arbatax ) oppure destinazione ( vedi l'art.155 del Codice doganale europeo che stabilisce che siano gli Stati a destinare, al termine di una negoziazione con chi ne usufruisce e che può solo proporre, parti del loro territorio doganale a Zona franca.
Anche stabilire è un termine utilizzabile corretamente, perché sempre secondo l'Articolo 155 del Codice doganale europeo si statuisce che siano sempre gli Stati a stabilire l'area interessata ad una Zona franca ed i loro punti di entrata ed uscita per le merci e le persone.
Indubbiamente la parola regina che ha un senso concreto, di realtà e non di sogno e neppure di demagogia populistica non è certo attivare bensì realizzare , perché appunto incarna il senso e lo spirito delle altre parole necessarie per compiere il processo che faccia toccare con mano ai sardi le franchigie e che sono istituzite e con una loro destinazione.
I sardi infatti chiedono non parole con false promesse ma che la zona franca si realizzi e prima possibile, magari subito.
Ma per rendere vera, tangibile, utilizzabile ed operativa la Zona franca sarda come è possibile oggi e non domani e dopodomani, occorre mettere in fila ancora altre parole quali delimitazionee disposizione, che sono contenute nel testo delle norme di attuazione dell'art.12 del nostro Statuto speciale.
Con queste parole si chiede, ormai invano da oltre tre lustri, alla Regione sarda e quindi alla sue consecutive Giunte regionali di delimitare territorialmente le zone franche istituite dal Governo italiano col decreto legislativo 75/98 e di determinare ogni altra disposizione necessaria per la loro operatività da proporre affinché il Presidente del Consiglio dei ministri le renda operativecon separati decreti.
Sono trascorsi dal 1998 ben 15 anni ed ancora la Giunta non ha delimitato né determinato le altre disposizioni che evidentemente dovrebbero essere di natura fiscale perché le zone franche sarde siano identificabili, operative e veramente tali.
Ha invece deliberato di attivare la Zona franca, come se esistesse già e fosse una Bella addormentata nel bosco in attesa del bacio del Principe che le dia vita e azione.
Mentre invece la Zona franca non esiste purtroppo in nessun luogo della Sardegna.
Ci sono anche persone e gruppi di persone che pensano invece che non sia così e si preparano nei prossimi giorni a fare il pieno di benzina defiscalizzata nei loro Comuni solo per il fatto che i Consigli comunali abbiano votato un ordine del giorno fotocopiato e replicante nel quale anche loro hanno attivato la Zona franca magari comunale.
E guai a dire il contrario, il fatto di aver fatto una inteligente campagna di marketing politico, di pura comunicazione politica, affiggendo cartelli con scritto zona franca agli ingressi dei Comuni o in alcune pompe di benzina, ha indotto gli autori e sopratutto molti fruitori di quel messaggio beneaugurante, a credere fermamente che ciò sia realtà o realizzabile in pochi giorni o mesi.
Eppure si è deliberato una attivazione impropria, giocando ambiguamente sulle parole, come si schiaccia un interruttore di una moderna lampada di Aladino per condividere un sogno imposto da chi appunto pensa di poter superare con la forza di volontà o con assemblee o magari la forza della piazza da organizzare, la legislazione vigente ed i rapporti di subalternità fra l'Autonomia sarda attuale ed i poteri dello Stato centralista.
La Zona franca sarda, estesa a tutta la Sardegna è invece un percorso che richiede diverse tappe e in tempi diversi.
Queste tappe non sono disgiunte dal dover riappropriarsi della sovranità fiscale da inserire come pietra d'angolo del nostro Nuovo Statuto di sovranità, obiettivo che sembra posto nel dimenticatoio dell'odierno dibattito politico.
E' indispensabile realizzare la prima tappa, cioè la realizzazione di quanto disposto dal decreto 75/98 senza perdesi in fumisterie, per poi passare alla seconda che è l'estensione alla Sardegna di quella che meglio sarebbe non chiamare più, come nel secolo scorso , Zona franca sarda ma Zona Speciale sarda.
Bisognerebbe fare tesoro di altre esperienze positive europee in campo di intere isole a fiscalità ridotta per compensare le diseconomie insulari, storiche, culturali e infrastrutturali, come ad esempio quella delle Isole Canarie o della vicina Corsica che, pur in maniera differente, appunto sono zone a fiscalità ridotta e hanno per confini non muri o reticolati ma il loro mare e per entrate ed uscite i porti e gli aeroporti.
Seguendo quegli esempi, disegnando e progettando una Zona Speciale Sarda adatta alle nostre esigenze che coniughi produzioni defiscalizzate industriali, per l'energia, nei servizi avanzati, nel turismo, nell'agroindustria con aumento del PIL, occupazione con le indispensabili defiscalizzazioni per i consumi della popolazione, si può evitare la fuga in avanti parolaia di una attivazione fasulla e demagogica, che serve solo a mascherare impotenza e ritardi politici dell'intera classe politica e di movimenti demagogici e populisti e può portare in definitiva a non realizzare le zone franche oggi realizzabili per iniziare a dare lavoro e reddito alle migliaia di disoccupati e ruolo agli imprenditori sardi .
giovedì 14 marzo 2013
PALABANDA: CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?
PALABANDA: CONGIURA O RIVOLTA RIVOLUZIONARIA?
Di congiure è zeppa la storia. Da sempre. Da Giulio Cesare a John Fitzgerald Kennedy. Particolarmente popolato e affollato di congiure è il periodo rinascimentale italiano, nonostante gli avvertimenti di Machiavelli secondo cui “le coniurazioni fallite rafforzano lo principe e mandano nella ruina li coniurati”. Ed anche il “Risorgimento”. Esemplare la congiura di Ciro Menotti nel gennaio del 1831 ordita attraverso intrighi con Francesco IV d’Austria d’Este, dal quale sarà poi tradito e mandato al patibolo.
Congiurà che però sarà ribattezzata “rivolta”, “Moto rivoluzionario”. Solo una questione lessicale? No:semplicemente ideologica. Quella congiura, perché di questo si tratta, viene “recuperata” e inserita come momento di quel processo rivoluzionario, foriero – secondo la versione italico-patriottarda e unitarista – delle magnifiche e progressive sorti del cosiddetto risorgimento italiano. Così, una “congiura” o complotto che dir si voglia diventa un tassello di un processo rivoluzionario, esclusivamente perché vittorioso. Mentre invece – per venire alla quaestio che ci interessa – la Rivolta di Palabanda viene ridotta e immiserita a “Congiura”. E con essa diventano “Congiure”, ovvero cospirazioni di manipoli di avventurieri che con alleanze e relazioni oblique con pezzi del potere tramano contro il potere stesso. Questa categoria storiografica, che riduce le sommosse e gli atti rivoluzionari che costelleranno più di un ventennio di rivolte: popolari, antifeudali e nazionali a fine Settecento in Sardegna a semplici congiure è utilizzata non solo da storici reazionari, conservatori e filosavoia come il Manno o l’Angius.
Ad iniziare dalla cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794: considerata “robetta” e comunque alla stregua di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. A questa tesi, ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu. Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda e non sospettabile di simpatie sardiste e nazionalitarie, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici filosavoia come Giuseppe Manno o Vittorio Angius (l’autore dell’Inno Cunservet Deus su re) che avevano considerato la cacciata dei Piemontesi, appunto alla stregua di una congiura.
“Simile interpretazione offusca - a parere di Sotgiu - le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». “Insistere sulla congiura - cito sempre lo storico sardo - potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni” 1.
Secondo Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.
Ma veniamo a Palabanda. Si parla di rivalità a corte fra il re Vittorio Emanuele I sostenuto da don Giacomo Pes di Villamarina, comandante generale delle armi del Regno e il principe Carlo Felice sostenuto invece dall’amico e consigliere Stefano Manca di Villahermosa, che aveva un ruolo di rilievo nella vita di corte.
Ebbene è stata avanzata l’ipotesi che a guidare la cospirazione fossero stati uomini di corte molto vicini a Carlo Felice allo scopo di eliminare definitivamente i cortigiani piemontesi e di destituire il re Vittorio Emanuele I affidando al Principe la corona con un passaggio dei poteri militari dal Villamarina ad altro ufficiale, forse il capitano di reggimento sardo Giuseppe Asquer. Chi poteva incoraggiare e proteggere l’azione in tal senso era Stefano Manca di Villahermosa, per l’ascendenza di cui godeva sia presso il popolo che presso Carlo Felice.
E’ questa l’ipotesi di Giovanni Siotto Pintor che scrive: ”La corte poi di Carlo Felice accresceva il fuoco contro quella di Vittorio Emanuele: fra ambedue era grande rivalità, l’una per sistema discreditava l’altra. Villahermosa era avverso a Roburent, e tanto più dispettoso, che gli stava fitta in cuore la spina di essergli stato anteposto Villamarina nella carica di capitano delle guardie del corpo del re. Destava invero maraviglia che i cortigiani e gli aderenti a Carlo Felice osassero rimproverare i loro rivali degli stessi errori, intrighi ed arbitrij degli ultimi tempi viceragli. Pure i loro biasimi trovavano favore nelle illuse moltitudini, che giunsero a desiderare il passaggio della corona di Vittorio Emanuele a Carlo Felice, e la nuova esaltazione dei cortigiani sardi, poco prima abborriti” 2
Pressoché identica è l’ipotesi di un altro storico sardo, Pietro Martini che scrive: ”Poiché era rivalità tra le corti del re e del principe, signoreggiata l’ultima dal marchese di Villahermosa, l’altra dal conte di Roburent il quale aveva fatto nominare capitano della guardia il Villamarina, di tale discordia si giovassero per intronizzare Carlo Felice” 3 .
Si tratta di ipotesi poco plausibili. Ora occorre infatti ricordare in primo luogo che il Villahermosa, era anche legato al re tanto che il 7 novembre 1812, pochi giorni dopo i fatti di Palabanda, gli affidò l’attuazione del piano di riforma militare.
In secondo luogo non possiamo dimenticare che Carlo Felice, ottuso crudele e famelico, sia da principe e vice re che da re, era lungi dall’essere “favorevole ai Sardi” come scrive Natale Sanna che poi però aggiunge era all’oscuro di tutto 4 Ricorda infatti Francesco Cesare Casula 5.
che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.
che Carlo felice sarà il più crudele persecutore dei Sardi, che letteralmente odiava e contro cui si scagliò con tribunali speciali, procedure sommarie e misure di polizia, naturalmente con il pretesto di assicurare all’Isola “l’ordine pubblico” e il rispetto dell’Autorità. E comunque non poteva essere l’uomo scelto dai rivoluzionari persecutore com’era soprattutto dei democratici e dei giacobini.
In terzo luogo che bisogno c’era di una congiura per intronizzare Carlo Felice? In ogni caso a lui la corona sarebbe giunta prima o poi di diritto poiché il re non lasciava eredi maschi ed egli era l’unico fratello vivente. Quando la Quadruplice Alleanza aveva conferito il regno di Sardegna a Vittorio Amedeo II, una clausola prevedeva che il regno sarebbe ritornato alla Spagna nel caso che il re e tutta la Casa Savoia rimanesse senza successione maschile.
Scrive Lorenzo Del Piano a proposito delle ipotesi di legami e rapporti fra “i congiurati” di Palabanda con ambienti di corte e addirittura con l’Inghilterra e con la Francia: “Se dopo un secolo di indagini non è venuto fuori nulla ciò può essere dovuto, oltre che a una insanabile carenza di documentazione, al fatto che non c’era nulla da portare alla luce e che quello della ricerca di legami segreti è un problema inesistente e che comunque perde molto della sua eventuale importanza se invece che a romanzesche manovre di palazzo o a intrighi internazionali si rivolge prevalente attenzione alle forze sociali in gioco e alle persone che le incarnavano e cioè agli esponenti della borghesia cittadina che era riuscita indubbiamente mortificata dalle vicende di fine settecento e che un anno di gravissima crisi economica e sociale quale fu il 1812, può aver cercato di conquistare, sia pure in modo avventuroso e inadeguato il potere politico esercitato nel 1793-96” 6 .
Non di congiura dunque si è trattato ma di ben altro: dell’ultima sfortunata rivolta, che conclude un lungo ciclo di moti e di ribellioni, che assume tratti insieme antifeudali, popolari e nazionali.
Segnatamente la rivolta di Palabanda, per essere compresa, abbisogna di essere situata nella gravissima crisi economica e finanziaria che la Sardegna vive sulla propria pelle: conseguenza di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia oltre che delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni: già nel 1811 forte siccità e un rigido inverno causarono nell‘Isola una sensibile contrazione della produzione di grano, ma è soprattutto nella primavera del 1812 che la carestia e dunque la crisi alimentare si manifestò in tutta la sua drammaticità.
Cosa è stato il dramma de su famini de s’annu dox, sono storici come Pietro Martini, a descriverlo con dovizia di particolari: ”L’animo mi rifugge ora pensando alla desolazione di quell’anno di paurosa ricordanza, il dodicesimo del secolo in cui mancati al tutto i frumenti, con scarsi o niuni mezzi di comunicazione, l’isola fu a tale condotta che peggio non poteva”.
Ricorda quindi che la “strage di fanciulli pel vaiuolo, scarsità d’acqua da bere (ché niente era piovuto), difficoltà di provvisioni per la guerra marittima aggrandivano il male già di per se stesso miserando” 7.
Mentre Giovanni Siotto Pintor scrive: ”Durarono lungamente le tracce dell’orribile carestia; crebbe il debito pubblico dello stato; ruinarono le amministrazioni frumentarie dei municipj e specialmente di Cagliari; cadde nell’inopia gran novero di agricoltori; in pochi si concentrarono sterminate proprietà; alcuni villaggi meschini soggiacquero alla padronanza d’uno o più notabili; i piccoli proprietari notevolmente scemarono; si assottigliarono i monti granatici; e perciò decadde l’agricoltura. Ed a tacer d’altro, il sistema tributario vieppiù viziossi, trapassati essendo i beni dalla classi inferiori a preti e a nobili esenti da molti pesi pubblici” 8.
E ancora il Martini descrive in modo particolareggiato chi si arricchisce e chi si impoverisce in quella particolare temperie di crisi economica, di pestilenze e di calamità naturali: ”Oltreché v’erano i baroni e i doviziosi proprietari i quali s’erano del sangue de’ poveri ingrassati e grande parte della ricchezza territoriale avevano in sé concentrato. I quali anziché venire in aiuto delle classi piccole, rincararono la merce e con pochi ettolitri di frumento quello che rimaneva a’ miseri incalzati dalla fame s’appropriavano. Così venne uno spostamento di sostanze rincrescevole: i negozianti fortunati straricchivano, i mediocri proprietari scesero all’ultimo gradino, gli altri d’inedia e di stenti morivano” 9.
Giovanni Siotto Pintor inoltre per spiegare le cagioni del tentativo di rivolgimento politico chemeditavasi a Cagliari, allarga la sua analisi rispetto al Martini e scrive che “La Sardegna sia stata la terra delle disavventure negli anni che vi stanziarono i Reali di Savoia.
Non mai la natura le fu avara dei suoi doni come nel tempo corso dal 1799 al 1812.
Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…
In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico… Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano… Superfluo è il discorrere della plebe… Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.
Intrecciatisi gli scarsi ai cattivi o pessimi raccolti,impoverì grandemente il popolo ed il tesoro dello stato. A questi disastri, sommi per un paese agricola, si aggiunsero la lunga guerra marittima che fece ristagnare lo scarso commercio; le invasioni dei Barbareschi, produttrici di ingenti spese per lo riscatto degli schiavi e pel mantenimento del navile; le fazioni e i misfatti del capo settentrionale dell’isola, rovinosi per le troncate vite e le proprietà devastate e per le necessità derivatane di una imponente forza pubblica, e quindi di enormi stipendj straordinari, di nuove gravezze, e quindi dell’impiego a favore della truppa dei denari, consacrati agli stipendi dei pubblici officiali…
In questa infelicità di tempi declamavano gli impiegati: i maggiori perché ambivano le poche cariche tenute dagli oltremarini; i minori perché sospesi gli stipendj, difettavano di mezzi d’onesto vivere…i commercianti maledivano il governo e gli inglesi, ai quali più che ai tempi attribuivano il ristagno del traffico… Ondechè, scadutu dall’antica agiatezza antica, schiamazzavano, calunniavano, maledivano… Superfluo è il discorrere della plebe… Questa popolare irritazione pigliava speciale alimento dalla presenza degli oltremarini primeggianti nella corte e negli impieghi, e che apertamente o in segreto reggevano le cose dello stato sotto re Vittorio Emanuele. Doleva il vederli nelle alte cariche, ad onta della carta reale del 1799, che ammetteva in esse l’elemento oltremarino, purché il sardo contemporaneamente s’introducesse negli stati continentali. Doleva che il re, limitato alla signoria dell’isola, non di regnicoli ma di uomini di quegli stati si giovasse precipuamente nel pubblico reggimento, come se quelli infidi fossero verso di lui, e non capaci di bene consigliarlo. Soprattutto inacerbiva gli animi quel loro fare altero e oltrecotato, quel mostrarsi incresciosi e malcontenti del paese ove tenevano ospizio e donde molto protraevano, indettati con certi Sardi che turpemente gli adulavano, quel loro contegno insomma da padroni” 10.
E a tutto questo occorre aggiungere le spese esorbitanti della Corte, anzi di due Corti (quella del re e quella del vice re) ambedue fameliche, che, giunte letteralmente in camicia, portarono il deficit di bilancio alla cifra esorbitante di 3 milioni, quasi tre volte l’importo delle entrate ordinarie. Mentre il Re impingua il suo tesoro personale mediante sottrazione di denaro pubblico che investirà nelle banche londinesi.
Di qui il peso delle nuove imposizioni fiscali, che colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila” 11.
Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta” 12 .
Questi i corposi motivi, economici, sociali, politici, insieme popolari, antifeudali e nazionali alla base della Rivolta di Palabanda. Che in qualche modo univano, in quel momento di generale malessere intellettuali, borghesia e popolo, segnatamente la borghesia più aperta alle idee liberali e giacobine, rappresentate esemplarmente dall’esempio di Giovanni Maria Angioy. Borghesia composta da commercianti e piccoli imprenditori che si lamentavano perché “gli incassi erano pochi, la merce non arrivava regolarmente o stava ferma in porto per mesi. Intanto dovevano pagare le tasse e lo spillatico alla regina” 13.
Per non parlare della miseria del popolo: nei quartieri delle città e nei villaggi delle campagne, dove la vita era diventata ancora più dura dopo che la siccità aveva reso i campi secchi, con “contadini e pastori che fuggivano dai loro paesi e si dirigevano verso le città come verso la terra promessa” 14 .
E così “cresceva l’odio popolare contro il governo e si riponeva fiducia in coloro che animavano la speranza di un rinnovamento” 15 .
Di qui la rivolta: che non a caso vedrà come organizzatori e protagonisti avvocati (in primis Salvatore Cadeddu, il capo della rivolta. Insieme a lui Efisio, un figlio, Francesco Garau e Antonio Massa Murroni); docenti universitari (come Giuseppe Zedda, professore alla Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari); sacerdoti (come Gavino Murroni, fratello di Francesco, il parroco di Semestene, coinvolto nei moti angioyani); ma anche artigiani, operai, e piccoli imprenditori (come il fornaciaio Giacomo Floris, il conciatore Raimondo Sorgia, l’orefice Pasquale Fanni, il sarto Giovanni Putzolo, il pescatore Ignazio Fanni).
Insieme a borghesi e popolani alla rivolta è confermata la partecipazione di molti studenti e militari : “Tutto il battaglione detto di «Real Marina», formato di poco di gran numero di soldati esteri…dipartita colli suddetti insurressori per aver dedicato il loro spirito” 16.
Bene: ridurre questo variegato movimento a una semplice congiura e a intrighi di corte mi pare una sciocchezza sesquipedale. Una negazione della storia.
Note bibliografiche
1. Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AM&D Cagliari, 1995.
2. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 233-234.
3. Pietro Martini, Compendio della storia di Sardegna, Ed. A. Timon, Cagliari 1885, pagina 70.
4. Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume III, Editrice Sardegna, Cagliari 1986, pagina 413.
5.Francesco Cesare Casula, Il Dizionario storico sardo, Carlo Delfino editore,Sassari, 2003 pagina 330.
6. Vittoria Del Piano (a cura di), Giacobini moderati e reazionari in Sardegna, saggio di un dizionario biografico 1973-1812 , Edizioni Castello, Cagliari, 1996, pagina 30.
7. Pietro Martini,Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagine 60-61
8. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, op. cit. pagina 222.
9. Pietro Martini, Compendio della Storia di Sardegna, op. cit. pagina 61.
10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile de’ popoli sardi dal 1799 al 1848, Libreria F. Casanova, Torino 1887, pagine 229-230.
11.Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda (1720-1847), Edizioni Laterza, Roma-Bari, 1984, pagina 252.
12, Ibidem, pagine 252-253.
13. Ibidem, pagina 253.
14. Maria Pes, La rivolta tradita, CUEC,Cagliari 1994, pagina119
15. Ibidem, pagina 120.
16. Ibidem, pagina 151.
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