sabato 6 luglio 2013

Zona franca, il fronte si unisce, Fiscalità di vantaggio? Ecco chi pagherebbe


Fiscalità di vantaggio? Ecco chi pagherebbe
Beniamino Moro
Tra i tanti equivoci da chiarire sulla richiesta di instaurare in Sardegna una zona franca integrale, dove far coesistere un insieme di agevolazioni di natura doganale e fiscale che, come sostengono i proponenti, abbiano l'effetto di aumentare la competitività dei nostri prodotti, di rilanciare i consumi e gli investimenti e di allargare la nostra base produttiva, c'è quello di chi paga il costo della fiscalità di vantaggio.

Gli incentivi fiscali, al contrario di quelli finanziari (contributi a fondo perduto e finanziamenti a tasso agevolato) sono un'arma potentissima di sviluppo economico regionale usata in tutta l'Europa. Negli ultimi 25-30 anni, si è assistito a una concorrenza fiscale senza precedenti, con aliquote al ribasso nella tassazione dei profitti d'impresa derivanti da nuovi investimenti. L'Irlanda, ad esempio, con la fiscalità di vantaggio a favore delle nuove imprese che andavano a localizzarsi nel suo territorio, è passata da un Pil pro-capite che negli anni '80 viaggiava, come quello della Sardegna, tra il 70-75% della media europea a un valore che alla vigilia della crisi finanziaria è arrivato intorno al 130%. Mentre la Sardegna è rimasta al palo. È dentro questo filone di pensiero della concorrenza fiscale utilizzata per promuovere lo sviluppo economico delle Regioni in ritardo di sviluppo che il legislatore ha inserito la fiscalità di vantaggio nella legge 42/2009 sul federalismo fiscale.

Per essere applicata nelle Regioni a Statuto speciale, la legge prevede che queste debbano concordare con lo Stato delle norme di attuazione, che adeguino i loro Statuti di autonomia alle previsioni normative della stessa legge 42. Il Trentino-Alto Adige, nella legge finanziaria del 2010, il Friuli Venezia Giulia e la Valle d'Aosta, nel 2011, hanno concordato con lo Stato le norme di attuazione dei rispettivi Statuti, con l'inclusione al loro interno della fiscalità di vantaggio. La norma che al riguardo si ripete più o meno identica in entrambe le leggi finanziarie è che la Regione o le Province autonome, relativamente ai tributi erariali per i quali lo Stato ne preveda la possibilità, possono in ogni caso modificare aliquote e prevedere esenzioni e deduzioni, purché nei limiti delle aliquote superiori definite dalla normativa statale. Più o meno, si tratta dello stesso contenuto della recente Risoluzione della Commissione Autonomia dell'Assemblea sarda che invita la giunta a formulare al governo una proposta di legge che attribuisca alla Regione la potestà di modificare aliquote, prevedere esenzioni, detrazioni e deduzioni sui tributi erariali di spettanza della stessa Regione.

Peraltro, nella sostanza, lo Statuto sardo già contiene all'articolo 10 una norma che attribuisce alla Regione, al fine di favorire lo sviluppo economico dell'Isola, la facoltà di disporre, nei limiti della propria competenza tributaria, esenzioni e agevolazioni fiscali per nuove imprese. Perciò, quando si rivendica nei confronti dello Stato l'immediata costituzione in Sardegna di una zona franca integrale, di che cosa si sta parlando in realtà? Il tavolo tecnico Stato-Regione è senz'altro la sede idonea per specificare nel dettaglio le norme di attuazione della legge 42/2009 che richiedano modifiche dello Statuto regionale, ma sul punto specifico della fiscalità di vantaggio non si scorgono potenziali conflitti con lo Stato, posto che questa misura è prevista dalla stessa legge 42 e coincide con una norma già contenuta nel nostro Statuto di autonomia. Sul fatto cioè che la Regione, nell'uso delle proprie risorse finanziarie, possa gestire a suo piacimento tutte le forme di fiscalità di vantaggio che ritiene opportune, come peraltro ha già fatto con l'Irap, non mi pare che ci siano dubbi, sempre che formalmente segua la strada corretta dell'accordo con lo Stato. Anzi, sarebbe un modo appropriato di gestire le risorse regionali, invece di sprecarle con le attuali pratiche clientelari. Ma la Regione è pronta a pagare per la fiscalità di vantaggio?


Zona franca, il fronte si unisce
Lo. Pi.
Prima lo scontro, poi la condivisione. La maggioranza ritira un ordine del giorno, le quattro mozioni vengono votate all'unanimità, e il Consiglio ritrova l'unità sulla possibilità di approvare, con procedura d'urgenza, una legge che fissi le regole per l'attuazione della Zona franca sarda. I comitati, intervenuti con le bandiere sotto i portici del Palazzo, sperano che sia la volta buona.

LE QUATTRO MOZIONI 

Le mozioni presentate da Giampaolo Diana per il Pd, da Franco Mula per i Riformatori, da Claudia Zuncheddu per Sardigna libera e da Efisio Arbau per La Base - seppur nelle diversità - impegnano il presidente della Regione a farsi garante con lo Stato per il rispetto del decreto legislativo 75 del 1998, che prevede l'attivazione di punti franchi in sei porti sardi e nelle aree industriali contigue, attraverso una deroga della presidenza del Consiglio. 

L'ASPETTO SALIENTE 

Ma l'aspetto politico saliente è che ci sono l'accordo di tutte le forze politiche a discutere con procedura d'urgenza due proposte (a firma di Gianvalerio Sanna del Pd e di Giacomo Sanna del Psd'Az) e l'impegno di esitare una legge che diventerà la proposta dell'assemblea per l'attuazione della Zona franca. Che tutti vogliano le agevolazioni fiscali è assodato. Anche se, per dirla con le parole del consigliere Pd Chicco Porcu, «non si capisce se la maggioranza persegua quella doganale fiscale o quella integrale». 

IL GOVERNATORE 

Zona franca che, per il presidente della Regione Ugo Cappellacci, si ottiene facendo leva su due strumenti normativi: l'articolo 164 del trattato europeo che parla di coesione sociale e territoriale e la legge 42 sulla riforma federale che prevede politiche fiscali di vantaggio per l'insularità. In aula ha lanciato un appello a Renato Soru: «Venga con me, a Roma e in Europa, come il centrodestra fece per la Vertenza entrate». E poi: «Sono pronto a fare un passo indietro, se il problema sono io, così come dice il segretario regionale del Pd, Silvio Lai. Costituiamo un Comitato per il bene della Sardegna». In serata il governatore dirà: «Il pronunciamento unanime è un segnale positivo. L'auspicio è che sia il punto di partenza di un'azione condivisa. Quella per la zona franca è una battaglia che non appartiene a un solo esponente politico, a una fazione piuttosto che un'altra, a un singolo territorio o a un'unica categoria». 

L'OPPOSIZIONE 

Per Giampaolo Diana, autore di una delle quattro mozioni, «nel suo intervento Cappellacci ha dimostrato di non sapere come realizzare la Zona franca. Il fatto che la maggioranza abbia ritirato un ordine del giorno a sostegno del governatore la dice lunga». Ma Pietro Pittalis, capogruppo del Pdl, replica: «L'abbiamo ritirato anche per non dare alibi al Pd e al Psd'Az». Nel merito Diana ha aggiunto: «Le forze politiche devono provare a completare un progetto che, attraverso la fiscalità di vantaggio, metta le imprese nella condizione di scaricare costi del lavoro importanti per allargare la base lavorativa». Insoddisfatta dell'intervento di Cappellacci anche Claudia Zuncheddu mentre Franco Mula ed Efisio Arbau hanno constatato «le distanze tra il Consiglio e l'esterno» e, soprattutto Mula, «il fatto che gli amministratori dei Comuni siano più avanti». 

POLEMICA 

Gianvalerio Sanna a Cappellacci ha chiesto spiegazioni sulle indiscrezioni relative «a un uso dell'autista per scopi privati e sul personale estraneo alla missione». Replica del portavoce del governatore: «Il presidente utilizza l'auto privata anche per le occasioni istituzionali e durante i suoi spostamenti viene accompagnato da due agenti di pubblica sicurezza. Inoltre la Giunta ha ridotto, dimezzandole, anche le auto lasciate in eredità dall'ex assessore Sanna ai Gabinetti della Regione». Silvio Lai, invece, attacca sulla Zona franca: «Se vuole davvero un fronte comune deve fare ben più di un passo indietro e smetterla di fare promesse inattuabili». Anche perché è «un re Mida al contrario».

REAZIONI 

In serata è intervenuta l'europarlamentare Pd Francesca Barracciu. Soddisfatta «per la decisione del Consiglio di procedere speditamente nell'esame delle proposte di legge». Quindi il leader Psd'Az Giacomo Sanna: «Ritengo che l'approvazione di un testo condiviso rappresenti una straordinaria occasione per fare chiarezza sull'istituzione del regime franco e serva a certificare l'unità del popolo sardo su una battaglia storica». Battaglia su cui interviene Felicetto Contu (Udc), che fa ammenda del passato e poi dice: «Quando una bandiera c'è, si prende». 

«F35: nessun veto, Presidente Napolitano»

SA DEFENZA E' CONTRO L'ACQUISTO DEGLI F35 ,  PERCHE' E' STRUMENTO DI MORTE, INOLTRE E' INACCETTABILE COMPRARE AGGEGGI TECNOLOGICI COSI' COSTOSI MENTRE IL POPOLO SOFFRE E GEME PER LA CRISI INVENTATA DALLE BANCHE E DALLE ELITE PRIVATE!


LA REPLICA. Il deputato del Pd risponde al Capo dello Stato sull'acquisto degli aerei
«F35: nessun veto, Presidente»
Scanu a Napolitano: il Parlamento è sovrano per legge

di Augusto Ditel
unionesarda.it
Gian Piero Scanu

Al solo sentir parlare di diktat (posti o subìti), Gian Piero Scanu s'irrigidisce. Democristiano di lungo corso, rischia di beccarsi l'orticaria, così, in assoluto. Figuriamoci se la materia del contendere - attualissima, addirittura rovente negli ultimi giorni - è una spesuccia di 20 miliardi per l'acquisto degli aerei F35. 


I toni del deputato Pd non si smorzano anche se l'accusa del (presunto) veto posto dal Parlamento nei confronti del Governo è arrivata dal Capo dello Stato. «Ma quale veto e veto - manda a dire, con veemenza, a Giorgio Napolitano, l'autore della mozione che ha deciso lo slittamento di ogni decisione sulla quantità dei cacciabombardieri da ordinare alla Lockheed -: è solo l'esercizio della propria sovranità».

Un po' di rispetto, onorevole Scanu.

«Non ho offeso nessuno. Mi sono semplicemente riferito a una legge dello Stato, la 244 del 2012, che assegna al Parlamento (articolo 4) il compito di stabilire di quanti e quali strumenti d'arma si debba dotare il Paese».

Aerei, ma non solo.

«Certo. Aerei, ma anche navi, carri armati... Siamo di fronte a una vera e propria riforma da attuare in sinergia con il Governo, al quale Camera e Senato diranno cosa deve fare, al termine di un'indagine conoscitiva coordinata dalla commissione Difesa della Camera di cui faccio parte come capogruppo del mio partito».
Che ormai è spaccato.

«Rammento che il Pd ha votato all'unanimità la mozione, e mi auguro che mantenga la sua compattezza. Certo, oggi qualcuno storce il naso solo perché è intervenuto il Presidente della Repubblica, che è pur sempre il Capo delle Forze Armate. Ma Napolitano sa bene che il Consiglio Superiore di Difesa, composto da sette ministri, non ha il potere di modificare una legge. Anch'io del resto ho detto la mia dopo la presa di posizione del Csd, in quanto errata».

Sempre i soliti: quando non c'è accordo, si rinvia.

«È un'accusa ingenerosa e capziosa, questa, figlia di un'opposizione che si muove all'insegna dello sconsiderato “tanto peggio tanto meglio”. Eppoi, contesto nel merito il fatto che si sia trattato di un rinvio. È stato un blocco. Di fatto abbiamo ordinato all'esecutivo di non procedere all'acquisizione di alcuno strumento d'armi fino a quando il Parlamento non ultimerà il suo lavoro».

Cioè quando?

«La tempistica è già ben definita. Entro dicembre si riunirà il Consiglio d'Europa (è stato già convocato) al quale spetta il compito di fissare la politica comunitaria su Sicurezza e Difesa. A gennaio 2014 avremo un'idea precisa di come sviluppare l'attività di Difesa. Insomma, bisognerà attendere l'esito della due diligence , poi arriveranno le decisioni».

Quanti F35 sono stati già acquistati?

«A saperlo... C'è chi dice tre, chi sette, chi dieci. Anche questo, come ho avuto modo di stigmatizzare in sede di dichiarazione di voto alla Camera, è un paradosso inaccettabile: non siamo in grado di conoscere il numero esatto degli aerei. Sembra incredibile, ma è proprio così».

Quanto costa un F35?

«A saperlo... Nessuno sa indicare una cifra esatta, ma c'è una spiegazione: a differenza di altri Paesi, l'Italia ha acquistato i prototipi, che notoriamente sono più costosi. Un altro erroraccio».

Quanto sarebbe la spesa totale?

«Per queste ragioni, non lo so indicare, ma comunque siamo nell'ordine di una ventina di miliardi. Del resto, stiamo impiegando un paio di mesi per evitare l'aumento di un punto dell'Iva, e non possiamo utilizzarne qualcosa di più per gli F35? Siccome le armi non sono giocattoli, prima di spendere questa montagna di soldi, bisogna pensarci non una, ma mille volte».

Meglio costruire asili.

«Un'altra sciocchezza contenuta nella mozione dell'opposizione. Chi sa di amministrazione pubblica, non dice queste castronerie. Una somma destinata a qualcosa di specifico, stabilito per legge, non può essere trasferita sic et simpliciter , con un colpo di bacchetta magica, in un altro capitolo di spesa. L'ennesimo esempio di demagogia».

Un passo indietro: la prima ipotesi era di acquistare 131 aerei.

«È corretto».

Poi, il ministro Giampaolo Di Paola scese a 90.

«Giusto. Oggi però sarebbe sbagliato anticipare qualsiasi quantità per le ragioni illustrate poco fa».

Ma questi 90 mezzi sono stati già ordinati?«Lo escludo nella maniera assoluta. Nessun ordine, nessun impegno, nessuna penale in caso di rinuncia. Chi afferma il contrario, mente sapendo di mentire».


Questo lo dice lei.«No, è nei fatti: altrimenti il ministro Di Paola non avrebbe potuto passare in una notte da 131 a 90».


Si dice che gli F35 non siano esenti da difetti, e che non generino molti posti di lavoro.

«L'indagine conoscitiva dovrà analizzare anche questi aspetti non secondari. Potrebbe accadere, ad esempio, che l'acquisto dei mezzi aerei sia più opportuno farlo rivolgendosi al Consorzio Europeo di cui l'Italia fa parte, e non agli Usa. D'altronde sarebbe auspicabile tendere al massimo dell'efficacia e a un'omogeneità dei mezzi di difesa a livello europeo. Così come dovrà essere dimostrato, e soprattutto quantificato, il ritorno in termini occupazionali dell'una e dell'altra opzione».

L'industria militare comunque è una risorsa.

«Non solo lo sottoscrivo, ma aggiungo che non va mandata a fondo. L'Italia però deve procedere con prudenza estrema, perché la materia è estremamente delicata oltreché assai costosa. La Difesa di un Paese è un valore prezioso».

L'articolo 11 della Costituzione però ci ricorda che l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa...

«Già. È bene ricordarlo».



venerdì 5 luglio 2013

Come reagiranno i Paesi Occidentali all’aumento indefinito del loro debito: Mega-QE, Decrescita, Inflazione Globale o Default?

Come reagiranno i Paesi Occidentali all’aumento indefinito del loro debito: Mega-QE, Decrescita, Inflazione Globale o Default?


La stampa ed i media spesso si focalizzano su scenari di corto respiro. Proviamo insieme a dare un’occhio a cio’ che accade a livello globale e non con l’ottica delle settimane, ma degli anni, con qualche ragionamento
SU SCALA GLOBALE, NEI PAESI AVANZATI STA AUMENTANDO PROGRESSIVAMENTE IL LIVELLO DI DEBITO PUBBLICO
La crescita del Debito Pubblico nei paesi avanzati e’ irrefrenabile e procede da 40 anni, con un’accelerazione dal 2008.
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SU SCALA GLOBALE, NEI PAESI AVANZATI STA AUMENTANDO PROGRESSIVAMENTE IL LIVELLO DI DEBITO PRIVATO
La crescita del Debito di famiglie ed imprese nei paesi avanzati e’ altrettanto irrefrenabile e procede anch’essa da oltre 3 decenni.
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LA CRESCITA ECONOMICA NELLE NAZIONI AVANZATE E’ IN PROGRESSIVO RALLENTAMENTO
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LE SPESE PUBBLICHE SONO IN CRESCITA, PARTICOLARMENTE A CAUSA DELL’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE (BOOM DELLE SPESE SANITARIE E PENSIONISTICHE, CONNESSE AI CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI)
Qui l’esempio delle spese sanitarie
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TIRANDO LE SOMME:
A) NELLE NAZIONI AVANZATE E’ IN ATTO UN PROGRESSIVO AUMENTO DELLA MASSA DEBITORIA PUBBLICA E PRIVATA, PROCESSO CHE TENDE AD AUTOALIMENTARSI IN QUANTO IL LIVELLO DI RICCHEZZA (PIL) HA CRESCITE CONTENUTE ED AL TEMPO STESSO IN QUANTO TENDONO A CRESCERE ALCUNE SPESE PUBBLICHE E PRIVATE (SANITARIE IN PRIMIS) A CAUSA DELL’INVECCHIAMENTO DELLA POPOLAZIONE.
B) NEGLI ULTIMI ANNI I GOVERNI E LE ISTITUZIONI FINANZIARIE HANNO REAGITO CON ENORMI INIEZIONI DI DENARO (QUANTITATIVE EASING) AL FINE DI STIMOLARE L’ECONOMIA E TENERE BASSI I TASSI (COSA CHE CONSENTE ANCHE DI AVERE MINORI ESBORSI PER INTERESSI), MA LE TENDENZE DI FONDO COMPLESSIVE NON SONO MUTATE

COSA DOBBIAMO ASPETTARCI IN FUTURO?
Le nazioni occidentali si trovano di fronte a scenari futuri che prevedibilmente prevedono:
- Crescite economiche basse
- Aumento ulteriore di debiti (pubblici e privati)

NEL MEDIO E BREVE PERIODO, LA REAZIONE SARA’ IN LINEA CON QUELLA VISTA NEGLI ULTIMI ANNI:
- Continueranno le politiche di sostegno all’economia
- I Tassi di interesse resteranno molto bassi, in quanto le nazioni occidentali non possono permettersi allargamenti ulteriori dei deficit e quindi incrementi tendenziali dei debiti ancor piu’ spinti
- Continuera’ la compressione della ricchezza delle classi medie produttive
- Difficilmente i livelli di Spesa Pubblica verranno intaccati: l’andamento demografico controbilancera’ azioni di riduzione della spesa pubblica di settori diversi da sanita’ e pensioni

NEL LUNGO PERIODO, PERO’, I TREND SARANNO INSOSTENIBILI. LE NAZIONI OCCIDENTALI DOVRANNO DECIDERE CHI PAGHERA’ IL CONTO, E SI TROVERANNO DI FRONTE A DELLE SCELTE; qui riportiamo 2 delle possibili scelte :
A) NON PAGARE PARTE DEI DEBITI ACCUMULATI (in sintesi fare una sorta di Default)
B) ALIMENTARE L’INFLAZIONE A LIVELLO GLOBALE (in modo che questa spinga in alto il PIL nominale, ed in basso i valori di Debito in rapporto al PIL)
Personalmente sono incline a pensare che alla fine si optera’ per la soluzione B, che consente tra l’altro un’abbattimento di alcune spese correnti (esempio: pensioni).
Badate bene che quanto sopra non si verifichera’ Domani, ne’ Dopodomani. Prima o poi, e’ comunque inevitabile che Qualcuno sia chiamato a Pagare.

L’ITALIA
In un quadro mondiale complessivo non troppo simpatico, l’Italia ha tutti i problemi del mondo avanzato, amplificati (alto debito, alta spesa pubblica, dinamiche demografiche, etc). Ha inoltre un’altro problema enorme, connessa alla produttivita’ e competitivita’, che semplicemente non sta affrontando. Per cui, certamente il Bel Paese continuera’ nel Trend Depressivo e tendente all’impoverimento.
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giovedì 4 luglio 2013

CARO SINDACO TENDAS . STAVOLTA E' GROSSA



Gigi Sanna









Io penso che ai sindaci di tutti i comuni (sardi e non), nessuno escluso, si possano perdonare tante cose e tanti errori date le obiettive difficoltà in termini economici in cui ci troviamo. Infatti, nessuno può ergersi a giudice di coloro che oggi sono in prima linea per cercare di salvare il salvabile di quella che una volta era, in fondo, l'amministrazione normale di una città normale o a misura d'uomo. Ma non si può perdonare ad essi la mancanza di senso 'politico' della comunità che governano soprattutto quando questa gode del privilegio di avere una storia illustre. Addirittura tanto illustre da essere conosciuta e inserita nella stessa storia dell'Europa del periodo Basso Medioevale. Perché Aristanis - lo si sa - era considerata città 'metropolitana', capitale cioè di un vero e proprio stato sovrano, quello di Arborea, alla pari con gli altri stati sovrani del tempo. 


Pertanto allorché un sindaco di Oristano si reca in qualsiasi luogo d'Italia, d'Europa e del mondo, per quanto i tempi siano cambiati ed il ruolo della città divenuto (purtroppo) marginale, ha il dovere morale di mostrare fierezza del passato e possibilmente di ricordare, dove possibile e quando possibile, i momenti gloriosi di quel passato. Non deve mai umiliarlo, per improvvisazione e per superficialità nella conoscenza della storia, attribuendo all'antica capitale macchie comportamentali per nulla sue. Macchie per giunta, va precisato, di singoli individui e mai di 'comunità'.
Lasciano quindi di stucco certe parole usate dal primo cittadino di Oristano, in un momento del tutto particolare (di nuovo storico) quale è stato quello dell'audizione dei rappresentanti sardi da parte della Commissione europea incaricata di valutare la problematica legislativa circa l'istituzione della Z.F.I nel territorio della Sardegna.


Eccole (per la parte che particolarmente interessa):

“Io mi onoro di essere sindaco di una comunità che a metà dell’Ottocento si inventò le carte di Arborea per giustificare le proprie origini blasonate, in un periodo in cui tutte le nazioni europee cercavano quali erano le proprie origini perché c’era bisogno di creare le grandi nazionalità europee, a Oristano si erano inventate queste carte! Peccato che i tedeschi dopo 50 anni scoprirono che erano proprio false che tutto quello che era scritto nelle carte di Arborea erano falsificazioni, belle, per sentirci importanti! Ma la maggior parte delle cose non erano vere quindi i miti, però quelle falsità servirono a creare il mito della nazione sarda che esiste e che si sta ri- perpetuando. Domenica scorsa mille persone hanno ascoltato il presidente Cappellacci che diventava il capo-popolo di un’isola che si sente nazione e che però si trova grazie anche a questo capo-popolo nelle condizioni in cui si trova oggi e che pensa di risolvere i problemi inventandosi la zona franca”.

Come si fa , da un punto di vista concettuale, ad essere 'onorati di guidare una città di falsari per giustificare 'blasoni', Dio solo lo sa! E non so cosa abbiano pensato in quel momento i parlamentari di Bruxelles. Crediamo che mai un sindaco nella storia abbia esordito così. Mi dispiace doverlo dire ma va detto. Perché parlare a braccio rende autorevoli ma spesso gioca brutti scherzi tanto che per prudenza qualche volta bisogna scriverli con umiltà certi discorsi. Nessuna 'diminutio'. Lo fanno spessissimo i papi e non lo fanno invece quelle vere pipe che siamo noi, sindaco Tendas compreso. 


Comunque, la cosa che veramente importa non è formale ma il fatto che Guido Tendas non è sindaco di nessuna 'comunità che si invento le carte di Arborea', per il semplice motivo che quelle carte, come tutti sanno, se le inventò e le compilò su pergamene autentiche antiche (ricavate da antichi testi medioevali) Ignazio Pillitto archivista cagliaritano del Comune di Cagliari. Il falsario fu lui e mai venne coinvolto, che si sappia, nessun oristanese né degli Scolopi né di altri istituti religiosi; a meno che Guido Tendas non si riferisca a Salvatorangelo De Castro. Ma allora la cosa sarebbe ben più grave perché avrebbe svolto il ruolo di Preside (e per non poco tempo) in una scuola intitolata ad uno ...spregevole oristanese falsario. E senza mai dire niente e muovere un dito per rimuovere la lapide in latino, quella che il preside prof. Bruno Manai aveva di suo pugno scritta (e fatta collocare nell'androne che porta alla sala della Presidenza) per il canonico parlamentare e studioso che onorava, ormai da tempo, con il suo nome illustre il liceo classico. Si sa che diversi studi, compreso il saggio monografico del prof. Paolo Gaviano (oristanese), hanno dimostrato l'infondatezza di un'accusa a dir poco campata per aria. Oristano quindi non si inventò nulla, proprio nulla. Non fu capitale di ignobili invenzioni. Fu capitale grandissima, quando lo fu, di ben altro.

Circa il romanticismo sardo, sarà bene precisare che, così come tutti i romanticismi d' Europa (compreso quello dell'Italia che non era, come tutti sanno, una 'nazione' ma un insieme di 'nazioni'), esso andò correttamente e nobilmente a riscoprire le robuste origini 'nazionali' della Sardegna e le trovò, tra l'altro, soprattutto nella storia basso medioevale della Sardegna, cioè nella lunga e secolare lotta dell'indipendenza della Sardegna messa in atto dagli Arborea a partire dal rex Sardiniae Barisone I (storia questa e non certo mito, documentata in seguito dalle carte dell'Archivio della Corona d'Aragona e da altri archivi ancora di Comuni italiani). 


La Sardegna sino a che non sopraggiunse la colonizzazione italiana era ritenuta 'nazione sarda' (da 'natio', il nome che i Romani davano ai popoli uniti da una lingua comune, da comuni tradizioni e da un territorio) anche dagli spagnoli ( 'naciò sardesca'). Non c'era quindi bisogno di inventarsi nulla, proprio nulla, neppure dal punto di vista terminologico. Semmai bisognava consolidare e contemporaneamente rendere più celebre quella comune opinione di 'nazione'. Cosa che fecero gli intellettuali romantici sardi parlando (per come poterono e per quanto 'politicamente' poterono) di lingua e letteratura sarda, di storia sarda, di economia, di tradizioni e di archeologia sarda.
La letteratura e la documentazione del tempo mostrano 'ad abundantiam' questo sforzo generosissimo dei vari Giovanni Spano, di Vittorio Angius, di Antonio Soggiu (vescovo di Oristano), di Salvatore Cossu, di Salvatorangelo Maria de Martis e di altri numerosi intellettuali del tempo (soprattutto preti e religiosi della chiesa cattolica).


In questo genuino e disinteressato fervore 'nazionalista' di stampo romantico europeo si infilò, purtroppo, l'attività criminale del Pillitto che, uomo scaltro e coltissimo qual' era, trovò terreno fertile per infilarvi a scopo di lucro i suoi (e solo suoi, fino a prova contraria) falsi. Quindi i romantici di allora e tanto meno gli oristanesi (anche se i falsi riguardarono quasi tutti le vicende degli Arborea) non si inventarono nulla. Accadde solo che da un farabutto e forse da qualche altro 'mercante' compare venissero ingannati gli studiosi e i 'letterati' meno perspicaci o troppo amanti della loro nazione. Compreso il can. De Castro che ebbe come unico torto quello di credere troppo e ad oltranza alla genuinità delle pergamene, nonostante l'autorevole pronunciamento degli storici e dei filologi della formidabile scuola tedesca.

Quindi Tendas ha (lui sì) detto cose false, autoproclamandosi così comicamente, senza rendersene conto, il primo 'falsario' della storia oristanese. Lui guida, si tranquillizzi, una città onesta e gloriosa, mai macchiata da falsi di nessun genere. Se in Sardegna c'è ancora una 'resistenza' storica e non tramonta il concetto di Sardegna come 'popolo a sé', con una sua precisa identità, e cioè 'nazionale', lo si deve alla grandezza morale di Oristano e degli Arborea! Lo si deve alla loro superba legislazione estesa a tutta la Sardegna, al popolo sardo o 'nazione sarda' che la si voglia chiamare. La 'mitopoiesi' (cioè la rivisitazione falsa del passato per rendere glorioso il presente) è invenzione di una certa sinistra radicale isolana e di una scuola antropologica che intende, con questa parola fasulla e senza senso, caparbiamente negare e mortificare la storia, veramente accaduta, che ha riguardato i Sardi e la Sardegna.

Un ultimo rilievo.
L'espressione ' domenica scorsa mille persone hanno ascoltato il presidente Cappellacci che diventava il capo-popolo di un’isola che si sente nazione e che però si trova grazie anche a questo capo-popolo nelle condizioni in cui si trova oggi e che pensa di risolvere i problemi inventandosi la zona franca” è quasi non commentabile non solo perché oggettivamente confusa e pasticciata, ma soprattutto perché c'entra come i classici cavoli a merenda, dato che i rappresentanti del Parlamento europeo erano davanti al Sindaco di Oristano perché volevano sentire da lui i motivi tecnico-politici e non meschinamente partitici (quell'inventarsi una 'zona franca inventata' è saggio non edificante di sterile polemica politico-partitica) circa l'attuazione o meno di uno strumento economico singolare nuovo come la zona franca integrale e non più gli obsoleti soli punti franchi statutari. Anche in quella occasione di possibile anche se precariamente dialettica unità c'è stata una rovinosa caduta di stile e ha trionfato la maledizione storica dei 'pocos, locos e male unidos'. Io mi auguro tanto che i parlamentari europei non conoscessero l'espressione di quel re famoso, nemico dei Sardi e della loro libertà che però, ci piaccia o non ci piaccia, aveva capito molto bene di che pasta orribile eravamo e siamo tuttora fatti. Nonostante il grido esaltante di battaglia 'Arbare-e' e quello dolorosamente sublime di 'fortza paris' della e dalla trincea dei nostri nonni.
 

I TRATTATI INTERNAZIONALI SOPPIANTANO LE COSTITUZIONI (MA CON IL CONSENSO DELLE STESSE)

I TRATTATI INTERNAZIONALI SOPPIANTANO LE COSTITUZIONI (MA CON IL CONSENSO DELLE STESSE)
Di comidad (del 04/07/2013 
Le notizie di stampa sullo scandalo spionistico denominato "datagate", hanno determinato in Europa lo scatenarsi di ipocriti rituali di sorpresa e di indignazione. Tra le autorità europee la parola d'ordine è stata quella di cadere dalle nuvole, di dichiararsi stupefatti o "allibiti", come se l'attività spionistica a tutto campo della National Security Agency non fosse già arcinota. A Sigonella è persino in allestimento un mega-impianto di spionaggio elettronico, il MUOS, con il quale gli USA avranno il territorio europeo sotto un controllo ancora più capillare; ed è chiaro che si tratta non soltanto di spionaggio militare, ma anche nel settore industriale e finanziario, sino alla sfera dei vizi privati, utilissimo strumento di ricatto.

Ma ad indicare la serietà di queste recite in Europa, basterebbe anche solo il fatto che ci si è immediatamente dimenticati che lo scandalo spionistico aveva coinvolto poche settimane fa un Paese europeo, cioè il Regno Unito, il cui servizio segreto, MI6, nell'aprile del 2009 aveva allestito addirittura dei falsi internet cafè per spiare i diplomatici stranieri ospitati a Londra per il G20.
Se questo è il grado di memoria degli avvenimenti, si può facilmente prevedere che tutta questa bolla di indignazione verso gli USA svanirà molto presto, e ciò vale anche per le dure dichiarazioni di monito del commissario europeo Viviane Reding, che ha minacciato conseguenze sui negoziati tra USA e UE per il mercato transatlantico (indicato dall'acronimo TTIP) che dovrebbe andare in vigore dal 2015. 
Ambasciata italiana a Washington 

A riconferma dell'inattendibilità di certe reboanti dichiarazioni di dignità offesa, ci ha pensato anche il presidente francese Hollande, il quale, mentre chiedeva una sospensione ("temporanea", per carità!) dei negoziati per TTIP, poi si calava completamente le brache nei confronti degli USA, giungendo all'atto folle ed inaudito di negare lo scalo all'areo del presidente boliviano Morales, nell'ipotesi che questi portasse con sé il ricercato Snowden; un gesto ostile che non va solo contro ogni regola del diritto internazionale, ma anche contro il semplice buonsenso.

Le parole della Reding e di Hollande sono risultate interessanti soltanto per un motivo, e cioè che hanno segnalato l'esistenza e l'importanza di un negoziato transatlantico di cui l'opinione pubblica europea non sapeva assolutamente nulla. I primi accenni in pubblico vi sono stati all'ultimo G8 tenutosi il 17-18 giugno in Irlanda del Nord, tanto da consentire al nostro Enrico Letta di citare la questione del TTIP nella sua conferenza stampa. Un po' tardi per venircelo a dire, dato che i negoziati sul TTIP erano cominciati nel 2007, anche se il trattato finale dovrebbe essere ratificato entro il 2015.

La questione del mercato transatlantico però non era mai stata affrontata nel dibattito politico, e tantomeno nelle campagne elettorali, a conferma del fatto che la politica è il luogo del futile e dell'intrattenimento. Magari, come fa la cancelliera Merkel, il proprio elettorato può essere usato come fantoccio e come alibi per decisioni già prese altrove. Ciò non vale soltanto per gli elettorati, ma anche per i parlamenti, che hanno solo una funzione di ratifica, come ha ulteriormente dimostrato la posizione del Consiglio di Difesa a proposito del business dell'acquisto dei caccia F35, per il quale al parlamento italiano è stata negata la facoltà di immischiarsi. 



La consapevolezza che la lotta politica ufficiale costituisca un rituale vuoto, o una messinscena, ha cominciato a farsi strada persino nel ceto politico tradizionale. In una recente intervista l'ex segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, ha denunciato la scomparsa della "sinistra", ed ha proposto una sua analisi della situazione europea, secondo la quale le "costituzioni materiali" degli eurocrati starebbero soppiantando le costituzioni antifasciste dei vari Stati. 

Ad indiretto sostegno delle tesi di Bertinotti è giunto un documento della mega-banca statunitense JP Morgan, nel quale si sostiene che in un'Europa integrata sarebbe urgente liberarsi delle Costituzioni antifasciste, con la loro zavorra di garanzie sociali. 




Si può comprendere che a JP Morgan dia fastidio anche solo il suono della parola "antifascismo", ma il documento dei banchieri, nel suo lamento recriminatorio, sembra volutamente ignorare che le Costituzioni antifasciste hanno già recepito al loro interno dei corpi estranei come la norma sul pareggio obbligatorio di bilancio; oppure hanno consentito ai governi accordi come quello per il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cui trattato istitutivo garantisce addirittura alla oligarchia finanziaria del MES un'assoluta immunità giudiziaria, cioè un tale grado di impunità legalizzata che il Buffone di Arcore non avrebbe osato immaginarsela neppure nei suoi sogni più pornografici. 

Si ha quindi l'impressione che la sortita di JP Morgan abbia un obiettivo di psicoguerra, cioè di indicare alle opposizioni europee una sorta di falso rifugio, che in realtà si è rivelato molto permeabile ai bombardamenti. L'analisi di Bertinotti contiene infatti un punto debole abbastanza evidente, dato che la cosiddetta "eurocrazia" non si fonda su "costituzioni materiali", bensì su istituti costituzionalmente rilevanti, come sono i trattati internazionali. Se oggi il negoziato per il trattato TTIP lo conduce Bruxelles e non Roma, non è per un abuso improvvisato, ma in virtù dei Trattati di Maastricht e di Lisbona
.
La sinistra, come soggetto politico, è effettivamente scomparsa, ma come area di opinione oggi si aggrega attorno a dei feticismi come quello per la nostra "bellissima Costituzione". Non si considera che la nostra Carta Costituzionale forse nelle intenzioni sarebbe anche "antifascista", ma si riferisce strettamente ai fascismi del passato, e nulla ha da dire sul nuovo superfascismo dei trattati internazionali. Anzi, l'articolo 75 della Costituzione pone addirittura i trattati internazionali al riparo dai rischi di referendum abrogativo.

Il fatto che si sia strutturato da tempo un articolato dominio transnazionale in forma di trattati ed organismi sovranazionali, costituisce ormai un'evidenza, ma l'opinione di sinistra continua a basarsi su un internazionalismo astratto, che non riesce ad andare oltre la categoria di solidarietà. Questo è il motivo per il quale la solidarietà dell'opinione di sinistra può essere agevolmente abbindolata e fagocitata dallo spettacolo di "rivoluzioni colorate", stranamente dirette sempre e solo contro i loro poteri interni, come se il dominio transnazionale non esistesse per niente. 

Le Costituzioni "antifasciste" non sono solo i bersagli di questa situazione, ma hanno dei risvolti ideologici che consentono parecchie stranezze. Una ventina di anni fa la tresca tra capitalismo privato e denaro pubblico era ancora uno di quegli orribili segreti di famiglia così ben custoditi che ad osare di svelarli si passava per farneticatori. Oggi invece è davanti agli occhi di tutti che il salvataggio delle banche private operato dalla Unione Europea costa ai contribuenti molto di più di una loro nazionalizzazione. 

Allo stesso modo, le SpA una volta si giustificavano come mezzo per raccogliere risparmio da destinare agli investimenti produttivi. Attualmente non c'è più bisogno di alimentare questa mitologia, ma tutti sanno che le SpA non fanno investimenti, ma distribuiscono solo dividendi e, pur di farlo, sono prontissime a distruggere posti di lavoro. Gli "investimenti produttivi" li si pretende dai governi e dalla spesa pubblica; ma anche qui le cose non vanno lisce, poiché, ad esempio, i fondi pubblici che la UE destina alle imprese servono per finanziare le delocalizzazioni, col pretesto dello "sviluppo regionale". 

In anni di denunce a riguardo da parte di parlamentari europei, la Commissione Europea ha pubblicato varie "linee guida" che avrebbero dovuto impedire le delocalizzazioni. Le ultime sono del giugno del 2013; ma il fatto che queste "gride" si ripetano, indica che il dato permane, e che non lo si vuole sostanzialmente modificare.


La Commissione europea pubblica le linee guida sugli aiuti di Stati a finalità regionale 2014-2020

Il cosiddetto "capitalismo" si basa quindi non solo sullo sfruttamento del lavoro, ma anche sul saccheggio della spesa pubblica. L'operaio è spremuto due volte, non solo come lavoratore, ma anche come contribuente; e le tasse che paga, vanno a finanziare non i servizi pubblici, ma la perdita del suo posto di lavoro.
Eppure il rancore sociale viene facilmente indirizzato contro i pensionati, gli statali, i Meridionali, i "falsinvalidi", e si alimenta l'odio generazionale, narrando la fiaba di un Paese che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi facendo debiti scaricati sulle future generazioni. 

La corruzione e l'evasione fiscale vengono additate come nostri vizi nazionali, perciò rappresenterebbero una vergogna da superare accedendo alle virtù della civilizzazione europea. Che poi la gran massa dell'evasione e dell'elusione fiscale sia da addebitare alle multinazionali, e che questa frode sia legalizzata da una legislazione internazionale che consente il riciclaggio tramite il no profit delle fondazioni private, tutto questo rimane un dettaglio insignificante. E c'è anche di peggio: una volta i paradisi fiscali erano loschi Paesi caraibici, mentre adesso ad offrire tassazioni privilegiate sono "irreprensibili e virtuosi" Paesi nord-europei come l'Austria.

Nel 1947, durante i lavori della Assemblea Costituente, il filosofo Benedetto Croce affermò che il fascismo continuava nell'antifascismo, poiché questo aveva recepito il nucleo più autentico del fascismo stesso, cioè la denigrazione dell'Italia e della sua Storia. 

Il fascismo non rappresentava un senso esasperato di dignità nazionale, ma una forma di auto-razzismo e di auto-colonialismo, cioè l'idea che i popoli siano materia bruta da plasmare per finalità superiori. 

Ancora adesso per un fascista non è che Mussolini abbia fregato gli Italiani, ma sono stati gli Italiani a non dimostrarsi degni di avere un capo come Mussolini. Il Duce spinse l'Italia a scelte folli pur di renderla degna di assidersi al banchetto coloniale insieme con i popoli superiori del Nord Europa. Chissà perché, ma questo complesso d'inferiorità del Duce ricorda molto una decisione assurda come aderire alla moneta unica pur di non rimanere esclusi dal "paradiso" europeo. 

Secondo il falso antifascismo recepito dalle nostre Costituzioni, invece le minacce per la libertà provengono sempre dall'interno, dal "nazionalismo" e dal "dittatore". Sono premesse dalle quali i sillogismi vengono automatici: Gheddafi era un "dittatore", quindi era il Male (un "mascalzone", secondo quella cima di Pietro Ingrao), la NATO invece è un'organizzazione internazionale, quindi è il Bene. E così via. Se la Grecia fosse così devastata da un "dittatore", allora sarebbe nostro dovere indignarci ed essere solidali; ma visto che la Grecia è sotto il dominio del Fondo Monetario Internazionale, allora si può far finta di niente.

“La democrazia in Europa è sospesa e travolta dal capitalismo”

“La democrazia in Europa è sospesa e travolta dal capitalismo”

di Ana Pardo De Vera * 
http://www.publico.es/internacional

"L'Euro è stata una delle forme attraverso le quali il neoliberalismo è entrato in Europa". Intervista all'economista portoghese Boaventura de Sousa Santos.
 Boaventura de Sousa Santos

Il professore portoghese e intellettuale di riferimento per i movimenti sociali, Boaventura de Sousa Santos, analizza per ‘Público' la crisi della UE e la trappola capitalista del debito sovrano e le politiche di austerità per distruggere l’ultimo bastione della protezione sociale e del lavoro in Europa. 

Boaventura de Sousa Santos è dottore in Sociologia del Diritto per l’Università di Yale e ha la cattedra di Sociologia nell’Università di Coímbra. 

Questo fine settimana è a Madrid con l’Università Popolare dei Movimenti Sociali (UPMS), un’iniziativa che arriva per la prima volta in Spagna e riunisce per due giorni oltre 40 collettivi e movimenti sociali, professori universitari e artisti di vari paesi in cerca di formule per organizzarsi e ricostruire il malconcio sistema democratico in Europa. 

Si può già dire che il progetto della UE è un fallimento? 
Sì. La UE era un progetto di coesione sociale per creare un blocco nuovo e forte; un blocco economico, politico e sociale, con politiche di coesione molto importanti. La UE è stata concepita con due idee molto potenti: quella di non tornare alle guerre mondiali, provocate entrambe dallo stesso paese, e quella di eliminare le periferie che esistevano dal XV secolo: i paesi nordici, il sud d’Europa (Portogallo, Spagna e Italia), il sud est (Balcani e Grecia) e l’est europeo. Il progetto europeo andava a porre fine a quelle periferie, con politiche molto importanti di fondi strutturali che volevano uniformare la ricchezza in Europa. In questo senso, il progetto è fallito, ma molti di noi già sospettavamo che questo sarebbe successo, perché l’esistenza delle periferie era tropo lunga. Certo, nei primi anni dell’integrazione europea sembrava che l’UE funzionasse: per esempio, in Portogallo, il reddito medio ha raggiunto il 75% di quello europeo nel 2000; senza dubbio ci avvicinavamo e, all’improvviso, tutto il processo è fallito e i paesi ex periferici tornano a essere trattati come tali. Da allora, la logica collettiva di costruzione sociale, economica e politica è passata ad essere una dinamica di centro-periferia che ha dominato sopra tutte le altre logiche. Una logica, inoltre, in cui il centro neanche è la Commissione Europea, ma la Germania. La UE deve reinventarsi, bisogna reinventarla. 
Diversamente, il futuro in Europa si presenta molto nero. 

E il progetto dell’euro? A che punto è? 
La domanda sul progetto dell’euro non è se è fallito o no, ma cosa si voleva da lui. E in questo caso, c’è stato un inganno dall’inizio, perché l’euro è stato una delle forme attraverso cui il neoliberismo internazionale è penetrato in Europa, che fino allora era il bastione delle difesa dello Stato sociale, l’unico dove il neoliberismo non era entrato grazie al fatto che i paesi avevano dei partiti socialisti e –anche a volte all’opposizione- partiti comunisti, entrambi molto forti. I partiti venivano da una tradizione socialdemocratica molto radicata che esigeva istruzione pubblica, sanità pubblica o sistema pensionistico pubblico, per cui la resistenza all’entrata del neoliberismo era molte grande. Per questo non è entrato così, ma l’ha fatto dall’alto: attraverso la Commissione Europea prima, attraverso la banca centrale Europea (BCE) poi e alla fine con l’euro. Mediante la costruzione neoliberista dell’euro e della BCE, il paese dominante da allora –la Germania- ha imposto le sue regole e la moneta è definita nel suo valore internazionale secondo gli interessi economici della Germania, e non secondo gli interessi del Portogallo o della Spagna, per esempio. Ai paesi del sud, incredibilmente, non è mai venuto in mente che poteva succedere questo, perché credevano di essere in un blocco politico ed economico in cui non esisteva il debito greco o spagnolo o portoghese, ma che esisteva una coesione e che mai ci sarebbe stata speculazione. Invece, a causa degli interessi delle sue banche, la Germania ha deciso che ci sarebbe stato un debito greco, irlandese, portoghese o spagnolo, che ha reso questi paesi molto deboli, senza che l’Europa desse loro garanzie e promuovendo la speculazione finanziaria trasmettendo l’idea che questi paesi avrebbero trovato la soluzione dopo un intervento brutale.
Un intervento che non è servito a nulla e ora sembrano riconoscerlo anche quelli che l’hanno promosso. 

Siamo di fronte a una improvvisazione o il gioco è stato tutto calcolato?
È ancora più tragico, perché non c’è niente di nuovo. Il problema dell’Europa è che non ha nulla da insegnare al mondo né può imparare dal mondo. Niente da insegnare perché la siccità d’idee, novità o alternative qui è totale e niente da imparare perché l’arroganza coloniale di questo continente è pure assoluta e non le permette di imparare. Per esempio, quando diciamo: “In Brasile, Argentina o Ecuador si è fatto così”, subito rispondiamo: “Quelli sono paesi meno sviluppati”. 

Continuiamo con quel sentimento di superiorità?
Continuiamo con quell’arroganza coloniale. Sì. E non li prendiamo sul serio, però quello che ha detto il FMI oggi, l’ha detto in Tanzania, Monzambico e Indonesia prima, lo so bene. Quella di applicare le misure e poi dire che sono state eccessive è prassi ricorrente. E un’agenzia che ha applicato alcune misure che hanno generato tanta povertà, tanta sofferenza nei paesi, dovrebbe essere rinviata ai tribunali; non dico per un crimine, ma almeno per negligenza. Ci deve essere una risarcimento civile per i paesi colpiti, perché, inoltre, dicono di aver commesso un errore con le loro politiche, ma continuano ad applicarle. “Ci deve essere un risarcimento civile per i paesi colpiti dalle misure di austerità” Non ci sono propositi di ammenda....Nessuno. Ma, inoltre, all’UE non piace che il FMI si tiri indietro perché è compromessa con le politiche di austerità e se in Germania si percepisce che sono negative, Angela Merkel può perdere le elezioni. Tutto è organizzato perché nulla cambi fino alle elezioni tedesche, perciò l’Italia, la Grecia, il Portogallo o la Spagna devono aspettare e lo fanno, dico io sempre, con una democrazia sospesa.

E noi cittadini che subiamo i tagli, che possiamo fare? Anche noi dobbiamo aspettare che passino le elezioni tedesche per premere sui nostri governi affinché facciano qualcosa?
I governi non faranno nulla, perché, come dico, sono completamente dipendenti dal comando tedesco. E pure se la gente lo rifiuta, non lo fa in modo forte e articolato. Questo fine settimana, con il progetto dell’Università Popolare dei Movimenti Sociali (UPMS), stiamo proprio cercando di vedere come si può resistere, conoscendo le differenze dei distinti gruppi, accertando il perché alcuni sono interessati a una misura e altri in un’altra, o perché alcuni credono che si dovrebbe creare un partito e altri no. La settimana scorsa, in Portogallo, ho lavorato in una iniziativa con il presidente della Repubblica, Mario Soares, nella quale abbiamo messo insieme in una sala 600 persone per chiedere la caduta del governo attuale, elezioni anticipate e un Governo di sinistra. È stata la prima volta, dopo il 25 aprile, che siamo riusciti a mettere insieme rappresentanti del Partito Comunista, del Socialista e del Blocco di Sinistra per formare un’alternativa delle sinistre. Anche se sapevamo che per ragioni storiche è molto difficile riuscirci. 

Come in Spagna... Pure qua, pure qua... E in Portogallo, alla fine, ci siamo resi conto che era impossibile, che mai ci sarebbe stata un’alternativa delle sinistre. 

Perché? 
Perché, da una parte, il Blocco di Sinistra e il Partito Comunista vogliono rinegoziare il debito e, inoltre, hanno concluso che parte di questo debito non si può pagare –è il 130% del PIL- , o porteremo all’impoverimento le generazioni successive. Tutto il denaro che entra dalla Troika va a pagare il debito, nemmeno un centesimo va alla sanità o alle famiglie delle persone. “Il movimento per democratizzare la democrazia a volte risulterà violento contro la proprietà e, a volte, illegale” D’altro canto, il Partito Socialista, che da tempo è dominato dalla logica del neoliberismo, vuole essere Governo, per di più, nel quadro europeo dominato anch’esso dal neoliberismo. Pertanto, propugna che di negoziare il debito non se ne parla: si deve pagare tutto, anche se si negozia sui tassi e i periodi di pagamento, per esempio. E qui finisce l’obiettivo della riunione, unire la sinistra. E lì è finita. 

Come vede in Spagna i partiti di sinistra? 
La stessa divisione, anche se in Portogallo è più grave, perché… Chi sono stati gli invitati spagnoli alla riunione del Club Bilderberg in Hertfordshire (Regno Unito)? Il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, il consigliere delegato del Gruppo Prisa, Juan Luis Cebrián; quello di Inditex, Pablo Isla,... Perché? Perché la presenza del Portogallo è stata molto interessante, molto illustrativa del futuro: hanno partecipato al Bilderberg il segretario del Partito Socialista e il segretario del partito di destra al Governo, ossia, l’élite internazionale ha già deciso le elezioni. I portoghesi vanno a lavorare fino alle prossime elezioni, lottando perché ci sia un Governo di sinistra –idioti-, le lezioni già sono decise e i socialisti condividono questa cosa. Per questo io credo che in Europa stiamo entrando in un periodo post istituzionale (“Dopo le istituzioni”), perché le istituzioni dello Stato non rispondono e la gente non si sente rappresentata da queste istituzioni. 

Che possiamo aspettarci da un periodo così? 
Sarà un periodo molto turbolento e lungo, a mio giudizio, e sarà una lotta per la ridefinizione della democrazia. Non è un caso che i giovani qui in Spagna o in Portogallo parlino di Democrazia Reale o facciano appello alla Democrazia Ora, perché la democrazia in Europa è sospesa e sconfitta. C’è stato un conflitto tra democrazia rappresentativa e capitalismo e ha vinto il capitale. C’è qualche possibilità che ritorni di nuovo la democrazia? Solo quando il capitalismo abbia paura. Finora, le banche sono state salvate con denaro pubblico, ma non ci sarà modo di salvarle di nuovo allo stesso modo, a meno che i cittadini non siano ridotti in condizioni di schiavitù. Ci può essere una catastrofe e dobbiamo lottare prima che arrivi, cercando tutti gli errori che sono stati commessi nelle politiche progressiste d’Europa. Per esempio, credere che solo un piccolo gruppo in ogni paese era politicizzato: i membri dei partiti, le ONG o i movimenti sociali. Il resto dei cittadini era una massa informe, non politicizzata, che non aveva alcun rilievo politico, ma sono quelli che ora sono nelle strade. Da quelli arriverà il futuro; la trasformazione democratica arriverà per mano di tutti gli indignati: pensionati, giovani, medici, professionisti,… che implica, inoltre, una unione inter-generazionale che prima non c’era e che deve portare a termine una rivoluzione democratica; ne abbiamo bisogno per non arrivare alla catastrofe. 

Come ci si avvicina a una rivoluzione democratica nella situazione attuale? Che significato ha, al di là dei termini? 
Significa democratizzare la democrazia attraverso un movimento popolare molto forte, che a volte risulterà violento, anche se mai contro le persone, e a volte risulterà illegale, perché una delle caratteristiche degli Stati neoliberisti è quella di essere sempre più repressivi. 

Con essere violento si riferisce, per esempio, a “los escraches” e con essere illegale, a iniziative come Rodea el Congreso*? 

Sì, bisogna rafforzare quei movimenti. Anche l’M15 nel suo insieme? C’è chi ha la percezione che sia un movimento nato con molto impeto e che si è sgonfiato, perdendo forza. Forse perché la Spagna è già un paese rassegnato? Non credo che siamo –e includo il mio paese, il Portogallo- paesi rassegnati, ma che abbiamo sofferto oltre 40 anni di dittatura; 48 nel mio paese, più della Spagna. Mentre ci passavano accanto i movimenti europei di partecipazione politica (movimento studentesco, quello del 1968, per la liberazione delle colonie, …). Eravamo molto isolati, per questo i nostri paesi non hanno ora la cultura democratica di resistenza. D’altro canto, ci sono elementi congiunturali che influiscono sui movimenti e per esempio, non possiamo credere che le piazze si riempiranno alla stessa maniera in inverno, in primavera e in estate. Inoltre, i movimenti, mentre maturano, si dividono: c’è gente che si concentra sugli sfratti, altra sulla salute; gente che crede che di debba creare un partito, altri che no; persone che parlano di consigli popolari, forme di controllo cittadino, … 

E come si organizza tutto questo? Che ci rimane? 
La rivoluzione democratica avrà due piedi: cambiare la democrazia rappresentativa neoliberista attraverso un cambiamento del sistema politico che porta con sé, a sua volta, un cambiamento del sistema dei partiti. Vale a dire che implica la partecipazione di indipendenti nel sistema politico, nel regolamento e nei finanziamenti dei partiti, nel sistema elettorale, … C’è molto da fare, ma soprattutto, sapendo che la riforma non verrà mai dai partiti, che sanno che usciranno perdenti da questo, ma verrà dai cittadini. La democrazia partecipativa risultante –della quale abbiamo esperienze fuori dall’Europa- ne trarrà nuove forme di attuazione: referendum, consigli popolari, consigli di settore, bilanci partecipati a livello locale o regionale, per esempio; … ossia, democrazia diretta che controlli gli eletti, che vada oltre l’autorizzazione a governare; che vada fino alla resa dei conti, deve arrivare da fuori, dai cittadini organizzati. Il problema è che ora non sono organizzati. 

Si riferisce al movimento degli indignati? Che critiche fa? 
Ne ho varie. Primo: le assemblee dove si prendono decisioni per consenso, che possono essere totalmente paralizzanti, poiché una piccola minoranza può impedire qualsiasi decisione. Con le formule dominanti di decisione non ci sarà formulazione politica; e senza formulazione politica non ci sono alternative. Secondo: il sistema di grande autonomia individuale che gestiscono (ognuno decide quando entra e quando se ne va, per esempio) è più simile al neoliberismo di quanto non pensino. Un movimento non si costruisce con una autonomia individuale, ma collettiva. E non ce l’hanno. Terzo: una caratteristica che stiamo vedendo, soprattutto, negli acampados degli USA e in alcuni di qua, è che hanno più legittimità quelli che rimangono più tempo accampati nella piazza. Non tengono conto del fatto che c’è gente molto valida, che però deve andare a lavorare o a casa per occuparsi dei bambini. 

Sono meno legittimati per questo? 
No. Perché rimanere più tempo in una piazza non è un criterio di legittimazione democratica. Tutto questo non ha impedito l’avanzare del movimento degli indignati? Io lavoro con loro come intellettuale di retroguardia, che è quello che mi considero, e credo che in questi momenti, non siano un movimento; sono presenze che non hanno proposte molto concrete e li capisco, perché è tutto il sistema che è putrefatto e vogliono ricostruirlo dal basso. 
Per farlo, chiedono una nuova Costituzione e questo è positivo; chiedono una spinta costituente, qualcosa che io difendo: una nuova Costituzione che ritiri il monopolio della rappresentanza politica ai partiti; che stabilisca diverse forme di proprietà, oltre quella statale e quella privata –si sono perdute le forma di proprietà comunale o cooperative, per esempio-; che stabilisca una nuova forma di proteggere le nostre costituzioni dalla speculazione finanziaria e dai debiti che non si possono pagare. 
Quel debito è proprio l’alibi per imporre le politiche di austerità... Guarda quello che succede in Portogallo con quelle: un debito del 130% del PIL, la disoccupazione che aumenta e una recessione sempre maggiore. Quelli che governano lo sanno, per questo io sono sempre più convinto che questa non è una crisi. 

Dobbiamo lottare anche per i termini del discorso, perché questa non è una crisi: è una grossa manovra del capitalismo internazionale finanziario per distruggere l’ultima fortezza che esisteva nel mondo di protezione sociale e di lavoro con i diritti. 
Il rimedio alla crisi sta peggiorando la crisi e, che è lo stesso, il medico sta ammazzando il paziente. E il peggio è che non necessariamente più c’è crisi più c’è resistenza. Perché ci sono livelli di crisi tanto forte e in cui la gente è tanto impoverita, tanto depressa, che non esce per strada; gente che si suicida, che prende ansiolitici; gente che interiorizza la crisi e se la prende con se stessa. Stiamo entrando in quel processo. 
Per questo credo che quest’anno sarà decisivo per sapere se abbiamo energie e ribaltiamo questo. Questo è quello che faremo questo fine settimana nella UPMS, vedere se possiamo articolare qualcosa per generare turbolenze politiche che non permettano a questi governi –questi sistemi di protettorato, in realtà- di continuare a governare. 

N.d.t. Circonda il Congresso 


(traduzione di Rosamaria Coppolino)

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