martedì 16 novembre 2010

Un patto atomico tra Londra e Parigi

Francia-Gb, siglati accordi in materia di difesa e sicurezza nucleare

Francia e Gran Bretagna hanno lanciato un programma comune di difesa.
Che prevede ricerche e operazioni congiunte. Ma soprattutto un’inedita
collaborazione sul nucleare



CAPACITA' DI DIFESA

Budget, miliardi di dollari GB 58,30 F 63,9
Militari, migliaia GB 178 F 250
Portaerei GB 2 F 1
Cacciatorpediniere GB 6 F 11
Fregate GB 17 F 20
Sottomarini GB 7 F 6
Aerei da caccia GB 300 F 360
Elicotteri d’attacco GB 233 F 246
Carri armati GB 357 F 637
Sottomarini nucleari GB 4 F 4

The Economist, Gran Bretagna

Un patto atomico tra Londra e Parigi, Francia e Gran Bretagna hanno lanciato un programma comune di difesa. Che prevede ricerche e operazioni congiunte. Ma soprattutto un’inedita collaborazione sul nucleare.

Non sempre vanno d’accordo. Ma quando si tratta di difesa, spesso gli interessi di Francia e Gran Bretagna convergono. I due paesi sono rispettivamente il terzo e il quarto al mondo per la spesa militare. Entrambi si considerano potenze globali, pronte a inviare missioni all’estero. I recenti tagli alle spese, però, rischiano di frustrare le loro ambizioni. Per questo il premier britannico David Cameron e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno capito che solo collaborando strettamente i loro paesi possono sperare di continuare a sedere al tavolo delle grandi potenze.

E il 2 novembre, a Londra, hanno siglato un piano quinquennale di difesa. Gran parte del trattato riguarda le questioni degli equipaggiamenti. I due paesi condivideranno la gestione dei nuovi aerei da trasporto A400M che stanno comprando, e svilupperanno insieme nuove tecnologie per i sottomarini nucleari, le comunicazioni satellitari e la difesa dalle mine marittime. Le industrie militari francesi e britanniche, inoltre, saranno spinte a cooperare per dar vita a una nuova generazione di droni e missili, con l’obiettivo di fare dei due paesi un unico fornitore di “armi complesse”.

Soprattutto, però, è stato firmato un trattato sulla cooperazione nucleare. È un risultato importante, considerati i differenti approcci di Francia e Gran Bretagna all’uso del nucleare come deterrente: Londra dipende fortemente dalle forniture statunitensi, mentre la dotazione nucleare francese è un simbolo supremo di sovranità nazionale. Con la benedizione degli Stati Uniti, il centro di ricerca britannico di Aldermaston si concentrerà sullo sviluppo tecnologico, mentre a Valduc, in Francia, saranno eseguiti test simulati sulle armi nucleari.

Come era prevedibile, l’accordo ha fatto gridare allo scandalo la stampa popolare britannica, molto nazionalista. Qualche politico in pensione ha ricordato le vecchie ruggini con i peridi francesi. oltremanica la reazione è stata più pacata. In realtà, molte delle obiezioni sollevate sembrano anacronistiche o frutto di disinformazione. Già prima che la Francia rientrasse nella struttura militare integrata della Nato, nel 2009, le forze britanniche e francesi avevano spesso operato sotto il comando dell’uno o dell’altro paese.

E con l’eccezione dell’Iraq, nelle ultime crisi internazionali Londra e Parigi sono sempre state sulle stesse posizioni. John Nott, segretario alla difesa britannico durante la guerra delle Falklands, ha rivelato di recente nella sua autobiograia che la Francia allora fu l’alleato più fedele della Gran Bretagna, fornendo informazioni che contribuirono a neutralizzare i missili antinave usati dall’Argentina e mettendo a disposizione i caccia Mirage e Super-Étendard per le esercitazioni dei piloti britannici.

Tuttavia delle difficoltà potrebbero sorgere sull’uso congiunto delle portaerei, se le priorità e le politiche nazionali dei due paesi non dovessero coincidere nei conflitti futuri. Per questo, contrariamente a quanto sembra probabile, Londra dovrebbe decidere di non vendere la sua seconda portaerei, ancora in costruzione, ma di gestirla in collaborazione con i francesi. In questo modo la nave potrebbe essere messa a disposizione dei due paesi nei periodi in cui la loro unica portaerei è in manutenzione. La sola accortezza è evitare di chiamarla Trafalgar.


lunedì 15 novembre 2010

VIVA LA SARDEGNA INDIPENDENTE!


http://gianfrancopintore.blogspot.com/
l'articolo di Gianfranco Pintore da dove è nato il dibattito sottostante.

Come rottamare lo Stato: la politica in azione

Troppo presi dalla ordinarietà del marasma politichese, non è facile avere la consapevolezza che qualcosa di decisivo si sta rompendo nell'Ordinamento italiano e, a volte in maniera autonoma a volte per replica romana, in quella sardo. E che ci sono i primi seri scricchiolii dello Stato unitario come lo conosciamo da un secolo e mezzo. Il caos, avrebbe detto Mao dse dung, è grande sotto il cielo e la situazione è eccellente, nel senso che dalla confusione di questi ultimi tempi potrebbe nascere un ordine nuovo.
La ribellione di giovani e maturi militanti del Pd che si propongono di “rottamare” il gruppo dirigente; il declino di Berlusconi, pur se non imminente come molti vorrebbero; il difficile barcamenarsi di Gianfranco Fini fra la terziarità della sua carica e la sua parzialità di capo di partito; la predisposizione del Pd a qualsiasi guazzabuglio “tirannicida”; la voglia di Di Pietro di esporre a pubblica gogna il nemico; la minaccia della Lega di staccare la Padania dalla Repubblica; la rottura degli autonomisti siciliani con il Governo; l'aut aut posto dal Governo sardo a quello italiano. Tutto questo, ed altro ancora, è la causa della crisi profonda dello Stato unitario o ne sono l'effetto?
Fra “altro ancora” c'è la decisione di un senatore sardo, Piergiorgio Massidda, di porre il Governo davanti a una scelta: “O rispetta gli impegni assunti nel programma elettorale del Pdl di favorire la crescita della Sardegna, o non potrà contare sul mio voto”. Il guaio, per il Governo, è che non può dire chi se ne frega, voto più voto meno non ha importanza. Già, perché il voto di Massidda può fare la differenza fra la sopravvivenza del Governo e la sua fine. Il senatore sardo è diventata una star nei giornali di opposizione ma non solo, tutti, però, accomunati in un pensiero unico: se esce dal Pdl è per andare con il partito di Fini, tertium non datur nello schema accomodante del politichese politico e mediatico.
Che voglia fare l'ennesimo parlamentare di Futuro e libertà o che voglia farsi parte di un progetto tutto sardo è questione tutta sua. Resta il fatto che, come del resto scrive nel suo blog, si è accorto quanta vuota retorica ci sia nella concezione secondo cui esistono “governi amici” e “governi nemici”. Cosa, del resto, che aveva già sperimentato Renato Soru al tempo di Prodi e sperimenta il suo successore Ugo Cappellacci ai tempi di Berlusconi. I rapporti fra governi regionali e governi dello Stato non sono e non possono essere regolati da “amicizia” o “inimicizia”, al massimo da “leale collaborazione”. Non lo è mai stato, figurarsi se è possibile in clima di incipiente federalismo. Il fatto è che il localismo, parolaccia nel lessico unitarista, si prende la sua rivincita e diventa, come è giusto che sia, linea portante della politica.
La Lega Nord, tralasciando l'orticaria che provocano certe sue uscite xenofobe, è maestra nell'imporre un concetto nuovo del rapporto fra la macro regione chiamata Padania e Governo dello Stato. Vi partecipa, anche con fedeltà, a patto che gli interessi della Padania siano rispettati puntigliosamente. Fa bene, insomma, il proprio lavoro. In qualche misura, è lo stesso che fa l'autonomia siciliana, capace di momenti di grande unità interna e, persino, di inventare inedite aggregazioni di governo, rompendo lo schema secondo cui ciò che si è al centro si deve essere in periferia. È la Sardegna ad essere stata incapace di considerare il suo rapporto con l'Italia come rapporto alla pari, neppure rendendosi conto che persino la Costituzione italiana sancisce l'equiordinamento fra gli elementi della Repubblica, comuni, province, regioni e Stato. La trappola del “governo amico” o del “governo nemico” è scattata quasi sempre, ad evitare il confronto fra le entità chiamate “Regione sarda” e “Stato italiano”, immiserendolo in una ricerca di solidarietà fra agnello e lupo, salsiccia e cane.
Oggi ci sono segni di qualcosa che sta cambiando con il rimescolamento cui stiamo assistendo. Che da questo nasca un qualcosa che risolva la crisi dello Stato unitario è possibile. Ma non ci credo. C'è chi evoca l'Algeria come rischio dello scontro, dentro il federalismo, fra il Mezzogiorno d'Italia e lo Stato, a cui farà da contrappunto la rivolta del Nord il giorno in cui si accorgerà che la camera di compensazione fra il sottosviluppo del Sud e lo sviluppo del Nord, niente di meno sarà che nuovo assistenzialismo a favore del Mezzogiorno. Come dire che il declino dello Stato unitario si gioca nella applicazione del federalismo. Può darsi, ma questo sfascio non si blocca certo coltivando il proposito di fermare questa trasformazione. Ammesso che sia possibile e auspicabile, il declino credo possa essere interrotto solo attraverso la presa d'atto di come la retorica unitarista abbia per troppo tempo impedito il dispiegarsi delle risorse materiali e immateriali del localismo.

LETTERA DELL'ONOREVOLE PIERGIORGIO MASSIDDA E RISPOSTA DI UN INDIPEDENTISTA




Piergiorgio Massidda

14 11 2010

Trovo non pochi punti di accordo nella lettera di Gianfranco Pintore. A partire dal fatto che, davvero, non si possa più ragionare in termini di amicizia o di inimicizia dei rapporti fra gli elementi che costituiscono la Repubblica italiana, i comuni, le province, le regioni, lo Stato, non a caso equiordinati dalla Costituzione. Lo Stato patrigno e la Regione matrigna sono enfasi alquanto piagnucolone e certamente datate. Fra questi elementi deve esserci una leale collaborazione nel rispetto delle competenze e dei poteri di ciascun elemento. Competenze e poteri che devono essere ben individuati, senza la confusione indotta dal Titolo V della Costituzione, come voluto solitariamente dal centro sinistra che se lo ha scritto e approvato.Per questo, ho presentato un disegno di legge per un Nuovo Statuto in cui le competenze sono estremamente chiare e definite; disegno di legge che è, poi, la proposta del Comitato per lo Statuto in cui Pintore ha avuto un ruolo insieme a Mario Carboni, Francesco Cesare Casula, Antonello Carboni e a tanti altri studiosi e intellettuali. Detto questo, rispetto l'idea, posta in subordine, che l'unità della Repubblica “possa essere una cosa compatibile con la sovranità della Sardegna”, ma non la condivido. Essa, a mio parere, non solo “è” compatibile, ma è allo stesso tempo condizione e fine della sovranità della Sardegna. Ho detto tante volte, anche in questo blog, che per me l'indipendenza – sbocco ovvio della fine dell'unità della Repubblica – non è uno spauracchio né un tabù. È una soluzione inattuale ed è un salto nel buio. Se la Sardegna, come mi auguro, avrà tutte le competenze di cui ha necessità, tutte tranne le quattro che resterebbero in capo allo Stato federale, che necessità avrebbe di costituire un altro stato all'interno dell'Europa? Mi si dirà che, nell'ambito del diritto internazionale, ne ha diritto, che si tratta di una questione di principio. Che, infine, in uno Stato federale continuerebbero ad esistere entità sviluppate e entità o sottosviluppate o in via di sviluppo e, quindi, straordinari divari fra il Nord e la Sardegna. Ma io sostengo che questi divari sono il frutto della qualità delle classi dirigenti e del loro grado di coesione intorno ad un progetto di sviluppo economico, sociale e culturale. Classi dirigenti che non riescono, soprattutto per mancanza di questa necessaria coesione, a rendere prospera una terra di 1.700.000 abitanti su un territorio che, vedi la Sicilia, ospita tre volte tanto, riuscirebbero ad assicurare prosperità di una repubblica indipendente? Forse fra moti decenni ce la farebbero, ma contando quante macerie materiali ed immateriali?Credo che anche i più convinti indipendentisti di questo dovrebbero tener conto. E sperimentare la via della costruzione di una Sardegna, sovrana in tutti gli ambiti di propria competenza, e unita all'interno della Repubblica italiana alle altre entità territoriali, le regioni o quel che risulterà dal processo federalista in atto. Tanto più che i diritto internazionale all'autodeterminazione non è prescrittibile. Una breve risposta anche agli amici che hanno risposto nel post precedente. Il problema non è solo del ceto politico, ma dell'insieme della classe dirigente in cui insieme a quella politica “abitano” quella imprenditoriale, quella sindacale, quella intellettuale. Nessuno deve scaricare su altri responsabilità che sono anche sue. È vero manca in noi una visione complessiva, una visione nazionale. Ci fosse, gran parte della strada sarebbe fatta.

http://piergiorgiomassidda.blogspot.com/

postato da piergiorgio massidda alle 10.54 il 14-nov-2010

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Risposta di: Cossu Sergio Gabriele INDIPENDENTISTA

Caro onorevole.

Dobbiamo ancora assorbirci la solita retorica che "senza l'Italia siamo persi", o peggio " moriremo di fame"? Abbia l'onesta di dire che il progetto " Sardegna italiana" è stato tutto un fallimento: qualsiasi analista confermerebbe l'assoluto disastro della nostra esperienza .Voi invece, continuate a perseverare in un dannoso atteggiamento che ha condannato, condanna e continuerà a condannare la Sardegna,non in un "salto" ma ad un vero destino buio.La disonestà intellettuale che contraddistingue questa posizione non farà altro che prolungare l'agonia di questa povera terra.Tutti sanno che la Sardegna è un boccone prelibato, pronto per essere divorato, e che nella condizione di inferiorità in cui la pongono le leggi italiane è assolutamente impossibile qualsiasi tipo di difesa. Noi sardi abbiamo bisogno di strumenti nuovi, che prescindano totalmente da quelli iniqui propinatici al solo scopo di controllare un popolo che non era ancora "uniformato" perché lontano e "diverso" , le cui risorse, secondo gli ideatori, essendo di "proprietà italiana", non dovevano essere messe a rischio con concessioni "troppo generose". Abbiamo finalmente bisogno di liberarci da questo cappio che si chiama "Italia", e che voi continuate a farci passare come unico "appiglio di salvezza", infondendo così ulteriore sfiducia e mancanza di autostima in un popolo già provato da 150 anni di traumi.

Non vogliamo più nessun vincolo con l'Italia che non sia sotto forma di cooperazione o trattato così come avviene tra stati che operano in modo amichevole. Non vogliamo una "via di mezzo" ,come lei propone, perché trattasi di camuffamenti giuridici che aprono la strada ad una nuova forma di interferenza costituzionale.

Vediamo con diffidenza le sue proposte vista l'esperienza dello statuto del 1948, laddove statuto, oggi, significa "potenziamento della sovranità italiana sulla Sardegna".

Onorevole, la Sardegna non si fida più!

La Sardegna chiede solo di essere libera!

Liberata da vincoli perversi che le impediscono di esprimere la sua potenziale creatività. Libera di poter garantire ai propri giovani un futuro certo nella terra dei loro avi, senza che sperimentino umilianti forme di inserimento sociale, come nel lavoro, e ancora peggio l'essere costretti ad emigrare. Liberata dai meccanismi delle istituzioni italiane - comuni, province, regione- funzionali alla sua sudditanza poiché strumenti dei poteri occulti dell'economia e della finanza. Libera di progettare un modello di sviluppo che tenga conto della sua"visione del mondo": di quella visione che un popolo mite e giusto nei suoi "fondamenti socioculturali" è in grado di porre in essere. Un popolo perfettamente consapevole dei suoi limiti da non aspettarsi un indipendenza a cui seguirà un anelamento di successi, ma sicuramente un popolo che, con modestia, saprà trovare la sua giusta dimensione spirituale: fiducia, speranza e la prospettiva di poter continuare ad esistere, saranno le condizioni essenziale per trarre vantaggio dal nuovo ordine che verrà imposto alla Sardegna dagli stessi sardi.

Si, onorevole, perché questo sarà il futuro della Sardegna! La sua personale posizione, frutto di retaggi risorgimentali, sarà smentita dalla tenacia e perseveranza con cui i sardi portano avanti questo sogno. Un sogno che talvolta si affievolisce a causa delle"sirene" che si avvicendano promettendo allettanti regalie e promesse, ma che il sardo non ha mai smesso di coltivare.

Regalie e promesse che, tra l'altro, uno stato fallito politicamente oltre che economicamente non è più in grado di concedere e mantenere.

La Sardegna dovrà mantenere vive le sue rivendicazioni anche di fronte ai nuovi segnali di disgregazione che stanno mettendo in discussione l'unità dello stato italiano dagli stessi " italiani", così che l'indipendenza abbia l'avallo della volontà popolare dei sardi, e non sia invece, il risultato di un evento voluto e gestito da altri.

Si, perché per effetto delle sue contraddizioni interne, che lentamente stanno venendo a galla, lo stato italiano, molto presto, si disgregherà.

Siamo prossimi al logico epilogo di una storia iniziata 150 anni fa da degli individui "incoscienti" nel loro idealismo, fino al punto da ignorare la strumentalizzazione che stava dietro il loro progetto insano.

Tuttavia, credo che la Sardegna saprà adottare tutte le precauzioni necessarie perché da tale evento si ricavi il massimo dei vantaggi, relegando, finalmente, questa "triste pagina" della nostra storia ad uso didattico dei posteri.

VIVA LA SARDEGNA INDIPENDENTE!

mercoledì 10 novembre 2010

LA FIGURA DELL'ASTRONAUTA SOSTITUISCE L'OCCHIO DIVINO DAL PIANETA Sloterdijk

Una anticipazione dalla rivista «Lettera internazionale»: la tesi del filosofo tedesco è che tramite la navigazione spaziale gli uomini hanno affidato l'osservazione a intelligenze situate nel cosmo, riuscendo così a rappresentare l'interlocutore esterno della coscienza con strumenti prevalentemente tecnici
Peter Sloterdijk
ilmanifesto

art of article

In nessun luogo si prende coscienza in modo così drastico del fatto che la vita ha bisogno di un ambiente adeguato come là dove un tale ambiente non esiste affatto: nel cosmo. Chi desidera recarvisi deve quindi portare con sé il proprio ambiente, così da avere un luogo dove poter dimorare. Se questa idea a prima vista può apparire banale, tuttavia le sue implicazioni filosofiche e antropologiche sono enormi. Nel momento in cui gli uomini sono in grado di impiantare mondi nel nulla e di riempirli trapiantandovi ambienti vitali, essi sono anche in grado di trasferire temporaneamente i propri simili in queste imitazioni eccentriche di mondi e di ambienti e di entrare in comunicazione con i trasferiti.
L'avvento della stazione spaziale non fornisce soltanto la prova della presenza di vita intelligente al di fuori della Terra; attraverso lo scambio elettronico di dati tra stazione e Terra si dimostra anche la possibilità di comunicare con questa intelligenza esterna. Ciò ha conseguenze di portata storica universale, poiché ora i mondi terrestri (alias culture) possono guardare per la prima volta a un oltremondo comune realmente esistente. D'ora in poi avremo a che fare con una trascendenza tecnica creata dagli stessi abitanti della Terra, che si distingue dalla tradizionale trascendenza religiosa o metafisica per il fatto di poter instaurare con essa una comunicazione reciproca. L'asimmetria metafisica fra la trascendenza divina e gli uomini è sostituita dall'asimmetria posizionale tra stazione spaziale e stazione terrestre.

Una nuova concezione dell'essere
In questa disposizione, la facoltà di udire una voce dall'alto non ha più nessuna implicazione estatica. Si può dire perciò che la navigazione spaziale ha trovato la soluzione più elegante al problema più antico della metafisica: essa risolve l'enigma della discontinuità ontologica tra il superiore e l'inferiore istituendo con pragmatica certezza un continuum tra l'essere-nel-mondo-1 e l'essere-nel-mondo-2. Da questa nuova ontologia o concezione dell'essere deriva un aspetto importante: nella trascendenza bidirezionale, a regnare sia in alto che in basso è lo stesso regime d'intelligenza. Quindi l'equipaggio che sta in basso può credere direttamente all'autorità di quello che sta in alto. La vista che quest'ultimo ha della Terra resta inglobata nel medesimo continuum ontologico - in esso, diversamente da quanto accade nel rapporto religioso con la trascendenza, le posizioni sono in linea di principio reversibili. Se parlo con Dio, sto pregando. Se è Dio a parlarmi, sono schizofrenico. Se invece sento Franco Malerba o Paolo Nespoli parlare italiano nel cosmo, posso dedurne che tutti i sistemi a bordo funzionano correttamente. Allo stesso modo, posso fare mia la visione del mondo degli astronauti, perché, come si è detto, nel continuum dell'essere vige l'interscambiabilità delle prospettive. Ciò che l'astronauta sa, vede e sente, anch'io posso saperlo, vederlo e sentirlo. L'astronauta è il vicario della Terra.
Con queste indicazioni abbiamo delineato, almeno sotto forma di allusioni, il significato che il «volo spaziale abitato» periterrestre ha nella storia del mondo. Le sue implicazioni sono letteralmente incalcolabili, se è vero che la navigazione spaziale aggiorna radicalmente la situazione degli esseri umani sul pianeta globalizzato. Essa incarna la prova di come la tecnica abbia avviato un processo di civilizzazione che conduce ben oltre tutto ciò che può essere elaborato nei dialoghi tra culture e religioni. Mentre i rappresentanti dei monoteismi passeranno i prossimi cento anni a disputare delle convergenze e delle divergenze tra i loro sistemi, l'astronautica ha già prodotto una forma pragmatica di trascendenza comune che orbita attorno a tutte le forme di vita terrestri e ai sistemi religiosi, abbracciandoli da una prospettiva sempre equidistante.
Per comprendere questo fatto, occorre ricordare che l'invenzione, o rivelazione, degli dèì nelle antiche culture imperiali dell'Asia e della Mesopotamia serviva a uno scopo psicopolitico molto importante. Si iniziò a parlare di dèi superni allorché si rese necessario abituare le persone all'idea che la loro vita fosse osservata ininterrottamente da un'intelligenza onnisciente e onniattenta, un'intelligenza dotata altresì del potere assoluto di presentare a ogni individuo, post mortem, il bilancio m orale delle sue azioni. Tutte le culture avanzate poggiano sull'idea che esista un'intelligenza osservatrice esterna in grado di afferrare sincronicamente la totalità degli avvenimenti vitali, anche quelli che si celano nel buio dell'ignoranza o della cattiva volontà.
L'innalzamento di un'intelligenza osservatrice divina generò la figura, a essa corrispondente, dell'intelligenza osservata - quella che fin dai tempi antichi chiamiamo anima o, più modernamente, coscienza. Avere una coscienza significa quindi sapersi osservati e penetrati da una posizione eccentrica forte. Quello che la tradizione chiama Dio è un osservatore forte per il quale tutti i fatti si situano sulla stessa superficie. Egli vede tutto sincronicamente e da tutti i lati, sia dall'alto, sia dall'interno. Del resto, se il mondo moderno ha respinto la religione, non da ultimo è perché gli individui hanno rivendicato un diritto alla privatezza - vale a dire una forma di mondo dove persino Dio, se esistesse, potrebbe entrare soltanto su invito.

Interlocutori esterni alla coscienza
Con l'osservazione dall'alto la navigazione spaziale ha raccolto almeno questa parte delle funzioni divine, trasferendola a sistemi tecnici (satelliti di osservazione) e intelligenze naturali (uomini a bordo di stazioni spaziali). Questa dislocazione spiega una parte del suo inesauribile significato. Affidando la loro osservazione eccentrica a intelligenze situate nel cosmo, gli uomini sono riusciti a rappresentare l'interlocutore esterno della coscienza con strumenti prevalentemente tecnici. La coscienza del mondo di fatto può svilupparsi soltanto se l'autorità dell'osservazione eccentrica diverrà abbastanza forte da costituire un contrappeso all'egocentrismo degli interessi locali. La navigazione spaziale acquista così un significato paragonabile soltanto a quello del dramma nel quale, tre o quattromila anni fa, gli dèi s'innalzarono al di sopra dei primi imperi regionali.
Gli uomini dell'era globale alzano di nuovo lo sguardo al cielo notturno. Ma non credono soltanto di essere osservati, lo sanno anche e, nella misura in cui prendono sul serio questo sapere, divengono capaci di agire come esige la loro coscienza. Le immagini inviateci dal nostro osservatore forte parlano una lingua chiara. Parlano alla nostra coscienza nei confronti della Terra. E gli incoscienti devono sapere che la loro incoscienza è già visibile dallo spazio. Sarebbe un errore tacere che queste immagini possono essere addotte come prove a carico in un processo contro coloro che ancora non vogliono sapere nulla.
Traduzione di Stefano Zangrando
© GEO, 9/200

Peter Sloterdijk, Karlsruhe 07-2009, IMGP3019.jpg

Peter Sloterdijk

sabato 6 novembre 2010

Perché le chiacchiere tra sorelle rendono più felici

Deborah Tannen,

The New York Times

Stati Uniti

Deborah Tannen

Secondo la linguista Deborah Tannen parlare fa bene all’umore, indipendentemente dal contenuto delle conversazioni. E con le sorelle si parla più spesso

Secondo un recente studio, gli adolescenti che hanno una sorella sono meno propensi a sentirsi “infelici, tristi o depressi” e a pensare “nessuno mi vuole bene”. Anche altri studi sono giunti a conclusioni simili.

Ma perché avere una sorella dovrebbe rendere più felici? La risposta classica – che le ragazze e le donne parlano delle emozioni più facilmente dei ragazzi e degli uomini – non è soddisfacente. Gran parte del lavoro che ho svolto nel corso degli anni mi ha portato a pensare che l’amicizia e le chiacchiere femminili non sono di per sé migliori di quelle maschili, ma semplicemente diverse.

Una volta un uomo mi ha raccontato di aver trascorso una giornata con un amico che stava divorziando. Quando è tornato a casa, la moglie gli ha chiesto come stesse l’amico. Lui ha risposto: “Non lo so, non ne abbiamo parlato”. La moglie lo ha rimproverato. Per lei l’amico aveva senz’altro bisogno di parlare di ciò che stava passando. Il marito si è sentito in colpa, perciò ha provato un certo sollievo quando ha letto nel mio libro Ma perché non mi capisci? che anche fare delle cose insieme può essere di conforto e una dimostrazione d’affetto. Parlare del divorzio poteva far stare peggio l’amico ed esprimere preoccupazione poteva suonare paternalistico.

Se parlare dei problemi non è necessario per trovare conforto, avere una sorella invece di un fratello non dovrebbe rendere gli uomini più felici. Eppure lo studio di Laura Padilla-Walker e dei suoi colleghi della Brigham young university è stato confermato anche da altri studi. In una mia recente ricerca, ho intervistato più di cento donne sulle loro sorelle, e se avevano anche fratelli gli ho chiesto di fare un confronto.

La maggior parte ha detto di parlare con le sorelle più spesso, più a lungo e di argomenti più personali. Non sempre questo voleva dire che si sentivano più vicine alle sorelle. Una donna, per esempio, ha raccontato di parlare per ore al telefono sia con i due fratelli sia con le due sorelle. Gli argomenti delle loro chiacchierate, però, sono diversi. Con le sorelle parla della vita privata, con i fratelli di storia, geografia e libri. Ma parlare a lungo raforza il legame sia con i fratelli sia con le sorelle, a prescindere da quello che si dice.

Il potere della parola

Il punto centrale del perché avere le sorelle rende felici – sia gli uomini sia le donne – potrebbe non dipendere dal tipo di conversazione, ma dal solo fatto di conversare. Se gli uomini, come le donne, parlano più spesso con le sorelle, questo potrebbe spiegare perché le sorelle rendono più felici.

Le interviste che ho condotto hanno confermato questa deduzione. Molte mi hanno detto di non parlare dei loro problemi personali neanche con le sorelle.

Un esempio è Colleen, una vedova ottantenne che era sempre stata molto vicina alla sorella non sposata, ma non aveva mai parlato con lei di problemi personali. A un certo punto la sorella è andata a vivere con lei e il marito. Colleen ha ricordato che ogni mattina, quando lui si alzava per fare il caffè, la sorella si fermava in camera sua per darle il buongiorno. Colleen la invitava a sedersi sul letto. E mentre se ne stavano lì, mano nella mano, “parlavano del più e del meno”. È questo un altro tipo di conversazione a cui si dedicano molte donne e che stupisce molti uomini: parlare dei dettagli della vita quotidiana, come il maglione comprato in saldo. Per alcune donne queste conversazioni sono confortanti come per altre lo sono le conversazioni “sui problemi”.

Quindi forse è vero che parlare è il motivo per cui avere una sorella rende più felici, ma non è necessario che si parli di emozioni. Quando le donne mi hanno detto di parlare con le sorelle più spesso, più a lungo e di argomenti più personali, sospetto che l’elemento fondamentale sia il primo – “più spesso” – e non l’ultimo.


Parlare fa bene all'umore, alle malattie psicosomatiche.

Deborah Tannen insegna linguistica alla Georgetown university ed è autrice, tra l’altro, di You were always mom’s favorite! (Random House 2009)



Watch the full episode. See more The WETA Book Studio.

venerdì 5 novembre 2010

La grande farsa delle elezioni birmane

Kyaw Zwa Moe,
The Irrawaddy, Thailandia



Per la prima volta dopo vent’anni, il 7 novembre il paese asiatico andrà alle urne. Ma con la legge elettorale voluta dalla giunta militare il risultato è scontato e il voto inutile

Le discusse elezioni birmane, le prime in vent’anni, sono alle porte. Quasi tutti i gruppi democratici del paese le deiniscono “antidemocratiche e inutili”. Per i 37 partiti che hanno presentato le loro liste, sono “l’unica alternativa politica”, mentre molti birmani sono convinti che “non produrranno nessun vero cambiamento”.

La leader democratica Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari, restano in carcere oltre 2.100 prigionieri politici e i partiti che rappresentano alcune etnie sono stati esclusi. Inoltre, la commissione elettorale nominata dalla giunta militare ha stabilito delle regole che limitano la libertà dei partiti democratici e favoriscono il partito che rappresenta la giunta, l’Unione solidarietà e sviluppo (Usdp). Le regole, sostiene la commissione, colpiscono tutti i partiti allo stesso modo. Ma l’Usdp le ignora, sapendo che non ci saranno ripercussioni.

La giunta non vuole la democrazia in Birmania. L’obiettivo di queste elezioni è legittimare l’egemonia militare nel paese dandole una parvenza di governo parlamentare. Il voto è gestito dagli stessi generali che hanno ignorato l’esito delle elezioni del 1990, che attribuiva alla Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi una maggioranza schiacciante.

I partiti di opposizione come la Forza democratica nazionale –nata da una scissione dalla Nld –, il Partito democratico e i partiti etnici non legati al governo militare hanno scelto di partecipare alle elezioni. Perché sperano, con qualche seggio in parlamento, di avviare il processo di democratizzazione. Ma difficilmente la giunta gli darà spazio. A dominare il parlamento saranno i candidati designati dall’esercito e gli ex uiciali, che non scenderanno a patti con l’opposizione.

Inoltre, i candidati democratici credono che la riconciliazione nazionale potrebbe risolvere i problemi del paese e che le elezioni siano l’unica alternativa. È difficile credere che queste elezioni possano contribuire all’ampia riconciliazione nazionale tra militari, organizzazioni democratiche e gruppi etnici necessaria per risolvere lo stallo politico del paese.

Anzi, nel preludio alle elezioni forse sta succedendo il contrario. Negli ultimi mesi le tensioni tra i militari e i gruppi etnici armati sono aumentate. Il conflitto tra truppe governative e milizie etniche, che paralizza lo sviluppo del paese da decenni, potrebbe perino peggiorare. Nonostante questo, le elezioni si terranno il 7 novembre a qualunque costo. E sarà bene osservarle alla ricerca di un segnale che testimoni almeno qualche progresso. Innanzitutto bisognerà vedere se la maggioranza dei partiti democratici otterrà un’alta percentuale di seggi. E poi se Suu Kyi sarà davvero rilasciata il 13 novembre, dopo un anno e mezzo di arresti domiciliari. Infine, si vedrà se gli oltre 2.100 prigionieri politici saranno liberati.

Perfino qui, però, la storia ci ha insegnato a non sottovalutare l’abilità con cui i generali manipolano gli eventi a loro vantaggio. Anche se i gruppi d’opposizione avranno dei seggi in parlamento e Suu Kyi e gli altri prigionieri politici saranno rilasciati, è molto probabile che il nuovo governo userà tutti i mezzi in suo potere per imbavagliarli e ostacolarli. Di recente, il portavoce del dipartimento di stato americano P.J. Crowley ha detto: “Speriamo che il nuovo governo abbia un atteggiamento diverso rispetto al passato”. L’“atteggiamento diverso” a cui si riferisce Crowley significa permettere alle voci d’opposizione di farsi sentire in parlamento e consentire il rilascio di Suu Kyi e degli altri prigionieri politici. Se la comunità internazionale riconoscerà la legittimità del nuovo governo prima che tutto questo accada, tradirà i 55 milioni di persone che vivono in Birmania.




Maggio 2008 Mentre una parte della popolazione è in ginocchio a causa del ciclone Nargis, viene approvata la nuova costituzione voluta dalla giunta. La carta esclude dalle elezioni gli ex detenuti (quindi buona parte degli oppositori politici) e prevede che un terzo dei seggi vada ai militari.

Marzo 2010 La Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi decide di boicottare il voto. Due mesi dopo, una fazione della Nld forma la Forza democratica nazionale e partecipa alle elezioni. Agosto 2010 Alcuni alti uiciali della giunta lasciano la divisa per candidarsi. Da sapere

giovedì 4 novembre 2010

Guy Deutscher: Il linguaggio altera il nostro modo di pensare

Una conversazione con l’autore di The Unfolding of Language e Through the Language Glass



Robert McCrum

Tradotto da Curzio Bettio

Guy Deutscher è un personaggio raro, un accademico che esprime buon senso quando tratta di linguistica, il suo campo di ricerca. Nel suo nuovo libro "Through the Language Glass [Attraverso la lente del linguaggio] (Heinemann), egli senza esitazione contraddice l’opinione generale che va tanto di moda, sull’esempio fornito da Steven Pinker, che il linguaggio sia un prodotto della costituzione naturale e non assuma carattere e valenza dalla cultura e dalla società. Deutscher argomenta, in modo vivace e provocatorio, che in effetti la nostra lingua madre influenza il nostro modo di pensare e, fattore decisamente importante, il nostro modo di percepire il mondo.



Il linguista Guy Deutscher contesta l’opinione che
la lingua non sia conformata dalla cultura

Fotografia: Sophia Evans per l’Observer


Questo quarantenne linguista, ricercatore onorario all’Università di Manchester, nel suo libro attinge a tutta una serie di fonti per dimostrare come il linguaggio rifletta la società in cui viene parlato. Nel corso di questa sua operazione, egli spiega perché l’acqua in Russia (un “essa”, genere femminile) diventa un “esso”, genere maschile, e perché, in tedesco, una ragazza non ha sesso, genere neutro, mentre una rapa lo ha.

In sintesi, di cosa tratta il suo nuovo libro?

Il testo analizza come il mondo possa apparire differente nei diversi idiomi. Io tento di spiegare, in questa corsa all’attribuzione ai nostri geni di tutti gli aspetti fondamentali del linguaggio e del pensiero, perché l’immenso potere della cultura e dell’educazione sia stato grossolanamente sottovalutato.

Come è avvenuta questa sottovalutazione?

Ad esempio, io ritengo che la lingua madre esercita una considerevole influenza sul modo in cui noi pensiamo e percepiamo il mondo. Comunque esiste il grande problema del retaggio storico connesso a questa questione, e quindi molti psicologi e linguisti degni di nota non vogliono addentrasi in questa materia.

Insomma, è come se uno storico dovesse trattare del carattere nazionale, o no?

Esattamente. Però penso che ora siamo cresciuti abbastanza per esaminare questa questione in modo scientifico.

Può farmi un esempio di ciò che lei intende?

L’esempio più calzante si riferisce a ciò che io definisco il linguaggio dello spazio – come noi descriviamo la disposizione degli oggetti che ci circondano. Consideriamo una frase come: “Il bambino si trova dietro l’albero” – si potrebbe immaginare che tutte le lingue funzionino nella stessa maniera per descrivere qualcosa di così semplice. Risulta quasi inconcepibile che vi possano essere idiomi che non usano affatto tali concetti. Per secoli, filosofi e psicologi ci hanno fatto credere che concetti egocentrici come “davanti a”, “dietro”, “sinistra” o “destra” siano elementi universali per la costruzione del linguaggio e della conoscenza.

Forse che questi non sono universali?

Bene, esiste nel nord Queensland, nella lontana Australia, una lingua aborigena chiamata “guugu yimithirr”. Questi aborigeni hanno un modo di esprimersi rispetto allo spazio incredibilmente originale, nel senso che non usano assolutamente nessuno di questi concetti. Così, loro non direbbero mai: “Il bambino si trova dietro l’albero.” Invece direbbero: “Il bambino è a nord dell’albero.”

Si dà anche il caso che sia questa la lingua che ci ha fornito il termine “kangaroo”, canguro

Sì, è famosa per questo, ma dovrebbe essere doppiamente famosa. Questo popolo usa espressioni come: “Vi è una formica sul nord del tuo piede”, o “Ho lasciato la penna sul bordo meridionale del tavolo ad occidente nella tua stanza a nord della casa.” Si potrebbe pensare che questa loro bizzarra maniera di esprimersi rispetto allo spazio sia unica. Ma la scoperta di questa lingua ha incentivato un grande movimento di ricerca e abbiamo appreso che altri popoli del globo, dal Messico all’Indonesia, si esprimono in modo simile.

Che conseguenze derivano da una lingua come questa sulla percezione dello spazio?

Crescendo nell’ambiente di uso di una lingua come questa, in buona sostanza si sviluppa nella mente una sorta di sistema GPS (sistema di posizionamento mondiale, metodo di orientamento satellitare), un infallibile senso di orientamento, e la ragione è abbastanza semplice: se, dall’età in cui si comincia a parlare, si deve essere consapevoli delle direzioni cardinali ogni qualvolta si deve capire dove si trovano le cose anche più banali che vengono indicate, allora la lingua educa a prestare una costante attenzione all’orientamento in ogni momento. Proprio per questo intenso e costante esercizio, il senso dell’orientamento diventa una seconda natura.
Se viene chiesto ad un Guugu Yimithirr come conosce dove è il nord e dove il sud, vi guarderà con stupore, tanto quanto sareste meravigliati voi, quando io vi chiedessi se sapete dove sta il davanti e dove il dietro di voi.

Il suo interesse dominante è per la neurologia o la linguistica?

La mia attenzione è rivolta agli effetti del linguaggio sul pensiero, ma cerco di concentrarmi sugli effetti che possono essere dimostrati scientificamente. La neurologia può essere una materia appassionante, ma siamo ancora profondamente ignoranti su questi argomenti – sappiamo poco su come funziona il nostro cervello. Allora, per dimostrare una qualche influenza del linguaggio sul pensiero, abbiamo bisogno di trovare degli esempi in cui questa influenza ha conseguenze pratiche e misurabili sul comportamento reale. Se questa conversazione avvenisse fra cinquant’anni, sarebbe molto più facile parlare di una effettiva neurologia, in quanto saremmo in grado di analizzare completamente il cervello e riscontrare esattamente come ogni linguaggio differente influenzi aspetti differenti del pensiero. Le nostre attuali riflessioni su questi argomenti ci sembrerebbero pietosamente primitive. Tuttavia, il progresso può solo derivare da tentativi e fallimenti ed ancora da tentativi e fallimenti.
Through the Language Glass: How Words Colour Your World
Guy Deutscher
William Heineman
London 2010
319 p.
ISBN: 978-0-434-01690-7





Per concessione di Tlaxcala
Fonte: http://www.guardian.co.uk/technology/2010/jun/13/my-bright-idea-guy-deutscher

mercoledì 3 novembre 2010

Un giornale troppo libero

pro sa libertade de sa printera de is giorronalis e iscriri is prentas chentza censuras e controllus de is cantadoris

semus de sa parti de totus is perseguitaus idealistas e pulitucus!
sa defenza

Ala al Aswani


Negli anni ottanta, quando feci richiesta per una borsa di studio negli Stati Uniti, uno dei requisiti era aver superato il Toefl, l’esame d’inglese per stranieri. Lo sostenni all’American University del Cairo, afollatissima di giovani medici e ingegneri che, come me, avevano richiesto una borsa per studiare all’estero. Quel giorno chiesi a quelli che incontravo se, potendo, avrebbero scelto di restare negli Stati Uniti, e la risposta fu un “sì” convinto. Pur di lasciare l’Egitto, molti di loro sarebbero andati in qualsiasi altro paese.

Perché? Il motivo non era la povertà, perché impegnandosi sarebbero riusciti a trovare un lavoro e uno stipendio ragionevole, mentre a occidente spesso sarebbero stati costretti ad accettare lavori umili al di sotto della loro qualiica professionale. No, il motivo fondamentale era la sensazione che nel loro paese le ingiustizie fossero tali da rendere la situazione irrecuperabile: chi lavorava sodo non aveva mai la certezza di fare carriera, e la competenza non era il requisito per ottenere un buon impiego.

Tutto ciò che nei paesi democratici si guadagna grazie all’impegno e ai meriti, in Egitto si può ottenere grazie ai contatti personali e alla furbizia. Anzi, la bravura è un problema, meglio essere mediocri o incapaci: prima di tutto perché il sistema sofoca chi ha talento, secondo perché il futuro dipende molto più dagli agganci che dalle capacità di ognuno.

In Egitto le persone capaci hanno tre possibilità. Possono emigrare in un paese democratico che rispetta il merito e la competenza, e qui lavorare sodo fino a diventare come Mohamed el Baradei o Magdi Yacoub. Possono mettere il loro talento a disposizione del regime, accettando di esserne servi e diventare uno strumento di oppressione. Oppure possono decidere di salvare il loro onore, e allora subiranno la stessa sorte di Ibrahim Eissa. Ibrahim Eissa è uno dei più dotati, onesti e coraggiosi giornalisti egiziani.

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Ibrahim Eissa

Quasi senza risorse, ma con il suo talento eccezionale, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata in tutto il mondo arabo. E come ogni grande maestro, non si è accontentato della sua carriera, ma ha considerato suo dovere incoraggiare i più giovani. Ha accolto così nella redazione di Al Dustour decine di giovani reporter facendone i nuovi nomi del giornalismo nazionale.

Se Ibrahim Eissa vivesse in un paese democratico, ora sarebbe onorato e rispettato. Invece vive in Egitto, dove domina un regime autoritario che non permette a chi ha talento di rimanere fedele a se stesso. Ibrahim Eissa non si è opposto al governo: si è opposto al sistema. Ha invocato un cambiamento democratico reale attraverso libere elezioni. Ed è riuscito a fare di Al Dustour un vivaio importante di giovani giornalisti e una casa aperta a tutti gli egiziani censurati dagli altri quotidiani.

Il regime ha tentato in ogni modo di ridurlo al silenzio. Ha cercato di stancarlo con processi assurdi e querele infondate. Ha tentato di intimidirlo e poi ha cercato di comprarlo, commissionandogli programmi televisivi che gli avrebbero fatto guadagnare molti soldi. Ma non è servito a nulla: Ibrahim Eissa ha continuato a dire ciò che pensava e a fare ciò che diceva. A mano a mano che in Egitto aumentavano le pressioni sia popolari sia internazionali per un cambiamento democratico, il regime si è trovato in difficoltà e il suo nervosismo è cresciuto.

Ibrahim Eissa è diventato intollerabile. A quel punto, per distruggerlo, è stato ideato un piano diabolico. Per cominciare è entrato in scena un tale di nome Sayed Badawi, conosciuto solo come ricco proprietario dell’emittente televisiva Al Hayat (quindi vicino ad alti esponenti del regime). Badawi ha speso un sacco di soldi per conquistare la leadership del partito Wafd, e poi altri soldi per convincere il partito a recitare la parte della finta opposizione nella farsa delle prossime elezioni egiziane truccate.

Poi ha comprato Al Dustour e dalla prima pagina ha assicurato che la linea politica del quotidiano non sarebbe cambiata. Dopodiché, oltre a Badawi è saltato fuori un altro proprietario, un certo Reda Edward, il quale non si è mai occupato di giornali e vanta la sua fedeltà al regime. Dopodiché lo stesso giorno in cui la proprietà di Al Dustour è passata ufficialmente a Badawi, la sua prima decisione è stata licenziare Ibrahim Eissa. A quel punto è apparso chiaro che Badawi e Reda Edward erano semplicemente il modello più recente degli uomini di regime egiziani.

Allora chiediamo: perché tutte queste trame? Perché sprecare milioni per disfarsi di un giornalista onesto e di talento, che ha come unico capitale le sue idee e la sua penna? Perché il regime non ha investito tutti quegli sforzi per salvare dalla miseria milioni di egiziani? Al Dustour è finito, ma è passato alla storia dell’Egitto come un grande esperimento giornalistico e culturale.

Ibrahim Eissa può fondare altre decine di giornali, e in Egitto comunque vinceranno il cambiamento, la verità e la giustizia. L’Egitto si è sollevato, e nessuno può ormai frapporsi tra il paese e il suo futuro. L’unica soluzione è la democrazia.

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ALA AL ASWANI è uno scrittore egiziano. In Italia ha pubblicato Palazzo Yacoubian (2006), che è stato tradotto in venti lingue, Chicago (2008) e Se non fossi egiziano (2009), tutti editi da Feltrinelli.




Ibrahim Eissa è uno dei più dotati giornalisti egiziani. Quasi senza risorse, è riuscito a trasformare il suo giornale, Al Dustour, in una testata apprezzata nel mondo arabo

martedì 2 novembre 2010

E LO CHIAMANO futuro TENTATIVI DI INNOVAZIONE ANCORATI A GRIGLIE DI ANALISI VECCHIE E ARIDE



Al documento culturale promosso dalle associazioni di area finiana hanno aderito anche molti intellettuali di sinistra, convinti della necessità di «un nuovo patto fondativo». Oltre le regole della convivenza, c'è, però, la politica vera, che nella sua forma democratica richiede scelte divergenti e divisive ALBERTO SAVINIO, ARIEL

Giuliano Battiston
ilmanifesto.it

Appellandosi ad alcuni numi tutelari della teoria politica come Machiavelli e Hannah Arendt, e a uno dei padri della Costituzione repubblicana, Piero Calamandrei, il «Manifesto di ottobre» aspira a «riaccendere l'immaginazione progettuale della società» e a ristabilire un fertile legame tra cultura e politica, in opposizione alle «logiche privatistiche, antipolitiche, anticulturali che in questi anni hanno monopolizzato la sfera istituzionale». Il punto di partenza, spiega Fiorello Cortiana, uno degli estensori del testo, tra i fondatori dei Verdi, è stato da un lato «lo sconcerto di fronte alla deriva dell'antipolitica, frutto della crisi delle forme e dei contenuti dei partiti popolari, che ha prodotto un'esperienza come il berlusconismo, che a sua volta ha confermato e plasmato questa antipolitica», dall'altro l'«esplicita e lucida consapevolezza che siamo in un periodo che deve essere di nuovo costituente».

Ermafroditismo ideologico
L'obiettivo è promuovere una politica che torni a rispondere «a interessi generali», e ridia senso alle parole e all'alfabeto di cui si compongono. Perché, dice Monica Centanni, filologa e storica del teatro all'Università Iuav di Venezia, direttrice della rivista online Engramma, «si è corroso non solo il discorso sulle parole, la loro consistenza, il loro significato, ma la stessa grammatica del pensiero, la sintassi del ragionamento». Da qui deriva la «totale disaffezione rispetto al presente, considerato non più come risorsa ma come controcanto negativo di un passato mitizzato o di un futuro dilazionato». Occorre invece alimentare la passione del presente, quella «dimensione di ulteriorità che è la politica, come ci insegnano Aristotele e Hannah Arendt, intesa non come necessità, ma come passione e desiderio, come attivazione di un campo energetico, per dirla con Warburg». E ad Hannah Arendt fa riferimento anche un altro promotore del Manifesto, Peppe Nanni, figura di riferimento della destra milanese, che indica nella «riqualificazione della politica come attività che connota l'essere umano e non come male necessario, e nella libertà politica come partecipazione alle procedure del governo» gli obiettivi di questa operazione politico-culturale, che aspira a sganciarsi dal Novecento, a superare «le vecchie e inaridite appartenenze, congedando le ossessioni e i ricatti delle memorie ferite», come recita il testo presentato il 26 ottobre. Un'operazione dolorosa, sostiene Nanni, «perché occorre strapparsi alle proprie appartenenze, aggredire il passato alle spalle, per dirla con Giorgio Galli», ma che è vitale, perché la politica è «slegamento, rottura, innovazione, cominciamento».
E di «rigenerazione della politica» parla il filosofo Giacomo Marramao, che respinge le obiezioni di ecumenismo scolorito mosse al Manifesto (tra gli altri da Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera»), individuando invece «nella validità del patriottismo costituzionale come base del discorso», fatta propria da intellettuali post-missini, «nell'esigenza di una sfera pubblica basata su principi e valori condivisi» una «denuncia durissima degli elementi di corruzione presenti nel modo di gestione politica del governo berlusconiano». E soprattutto un elemento storicamente rilevante, di cui va dato atto a chi, finora, non aveva ancora riconosciuto così esplicitamente «i valori della costituzione repubblicana, nata dalla resistenza e dall'antifascismo».

Per lo storico Franco Cardini le accuse di ermafroditismo ideologico suonano sospette: «è la risposta, un po' sconcertata, di chi trova d'accordo, su questioni essenziali, persone che non dovrebbero neanche salutarsi», persone mosse non da uno sterile eclettismo, ma, «in termini kantiani, da un imperativo morale svincolato da qualsiasi interesse personale». Cardini non manca però di sottolineare quella che per lui è la principale lacuna di questa «piattaforma, aperta e inclusiva», che segnala indirizzi, non dogmi, e lascia spazio al dissenso: la scarsa attenzione «allo sviluppo abnorme e incontrollabile della volontà di alcuni, che ha creato una concentrazione di ricchezza e di potere decisionale nelle mani di pochi». In altri termini, la questione della «giustizia sociale». A quella di Cardini, vengono da aggiungere almeno tre altre osservazioni critiche. La prima: è salutare che, all'osceno della cultura politica berlusconiana, fin qui pigramente subito o favorito, si contrapponga non solo l'indignazione della denuncia, troppo spesso consolatoria, ma un rinnovato esercizio di vitalità politica. Ma si tratta di un esercizio ritardato, che avviene quando, ormai, «i buoi sono usciti dalle stalle», anche a causa dell'acquiescenza di quella destra che ora prova a smarcarsi, con un'operazione culturale in grande stile, dal Capo. Il secondo: la rivendicata apertura «generativa», il «pensiero di rottura delle consuetudini usurate», l'energia produttiva sprigionata dalla crisi della politica rientrano, interamente, in una cornice così circoscritta e prevedibile da depotenziare qualsiasi «azione trasformatrice»: la cornice westfaliana dello Stato-nazione, l'orizzonte della comunità politica ancorata alla demarcazione territoriale sancita dalla sovranità statale.

Chiusi nel «particulare»
Nel Manifesto, infatti, non c'è nessuna allusione, nessuna consapevolezza che i problemi della democrazia rappresentativa, la difficoltà di dare voce «ai clandestini della politica», ai «senza parte» di Rancière - su cui pure tanto si insiste - dipendono ormai anche dalla rottura di quella cornice, e che non possono essere risolti senza interrogarsi sul cosmopolitismo, sulla giustizia globale, sulla limitatezza del nazionale come unica chiave di lettura della società. A dispetto delle sue ambizioni, dunque, si tratta di un Manifesto troppo «introflesso», ripiegato sul particulare nazionale, ancorato a griglie analitiche novecentesche, queste sì spuntate e inaridite. Un difetto che, forse, deriva dal terzo: nonostante i nobili ideali a cui aspira, la genesi dell'appello sembra dipendere, prima ancora che dal «sommovimento geologico delle categorie della politica», dal molto più epidermico riposizionamento tattico del presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Un condizionamento troppo evidente per aspettarsi la nascita di un'effettiva, nuova cultura politica. Se è vero, come recita il Manifesto, che «senza cielo politico non c'è cultura, ma soltanto erudizione e retorica», è altrettanto vero che, quando quel cielo è troppo basso, la cultura ne rimane inevitabilmente schiacciata.
read.


Il manifesto di ottobre

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122142/il_manifesto_dottobre_il_dibattito

http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/122141/il_manifesto_di_ottobre


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