giovedì 13 gennaio 2011

La rivolta dei giovani magrebini


Christophe Ayad e Vittorio de Filippis,
Libération

La disoccupazione e il carovita hanno scatenato le proteste in Tunisia e Algeria.
Ma alla base c’è la rabbia verso governi corrotti e incompetenti

La rivolta e il suicidio sono diventati il modo più diffu­so per esprimere il disagio nel Maghreb. Da quasi un mese in Tunisia è in corso una forte agitazione comin­ciata con il gesto di rabbia e di disperazione di un giovane laureato disoccupato, che si è dato fuoco a Sidi Bouzid. Le proteste si estendono ormai all’intero paese. Sono coinvolti diversi settori della società tunisi­na, compresi gli avvocati e gli studenti licea­li, che il 7 gennaio hanno manifestato vio­lentemente a Tala e a Regueb.

In Algeria è stato il brusco aumento dei prezzi di diversi generi alimentari (23 per cento i dolci, 13 per cento i semi oleosi, 58 per cento le sardine) a spingere dall’inizio dell’anno molti ragaz­zi a scendere in piazza. Dopo una pausa la mattina del 7 gennaio, i disordini sono ricominciati nel pomeriggio ad Algeri, a Orano e ad Annaba, obbligando il governo a riu­nirsi per decidere nuove misure contro l’in­flazione. Le élite magrebine erano state destabilizzate già negli anni ottanta (nel 1983 in Tunisia e nel 1988 in Algeria) con le rivolte del pane. In Tunisia le proteste portarono nel 1987 al colpo di stato di Zine el Abidine Ben Ali contro Habib Bourguiba.

In Algeria il risultato fu una democratizzazio­ne messa in crisi dal successo degli islamisti del Fronte islamico di salvezza (Fis) e dalla successiva guerra civile. Questi due paesi hanno aspetti geograici, storici ed economici diversi, ma anche due punti in comune importanti: un sistema politico autoritario e sclerotizzato e una gioventù numerosa e senza speranze. È il caso anche del Marocco e dell’Egitto, dove analoghi scontri sociali non sono improbabili. L’Europa e la Francia
sono rimaste in silenzio dall’inizio della crisi. Solo gli Stati Uniti hanno convocato l’ambasciatore tunisino per comunicargli la loro “preoccupazione” e chiedergli che venga rispettata la “libertà di riunione”.

Le ragioni della collera In Tunisia le proteste sono scoppiate il 17 dicembre, quando Mohamed Bouazizi, un laureato di 26 anni con la famiglia sofocata dai debiti, si è dato fuoco davanti alla prefettura di Sidi Bouzid, perché le autorità gli avevano coniscato le merci che vendeva come ambulante. Bouazizi è morto il 4 gennaio. Disoccupazione, mancanza di prospettive, disprezzo delle autorità: il caso di Bouazizi ha commosso gli abitanti di Sidi Bouzid e il resto del paese. E la violenza della repressione non ha fatto che accrescere la rabbia dei giovani. Il 24 dicembre la polizia ha ucciso due persone a Menzel Bouzaiane. Una manifestazione di solidarietà degli avvocati è stata repressa duramente il 28 dicembre, spingendo la categoria a convocare uno sciopero generale per il 30 dicembre. Da giorni, inoltre, partecipano alla protesta anche gli studenti liceali.
Heurts entre manifestants et forces de l'ordre, le 10 janvier 2011 à Regueb, près de Sidi Bouzid,

Heurts entre manifestants et forces de l'ordre, le 10 janvier 2011 à Regueb, près de Sidi Bouzid, en Tunisie (© AFP photo AFP)


Chi protesta Nel Maghreb i contestatori sono soprattutto i cosiddetti “laureati disoccupati”. In Tunisia il tasso di disoccupazione dei giovani laureati è uicialmente del 23,4 per cento, ma in realtà si aggira intorno al 35 per cento. In Algeria è senza lavoro almeno il 20 per cento dei giovani laureati, un tasso molto superiore al 10 per cento indicato dalle autorità. In Marocco, dove il movimento dei laureati è istituzionalizzato da più di un decennio, sei giovani hanno cercato di darsi fuoco davanti al ministero del lavoro a Rabat. L’effetto emulazione è ampliicato da Al Jazeera, la rete televisiva araba che ormai nel Maghreb ha sostituito le tv francesi.

Dai liceali tunisini diventati il motore della mobilitazione ai ragazzi poveri di Algeri che assaltano una gioielleria nel quartiere chic di El Biar, è in fermento la gioventù nel suo insieme. Questo fatto non deve stupire, visto che nei paesi magrebini i ragazzi sotto i vent’anni rappresentano quasi il 50 per cento della popolazione, ma sono ancora governati da persone (a eccezione del Marocco) nate tra le due guerre mondiali. Una particolarità della rivolta tunisina è il coinvolgimento di altri strati della popolazione, come gli avvocati, in nome della difesa dei diritti civili. Del resto la Tunisia è il paese dell’area dove la libertà d’espressione viene repressa con più durezza, generando un sentimento di oppressione nell’intera società.

Regimi autoritari e corrotti Negli ultimi dieci anni il pil algerino è triplicato, tanto che nel 2005 l’Algeria ha raggiunto la Tunisia in termini di pil pro capite e ha superato addirittura il Marocco. Ma il successo economico deriva da un solo elemento: gli idrocarburi. E spesso quando un paese vende petrolio e gas, non sempre è interessato a sviluppare il tessuto industriale. “È proprio quello che è successo in Algeria”, spiega un professore universitario algerino che preferisce restare anonimo. “I disordini si possono spiegare con l’aumento dei prezzi degli alimenti, ma il disagio della nostra società ha radici più profonde”.

Per sradicarel’islamismo, tra il 1992 e il 1999 il governo algerino ha condotto una “sporca guerra” in cui sono morte tra le 100 e le 200mila persone. Ma la ine del conlitto non è stata seguita da un’apertura politica. Al contrario, le elezioni continuano a essere truccate, la popolazione ha poca voce in capitolo e gli islamisti, che boicottano la vita politica, sono ancora molto presenti nella società. Nel frattempo il potere e la ricchezza restano nelle mani di un ristretto clan politico-militare, come ha rivelato lo scandalo di corruzione della Sonatrach, l’azienda energetica di stato, che ha costretto alle dimissioni il ministro del petrolio.

In Tunisia l’avidità della famiglia della moglie di Ben Ali è descritta nei dispacci statunitensi difusi da Wikileaks. Ma queste rivelazioni non divertono molto i tunisini, che tutti i giorni devono fare i conti con i limiti di quel “miracolo” tanto decantato dai mezzi d’informazione ufficiali. In Tunisia la stampa indipendente non esiste più, e i partiti d’opposizione sono stati ridotti a circoli privati che passano il tempo cercando di riunirsi. Ormai l’unico spazio di libertà è internet. La protesta dei liceali è partita da Facebook, ed è sempre sulla rete che una ciberguerriglia condotta da un gruppo chia- mato Anonymous ha attaccato i siti governativi. Molti blogger, tra cui Slim Amamou ed El Aziz Amami, sono stati arrestati. Anche in Marocco, il paese del Maghreb dove c’è più libertà, la democrazia traballa e la politica è gestita da un’élite che controlla gran parte del settore privato.

Poteri senza progetti In Algeria l’economia è ancora legata ai petrodollari. Temendo un’inluenza eccessiva degli investitori stranieri, l’anno scorso Algeri ha approvato una legge che vieta agli stranieri di possedere più del 49 per cento di un’impresa locale. La Tunisia, invece, sofre di un eccesso di manodopera qualiicata, che chiede solo un lavoro in linea con la sua formazione.
Senza dubbio il paese è riuscito a sviluppare alcuni settori, come il turismo o il tessile, ma oggi questa strategia avviata negli anni settanta è in un vicolo cieco e rivela fino a che punto la Tunisia non sia stata in grado di fare il salto di qualità, rompendo la dipendenza dall’Europa.

Tunisia: la polizia fa strage, forse 20 i morti

foto: www.nena-news.com



*In Tunisia le proteste scoppiate il 17
dicembre 2010 si sono estese dall’interno
del paese ino alla capitale, Tunisi, dove il 12
gennaio il governo ha schierato l’esercito.
Finora gli scontri hanno provocato 21 morti
secondo le autorità, cinquanta secondo una
fonte sindacale. Il 10 gennaio il presidente
Zine el Abidine Ben Ali, nel tentativo di
calmare le proteste, ha annunciato un
progetto per la creazione di 300mila posti di
lavoro in due anni. Il 12 gennaio Ben Ali ha
chiesto il rilascio degli esponenti
dell’opposizione arrestati in questi giorni.
Lo stesso giorno si è dimesso il ministro
dell’interno Raik Belhaj Kacem.
u In Algeria gli scontri hanno provocato
cinque morti e 800 feriti. La polizia, inoltre,
ha arrestato più di mille persone. Afp

Tunisia, il presidente lascia il Paese
L'aereo di Ben Ali atterra a Cagliari

Dopo le nuove le manifestazioni e gli scontri, il presidente tunisino è stato costretto a lasciare il Paese. L’aereo, secondo, alcune fonti ben informate, era diretto verso la Francia e avrebbe fatto scalo a Cagliari. Le autorità italiane avrebbero imposto di programmare un nuovo piano di volo e lasciare immediatamente lo scalo di Elmas. Ben Alì, secondo altre fonti, avrebbe chiesto di scendere a Cagliari. L’aereo è circondato dalla polizia.

Tunisia, il presidente lascia il Paese L'aereo di Ben Ali atterra a Cagliari L'aeroporto di Elmas

Dopo settimane di proteste contro il carovita e decine di morti, il presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali ha lasciato il Paese. Il primo ministro Mohammed Ghannouchi ha assunto la presidenza ad interim e il potere è stato affidato a un direttorio composto da sei persone. Dopo notizie discordanti, che lo volevano già a Parigi o in volo verso Malta o verso un Paese del Golfo, Ben Ali è atterrato all'aeroporto di Cagliari.

GIALLO SULL'ATTERRAGGIO DI BEN ALI A CAGLIARI - Intorno alle 22 un Falcon ha chiesto l'autorizzazione per uno scalo tecnico, per fare rifornimento di carburante. Il piano di volo era per Parigi, ma il no di Parigi, che ha negato l'accoglienza a Ben Ali., avrebbe costretto il Falcon ad atterrare all'aeroporto di Elmas. Due le possibilità: che cambi il piano di volo, per un altro Paese, oppure - che resti in Italia. Al momento l'aereo dove si troverebbe Ben Alì è circondato dalla polizia.


giovedì 6 gennaio 2011

Sardegna, avamposto Nato nel Mediterraneo



Di Andrea Pili

Il caso Quirra è ritornato all'albore delle cronache grazie allo studio effettuato dalle Asl di Cagliari e Lanusei, le quali hanno rivelato che ben il 65% degli allevatori che vivono ed operano intorno al poligono si è ammalato di leucemia e linfomi; inoltre, è stato riscontrato un numero anormale di animali nati deformi. Le cause cliniche di tale piaga sono note per merito delle ricerche della dottoressa Gatti e del fisico Coraddu: esplosioni provocate dalle armi ad uranio impoverito e l'esposizione ai radar. I motivi economici dei colonizzatori sono ugualmente conosciuti: il poligono ogliastrino è utilizzato come un supermercato da industrie private degli armamenti.

È bene però interrogarsi sulle cause politiche che impongono lo sfruttamento della nostra isola e lo stupro della sua popolazione sia in termini di salute che in termini economici (pensiamo agli espropri oppure alle zone interdette alla navigazione: 75000 ha solo a Teulada).

All'inizio degli anni '50 la NATO vede nella Sardegna un'ottima terra per piazzare le proprie strutture militari per la sua posizione strategica nel Mediterraneo e per la possibilità di costruire installazioni facilmente collegabili tra loro; così ha inizio l'edificazione delle basi di Teulada, Salto di Quirra e Decimomannu. Il 20 ottobre 1954 l'Italia stipula un accordo con gli Stati Uniti per la costruzione di analoghi centri nella Maddalena e nei territori di Cagliari.

La posizione “privilegiata” dell'isola ci è rivelata dalla disparità del numero di basi militari volute in essa rispetto a quelle poste nel resto della repubblica italiana (un demanio militare di 24000 ha a fronte del demanio di 16000 ha nel resto dello Stato). Si noti che anche che in Sardegna sono presenti il più grande poligono terrestre, aereo e navale d'Europa (Salto di Quirra) ed il secondo poligono militare d'Italia (Capo Teulada), entrambi utilizzati dall'alleanza atlantica.

Solo in Friuli vi è una simile densità di installazioni militari (ben 17 poligoni); se nella regione italiana il numero esorbitante di basi era volto ad intimorire la Iugoslavia o comunque tutto l'est sovietico, la nostra terra è stata usata inizialmente come deterrente contro i paesi arabi medio-orientali, ostili ad Israele, e prossimi ad intrecciare rapporti con l'Unione Sovietica.

Non dimentichiamoci che nel 1953- con il colpo di stato degli ufficiali liberi in Egitto- iniziò l'ascesa di Nasser, inquadrato subito come nemico dell'occidente per via delle sue rivendicazioni sul canale di Suez e la sua avversione allo stato sionista. Inoltre, si veda l'Algeria, il Nord Africa era in aria di decolonizzazione e ciò intimoriva non poco gli atlantisti dato la probabile simpatia dei nuovi paesi verso il blocco socialista.

Tuttavia, la presenza dell'Urss ha consentito di attutire l'ostentazione dei muscoli americani nel Mediterraneo, ma, dopo la fine della guerra fredda, i legami tra le basi militari nell'isola e la difesa occidentale di Israele sono più evidenti e testimoniate da una serie di esercitazioni certamente avvenute nel primo decennio del 2000.

Nel maggio 2001-di fronte al poligono di Teulada- otto navi della marina tedesca iniziarono l'esercitazione “Trident d'Or”, poi conclusa ad Haifa con la flotta israeliana; nel maggio 2002 le truppe dell'Eurofor (Italia, Francia, Spagna, Portogallo) a Teulada affrontano l'esercitazione “Eolo 2002” la quale, per diversi giornalisti, è una prova per eventuali missioni in Medio Oriente; nel settembre 2003 il quotidiano sionista “Maariv” rende nota l'attuazione di un combattimento aereo simulato tra gli F15 israeliani e i MIG29 tedeschi a Decimomannu; infine nel maggio 2006- due mesi prima della terza invasione del Libano- sempre a Decimomannu, unità aeree sioniste prendono parte all'esercitazione “Spring Flag”.

Bonifacio VIII- alla fine del XIII secolo- creò il Regno di Sardegna anche con l'intento di utilizzare la posizione della Sardegna per una nuova Crociata con l'alleato monarca aragonese. Dopo oltre sette secoli la nostra terra è ancora un oggetto nelle mani di potenze imperialiste. Una Sardegna indipendente sarebbe invece un punto di incontro pacifico tra le culture mediterranee e non l'avamposto occidentale contro il popolo arabo.
Popolo sardo, quando alzerai la testa?




Bibliografia
"Servitù militari in Sardegna. Il caso Teulada". Edizioni "la Collina", di Guido Floris e Angelo Ledda
Per quanto riguarda la vicenda del Regno di Sardegna vedere "Storia della Chiesa in Sardegna", di Raimondo Turtas.
Sulle esercitazioni militari filosioniste, consultate gli archivi di Unione Sarda e Nuova Sardegna.


mercoledì 5 gennaio 2011

Asl: agnelli deformi e pastori con tumore Rapporto choc sul poligono di Quirra





Il Poligono Interforze del Salto di Quirra (PISQ) è una fabbrica di tumori e inquinamento? portiamoci i politici, lasciamoli là e vediamo cosa succede. L'ACCORDO MILITARE ITALIA - ISRAELE E IL PISQ (Poligono Sperimentale Salto di Quirra) Ecco la nostra parte nella carneficina di Gaza e del...

Asl: agnelli deformi e pastori con tumore Rapporto choc sul  poligono di Quirra

Un allevatore fa pascolare il bestiame tra i carri armati usati come bersaglio fisso per i missili


Asl: agnelli deformi e pastori con tumore
Rapporto choc sul poligono di Quirra

unionesarda.it



Agnelli nati deformi in un numero superiore alla norma e il 65% degli allevatori ammalato di leucemia: è il rapporto sul poligono militare di Quirra firmato dai veterinari della Asl su incarico del Comitato scientifico che controlla la base militare.

Il rapporto della Asl è un bollettino che non lascia spazio a interpretazioni: in ogni ovile agnelli nati malformati e pastori ammalati di tumore. Questi in sintesi i risultati delle indagini dei veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari che, su incarico del Comitato di indirizzo territoriale che segue il controllo ambientale del poligono, hanno raccolto i dati a ridosso della zona militare. E, evidentemente, si tratta di numeri assolutamente fuori dalla norma. Addirittura, secondo la verifica dei veterinari Giorgio Melis e Sandro Lorrai, esiste un collegamento tra le deformazioni congenite genetiche degli agnelli e i tumori che hanno colpito gli allevatori. Quasi una strage: il 65 per cento dei pastori che abita e lavora a Quirra si è ammalato di leucemia.



A QUIRRA – MORTI VERI IN GUERRE SIMULATE
CHIE BOS FAGHET LUTU MORTOS DE QUIRRA?

Alla commemorazione dei caduti nelle guerre vere, presto in Sardegna dovremo aggiungere quella dei caduti nelle guerre simulate.
La verità e scomoda ma non si può più nascondere, la Sardegna è la Mururoa italiana. Lo stato italiano, come quello francese a Mururoa atollo della Polinesia, con le guerre simulate, sperimenta in Sardegna armi ed esplosivi che uccidono anche indirettamente.
Quasi una strage: tra i pastori che stanziano a Quirra, gli abitanti dei paesi vicini e i militari che lavorano nel Poligono.
La situazione non è molto diversa nel poligono di tiro di Teulada che noi indipendentisti nel 2005 siamo andati e verificare di persona, con un bliz via mare per il quale saremo presto chiamati a processo.
Chie bos faghet lutu mortos de Quirra? Non certo lo stato italiano che per l’uso dei poligoni interforze lucra facendosi pagare l’affitto da parte degli eserciti stranieri che vengono a provare le loro armi.
Ci chiediamo, quanto ci è costata finora e quanto ci costerà ancora questa servitù di sudditanza?, i pochi salari ed i miseri risarcimenti promessi sono paragonabili ai costi umani subiti dalle popolazioni ed ai costi ambientali subiti dal territorio?
Non possiamo più credere alle loro falsità, i controllati non possono essere i controllori di se stessi, come dice Mariella Cao del comitato Gettiamo le Basi, altrimenti cadremo anche noi nell’assurdo francese secondo il quale gli esperimenti atomici fanno male ai francesi di Francia ma non ai francesi d’oltre mare della colonia polinesiana di Mururoa.
Devono andare via, pagare i danni ed andare via, la loro presenza non è più tollerabile, non solo impoverisce ed ammalora il nostro popolo, ma avvelena il territorio in maniera difficilmente riconducibile.
Saremo costretti ad aggiungere un’altra chiamata a processo a quelli già in corso.



NUORO 04-01-2011

IL COORDINATORE NAZIONALE
SARDIGNA NATZIONE INDIPENDENTZIA
Bustianu Cumpostu

http://www.ilminuto.info/wp-content/uploads/Sardigna-Natzione.jpg





Rapporto della Asl sul Salto di Quirra.

irsonline.net/

In seguito alla pubblicazione dei risultati delle analisi mediche effettuate presso una parte della popolazione che vive nella regione del Salto di Quirra è emersa l’esistenza di gravi patologie riconducibili all’attività del Poligono interforze.

Già diversi anni fa il nostro movimento si era mobilitato per promuovere il definitivo smantellamento delle strutture militari in tutta l’isola e in particolare là dove si sapeva da tempo che erano in atto esercitazioni belliche la cui attività poteva risultare danno saper la salute delle persone. Oggi, risulta evidente agli occhi di tutti che ci troviamo di frontead un vero e proprio disastro ambientale e sanitario di cui soloadesso si iniziano dichiarare pubblicamente gli effetti.

iRS si adopererà affinché ci sia un intervento da parte dell’Unione Europea che possa valutare le reali condizioni di questo disastro, al fine di valutarne l’effettiva portata, nei termini dei costi riferibili al danneggiamento degli ecosistemi ambientali e a quelli dell’impatto dannoso sulla salute pubblica. Non è accettabile che il 70% delle servitù militari italiane siano presenti in Sardegna. Questo è uno degli effetti peggiori che la nostra terra paga a causa del deficit di sovranità nei confronti dell’Italia. Ancora più grave è constatare che tutto ciò è avvenuto con la connivenza di una classe politica sarda da sempre legata a interessi esterni.

IRS si mobiliterà con tutti i mezzi non violenti per impedire che lo Stato Italiano prosegua la propria azione di scempio e distruzione

della nostra terra.





Le posizioni del comitato Gettiamo le Basi



RIEPILOGO

1 Forze Armate, ministero della Difesa e Nato si sono arrogati e mantengono saldo il doppio ruolo, scandalosamente inossidabile, di controllore e controllato, giudice e parte in causa. Loro hanno predisposto e gestiscono il Piano di Monitoraggio, di fatto un piano d’acquisto di strumentazioni e connessi servizi di esame ambientale, un esame che nonpuò dare risposte alla “sindrome Quirra-Escalaplano” come ammettono le stesse forze armate e le cinque ditte che si sono aggiudicate l’appalto Nato

2 I risultati del monitoraggio-placebosono scontati, sono stati anticipati fin dal momento dell’avvio (febbraio ’08). L’obiettivo è stato esplicitato con incredibile candore o tracotanza: “Tranquillizzare (alias sedare, narcotizzare) la popolazione locale, nonché il personale del Pisq (..) acquisire la Certificazione ambientale”, cioè dimostrare che il poligono della morte è un gioiellino ecologico, di conseguenza eludere anche l’obbligo di risarcire le vittime dell’epidemia di leucemie e alterazioni genetiche che ha come epicentro l’insediamento militare Quirra-Perdasdefogu. Decreti del 2010 hanno già provveduto ad esonerare le forze armate dalle responsabilità penali, una sorta di lodo Alfano pro Stati Maggiori passato sotto indecente silenzio

3 Per salvare le apparenze si è assegnato il ruolo di controllore di facciata a una Commissione Tecnica Mista di Esperti, nominata a cose fatte, senza possibilità d’intervento sostanziale su metodologie e tecniche disposte dai contratti appaltati. La componente civile (cinque persone prive dell’indispensabile strumentazione tecnica e di supporti finanziari ) ha rifiutato il ruolo di notaio compiacente e ha respinto al mittente l’incarico di validazione di servizi e forniture delle cinque ditte,. La patata bollente è passata alla riluttante ARPAS, l’agglomerato di pezzi e funzionari delle ASL responsabili di 50 anni di mancati controlli, sponsor delle più cervellotiche teorie “scientifiche” salvabasimilitari, dall’asineria dell’arsenico killer di Quirra (Asl 8) alle alghe insaziabili mangiatrici del torio radioattivo, rigorosamente “naturale”, che abbonda nell’arcipelago maddalenino, base atomica Usa fino al 2008 (Asl 1 ).




Il diavolo fa le pentole non i coperchi

Qualcosa non è andata per il verso agognato e predisposto da ministri e generali.


1 Veleni del poligono a Baunei . La ditta che si è aggiudicato il lotto “ Determinazione radioattività aerodispersa” ha affidato la rilevazione delle nanoparticelle alla dott.ssa M.Antonietta Gatti che sa usare egregiamente i microscopi atti a ingrandire a 120.000 e le ha trovate persino a Baunei prescelta come “bianco”, punto di riferimento-comparazione dati in quanto si presupponeva totalmente esente da inquinamento. Non trova nanoparticelle, invece, la multinazionale vincitrice del lotto più consistente e nevralgico (la SGS, una partecipata Fiat l’affittuariastabile del poligono da mezzo secolo, presumibile corresponsabile della contaminazione), le cerca come da contratto con microscopi giocattolo che ingrandiscono solo a 8.000. Parrebbe che l’Arpas si sia ancora accorta dell’inghippo.



2 L’ indagine anamnestica. L’esame delle matrici biologiche, ostinatamente voluto da Gettiamo le Basi, nonostante sia stato recepito in modo talmente limitato e inadeguato da sprofondare nel grottesco, ha fornito informazioni agghiaccianti. L’Asl 4, andando oltre il ristretto compito assegnatole di mera manovalanza a costo zero per la Difesa, ha svolto la fondamentale indagine anamnestica su greggi e pastori. I dati emersi rendono ancora più tetro il quadro della devastazione ambientale e sanitaria che denunciamo dall’ormai lontano 2001.

Il merito dell’Asl, però, non attenua ma rafforza l’inquietante interrogativo sul perché si sia aspettato 10 anni per effettuare questa imprescindibile e doverosa raccolta dati e perché si eviti accuratamente l’indagine sanitaria delle popolazioni residenti, peraltro prevista nel decreto attuativo del Piano e “opportunamente” evasa. Non conosciamo il costo dell’indagine anamnestica, riteniamo che non superi di molto il costo della benzina necessaria per un giro tra gli ovili. Perchè per dieci anni non si è voluto e ancora non si vuole estenderla almeno alle altre categorie a rischio (agricoltori, dipendenti civili del Pisq, militari e famiglie residenti,ecc.) e alla popolazione di Quirra?


Lo slittamento continuo della presentazione dei risultati – programmato per l’autunno 2009 - può spiegarsi con il surplus di lavoraccio per mettere un coperchio sui dati inopinatamente emersi?



..… e non cessa di fare nuove pentole

1 “Il primo passo”. Hanno preso a raccontarci che il monitoraggio in corso sarebbe il primo passo per l’accertamento della verità, però non dicono che il fantomatico passo successivo implica un costo almeno non inferiore a quello del “primo passo” in atto, € 2,5 milioni. Chi e quando lo finanzierebbe? Non risultano progetti e tantomeno impegni di spesa delle Amministrazioni competenti.

L’escamotage del “primo passo” è stato usato e abusato a partire dal 2001 nel tentativo, vano, di tranquillizzarci rimandando eternamente al futuro l’ora della verità e rendere digeribili le varie indagini, 7 su 8 respinte al mittente da Gettiamo le Basi e dall’opinione pubblica. L’indagine in corso è il passo numero nove, la nona puntata della cinica ricerca infinita mirata a NON TROVARE quello che si vuole NON TROVARE, dilazionare all’infinito l’unico intervento razionale possibile imposto dalle norme italiane e internazionali: sospensione di tutte le attività del poligono, bonifica delle terre e del mare avvelenati.



2 Deportazione o diaspora. La soluzione al problema creato dal poligono della morte è ventilata a mezza voce. Impone cautela l’eclatante effetto boomerang della proposta avanzata nel 2004 ai pescatori di Teulada del trasferimento a vita in Tunisia in graziose villette gentilmente regalate dall’Esercito Italiano e dal ministero della Difesa. Per la popolazione del Sarrabus, Gerrei, Ogliastra si punta all’allontanamento volontario, l’auto deportazione “senza oneri per la Difesa”.



3 Uranio impoverito, Commissione Parlamentare d’Inchiesta N° 3. Il presidente dell’attuale Commissione, Rosario Costa, asserisce: ”La problematica vaccini rappresenta uno dei filoni più rilevanti e innovativi dell’inchiesta”. Con scarsa fantasia si ripropone il vecchio depistaggio, tentato e fallito nel 2001, vaccini, stress da guerra, benzene e quant'altro serva ad assolvere ministri della Difesa e Stati Maggiori. Coerentemente la Commissione ha scelto come consulente scientifico Franco Nobile, membro del Comitato Nazionale Scientifico di Legambiente. Il suo studio “Prevenzione oncologica nei reduci dei Balcani” ha individuato i principali fattori di rischio della sindrome Golfo-Balcani: vaccini e costumi patogeni dei soldati come l’uso di zampironi e insetticidi vari, sigarette, tatuaggi, cellulari e – abiezione massima - “Sia pure con una certa reticenza, diversi soggetti hanno dichiarato di assumere superalcolici” alcuni persino una volta alla settimana, molti una volta al mese (pag 41).



Ci ostiniamo a credere che il popolo sardo abbia uno scatto di dignità e indirizzi la sua volontà e le sue energie per espellere il tumore della colonizzazione militare, per liberare la Sardegna dal ruolo infamante di paradiso della guerra, vittima e complice silente di tutte le guerre di rapina sedicenti umanitarie e democratiche. Ne ha la capacità , con le sue sole forze ha costretto a fuggire da La Maddalena la potente Marina di Guerra USA.

Comitato sardo Gettiamo le Basi




Quirra, leucemie e linfomi: vogliamo la verità!

Qualche nuovo spicchio di verità riprende a venir fuori sullo strano inquinamento a Quirra. Secondo un’indagine ancora non consegnata da parte dei Servizi veterinari delle Aziende USL n. 8 (Cagliari) e n. 3 (Lanusei), sarebbero numerose le malformazioni animali in zona e ben il 65% degli allevatori di Quirra si sarebbero ammalati di leucemie e linfomi.

Una conferma di quanto sostenuto più volte dalla ricercatrice Antonietta Morena Gatti, direttrice del Laboratorio dei biomateriali dell’Università di Modena ed uno dei maggiori esperti in materia di nanopatologie. Particelle infinitesimamente piccole (le nanoparticelle) di materiali esplodenti e di metalli, quali il tungsteno, possono provocare tumori gravissimi e, forse, malformazioni.

E’ il caso di vederci chiaro, finalmente ed una volta per tutte, con trasparenza e senza guardare in faccia a nessuno. Lo sosteniamo da tempo.

Infatti, le associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d’Intervento Giuridico lo richiedono da tempo, ma tuttora non vi sono risultati certi e definitivi.

L’Assessorato regionale della difesa dell’ambiente (nota prot. n. 15565 del 29 aprile 2004) e l’Azienda U.S.L. n. 8 (nota prot. n. 2942/95 del 23 aprile 2004) hanno risposto con una voluminosa serie di documentazioni alla richiesta di informazioni a carattere ambientale inoltrata (nota del 17 marzo 2004) dalle associazioni ecologiste Amici della Terra e Gruppo d’intervento Giuridico e rivolta alle amministrazioni pubbliche competenti (Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, Assessorato regionale della difesa dell’ambiente, Aziende USL n. 8 e n. 3, Comuni di Villaputzu e di Escalaplano) sulle insorgenze tumorali e sulle malformazioni verificatesi nell’area di Quirra, vicino al Poligono Sperimentale e di Addestramento Interforze, nei Comuni di Villaputzu e di Escalaplano. Specificamente era stato richiesto:

* dati e/o statistiche relative ad indagini e/o rilevamenti della presenza di sostanze tossiche a terra e/o nel sottosuolo nei territori comunali di Villaputzu e di Escalaplano, a decorrere dall’1 gennaio 1980;

* dati e/o statistiche relativi a casi di aborti terapeutici e nascite con bambini presentanti malformazioni e handicap fisici relativi a soggetti residenti nei territori comunali di Villaputzu e di Escalaplano a partire dall’1 gennaio 1980;

* dati e/o statistiche relativi alle cause di mortalità di soggetti residenti nei territori comunali di Villaputzu e di Escalaplano a partire dall’1 gennaio 1980;

* eventuali indagini epidemiologiche svolte riguardo insorgenze tumorali nei Comuni di Villaputzu e di Escalaplano finalizzate all’individuazione delle cause e relative al periodo decorrente dall’1 gennaio 1980.

Già nella primavera del 2002 vennero effettuate analoghe richieste e le Aziende USL competenti comunicarono che gli accertamenti epidemiologici ed i monitoraggi ambientali erano in corso. A distanza di diversi anni – con numerose notizie stampa in merito – vi sono dati definitivi ? Dalle risposte pervenute sembra proprio di no. Ancora.

Con deliberazione Giunta regionale n. 2/1 del 21 gennaio 2003 era stato fatto il punto dello stato di attuazione del programma di interventi relativo alla “compromissione ambientale del Salto di Quirra” stabilito con la precedente deliberazione n. 8/3 del 14 marzo 2002. I risultati sono stati i seguenti:

  • era stato avviato il programma per la valutazione del rischio chimico-tossicologico per la prevenzione della salute della popolazione all’esposizione di alte concentrazioni di metalli pesanti (importo 130.000,00 euro) da parte del P.M.P. dell’Azienda U.S.L. n. 8;
  • era stata avviata l’indagine da parte dell’Istituto zooprofilattico sperimentale della Sardegna sulla catena alimentare al fine di evidenziare eventuali presenze di metalli pesanti ed arsenico oltre i limiti di legge (importo 59.000,00 euro);
  • i primi dati raccolti dal Servizio igiene pubblica dell’Azienda U.S.L. n. 8 esclusivamente sui dati relativi ai ricoveri ospedalieri dei residenti nel Comune di Villaputzu (in particolare fra il 1998 ed il 2001) non avrebbero evidenziato alcuna anomalìa, tuttavia dovrebbero essere completati da specifica indagine epidemiologica sulla popolazione interessata al fine di verificare eventuali patologie direttamente collegabili alla presenza dell’attività mineraria e dei relativi residuati (importo complessivo 150.000,00 euro);
  • è stato accelerato il monitoraggio delle acque superficiali ai sensi del decreto legislativo n. 152/1999 e successive modifiche ed integrazioni dell’area in esame (avviato nel marzo 2002 in tutto il territorio regionale) ed è stata realizzata una stazione di prelevamento sul Rio Quirra: in merito non sarebbero stati evidenziati inquinamento da arsenico a valle del Rio Corr’e Cerbu;
  • è stato effettuato uno screening su un campione di n. 150 volontari (50 % residenti civili, 50 % dipendenti militari e delle Società Socam e Vitrociset) residenti nella zona di Quirra: fino al 13 novembre 2002 “non è emersa alcuna patologia immediatamente correlabile all’inquinamento, tuttavia l’indagine è stata limitata (vds. nota Azienda U.S.L. n. 8 prot. n. 2942/95 del 23 aprile 2004) di fatto a sole 131 persone;
  • con deliberazione Giunta regionale n. 39/46 del 10 dicembre 2002 è stato concesso un finanziamento di 150.000,00 euro al Comune di Villaputzu per la realizzazione del piano di caratterizzazione (art. 17 del decreto legislativo n. 22/1997 e successive modifiche ed integrazioni, D.M. n. 471/1999) dell’area (la cui realizzazione è stata affidata dall’Assessorato regionale della difesa dell’ambiente alla Progemisa s.p.a. nel luglio 2002);
  • i Comuni di Villaputzu e di San Vito hanno adottato ordinanze contingibili ed urgenti (rispettivamente la n. 20 del 14 novembre 2002 e la n. 41 del 5 agosto 2002) relative al divieto di utilizzo di ampie aree lungo il corso del Rio Corr’e Cerbu a partire dalla miniera dismessa di Baccu Locci (circa 8 km.).Veleni. Piccoli, ma tossici e mortali.

L’Azienda U.S.L. n. 8, dopo le indagini effettuate, ha sottolineato che “è evidente la necessità di sviluppare ulteriormente l’osservazione epidemiologica ed ambientale con uno studio sia retrospettivo che prospettico” . Il P.M.P. dell’Azienda U.S.L. n. 8 (nota prot. n. 2626 del 27 febbraio 2003), al termine di un’indagine preliminare condotta con prelievi di terreno e sedimenti nell’alveo e nelle vicinanze del Rio Corr’e Cerbu e del Rio Quirra, ha affermato di aver riscontrato l’assenza da contaminazione da “uranio impoverito”, mentre sono risultati presenti “quantità elevate di metalli pesanti ed in particolar modo di arsenico” (fino 1.402 milligrammi/kg. In campione di terreno agricolo senza sedimenti prelevato alla confluenza del Rio Quirra con il Rio Corr’e Cerbu) lungo tutto il corso del Rio Corr’e Cerbu, anche nei campioni di acqua prelevati: “il quadro ambientale … appariva molto critico per l’alta potenzialità dei metalli tossici capaci di interessare anelli decisivi della catena alimentare”. Il medesimo P.M.P. affermava di ritener necessario il completamento di tutte le indagini ambientali in materia per averne un quadro affidabile.

Bisogna completare, quindi, i programmi di indagine ed i tempi appaiono fin troppo lunghi per tematiche così importanti.

Sembra ancora una volta doveroso ricordare che le indagini sanitarie ed epidemiologiche, nonché i monitoraggi ambientali, devono essere continui, efficaci, trasparenti e pubblici soprattutto quando si riferiscono a “dubbi” sanitari per la popolazione e ad aree di rilevante interesse ambientale. Nell’ottobre 2007 l’allora Ministro della difesa Arturo Parisi, sardo, ha dichiarato che “In questo quadro sarà possibile avviare un monitoraggio sistematico del poligono di Salto di Quirra“, aggiungendo che “l’Italia non ha mai fatto uso di armamento ad uranio impoverito, né risulta che nel nostro poligono possa essere stato utilizzato da altri“. Nel gennaio 2010, l’attuale Ministro della difesa Ignazio La Russa ha riconosciuto la rilevanza del problema ed ha ottenuto uno stanziamento di 30 milioni di euro da parte del Governo per indennizzi in favore dei militari colpiti da simili eventi tumorali.

Tutto questo deve essere fatto con la massima serietà, senza sensazionalismi da un lato e senza sospetti di insulse accuse di “boicottaggio” ai danni di chicchessìa. La salute della popolazione e la sicurezza ambientale valgono immensamente di più che qualche ventilato “investimento turistico”…..

Amici della Terra e Gruppo d’intervento Giuridico




SARDINIA BELLA, PATRIA NOSTA!

LIBBERA E COMUNITARIANA!!


mercoledì 29 dicembre 2010

IL PRESEPE DI CIVITAVECCHIA I pastori sardi sbarcano a Roma E la polizia li aggredisce

I pastori sardi sbarcano a Roma e la polizia li aggredisce
Avevano viaggiato l'intera notte in nave per riuscire a farsi sentire dal governo. Ma a nessuno degli oltre 200 pastori sbarcati a Civitavecchia ieri mattina è stato permesso di arrivare fino a Roma. Ad aspettarli c'erano polizia e carabinieri che, a suon di manganelli, li hanno costretti a tornare indietro. La denuncia del portavoce Felice Floris: «Siamo padri di famiglia e ci trattano come criminali»
Pietro Carzina
Pasquale D'Alessio

il manifesto
CIVITAVECCHIA

La protesta dei pastori sardi sbarca sulla penisola. Volevano raggiungere la capitale per gridare le ragioni del loro malessere che da mesi anima il dibattito politico isolano. Ad attenderli sulle banchine del porto di Civitavecchia c'erano invece diverse decine di poliziotti e carabinieri schierati affinché i circa 200 rappresentanti del Movimento dei pastori sardi (Mps) non partissero con i pullman alla volta di Roma. I manifestanti avevano raggiunto alla spicciola lo scalo di Olbia dove lunedì sera si erano imbarcati su una nave della Tirrenia. Molte donne, ragazzi e addirittura signore anziane componevano la delegazione che si è vista sbarrare il passo alle prime luci dell'alba di ieri.

La tensione è scoppiata intorno alle 8 del mattino dopo, quasi tre ore di trattative fra Mps e forze dell'ordine: si poteva uscire dall'area di sbarco solo dopo la consegna dei documenti e la conseguente identificazione. «Non abbiamo fatto niente di male, non siamo dei delinquenti - urlavano i pastori - non ci potete trattenere qui con la forza».

Prima alcuni spintoni e poi lo sfondamento del cordone di polizia e carabinieri da parte dei manifestanti. Manganellate e parapiglia hanno riscaldato il freddo mattino di Civitavecchia con una lotta all'ultimo respiro fra Felice Floris, leader dell'Mps, e alcuni funzionari di polizia che in tutti i modi hanno cercato di fermarlo e portarlo via dai suoi pastori. Priamo Cottu è invece stato bloccato a ammanettato per diversi minuti. Solo la mediazione del sindaco di Busachi (Oristano), Giovanni Orrù, ne ha permesso la liberazione. Il bilancio dei tafferugli è di alcuni feriti lievi, due denunciati per resistenza a pubblico ufficiale e della denuncia per tutti i 200 di manifestazione non autorizzata. I toni si sono poi abbassati e fra le due parti si è ripreso a dialogare. Mentre buona parte dei manifestanti sono rimasti a presidio vicino i pullman parcheggiati sul porto, altri si sono mossi in direzione della stazione ferroviaria con l'intenzione di raggiungere Roma da turisti.

Niente da fare anche in questo caso. «Un cordone di uomini delle forze dell'ordine ci ha impedito di salire sui treni - ha spiegato Maria Barca, portavoce dell'Mps e ferita alla caviglia dal calcio di un poliziotto - questa è una cosa assurda e inaccettabile». Dello stesso tono le dichiarazioni di Floris: «Siamo padri di famiglia, invece ci hanno trattato come criminali; siamo stati sottoposti ad un vero e proprio sequestro preventivo, insieme ai pullman i cui autisti sono stati identificati e minacciati di denuncia se solo si fossero mossi».

La battaglia dei pastori sardi ha mosso i primi passi nel luglio scorso con l'occupazione della statale Carlo Felice (l'arteria che collega Cagliari a Sassari) e con i blocchi negli aeroporti di Cagliari, Olbia e Alghero. Poi una sortita anche in Costa smeralda, la patria dei vip, e una serie di blitz negli scali navali di Porto Torres e Olbia. Fra settembre e ottobre iniziano gli incontri con i politici isolani. Dopo una imponente manifestazione conclusasi sotto la Regione, il 14 settembre, il governatore Ugo Cappellacci, e l'assessore Andrea Prato dichiaravano davanti a migliaia di pastori di accettare il 95% della loro piattaforma.

Una lotta di sopravvivenza che rischia di dimezzare, nei prossimi anni, le oltre 15mila aziende zootecniche sarde. Con la crisi del pecorino romano, esportato soprattutto nei mercati nord americani, il prezzo del latte ovicaprino è crollato a 65 centesimi di euro al litro, mentre per produrlo, secondo diversi studi dell'Mps, se ne spendono fra i 90 e 1 euro. Il 19 ottobre, dopo l'ennesima manifestazione a Cagliari, 12 pastori occupano un'aula della Regione. Scoppiano tafferugli fra manifestanti e forze dell'ordine e un allevatore perde un occhio dopo esser stato colpito da un lacrimogeno.

Gli irriducibili abbandonano la sala con la promessa di Cappellacci di accettare le loro richieste. Così il continuo botta e risposta fra governatore e pastori arriva fino ad oggi. «Volevamo portare a Roma - ha precisato Floris - il progetto di un Coordinamento mediterraneo dei pastori che dovrà coinvolgere anche i colleghi francesi, greci e spagnoli affinché a Bruxelles la voce del mondo ovicaprino si faccia più forte con una grande manifestazione europea». Le cose sono andate in maniera diversa, con gli allevatori sardi costretti a risalire, alle 22.30, su quella nave che li aveva portati sul continente con qualche speranza in più.


venerdì 24 dicembre 2010

SOTTO pressione


Anticipiamo in questa pagina un ampio brano da uno dei saggi raccolti in Educazione e rivoluzione.
Per diventare persone, in uscita nelle librerie in questi giorni dalle Edizioni dell'asino. Una denuncia del pervasivo lavaggio del cervello in un mondo dominato dal profitto, scritta nel 1963 e ancora troppo attuale


Paul Goodman
ilmanifesto


Paul  Goodman
Prendiamo in esame il dominio comunicativo definito dalla reciproca influenza tra scuola e cultura generale e poniamoci la domanda: cosa accade alle capacità linguistiche e cognitive dei giovani americani mentre crescono e diventano adolescenti? All'interno del discorso istituzionale, un bambino assorbe una sola visione del mondo. Nel nostro caso, sappiamo come i mezzi di comunicazione soddisfino un unico grande denominatore comune di gusti e opinioni. Tuttavia, ancor più interessante è andare a vedere quel che ogni mass media, in quanto dispositivo, riesce, per così dire, a sincronizzare.

Le cosiddette «informazioni», ad esempio, corrispondono in realtà a ciò che viene selezionato e considerato degno di esser fatto circolare da due o tre agenzie al massimo; tre reti radiotelevisive quasi identiche riassumono queste medesime informazioni. Analogamente, lo «standard di vita», vale a dire ciò che viene comunemente inteso come uno stile di vita degno e decoroso, è quel che principalmente viene illustrato nelle pubblicità di alcune riviste ad ampia diffusione e negli spot televisivi. Anche i set cinematografici in cui vengono girate queste scene di vita degna e decorosa sono progettati dagli stessi ingegneri sociali della pubblicità commerciale. E, allo stesso modo, ora perfino il «pensiero politico» è divenuto un palcoscenico per i due principali partiti che sono in accordo su tutti i temi cruciali (...) e praticamente occupano per intero giornali, radio e televisioni.

Kit per il bricolage e cibi precotti

Gran parte di questa comunicazione pubblica è in buona sostanza senza senso. Le pubblicità gareggiano a suon di retorica, ma i prodotti sono quasi gli stessi, e ogni bambino può vedere come le nostre vite non siano ancora abbastanza occupate da soap opera, sigarette e birra. Dal canto loro, i politici sono molto polemici, ma nei loro discorsi evitano abilmente qualsiasi tema concreto possa differenziarli dai candidati della parte opposta e causare, così, una perdita di voti. Il vero significato dei discorsi, l'obiettivo del profitto e del potere, non è mai citato. I ragazzini più brillanti, attorno agli undici o dodici anni, riconoscono come in realtà la maggior parte dei discorsi sia fatta di mere parole. L'assimilazione delle scuole all'interno del sistema è affare più serio, poiché qui i ragazzi si trovano costretti a impegnarsi in prima persona e a cooperare.

È sempre la stessa storia. La definizione sempre più rigida di test di competenza decisi astrattamente su scala nazionale fa in modo che il lavoro in classe verta principalmente sulla preparazione in vista di questi stessi criteri. I talent scout inviati da imprese ed enti vari, passano al setaccio le scuole superiori e, ora, persino le scuole del primo ciclo d'istruzione sono state invase dalle brochure delle multinazionali. Scienziati d'eccellenza, chiamati a Washington a definire i corsi di studio in scienze e matematica, capiscono come sia vitale lasciare uno spazio d'azione per il lavoro individuale e lo sviluppo della capacità di formulare ipotesi; tuttavia, nelle mani di insegnanti incompetenti, lo standard nazionale diventa, inevitabilmente, un inflessibile dominatore. Televisione e insegnamento computerizzato sono ormai realtà così formalizzate che tutti ne recepiamo i contenuti nello stesso modo, senza avvertire il bisogno di dialogo.

Eccezion fatta per la famiglia, i bambini parlano poco con gli adulti, se non con i loro insegnanti. Ciò nonostante, la scuola, per via dell'affollamento e dei ritmi incessanti, lascia poco tempo e sicuramente non molte occasioni per il contatto umano. Inoltre, sempre più nella scuola primaria così come alle superiori, gli insegnanti hanno progressivamente abdicato al loro ruolo a favore di consulenti, specialisti o amministratori, così che quelle relazioni significative e indispensabili per far maturare allo studente la fiducia e un orientamento tendono a instaurarsi solamente in situazioni estreme. Pare quasi che per essere presi in considerazione come esseri umani si debba passare per «devianti».

Pur essendo sotto gli occhi di tutti, però, questo discorso non può essere facilmente verificato tramite l'esperienza diretta. Tanto i bambini che vivono nella città quanto quelli che abitano le periferie non hanno più occasione di vedere attività artigianali e industrie. I giocattoli sono prefabbricati, sono poveri di falegnameria, idraulica, meccanica; poi, però, in commercio spuntano i kit per il bricolage; il contrasto tra città e campagna svanisce a causa della conurbazione senza fine; pochi bambini conoscono gli animali; persino i principali cibi che consumiamo sono confezionati e distribuiti sempre più frequentemente precotti, in sintonia con lo stile di vita generale.

Un bambino ha sempre meno occasioni di conoscere forme di pensiero antagonista o conflittuale, di coglierne lo stile. Perfino il punto di vista antagonista basato sulla religione (per quanto ipocrita) non ha più alcuna influenza dato che i bambini non conoscono la Bibbia. La letteratura classica per l'infanzia - o quella giudicata eccentrica - è scoraggiata dai librai, e viene bollata come sovversiva da coloro che sono stati deputati a educare. I libri approvati sono quelli conformi al punto di vista ufficiale. Lo stesso, in maniera più insidiosa, si può dire dei film, che si presentano, all'apparenza, come prodotti «adulti» e reali. Da ultimo, i modelli ideali di carriera, con i loro personaggi e le loro filosofie - lo scienziato, l'esploratore, l'infermiera, lo scrittore -, sono tutti normalizzati dagli stereotipi televisivi e incarnano, sebbene sotto diverse spoglie, l'Uomo del Sistema Organizzato.

Tuttavia questo apparato di significato, per quanto apparentemente blando e omogeneo, non è affatto debole o silente. Al contrario, siamo inondati da una quantità di discorsi dei quali tutti siamo i destinatari, che si tratti di commedie, informazioni, cartoni. Il tono è esaltante e dispersivo. Nelle scuole, l'esposizione al sistema viene attuata attraverso una pressione intensa finalizzata ai test, basati sulla memorizzazione, nonché sulla punizione in caso di fallimento. Nessuno è in grado di apprezzare criticamente una tale quantità di immagini e di idee. Al tempo stesso, la relazione concreta tra il discorso pubblico e le sue parole d'ordine con l'esperienza e i bisogni individuali è quantomeno confusa, molto astratta, e questa confusione si aggiunge all'ansia.

Il bambino - in modo ancora intuitivo - capisce perfettamente che se non sarà capace di veicolare queste conoscenze in modo pedissequo, sarà destinato a scendere dalla scala sociale, all'insuccesso scolastico e all'esclusione dalla comunità dei suoi coetanei. Per il bambino, tutto ciò va ad aggiungersi al lavaggio del cervello, i cui punti cruciali sono una visione del mondo omologata, l'assenza di alternative percorribili, un sentimento di confusione a proposito del valore dell'esperienza e dei sentimenti personali, uno stato d'ansia cronico, cosicché si aggrapperà a una visione monolitica del mondo come unico appiglio sicuro.
Questo è lavaggio del cervello.

Spazi limitati di autonomia

Naturalmente, in tutte le società ed epoche storiche i bambini sono stati sottoposti al lavaggio del cervello, poiché per natura sono deboli, ignoranti, dipendenti dal punto di vista economico e vittime della prevaricazione. Per certi versi, nella nostra società il lavaggio del cervello che i bambini subiscono non è così pernicioso come è stato in altre epoche: sono diminuite le punizioni fisiche, la povertà estrema, la paura della morte, l'igiene brutale e la disciplina sessuale. D'altro canto, però, siamo fortemente esposti a un'ideologia che ci sta sommergendo in modo sistematico e profondo.

Le società di mercato, vere e proprie società caserma, fanno in modo che il profitto invada ogni aspetto della nostra vita. La cosa più grave è che i genitori stessi si sentono confusi tanto quanto i loro figli; loro stessi perdono il contatto con informazioni pratiche, che riguardano la loro vita e quella dei propri figli, nel momento in cui gli spazi di autonomia e di iniziativa a loro disposizione sono strettamente limitati. Pertanto, nonostante tutto il nostro surplus tecnologico, la condizione di pace in cui viviamo e le numerose opportunità educative e culturali, è difficile per un bambino americano sviluppare indipendenza, trovare la propria identità, mantenere la curiosità e l'intraprendenza, acquisire un atteggiamento scientifico, abitudini di studio, spirito d'iniziativa, linguaggio poetico.

Purtroppo, la filosofia pervasiva alla quale i bambini vengono sottoposti durante la loro crescita, non è altro che l'ortodossia di una macchina sociale che nelle sue scelte politiche ed economiche di fondo si disinteressa nel modo più totale delle persone in generale e dei giovani in particolare.
(traduzione di Lucia Lazzarini)


Drawing the Line Once Again: Paul Goodman's Anarchist Writings


PROFILO


Da «politics» alla Gestalt, un precursore del '68

Paul Goodman nacque a New York nel 1911, da famiglia ebraica. Laureatosi al City College, alla fine degli anni '30 fu nominato assistente all'Università di Chicago, incarico presto revocato per via della sua omosessualità. Nello stesso periodo pubblicò le prime opere narrative e poetiche e scrisse per la «Partisan Review». Negli anni '40 fu impegnato nel movimento pacifista e collaborò a «politics», rivista eretica diretta da Dwight MacDonald (dove, negli stessi anni, trovavano spazio gli scritti di Chiaromonte, e Silone, così come di Simone Weil, Hannah Arendt, Camus). Nel '47 pubblicò con il fratello un libro di critica sociale e pianificazione urbana, «Communitas». Poco dopo contribuì alla fondazione del New York Institute for Gestalt Therapy e alla scrittura del testo base della nuova tendenza («Gestalt Therapy», 1951). Negli stessi anni ottenne incarichi universitari per i quali non ebbe la riconferma, ancora una volta probabilmente a causa della sua condotta apertamente omosessuale. Negli anni '50 diresse la rivista «Complex» e fu tra i fondatori di «Liberation». Del '60 è «Growing Up Absurd», che gli diede notorietà come sociologo e critico del sistema. Fu di nuovo chiamato a insegnare in diverse università statunitensi, pubblicò libri di politica e sociologia, nonché una grande quantità di saggi e interventi e divenne un punto di riferimento del movimento giovanile. Nel '67 il figlio Matthew perse la vita in un incidente, provocandogli un dolore dal quale non riuscì più a risollevarsi del tutto. Nell'ultimo scorcio degli anni '60 fu spesso ospite del Centro di Documentazione Interculturale fondato a Cuernavaca da Ivan Illich, che - al pari di MacDonald e Susan Sontag -non si stancò mai di riconoscere il suo debito nei confronti delle tesi di Goodman. Morì d'infarto nella sua fattoria nel New Hampshire nel '72

mercoledì 22 dicembre 2010

UNGHERIA «Un paese senza alcuna identità democratica»




LA MOSSA DEL PREMIER

Approvata la legge bavaglio, i media nella rete di Orbán
Massimo Congiu

BUDAPEST
Il parlamento ungherese ha approvato la «legge bavaglio» sui media che consente all'esecutivo di esercitare un ampio controllo su tutti gli organi di stampa. La norma, approvata l'altro ieri sera, comprende 175 articoli e mira a irreggimentare la condotta di giornali, radio, tv e organi di informazione in rete a beneficio di quello che gli ideatori della riforma chiamano «interesse pubblico».

Secondo il primo ministro Orbán è arrivato il momento di riportare l'ordine nel mondo mediatico da tempo vittima di una situazione caotica incoraggiata dalle sinistre. Gli strumenti per rendere operativi i nuovi provvedimenti sono l'Autorità nazionale delle telecomunicazioni - che ha per garante Annamaria Szalai, personaggio di fiducia del premier, investito di un mandato di nove anni e dotato della facoltà di emanare decreti - e l'ente unico che accorpa la televisione, la radio pubblica e l'agenzia di stampa Mti con direttori che verranno nominati dal garante.

È prevista la soppressione delle redazioni di news delle tv e delle emittenti radiofoniche a vantaggio di un unico centro che troverà posto presso l'agenzia Mti e che provvederà a rendere conformi le notizie da trasmettere agli organi di stampa pubblici. L'Autorità potrà imporre ammende pesanti ai media che si comporteranno in modo tale da recar danno all'«interesse pubblico» precedentemente menzionato, il che, tradotto in altri termini, significa che verranno sanzionati gli organi di informazione che non si uniformeranno al nuovo clima e all'orientamento imposto dal governo.

Il giornalismo investigativo dovrà rivelare le fonti di cui si avvale per le sue ricerche, i telegiornali saranno tenuti a trasmettere notizie di cronaca nera secondo una percentuale massima del 20% rispetto al contenuto complessivo di ciascun notiziario, il 40% della musica diffusa da tv e radio dovrà essere ungherese. Le ammende previste per i media inadempienti sono salate e potrebbero facilmente decretare la fine di quelli provvisti di mezzi economici poco consistenti.


Negli ambienti liberali e di sinistra si parla di attentato alla libertà d'espressione. Per questo motivo lunedì alcune centinaia di persone si sono riunite a Szabadság tér (Piazza della Libertà), sede della tv di stato (Mtv), per protestare. Giornali e organi di stampa lontani dall'orientamento governativo denunciano il carattere antidemocratico dei nuovi provvedimenti, il Népszabadság, principale quotidiano del paese, testata tradizionalmente legata ai socialisti, ha annunciato un ricorso alla Corte costituzionale, ma le possibilità di successo sono scarse, dal momento che i poteri della medesima sono stati limitati dalla maggioranza.

La situazione creatasi ostacola notevolmente o addirittura inibisce l'iniziativa di chi volesse impegnarsi per la tutela di un diritto fondamentale come quello di diffondere e ricevere un'informazione critica e priva di bavagli. Il governo di Orbán non è nuovo a orientamenti di questo genere; basti pensare che al tempo del primo esecutivo guidato dal Fidesz (1998-2002) venne redatta una lista nera di corrispondenti esteri colpevoli di aver diffuso un'immagine negativa dell'Ungheria.

Tutto ciò la dice lunga sulle propensioni democratiche del premier e dei suoi collaboratori ma per i sostenitori degli attuali governanti era tempo che si rimettesse ordine nell'ambiente dei media. La pensano in modo diametralmente opposto scrittori e intellettuali che stasera prenderanno parte all'incontro intitolato: Amíg lehet (Fino a che si può); l'iniziativa è della casa editrice Magveto che propone una riflessione comune su quanto avvenuto e sul futuro della libertà di stampa e di espressione. In visita a Vienna e Londra Orbán ha detto che la nuova legge è conforme alle norme europee ma l'Ipi (International press institute) e l'Osce esprimono preoccupazione per le norme adottate in Ungheria.



Imre Kertész è la coscienza scomoda di una nazione che non ha mai elaborato il suo antisemitismo e gli orrori del regime nazifascista delle «Croci frecciate», delle quali è oggi erede la formazione d'estrema destra Jobbik Intervista al Nobel per la letteratura sui magiari «senza certezze» e sull'Europa, alla vigilia della presidenza ungherese dell'Ue


1997 Imre Kertész

Mariarosaria Sciglitano
ilmanifesto

BUDAPEST
Nato nel 1929 a Budapest, Imre Kertész è stato deportato ad Auschwitz nel '44. A inizio anni Cinquanta ha intrapreso l'attività di scrittore e nel 2002 ha ricevuto il premio Nobel. È la coscienza scomoda di un paese che secondo diversi studiosi non ha elaborato in modo critico la complessa questione del rapporto con la comunità ebraica e gli orrori che quest'ultima ha vissuto in Ungheria negli ultimi anni della Seconda guerra mondiale sotto il regime delle Croci frecciate. Per Kertész l'Olocausto è un verbo coniugato sempre al presente che continua a inviarci messaggi. Vive a Berlino, che apprezza per l'apertura e la vivacità culturale, e conserva un rapporto conflittuale con il paese in cui è nato e che continua a osservare criticamente. Dell'autore sono usciti in italiano Essere senza destino (Feltrinelli, 1999), Fiasco (Feltrinelli, 2003), Il vessillo britannico (Bompiani, 2004), Liquidazione (Feltrinelli, 2005), Kaddish per il bambino non nato (Feltrinelli, 2006), Il secolo infelice (Bompiani, 2009), Verbale di polizia (Casagrande, 2007), Storia poliziesca (Feltrinelli, 2007), Diario dalla galera (Bompiani, 2009), Dossier K. (Feltrinelli, 2009). «Giunti alla soglia del XXI secolo, siamo rimasti abbandonati a noi stessi, in senso etico. Il progresso dell'uomo, nel senso più alto, si cela oltre la sua esistenza storica, ma non evitando le esperienze storiche, al contrario, sfruttandole, impossessandosene e identificandosi tragicamente con esse. Solo la conoscenza può elevare l'uomo al di sopra della storia, in un'epoca in cui la storia totale è avvilente e priva l'individuo di ogni speranza, la conoscenza rappresenta l'unica via d'uscita degna, essa è l'unico bene»: è il brano del suo discorso in occasione dell'insediamento all'Accademia delle Scienze ungherese. Lo abbiamo incontrato per i lettori del manifesto.

Qual è oggi il ruolo sociale degli intellettuali?
Quello di intellettuale è un concetto collettivo, anche quello di scrittore lo è. Conosco intellettuali di destra e di sinistra. Ve ne sono alcuni che se ne stanno a casa e scrivono, pensano, ma non intervengono nella vita pubblica. In generale non so se gli intellettuali abbiano un ruolo sociale serio in Ungheria. Penso, però, che facciano veramente del male quando pescano nel torbido e riesumano vecchie dispute politiche ormai declassate e prive di senso.

Da parte degli scrittori c'è oggi attenzione alla vita concreta o piuttosto all'astrazione?
Ora secondo me ognuno si occupa di quello che vuole. Io, personalmente, mi occupo di problemi reali.

Qual è il rapporto tra cultura/letteratura e politica in Ungheria?
Qui oggi la cultura e la letteratura - come ho detto nel discorso che ho pronunciato all'Accademia Ungherese delle Scienze, quando mi hanno nominato membro - sono separate dalla realtà. La cultura è tagliata fuori dalla politica nel vero senso della parola. Non conosco nessuna personalità della cultura che si sieda a un tavolo e dica: «Signori, il problema è che...». No, ci sono solo dibattiti, si farfuglia di qualcosa. L'intellettualità ungherese non è organizzata: questo è il problema principale. Altrove non è così. Per esempio, mi trovavo in Germania per la prima volta, a Monaco, e potei assistere a grandi manifestazioni per il Südtirol, guidate dall'allora presidente della Repubblica Federale Tedesca Johannes Rau. E allora pensai: qui c'è un collegamento organico, si muove qualcosa. In Ungheria, invece, non succede niente. Gli ultimi grandi movimenti sociali che ricordo sono le nostre proteste per la Transilvania. Fu in quell'occasione che sentii per l'ultima volta una qualche forma di solidarietà che ora non c'è più. C'è invece Jobbik (partito dell'estrema destra) che agisce come un partito ufficiale e che addirittura ha dei rappresentanti in Parlamento. Questa è la situazione.

Non pensa che ci sia una crisi generalizzata non solo dal punto di vista economico ma soprattutto da quello culturale?
Questa crisi dura da molto tempo. Ci sono tante personalità intelligenti che scrivono saggi meravigliosi e acuti su questo argomento, ma poi comunque non succede niente.

Alla fine del 2009 il mondo ha ricordato i venti anni dalla caduta del Muro e a ottobre la riunificazione tedesca. Secondo lei, che significato hanno oggi queste ricorrenze?
Una cosa grandiosa, Berlino, la città in cui abito, è diventata una città interessante, stimolante. C'è una enorme differenza tra la chiusura, la limitatezza di vedute di qua e l'apertura, la democrazia che ci sono là. È un grande problema, veramente grande. Guardi, la democrazia, in fin dei conti, non è una forma di stato che vada bene per tutti. Funziona laddove si è formata. Non è che si sia formata perché improvvisamente è venuto in mente a qualcuno di crearla, si comprende da sé. Prendiamo, per esempio, le grandi scoperte, la navigazione, la scoperta di un altro continente. Hanno hanno dato impulso al commercio; c'era bisogno di compagnie d'assicurazione, si è evoluta la navigazione civile, la Compagnia delle Indie per l'Inghilterra, per esempio, assicurava i suoi beni. Si sono formate le colonie. Non si è trattato di una bella pagina, ma si sono formate. Si è avvertito il bisogno dello stato di diritto, della certezza del diritto, di forme di tutela. Insomma, tutto ciò che poteva rendere la vita gradevole e sicura. Le merci che arrivavano dalle colonie aumentavano il benessere. La democrazia si è formata in modo naturale in paesi come l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia, l'Italia. L'Ungheria non ha preso parte a questi processi, non ha nemmeno il mare. C'è una grande differenza, guardi: quanti paesi europei non hanno il mare? Tre o quattro (Austria, Repubblica Ceca...).

Questo che cosa comporta?
A questi paesi mancano la cultura del mare, l'avventura del mare, le grandi avventure. In genere dico che oggi gli uomini hanno perso il loro ruolo, sono tutti "impiegati". Non ci sono fondatori, grandi figure, quelle che fanno le scoperte e che hanno determinato la grande fioritura dell'Occidente. Con Mohács (decisiva battaglia contro i turchi nel 1526, combattuta in una località dell'Ungheria meridionale) l'Ungheria ha perso la partita decisiva, si è giocata il ruolo che avrebbe potuto avere all'interno dell'Europa e si è rassegnata a ricoprirne uno di secondo piano, fino al 1867. Bisognerebbe considerare l'insieme dei fattori che ho descritto e parlare della democrazia come di un tesoro che si può conquistare, ma non tramandare, consegnare. Lo si potrebbe consegnare solo se ci fosse qualcosa di organico. In Europa c'è un principio radicato in questo senso, senza il quale la democrazia non si può tramandare.

Che motivazioni hanno in Ungheria l'intolleranza e questo nuovo revanscismo d'estrema destra? C'è un problema irrisolto nella società e nella storia ungheresi?
La gente qui non sa, non ha identità, non ha trovato un suo ruolo e il Paese non ha avuto modo di formarsi un'identità democratica. A questo punto devo di nuovo fare riferimento al fatto che l'Ungheria è un paese che ha subito delle invasioni, ha perso delle battaglie. Tutte le nostre feste nazionali ricordano la sconfitta di una battaglia o di una rivoluzione e facilmente questo può apparire strano. Di solito si celebrano cose positive. Il Risorgimento non è la celebrazione di qualcosa di funebre, qui invece tutto è commiserazione e incapacità di riconoscere le possibilità che ci vengono date.

Quali sono le ragioni di questa incapacità?
Quali? Ci sono delle cause che spiegano questo fenomeno, io potrei menzionarne alcune, ma non sarebbe sufficiente, bisognerebbe analizzarle approfonditamente. Sono in corrispondenza con una scrittrice che vive a Ginevra e che per prima, a Occidente, mi ha recensito Essere senza destino. Ora si occupa spesso dell'argomento di cui stiamo parlando ma quando è venuta qui, non riusciva a capire la causa di tutto questo pessimismo. È normale. Per comprendere meglio la situazione bisogna considerare il fatto che gli ungheresi non si sono conquistati la libertà ma l'hanno ricevuta quando ormai non l'aspettavano più. Se nel '56 un popolo dinamico, impetuoso, avesse combattuto per la sua libertà, le cose starebbero diversamente. Ora la gente si lamenta della mancanza di certezze, dice che con Kádár il pane costava poco e non c'era disoccupazione, ma questo non significa niente. C'era una disoccupazione generalizzata, come dimostrato anche dai bassissimi stipendi. Purtroppo c'è questa mentalità nell'area. Ricordo che mi trovavo ospite nella Germania dell'Est e il padrone di casa diceva: vediamo cosa si prende stasera alla televisione, nella Germania Occidentale avrebbero detto: guardiamo i programmi che ci sono stasera. Questa è una differenza grandissima, una grande differenza concettuale.

Che futuro vede per l'Ungheria e per l'Europa? Si può parlare di futura unità europea o di crisi prolungata?
Guardi, ci saranno sempre tante piccole Europe, naturalmente. Ma devo dirle che l'Europa, c'è, esiste. Al momento la moneta migliore è l'euro e questo è molto importante per un europeo. L'Europa deve essere forte e capace di sintetizzare le esperienze negative in qualcosa di positivo che bisogna vivere e tradurre in attività culturali o altro. L'Europa è per me l'unica forma di esistenza immaginabile ancora per 40 anni, spero. Ecco.


martedì 21 dicembre 2010

Emissioni killer


Marinella Correggia
il manifesto

Cancún Messe (photo: Friends of the Earth)



I governi continuano a sottostimare l'entità dei tagli alle emissioni di gas serra necessarie a rendere meno probabile la catastrofe climatica. Questo sostiene un rapporto della rete internazionale Friends of the Earth International (Foei, 5.000 gruppi sparsi per il mondo) a pochi giorni dalla conclusione della conferenza sul clima a Cancun.

Finora i calcoli governativi sembrano una roulette russa: quando affermano di voler mantenere l'aumento della temperatura al di sotto di 2 gradi, accettano un 50% di probabilità che il pianeta non precipiti in un disastro climatico con fame, sete, siccità, alluvioni, migrazioni epocali, morte della biodioversità. Per questo è una soglia discussa: secondo molti scienziati (e secondo il governo della Bolivia) non bisogna superare uno, massimo o 1,5 gradi.

Questo fifty/fifty è giocare sulla pelle del pianeta, dice Foei. Una chance ragionevole sarebbe un 70% di probabilità, non un 50%. A questo scopo, sostiene la ricerca (rivista dal direttore del famoso Tyndall Centre for Climate Change Research), le emissioni planetarie dovrebbero scendere almeno del 16% (rispetto a quelle del 1990) entro il 2030. Sembra poco. Ma non lo è se lo ponderiamo, come fa Foei, sulla base della giustizia climatica.

Infatti se l'ammontare totale delle emissioni che il mondo si può permettere (il «rimanente budget di carbonio») fosse - come è giusto - diviso equamente sulla base della popolazione, da qui al 2050, allora entro il 2030 (sempre rispetto al 1990) gli Usa dovrebbero ridurre le loro emissioni del 95%, l'Ue dell'83%, la Gran Bretagna dell'80%! A calcolare poi le emissioni storiche cumulate dagli Usa e dell'Ue, questi paesi hanno già usato oltre metà della loro quota nel bilancio carbonico globale.

Quanto alla Cina, dovrebbe arrivare al picco delle emissioni entro il 2013 e poi ridurle del 5% all'anno. Foei ripete che se 15 anni fa il mondo avesse ridotto le emissioni anche solo dell'1,.5%, le chance di rimanere al di qua dei due gradi di aumento sarebbero buone. Adesso invece occorre uno sforzo ben superiore alle promesse di Cancun.

Anche la rete International Rivers Network (Irn) critica l'accordo raggiunto in Messico. Fa notare che sulla base degli impegni volontari attualmente assunti dai singoli paesi, secondo una analisi fatta mesi fa del Programma Onu per l'ambiente, la temperatura mondiale aumenterebbe di orribili 4 gradi.

Doris Leuthard told delegates in Cancun that not acting on climate  change has economic consequences and leads to destabilistation


L'Irn sostiene poi che gli impegni si indeboliscono ulteriormente con l'uso delle compensazioni (offsets), meccanismi di mercato a cui si prevede un ricorso sempre maggiore: sia sotto la forma del Clean Development Mechanism (meccanismo per lo sviluppo pulito), in cui saranno conteggiati anche i progetti di «Cattura e stoccaggio del carbonio», una geoingegneria climatica assai controversa.

Sia anche la riduzione delle emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado delle foreste (Redd), che si configura sempre più come un meccanismo di mercato: se anche questo sarà un modo per generare crediti di carbonio, sempre più difficile saranno il monitoraggio e il rispetto dei popoli abitanti delle foreste.

L'unico sviluppo positivo della conferenza messicana, secondo Irn, è che si considerano anche meccanismi non di mercato, come gli incentivi, o la regolazione del gas Hfc-23, sottoprodotto della produzione di gas per la refrigerazione, con un meccanismo simile a quello stabilito dal Protocollo di Montreal per l'abolizione dei gas ammazza-ozono. Ma è troppo poco per salvare il clima.



venerdì 17 dicembre 2010

TONI NEGRI: È possibile essere comunisti senza Marx?

È possibile essere comunisti senza Marx? È evidente che sì.

Ciò non toglie che mi capiti spesso di discuterne con compagni e con intellettuali sovversivi di differenti estrazioni. Soprattutto in Francia – e le considerazioni che seguono riguardano essenzialmente la Francia. Debbo comunque confessare che spesso mi annoio a ragionare su questi argomenti, ci son linee troppo diverse e contraddizioni che raramente son condotte a confrontarsi con verifiche o soluzioni sperimentali. Si tratta spesso di confrontarsi con retoriche che astrattamente affrontano la pratica politica. E tuttavia, talora, ci si scontra con posizioni che negano addirittura che ci si possa dichiarare comunisti se si è marxisti. Da ultimo, ad esempio, un importante studioso – che pure aveva sviluppato nel passato le ipotesi del “maoismo” più radicale – mi diceva che, se ci si attenesse al marxismo rivoluzionario, che prevedeva il “deperimento dello Stato”, la sua “estinzione”, dopo la conquista proletaria del potere, e certo non ha realizzato questa finalità, non ci si potrebbe più dichiarare “comunisti”. Obiettavo che è come dire che il cristianesimo è falso perché il Giudizio Universale non è arrivato nei tempi prossimi, previsti dall’Apocalisse di Giovanni, e la “resurrezione dei morti” non la si è proprio vista! Ed aggiungevo che nell’epoca del disincantamento, la fine del secolo mondano per i cristiani e la crisi della escatologia socialista equivocamente sembrano giacere sotto la stessa coperta, meglio, subire eguali ingiunzioni epistemologiche – però, del tutto fallaci. È certo infatti che il cristianesimo è falso – ma io credo che lo sia per tutt’altre ragioni. E se anche il comunismo è falso, non lo è certo perché la speranza escatologica non si è in questo caso realizzata: non dico infatti che essa non fosse infatti implicita nella premessa, ma solo che molte delle “profezie” (meglio, dei dispositivi teorici) del comunismo marxiano si sono realizzate, al punto che oggi è ancora impossibile – senza Marx – affrontare il problema della lotta contro lo schiavitù del capitale. Proprio per questo, probabilmente, sarebbe importante ritornare dal cristianesimo a Cristo e dal comunismo a Marx…

E allora? Non si è data l’estinzione dello Stato, in Russia e in Cina lo Stato è divenuto onnipotente ed il comune è stato organizzato (e falsificato) nelle forme del pubblico: lo statalismo ha quindi vinto e, sotto quest’egemonia, non il comune ma un capitalismo burocratico sommamente centralizzato si è imposto. Tuttavia a me sembra che attraverso le grandi esperienze rivoluzionarie comuniste del secolo ventesimo, l’idea di una “democrazia assoluta”, e di un “comune degli uomini”, sia stata dimostrata possibile. Ed intendo la “democrazia assoluta” come un progetto politico che si costruisce oltre la democrazia “relativa” dello Stato liberale, e dunque come l’indice di una radicale rivoluzione contro lo Stato, di una pratica di resistenza e di costruzione del “comune” contro il “pubblico”, del rifiuto dell’esistente e dell’esercizio della potenza costituente da parte della classe dei lavoratori sfruttati.

Qui interviene la differenza. Qualunque sia stata la conclusione, il comunismo (quello che si è mosso secondo l’ipotesi marxista) si è provato (anche senza realizzarsi) attraverso un insieme di pratiche che non sono solo aleatorie, non solo transitorie: si è trattato di pratiche ontologiche. La questione, dunque, se si possa esser comunisti senza essere marxisti, dovrebbe prima di tutto confrontarsi con la dimensione ontologica del comunismo, con la determinazione materialista di questa ontologia, con i suoi residui effettivi, con l’irreversibilità di quel episodio nella realtà e nel desiderio collettivo degli uomini. Il comunismo è una costruzione, ci ha appreso Marx, un’ontologia, cioè la costruzione di una nuova società da parte dell’uomo produttore, del lavoratore collettivo, attraverso un agire che si rivela efficace perché è diretto all’accrescimento dell’essere.

Questo processo si è aleatoriamente dato, quest’esperienza si è parzialmente realizzata. Il fatto che sia stata sconfitta, non dimostra che sia impossibile: anzi è effettualmente mostrato che essa è possibile. Molti milioni di uomini e di donne hanno operato e pensato, lavorato e vissuto dentro questa possibilità. Nessuno nega che l’epoca del “socialismo reale” abbia ceduto a, e sia stata attraversata da, orribili derive. Ma sono esse tali da avere determinato un annullamento di quell’esperienza, da aver tolto quell’accrescimento dell’essere che il realizzarsi del possibile e la potenza dell’evento rivoluzionario avevano costruito? Se ciò fosse avvenuto, se il negativo che ha pur pesantemente intaccato la vicenda del “socialismo reale”, avesse prodotto una prevalente distruzione dell’essere, l’esperienza del comunismo sarebbe scivolata via e si sarebbe dispersa nel nulla. Ma questo non è avvenuto. Il progetto di una “democrazia assoluta”, l’istanza di costruire il “comune degli uomini” restano attrattivi, intatti nel nostro desiderio e nella nostra volontà. Non dimostra forse questa permanenza, questo materialismo del desiderio, la validità del pensiero di Marx? Non è perciò difficile, se non impossibile, essere comunisti senza Marx?

All’obiezione sullo statalismo che “necessariamente” deriverebbe dalle pratiche marxiste, occorre dunque rispondere riarticolando la nostra analisi: assumendo cioè che l’accumulazione dell’essere, il progredire della “democrazia assoluta”, l’affermazione della libertà e dell’uguaglianza, passano attraverso e subiscono incessantemente soste, interruzioni, catastrofi – ma che quest’accumulazione è più forte dei momenti distruttivi che pur conosce. Questo processo infatti non è finalistico, teleologico e neppure è una mossa di filosofia della storia: non lo è perché quest’accumulazione di essere che pur vive attraverso le vicende storiche, non è un destino e neppure una provvidenza, ma è la risultante, l’intersezione di mille e mille pratiche e volontà, trasformazioni e metamorfosi che hanno costituito i soggetti. Quella storia, quest’accumulazione sono prodotti delle singolarità concrete (che la storia ci mostra in azione) e produzioni di soggettività. Noi le assumiamo e le descriviamo a posteriori. Non c’è nulla di necessario, tutto è contingente ma concluso, tutto è aleatorio ma compiuto, nella storia che raccontiamo. Nihil factum infectum fieri potest: c’è forse filosofia della storia laddove i viventi desiderano solo continuare a vivere e per ciò esprimono dal basso una teleologia intenzionale della vita? La “volontà di vivere” non risolve i problemi e le difficoltà del vivere ma ci si presente nel desiderio come urgenza e potenza di costituzione del mondo. Se vi sono discontinuità e rotture, esse si rivelano nella continuità storica – una continuità sempre frastagliata, mai progressiva – ma neppure globalmente, ontologicamente catastrofica. L’essere non può mai essere totalmente distrutto.

Altro tema: quell’accumulazione di essere costruisce del comune. Il comune non è una finalità necessaria – è bensì un aumento dell’essere perché l’uomo desidera essere molteplicità, stabilire relazioni, essere moltitudine – non potendo star da solo, soffrendo soprattutto la solitudine. In secondo luogo, quell’accumulazione di essere non sarà neppure identità né origine: è essa stessa un prodotto di diversità e di consensi/contrasti fra singolarità, articolazione di costruzioni linguistiche e di determinazioni storiche, frutto di incontri e scontri. Va qui soprattutto sottolineato che il comune non si presenta come l’universale. Può contenerlo ed esprimerlo, ma non vi si riduce, è più esteso e temporalmente dinamico. L’universale si può predicare di ogni e di tutti gli individui. Ma il concetto di individuo autosussistente è contraddittorio. Non c’è individualità ma solo relazione di singolarità. Il comune ricompone l’insieme delle singolarità. Questa differenza del comune dall’universale è qui assolutamente centrale: Spinoza la definì quando, alla generica vuotezza dell’universale e all’inconsistenza dell’individuo, oppose la concreta determinazione delle “nozioni comuni”. Universale è ciò che nell’isolamento, nella solitudine, ogni soggetto può pensare; comune è invece quello che ogni singolarità può costruire, costituire ontologicamente a partire dal fatto che ogni singolarità è molteplice ma determinata concretamente nella molteplicità, nella comune relazione. L’universale è detto del molteplice, mentre il comune è determinato, è costruito attraverso il molteplice e qui specificato. L’universalità considera il comune come un astratto e lo immobilizza nel corso storico: il comune sottrae l’universale all’immobilità e alla ripetizione. E lo costruisce invece concretamente.

Ma tutto questo presuppone l’ontologia. Ecco dunque dove il comunismo ha bisogno di Marx: per impiantarsi nel comune, nell’ontologia. E viceversa. Senza ontologia storica non c’è comunismo.

Si può essere comunisti senza essere marxisti? Diversamente dal “maoismo” francese, che non ha mai frequentato Marx (ma su questo ritorneremo), Deleuze e Guattari ad esempio furono comunisti senza essere marxisti, ma lo furono in maniera estremamente efficace, fino al punto che si favoleggiò di un Deleuze autore, in punctuo mortis, di un libro intitolato “La grandeur di Marx”. Deleuze e Guattari costruiscono il comune attraverso degli agencements collectifs e un materialismo metodologico che li avvicina al marxismo ma li tiene distanti dal socialismo classico, e comunque da ogni ideale organico di socialismo e/o statalistico di comunismo. Sicuramente Deleuze e Guattari si dichiararono tuttavia comunisti. Perché? Perché, senza essere marxisti, furono implicati in quei movimenti di pensiero che si aprivano continuamente alla pratica, alla militanza comuniste. In particolare, il loro materialismo fu ontologico, il loro comunismo si sviluppò sui mille plateaux della pratica trasformativa. Mancava loro la storia, quella positiva che certo spesso può aiutare nel produrre e nel comprendere la dinamica della soggettività (in Foucault, questo dispositivo è finalmente reintegrato nell’ontologia critica): talora tuttavia la storiografia positivista, certo, ma talora la storia può essere iscritta all’interno della metodologia materialista, senza quegli orpelli cronologici e quell’eccessiva insistenza sugli eventi, tipica di ogni Historismus – e appunto ciò che avviene in Deleuze-Guattari. Insisto sulla complementarietà di materialismo e ontologia perché la storia (che nella prospettiva tanto dell’idealismo classico quanto del positivismo era certo ricalcata dalla filosofia, ma per finalizzarla ad ipostasi politiche o etiche e così a negarne la dimensione ontologica) può, invece, essere talora tacitamente ma efficacemente sussunta – quando l’ontologia costituisca dispositivi particolarmente forti, come avveniva in Deleuze-Guattari. Non bisogna infatti dimenticare che il marxismo non vive solo nella scienza ma piuttosto si svolge dentro esperienze “situate”: il marxismo è spesso rivelato dai dispositivi militanti.

Diversamente van le cose quando, ad esempio, si confronti il nostro problema (comunismo/marxismo, storia/ontologia) alle numerose varianti del socialismo utopistico, soprattutto a quello di derivazione “maoista”. Nell’esperienza francese del “maoismo” si assistette al diffondersi di una specie di “odio per la storia”, che – qui consistete la sua spaventosa deficienza – rivelava un estremo disagio quando si trattasse di produrre obiettivi politici. Così, infatti, evacuando la storia, si evacuava non solo il marxismo ma anche la politica. Paradossalmente si ripeteva, nella direzione opposta, quello che era avvenuto in Francia nel periodo della fondazione della scuola degli “Annales” di Marc Bloch e di Lucien Febvre: in quell’occasione il marxismo venne introdotto nella discussione filosofica attraverso la storiografia. E la storiografia divenne politica!

Altrettanto vale per il socialismo utopistico: si deve riconoscere che, in talune delle sue esperienze (fuori dalle varianti maoiste), esso ha offerto connessioni materialiste di ontologia e storia – non sempre, ma sovente. Si pensi solo – per quel che riguarda l’esperienza francese – ai formidabili contributi di Henri Lefebvre. Si tratterà allora di comprendere se e fino a che punto, dentro questo variare di posizioni diverse, emergono talora posizioni che (in nome dell’universalità del progetto politico proposto) si oppongono alla praxis ontologica – negando, ad esempio, la storicità di categorie come l’“accumulazione originaria” e proponendo di conseguenza l’ipotesi di un comunismo come pura restaurazione, immediata, dei commons, oppure svalutando le metamorfosi produttive che configurano variamente la “composizione tecnica” della forza lavoro (che è vera e propria produzione materialista di soggettività nella relazione fra rapporti produttivi e forze produttive), riconducendo in maniera radicale alla natura umana (sempre uguale, sub forma arithmeticae) l’origine della protesta comunista, ecc. ecc.: si tratta evidentemente di una riedizione ambigua dell’idealismo nella sua figura trascendentale.

Per esempio: in Jacques Rancière abbiamo recentemente visto accentuarsi i dispositivi che negano ogni connessione ontologica di materialismo storico e comunismo. La prospettiva dell’emancipazione del lavoro si sviluppa infatti, nella sua ricerca, in termini di autenticità della coscienza, assumendosi conseguentemente la soggettività in termini individuali, e quindi togliendo di mezzo – proprio prima di cominciare – ogni possibilità di chiamare comune la produzione di soggettività. Inoltre l’azione emancipatrice si stacca qui da ogni determinazione storica e proclama la sua indipendenza dalla temporalità concreta: la politica, per Rancière, è un’azione paradossale che stacca il soggetto dalla storia, dalla società, dalle istituzioni, pur quando, senza quella partecipazione (quell’inerenza che può essere radicalmente contraddittoria), il soggetto politico non sarebbe neppure predicabile. Il movimento di emancipazione, la “politica” perdono così ogni caratteristica di antagonismo, non in astratto ma sul terreno concreto delle lotte, e le determinazioni dello sfruttamento non si vedono più e (parallelamente) non costituisce più problema l’accumulazione del potere nemico, della “polizia” (sempre presentata in una figura indeterminata, non quantitate signata). Quando il discorso di emancipazione non riposa sull’ontologia, diviene utopia, sogno individuale e lascia il tempo che trova.

Siamo così entrati in medias res, al punto di chiederci se (dopo il sessantotto) ci sia mai stato un comunismo collegato al marxismo in Francia. C’è stato certamente (e permane) nelle due varianti dello stalinismo e del trotzkismo, l’una e l’altra ormai partecipanti di una storia lontana ed esoterica. Quando invece si viene alla filosofia del ’68, qui il rifiuto del marxismo è radicale. Vogliamo riferirci essenzialmente alle posizioni di Badiou, che godono di una certa popolarità.

Una breve precisazione. Quando Rancière, nelle immediate adiacenze del ’68, sviluppava (dopo aver partecipato alla comune lettura de “Il Capitale”) una critica pesante delle posizioni di Althusser, e metteva in luce come nella critica dell’umanesimo marxista (che solo dopo il ’68 – con un certo ritardo, dunque! – si apriva in Althusser alla critica dello stalinismo) permanessero in realtà gli stessi presupposti intellettualisti dell’“uomo di partito” e l’astrazione strutturalista del “processo senza soggetto” – aveva ragione da vendere. Ma non si dovrebbe oggi, da parte di Rancière sollevare la stessa critica nei confronti di Badiou? Anche per Badiou infatti è solo l’indipendenza della ragione, la sua garanzia di verità, la sistematicità di un’autonomia ideologica – è solo a queste condizioni che si determina la definizione del comunismo. “N’est-ce pas, sous l’apparance du multiple, le retour à une vieille conception de la philosophie supérieure?” – si chiedono Deleuze-Guattari. È quindi molto difficile capire dove stiano per Badiou le condizioni ontologiche del soggetto e della rottura rivoluzionaria. Per lui, infatti ogni movimento di massa costituisce una performance piccolo borghese, ogni lotta immediata, del lavoro materiale o cognitivo, di classe o del “lavoro sociale”, è qualcosa che mai toccherà la sostanza del potere – ogni allargamento della capacità collettiva di produzione dei soggetti proletari non sarà altro che un allargamento del loro assoggettamento alla logica del sistema – quindi, l’oggetto è inarrivabile, il soggetto indefinibile, a meno che la teoria non lo produca, a meno di disciplinarlo, di adeguarlo alla verità e di innalzarlo all’evento – oltre la pratica politica, oltre la storia. Ma tutto questo è ancor poco rispetto a quello che ci aspetta se seguiamo il pensiero di Badiou: ogni quadro di lotta, specificamente determinato, gli sembra (se la teoria e l’esperienza militante gli attribuiscono una potenza di sovversione) solo un’allucinazione onirica. Insistere ad esempio sul “potere costituente” sarebbe per lui sognare la trasformazione di un immaginario “diritto naturale” in una potenza politica rivoluzionaria. Solo un “evento” può salvarci: un evento che sia fuori da ogni esistenza soggettiva che sappia determinarlo e da ogni pragmatica strategica che ne rappresenti il dispositivo. L’evento per Badiou (la crocifissione di Cristo e la sua resurrezione, la Rivoluzione francese, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.) è sempre definito a posteriori, è dunque un presupposto e non un prodotto della storia. Di conseguenza, paradossalmente, l’evento rivoluzionario esiste senza Gesù, senza Robespierre, senza Mao. Ma, privato di una logica interna di produzione dell’evento, come si potrà mai distinguere l’evento da un oggetto di fede? Badiou, in realtà, si limita con ciò a ripetere l’affermazione mistica, normalmente attribuito a Tertulliano: “credo quia absurdum” – credo, cioè, perché è assurdo. Qui l’ontologia viene spazzata via. Ed il ragionamento comunista è ridotto o a un colpo di matto o a un business dello spirito. Per dirla tutta, ripetendo Deleuze-Guattari: “l’événement lui-même apparaît (selon Badiou), moins comme une singolarità que comme un point aléatoire séparé qui s’ajout ou se soustrait au site, dans la trascendance du vide ou la vérité comme vide, sans qu’on puisse décider de l’appartenance de l’événement à la situation dans laquelle se trouve son site (l’indécidable). Peut-être en revanche y a-t-il une intervention comme un jet de dé sur le site qui qualifie l’événement et le fait entrer dans la situation, une puissance de « faire » l’événement”.

Ora, si comprendono facilmente alcuni dei presupposti di queste posizioni teoretiche (che comunque partono da una sofferta e condivisa autocritica di pratiche rivoluzionarie trascorse). Si trattava, infatti, in primo luogo, di distruggere ogni riferimento alla storia di un “socialismo reale”, sconfitto, sì, ma sempre e comunque infarcito di premesse dogmatiche e di un’organica disposizione al tradimento. In secondo luogo, si voleva evitare di stabilire qualsiasi relazione fra le dinamiche dei movimenti sovversivi e i contenuti e le istituzioni dello sviluppo capitalistico. Giocare con questi, dentro/contro, come la tradizione sindacale proponeva, aveva infatti prodotto corruzione del desiderio rivoluzionario ed illusione delle volontà in lotta. Ma trarre da questi giusti obiettivi critici la conseguenza che ogni tentativo politico, tattico e strategico di ricostruzione di una pratica comunista e la fatica di questo esercizio, siano esclusi dalla prospettiva di liberazione; che non possa darsi un progetto costituente, né alcuna presa trasformativa dentro la dimensione materiale, immediatamente antagonista delle lotte; e che ogni tentativo di render conto delle forme attuali del dominio, in qualsiasi modo esso si sviluppi, sia comunque subordinato ed assorbito dal comando capitalistico; che infine ogni riferimento alle lotte all’interno di un tessuto biopolitico, a lotte – dunque – che considerino in una prospettiva materialistica le articolazioni del Welfare, non rappresentino altro che un rigurgito vitalista – bene, tutto questo ha un solo significato: la negazione della lotta di classe. E ancora: secondo l’“estremismo” badiousiano, il progetto del comunismo non può darsi se non in maniera privativa e dentro forme di sottrazione dal potere, e la nuova comunità non potrà che essere il prodotto dei senza comunità (come d’altra parte sostiene Rancière). Quello che offende, in questo progetto, è la purezza giansenista che esso esibisce: ma quando le forme dell’intelligenza collettiva sono a tal punto disprezzate – perché ogni forma d’intelligenza prodotta nella storia concreta degli uomini è ricondotta alla logica del sistema di produzione capitalista – allora, non c’è più niente da fare. O, meglio, resta da riaffermare l’osservazione sopra già fatta, e cioè che la pragmatica materialista (quella che abbiamo conosciuto fra Machiavelli e Nietzsche, fra Spinoza e Deleuze), quel movimento che vale esclusivamente per sé stesso, quel lavoro che rinvia solo alla propria potenza, quell’immanenza che si concentra sull’azione e sull’atto di produzione di essere – è in ogni caso più comunista di ogni altra utopia che abbia un rapporto schizzinoso con la storia ed incertezze formali con l’ontologia.

Noi non crediamo dunque possibile parlare di comunismo senza Marx. Certo, il marxismo va profondamente, radicalmente riletto e rinnovato. Ma anche questa trasformazione creativa del materialismo storico può avvenire seguendo le indicazioni di Marx – arricchendolo con quelle che derivano dalle correnti “alternative” vissute nella modernità, da Machiavelli a Spinoza, da Nietzsche a Deleuze-Foucault. E se Marx studiava le leggi di movimento della società capitalista, ora si tratta di studiare le leggi del lavoro operaio, meglio, dell’attività sociale tutta intera, e della produzione di soggettività dentro la sussunzione della società nel capitale e l’immanenza della resistenza allo sfruttamento sull’orizzonte globale. Oggi non basta più studiare le leggi del capitale, bisogna lavorare all’espressione della potenza della ribellione dei lavoratori ovunque. Sempre seguendo Marx: quello che ci interessa “è il lavoro non come oggetto ma come attività; non come valore esso stesso ma come sorgente viva del valore. Di fronte al capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come realtà, il lavoro è la ricchezza generale come sua possibilità, che si conferma nell’attività come tale. Non è affatto una contraddizione dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la miseria assoluta come oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività”. Ma come cogliere il lavoro in questo modo, e cioè non come oggetto sociologico ma come soggetto politico? Questo è il problema, questo è l’oggetto dell’inchiesta. Solo risolvendo questo problema possiamo parlare di comunismo – se è necessario (e quasi sempre lo è) sporcandoci le mani. Tutto il resto è chiacchiera intellettualista.

fonte: UniNomade

Tratto da: controlacrisi.org

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