giovedì 4 luglio 2013

I TRATTATI INTERNAZIONALI SOPPIANTANO LE COSTITUZIONI (MA CON IL CONSENSO DELLE STESSE)

I TRATTATI INTERNAZIONALI SOPPIANTANO LE COSTITUZIONI (MA CON IL CONSENSO DELLE STESSE)
Di comidad (del 04/07/2013 
Le notizie di stampa sullo scandalo spionistico denominato "datagate", hanno determinato in Europa lo scatenarsi di ipocriti rituali di sorpresa e di indignazione. Tra le autorità europee la parola d'ordine è stata quella di cadere dalle nuvole, di dichiararsi stupefatti o "allibiti", come se l'attività spionistica a tutto campo della National Security Agency non fosse già arcinota. A Sigonella è persino in allestimento un mega-impianto di spionaggio elettronico, il MUOS, con il quale gli USA avranno il territorio europeo sotto un controllo ancora più capillare; ed è chiaro che si tratta non soltanto di spionaggio militare, ma anche nel settore industriale e finanziario, sino alla sfera dei vizi privati, utilissimo strumento di ricatto.

Ma ad indicare la serietà di queste recite in Europa, basterebbe anche solo il fatto che ci si è immediatamente dimenticati che lo scandalo spionistico aveva coinvolto poche settimane fa un Paese europeo, cioè il Regno Unito, il cui servizio segreto, MI6, nell'aprile del 2009 aveva allestito addirittura dei falsi internet cafè per spiare i diplomatici stranieri ospitati a Londra per il G20.
Se questo è il grado di memoria degli avvenimenti, si può facilmente prevedere che tutta questa bolla di indignazione verso gli USA svanirà molto presto, e ciò vale anche per le dure dichiarazioni di monito del commissario europeo Viviane Reding, che ha minacciato conseguenze sui negoziati tra USA e UE per il mercato transatlantico (indicato dall'acronimo TTIP) che dovrebbe andare in vigore dal 2015. 
Ambasciata italiana a Washington 

A riconferma dell'inattendibilità di certe reboanti dichiarazioni di dignità offesa, ci ha pensato anche il presidente francese Hollande, il quale, mentre chiedeva una sospensione ("temporanea", per carità!) dei negoziati per TTIP, poi si calava completamente le brache nei confronti degli USA, giungendo all'atto folle ed inaudito di negare lo scalo all'areo del presidente boliviano Morales, nell'ipotesi che questi portasse con sé il ricercato Snowden; un gesto ostile che non va solo contro ogni regola del diritto internazionale, ma anche contro il semplice buonsenso.

Le parole della Reding e di Hollande sono risultate interessanti soltanto per un motivo, e cioè che hanno segnalato l'esistenza e l'importanza di un negoziato transatlantico di cui l'opinione pubblica europea non sapeva assolutamente nulla. I primi accenni in pubblico vi sono stati all'ultimo G8 tenutosi il 17-18 giugno in Irlanda del Nord, tanto da consentire al nostro Enrico Letta di citare la questione del TTIP nella sua conferenza stampa. Un po' tardi per venircelo a dire, dato che i negoziati sul TTIP erano cominciati nel 2007, anche se il trattato finale dovrebbe essere ratificato entro il 2015.

La questione del mercato transatlantico però non era mai stata affrontata nel dibattito politico, e tantomeno nelle campagne elettorali, a conferma del fatto che la politica è il luogo del futile e dell'intrattenimento. Magari, come fa la cancelliera Merkel, il proprio elettorato può essere usato come fantoccio e come alibi per decisioni già prese altrove. Ciò non vale soltanto per gli elettorati, ma anche per i parlamenti, che hanno solo una funzione di ratifica, come ha ulteriormente dimostrato la posizione del Consiglio di Difesa a proposito del business dell'acquisto dei caccia F35, per il quale al parlamento italiano è stata negata la facoltà di immischiarsi. 



La consapevolezza che la lotta politica ufficiale costituisca un rituale vuoto, o una messinscena, ha cominciato a farsi strada persino nel ceto politico tradizionale. In una recente intervista l'ex segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, ha denunciato la scomparsa della "sinistra", ed ha proposto una sua analisi della situazione europea, secondo la quale le "costituzioni materiali" degli eurocrati starebbero soppiantando le costituzioni antifasciste dei vari Stati. 

Ad indiretto sostegno delle tesi di Bertinotti è giunto un documento della mega-banca statunitense JP Morgan, nel quale si sostiene che in un'Europa integrata sarebbe urgente liberarsi delle Costituzioni antifasciste, con la loro zavorra di garanzie sociali. 




Si può comprendere che a JP Morgan dia fastidio anche solo il suono della parola "antifascismo", ma il documento dei banchieri, nel suo lamento recriminatorio, sembra volutamente ignorare che le Costituzioni antifasciste hanno già recepito al loro interno dei corpi estranei come la norma sul pareggio obbligatorio di bilancio; oppure hanno consentito ai governi accordi come quello per il Meccanismo Europeo di Stabilità, il cui trattato istitutivo garantisce addirittura alla oligarchia finanziaria del MES un'assoluta immunità giudiziaria, cioè un tale grado di impunità legalizzata che il Buffone di Arcore non avrebbe osato immaginarsela neppure nei suoi sogni più pornografici. 

Si ha quindi l'impressione che la sortita di JP Morgan abbia un obiettivo di psicoguerra, cioè di indicare alle opposizioni europee una sorta di falso rifugio, che in realtà si è rivelato molto permeabile ai bombardamenti. L'analisi di Bertinotti contiene infatti un punto debole abbastanza evidente, dato che la cosiddetta "eurocrazia" non si fonda su "costituzioni materiali", bensì su istituti costituzionalmente rilevanti, come sono i trattati internazionali. Se oggi il negoziato per il trattato TTIP lo conduce Bruxelles e non Roma, non è per un abuso improvvisato, ma in virtù dei Trattati di Maastricht e di Lisbona
.
La sinistra, come soggetto politico, è effettivamente scomparsa, ma come area di opinione oggi si aggrega attorno a dei feticismi come quello per la nostra "bellissima Costituzione". Non si considera che la nostra Carta Costituzionale forse nelle intenzioni sarebbe anche "antifascista", ma si riferisce strettamente ai fascismi del passato, e nulla ha da dire sul nuovo superfascismo dei trattati internazionali. Anzi, l'articolo 75 della Costituzione pone addirittura i trattati internazionali al riparo dai rischi di referendum abrogativo.

Il fatto che si sia strutturato da tempo un articolato dominio transnazionale in forma di trattati ed organismi sovranazionali, costituisce ormai un'evidenza, ma l'opinione di sinistra continua a basarsi su un internazionalismo astratto, che non riesce ad andare oltre la categoria di solidarietà. Questo è il motivo per il quale la solidarietà dell'opinione di sinistra può essere agevolmente abbindolata e fagocitata dallo spettacolo di "rivoluzioni colorate", stranamente dirette sempre e solo contro i loro poteri interni, come se il dominio transnazionale non esistesse per niente. 

Le Costituzioni "antifasciste" non sono solo i bersagli di questa situazione, ma hanno dei risvolti ideologici che consentono parecchie stranezze. Una ventina di anni fa la tresca tra capitalismo privato e denaro pubblico era ancora uno di quegli orribili segreti di famiglia così ben custoditi che ad osare di svelarli si passava per farneticatori. Oggi invece è davanti agli occhi di tutti che il salvataggio delle banche private operato dalla Unione Europea costa ai contribuenti molto di più di una loro nazionalizzazione. 

Allo stesso modo, le SpA una volta si giustificavano come mezzo per raccogliere risparmio da destinare agli investimenti produttivi. Attualmente non c'è più bisogno di alimentare questa mitologia, ma tutti sanno che le SpA non fanno investimenti, ma distribuiscono solo dividendi e, pur di farlo, sono prontissime a distruggere posti di lavoro. Gli "investimenti produttivi" li si pretende dai governi e dalla spesa pubblica; ma anche qui le cose non vanno lisce, poiché, ad esempio, i fondi pubblici che la UE destina alle imprese servono per finanziare le delocalizzazioni, col pretesto dello "sviluppo regionale". 

In anni di denunce a riguardo da parte di parlamentari europei, la Commissione Europea ha pubblicato varie "linee guida" che avrebbero dovuto impedire le delocalizzazioni. Le ultime sono del giugno del 2013; ma il fatto che queste "gride" si ripetano, indica che il dato permane, e che non lo si vuole sostanzialmente modificare.


La Commissione europea pubblica le linee guida sugli aiuti di Stati a finalità regionale 2014-2020

Il cosiddetto "capitalismo" si basa quindi non solo sullo sfruttamento del lavoro, ma anche sul saccheggio della spesa pubblica. L'operaio è spremuto due volte, non solo come lavoratore, ma anche come contribuente; e le tasse che paga, vanno a finanziare non i servizi pubblici, ma la perdita del suo posto di lavoro.
Eppure il rancore sociale viene facilmente indirizzato contro i pensionati, gli statali, i Meridionali, i "falsinvalidi", e si alimenta l'odio generazionale, narrando la fiaba di un Paese che ha vissuto al di sopra dei propri mezzi facendo debiti scaricati sulle future generazioni. 

La corruzione e l'evasione fiscale vengono additate come nostri vizi nazionali, perciò rappresenterebbero una vergogna da superare accedendo alle virtù della civilizzazione europea. Che poi la gran massa dell'evasione e dell'elusione fiscale sia da addebitare alle multinazionali, e che questa frode sia legalizzata da una legislazione internazionale che consente il riciclaggio tramite il no profit delle fondazioni private, tutto questo rimane un dettaglio insignificante. E c'è anche di peggio: una volta i paradisi fiscali erano loschi Paesi caraibici, mentre adesso ad offrire tassazioni privilegiate sono "irreprensibili e virtuosi" Paesi nord-europei come l'Austria.

Nel 1947, durante i lavori della Assemblea Costituente, il filosofo Benedetto Croce affermò che il fascismo continuava nell'antifascismo, poiché questo aveva recepito il nucleo più autentico del fascismo stesso, cioè la denigrazione dell'Italia e della sua Storia. 

Il fascismo non rappresentava un senso esasperato di dignità nazionale, ma una forma di auto-razzismo e di auto-colonialismo, cioè l'idea che i popoli siano materia bruta da plasmare per finalità superiori. 

Ancora adesso per un fascista non è che Mussolini abbia fregato gli Italiani, ma sono stati gli Italiani a non dimostrarsi degni di avere un capo come Mussolini. Il Duce spinse l'Italia a scelte folli pur di renderla degna di assidersi al banchetto coloniale insieme con i popoli superiori del Nord Europa. Chissà perché, ma questo complesso d'inferiorità del Duce ricorda molto una decisione assurda come aderire alla moneta unica pur di non rimanere esclusi dal "paradiso" europeo. 

Secondo il falso antifascismo recepito dalle nostre Costituzioni, invece le minacce per la libertà provengono sempre dall'interno, dal "nazionalismo" e dal "dittatore". Sono premesse dalle quali i sillogismi vengono automatici: Gheddafi era un "dittatore", quindi era il Male (un "mascalzone", secondo quella cima di Pietro Ingrao), la NATO invece è un'organizzazione internazionale, quindi è il Bene. E così via. Se la Grecia fosse così devastata da un "dittatore", allora sarebbe nostro dovere indignarci ed essere solidali; ma visto che la Grecia è sotto il dominio del Fondo Monetario Internazionale, allora si può far finta di niente.

“La democrazia in Europa è sospesa e travolta dal capitalismo”

“La democrazia in Europa è sospesa e travolta dal capitalismo”

di Ana Pardo De Vera * 
http://www.publico.es/internacional

"L'Euro è stata una delle forme attraverso le quali il neoliberalismo è entrato in Europa". Intervista all'economista portoghese Boaventura de Sousa Santos.
 Boaventura de Sousa Santos

Il professore portoghese e intellettuale di riferimento per i movimenti sociali, Boaventura de Sousa Santos, analizza per ‘Público' la crisi della UE e la trappola capitalista del debito sovrano e le politiche di austerità per distruggere l’ultimo bastione della protezione sociale e del lavoro in Europa. 

Boaventura de Sousa Santos è dottore in Sociologia del Diritto per l’Università di Yale e ha la cattedra di Sociologia nell’Università di Coímbra. 

Questo fine settimana è a Madrid con l’Università Popolare dei Movimenti Sociali (UPMS), un’iniziativa che arriva per la prima volta in Spagna e riunisce per due giorni oltre 40 collettivi e movimenti sociali, professori universitari e artisti di vari paesi in cerca di formule per organizzarsi e ricostruire il malconcio sistema democratico in Europa. 

Si può già dire che il progetto della UE è un fallimento? 
Sì. La UE era un progetto di coesione sociale per creare un blocco nuovo e forte; un blocco economico, politico e sociale, con politiche di coesione molto importanti. La UE è stata concepita con due idee molto potenti: quella di non tornare alle guerre mondiali, provocate entrambe dallo stesso paese, e quella di eliminare le periferie che esistevano dal XV secolo: i paesi nordici, il sud d’Europa (Portogallo, Spagna e Italia), il sud est (Balcani e Grecia) e l’est europeo. Il progetto europeo andava a porre fine a quelle periferie, con politiche molto importanti di fondi strutturali che volevano uniformare la ricchezza in Europa. In questo senso, il progetto è fallito, ma molti di noi già sospettavamo che questo sarebbe successo, perché l’esistenza delle periferie era tropo lunga. Certo, nei primi anni dell’integrazione europea sembrava che l’UE funzionasse: per esempio, in Portogallo, il reddito medio ha raggiunto il 75% di quello europeo nel 2000; senza dubbio ci avvicinavamo e, all’improvviso, tutto il processo è fallito e i paesi ex periferici tornano a essere trattati come tali. Da allora, la logica collettiva di costruzione sociale, economica e politica è passata ad essere una dinamica di centro-periferia che ha dominato sopra tutte le altre logiche. Una logica, inoltre, in cui il centro neanche è la Commissione Europea, ma la Germania. La UE deve reinventarsi, bisogna reinventarla. 
Diversamente, il futuro in Europa si presenta molto nero. 

E il progetto dell’euro? A che punto è? 
La domanda sul progetto dell’euro non è se è fallito o no, ma cosa si voleva da lui. E in questo caso, c’è stato un inganno dall’inizio, perché l’euro è stato una delle forme attraverso cui il neoliberismo internazionale è penetrato in Europa, che fino allora era il bastione delle difesa dello Stato sociale, l’unico dove il neoliberismo non era entrato grazie al fatto che i paesi avevano dei partiti socialisti e –anche a volte all’opposizione- partiti comunisti, entrambi molto forti. I partiti venivano da una tradizione socialdemocratica molto radicata che esigeva istruzione pubblica, sanità pubblica o sistema pensionistico pubblico, per cui la resistenza all’entrata del neoliberismo era molte grande. Per questo non è entrato così, ma l’ha fatto dall’alto: attraverso la Commissione Europea prima, attraverso la banca centrale Europea (BCE) poi e alla fine con l’euro. Mediante la costruzione neoliberista dell’euro e della BCE, il paese dominante da allora –la Germania- ha imposto le sue regole e la moneta è definita nel suo valore internazionale secondo gli interessi economici della Germania, e non secondo gli interessi del Portogallo o della Spagna, per esempio. Ai paesi del sud, incredibilmente, non è mai venuto in mente che poteva succedere questo, perché credevano di essere in un blocco politico ed economico in cui non esisteva il debito greco o spagnolo o portoghese, ma che esisteva una coesione e che mai ci sarebbe stata speculazione. Invece, a causa degli interessi delle sue banche, la Germania ha deciso che ci sarebbe stato un debito greco, irlandese, portoghese o spagnolo, che ha reso questi paesi molto deboli, senza che l’Europa desse loro garanzie e promuovendo la speculazione finanziaria trasmettendo l’idea che questi paesi avrebbero trovato la soluzione dopo un intervento brutale.
Un intervento che non è servito a nulla e ora sembrano riconoscerlo anche quelli che l’hanno promosso. 

Siamo di fronte a una improvvisazione o il gioco è stato tutto calcolato?
È ancora più tragico, perché non c’è niente di nuovo. Il problema dell’Europa è che non ha nulla da insegnare al mondo né può imparare dal mondo. Niente da insegnare perché la siccità d’idee, novità o alternative qui è totale e niente da imparare perché l’arroganza coloniale di questo continente è pure assoluta e non le permette di imparare. Per esempio, quando diciamo: “In Brasile, Argentina o Ecuador si è fatto così”, subito rispondiamo: “Quelli sono paesi meno sviluppati”. 

Continuiamo con quel sentimento di superiorità?
Continuiamo con quell’arroganza coloniale. Sì. E non li prendiamo sul serio, però quello che ha detto il FMI oggi, l’ha detto in Tanzania, Monzambico e Indonesia prima, lo so bene. Quella di applicare le misure e poi dire che sono state eccessive è prassi ricorrente. E un’agenzia che ha applicato alcune misure che hanno generato tanta povertà, tanta sofferenza nei paesi, dovrebbe essere rinviata ai tribunali; non dico per un crimine, ma almeno per negligenza. Ci deve essere una risarcimento civile per i paesi colpiti, perché, inoltre, dicono di aver commesso un errore con le loro politiche, ma continuano ad applicarle. “Ci deve essere un risarcimento civile per i paesi colpiti dalle misure di austerità” Non ci sono propositi di ammenda....Nessuno. Ma, inoltre, all’UE non piace che il FMI si tiri indietro perché è compromessa con le politiche di austerità e se in Germania si percepisce che sono negative, Angela Merkel può perdere le elezioni. Tutto è organizzato perché nulla cambi fino alle elezioni tedesche, perciò l’Italia, la Grecia, il Portogallo o la Spagna devono aspettare e lo fanno, dico io sempre, con una democrazia sospesa.

E noi cittadini che subiamo i tagli, che possiamo fare? Anche noi dobbiamo aspettare che passino le elezioni tedesche per premere sui nostri governi affinché facciano qualcosa?
I governi non faranno nulla, perché, come dico, sono completamente dipendenti dal comando tedesco. E pure se la gente lo rifiuta, non lo fa in modo forte e articolato. Questo fine settimana, con il progetto dell’Università Popolare dei Movimenti Sociali (UPMS), stiamo proprio cercando di vedere come si può resistere, conoscendo le differenze dei distinti gruppi, accertando il perché alcuni sono interessati a una misura e altri in un’altra, o perché alcuni credono che si dovrebbe creare un partito e altri no. La settimana scorsa, in Portogallo, ho lavorato in una iniziativa con il presidente della Repubblica, Mario Soares, nella quale abbiamo messo insieme in una sala 600 persone per chiedere la caduta del governo attuale, elezioni anticipate e un Governo di sinistra. È stata la prima volta, dopo il 25 aprile, che siamo riusciti a mettere insieme rappresentanti del Partito Comunista, del Socialista e del Blocco di Sinistra per formare un’alternativa delle sinistre. Anche se sapevamo che per ragioni storiche è molto difficile riuscirci. 

Come in Spagna... Pure qua, pure qua... E in Portogallo, alla fine, ci siamo resi conto che era impossibile, che mai ci sarebbe stata un’alternativa delle sinistre. 

Perché? 
Perché, da una parte, il Blocco di Sinistra e il Partito Comunista vogliono rinegoziare il debito e, inoltre, hanno concluso che parte di questo debito non si può pagare –è il 130% del PIL- , o porteremo all’impoverimento le generazioni successive. Tutto il denaro che entra dalla Troika va a pagare il debito, nemmeno un centesimo va alla sanità o alle famiglie delle persone. “Il movimento per democratizzare la democrazia a volte risulterà violento contro la proprietà e, a volte, illegale” D’altro canto, il Partito Socialista, che da tempo è dominato dalla logica del neoliberismo, vuole essere Governo, per di più, nel quadro europeo dominato anch’esso dal neoliberismo. Pertanto, propugna che di negoziare il debito non se ne parla: si deve pagare tutto, anche se si negozia sui tassi e i periodi di pagamento, per esempio. E qui finisce l’obiettivo della riunione, unire la sinistra. E lì è finita. 

Come vede in Spagna i partiti di sinistra? 
La stessa divisione, anche se in Portogallo è più grave, perché… Chi sono stati gli invitati spagnoli alla riunione del Club Bilderberg in Hertfordshire (Regno Unito)? Il ministro dell’Economia, Luis de Guindos, il consigliere delegato del Gruppo Prisa, Juan Luis Cebrián; quello di Inditex, Pablo Isla,... Perché? Perché la presenza del Portogallo è stata molto interessante, molto illustrativa del futuro: hanno partecipato al Bilderberg il segretario del Partito Socialista e il segretario del partito di destra al Governo, ossia, l’élite internazionale ha già deciso le elezioni. I portoghesi vanno a lavorare fino alle prossime elezioni, lottando perché ci sia un Governo di sinistra –idioti-, le lezioni già sono decise e i socialisti condividono questa cosa. Per questo io credo che in Europa stiamo entrando in un periodo post istituzionale (“Dopo le istituzioni”), perché le istituzioni dello Stato non rispondono e la gente non si sente rappresentata da queste istituzioni. 

Che possiamo aspettarci da un periodo così? 
Sarà un periodo molto turbolento e lungo, a mio giudizio, e sarà una lotta per la ridefinizione della democrazia. Non è un caso che i giovani qui in Spagna o in Portogallo parlino di Democrazia Reale o facciano appello alla Democrazia Ora, perché la democrazia in Europa è sospesa e sconfitta. C’è stato un conflitto tra democrazia rappresentativa e capitalismo e ha vinto il capitale. C’è qualche possibilità che ritorni di nuovo la democrazia? Solo quando il capitalismo abbia paura. Finora, le banche sono state salvate con denaro pubblico, ma non ci sarà modo di salvarle di nuovo allo stesso modo, a meno che i cittadini non siano ridotti in condizioni di schiavitù. Ci può essere una catastrofe e dobbiamo lottare prima che arrivi, cercando tutti gli errori che sono stati commessi nelle politiche progressiste d’Europa. Per esempio, credere che solo un piccolo gruppo in ogni paese era politicizzato: i membri dei partiti, le ONG o i movimenti sociali. Il resto dei cittadini era una massa informe, non politicizzata, che non aveva alcun rilievo politico, ma sono quelli che ora sono nelle strade. Da quelli arriverà il futuro; la trasformazione democratica arriverà per mano di tutti gli indignati: pensionati, giovani, medici, professionisti,… che implica, inoltre, una unione inter-generazionale che prima non c’era e che deve portare a termine una rivoluzione democratica; ne abbiamo bisogno per non arrivare alla catastrofe. 

Come ci si avvicina a una rivoluzione democratica nella situazione attuale? Che significato ha, al di là dei termini? 
Significa democratizzare la democrazia attraverso un movimento popolare molto forte, che a volte risulterà violento, anche se mai contro le persone, e a volte risulterà illegale, perché una delle caratteristiche degli Stati neoliberisti è quella di essere sempre più repressivi. 

Con essere violento si riferisce, per esempio, a “los escraches” e con essere illegale, a iniziative come Rodea el Congreso*? 

Sì, bisogna rafforzare quei movimenti. Anche l’M15 nel suo insieme? C’è chi ha la percezione che sia un movimento nato con molto impeto e che si è sgonfiato, perdendo forza. Forse perché la Spagna è già un paese rassegnato? Non credo che siamo –e includo il mio paese, il Portogallo- paesi rassegnati, ma che abbiamo sofferto oltre 40 anni di dittatura; 48 nel mio paese, più della Spagna. Mentre ci passavano accanto i movimenti europei di partecipazione politica (movimento studentesco, quello del 1968, per la liberazione delle colonie, …). Eravamo molto isolati, per questo i nostri paesi non hanno ora la cultura democratica di resistenza. D’altro canto, ci sono elementi congiunturali che influiscono sui movimenti e per esempio, non possiamo credere che le piazze si riempiranno alla stessa maniera in inverno, in primavera e in estate. Inoltre, i movimenti, mentre maturano, si dividono: c’è gente che si concentra sugli sfratti, altra sulla salute; gente che crede che di debba creare un partito, altri che no; persone che parlano di consigli popolari, forme di controllo cittadino, … 

E come si organizza tutto questo? Che ci rimane? 
La rivoluzione democratica avrà due piedi: cambiare la democrazia rappresentativa neoliberista attraverso un cambiamento del sistema politico che porta con sé, a sua volta, un cambiamento del sistema dei partiti. Vale a dire che implica la partecipazione di indipendenti nel sistema politico, nel regolamento e nei finanziamenti dei partiti, nel sistema elettorale, … C’è molto da fare, ma soprattutto, sapendo che la riforma non verrà mai dai partiti, che sanno che usciranno perdenti da questo, ma verrà dai cittadini. La democrazia partecipativa risultante –della quale abbiamo esperienze fuori dall’Europa- ne trarrà nuove forme di attuazione: referendum, consigli popolari, consigli di settore, bilanci partecipati a livello locale o regionale, per esempio; … ossia, democrazia diretta che controlli gli eletti, che vada oltre l’autorizzazione a governare; che vada fino alla resa dei conti, deve arrivare da fuori, dai cittadini organizzati. Il problema è che ora non sono organizzati. 

Si riferisce al movimento degli indignati? Che critiche fa? 
Ne ho varie. Primo: le assemblee dove si prendono decisioni per consenso, che possono essere totalmente paralizzanti, poiché una piccola minoranza può impedire qualsiasi decisione. Con le formule dominanti di decisione non ci sarà formulazione politica; e senza formulazione politica non ci sono alternative. Secondo: il sistema di grande autonomia individuale che gestiscono (ognuno decide quando entra e quando se ne va, per esempio) è più simile al neoliberismo di quanto non pensino. Un movimento non si costruisce con una autonomia individuale, ma collettiva. E non ce l’hanno. Terzo: una caratteristica che stiamo vedendo, soprattutto, negli acampados degli USA e in alcuni di qua, è che hanno più legittimità quelli che rimangono più tempo accampati nella piazza. Non tengono conto del fatto che c’è gente molto valida, che però deve andare a lavorare o a casa per occuparsi dei bambini. 

Sono meno legittimati per questo? 
No. Perché rimanere più tempo in una piazza non è un criterio di legittimazione democratica. Tutto questo non ha impedito l’avanzare del movimento degli indignati? Io lavoro con loro come intellettuale di retroguardia, che è quello che mi considero, e credo che in questi momenti, non siano un movimento; sono presenze che non hanno proposte molto concrete e li capisco, perché è tutto il sistema che è putrefatto e vogliono ricostruirlo dal basso. 
Per farlo, chiedono una nuova Costituzione e questo è positivo; chiedono una spinta costituente, qualcosa che io difendo: una nuova Costituzione che ritiri il monopolio della rappresentanza politica ai partiti; che stabilisca diverse forme di proprietà, oltre quella statale e quella privata –si sono perdute le forma di proprietà comunale o cooperative, per esempio-; che stabilisca una nuova forma di proteggere le nostre costituzioni dalla speculazione finanziaria e dai debiti che non si possono pagare. 
Quel debito è proprio l’alibi per imporre le politiche di austerità... Guarda quello che succede in Portogallo con quelle: un debito del 130% del PIL, la disoccupazione che aumenta e una recessione sempre maggiore. Quelli che governano lo sanno, per questo io sono sempre più convinto che questa non è una crisi. 

Dobbiamo lottare anche per i termini del discorso, perché questa non è una crisi: è una grossa manovra del capitalismo internazionale finanziario per distruggere l’ultima fortezza che esisteva nel mondo di protezione sociale e di lavoro con i diritti. 
Il rimedio alla crisi sta peggiorando la crisi e, che è lo stesso, il medico sta ammazzando il paziente. E il peggio è che non necessariamente più c’è crisi più c’è resistenza. Perché ci sono livelli di crisi tanto forte e in cui la gente è tanto impoverita, tanto depressa, che non esce per strada; gente che si suicida, che prende ansiolitici; gente che interiorizza la crisi e se la prende con se stessa. Stiamo entrando in quel processo. 
Per questo credo che quest’anno sarà decisivo per sapere se abbiamo energie e ribaltiamo questo. Questo è quello che faremo questo fine settimana nella UPMS, vedere se possiamo articolare qualcosa per generare turbolenze politiche che non permettano a questi governi –questi sistemi di protettorato, in realtà- di continuare a governare. 

N.d.t. Circonda il Congresso 


(traduzione di Rosamaria Coppolino)

mercoledì 3 luglio 2013

Chi comanda in Italia? Ce lo dice lo storico Giulio Sapelli

Chi comanda in Italia? Ce lo dice lo storico Giulio Sapelli


Giulio Sapelli, professore di Storia Economica presso l'Università degli Studi di Milano
Giulio Sapelli, professore di Storia Economica presso l'Università degli Studi di Milano 
Michael Pontrelli
notizie.tiscali.it Mai come in questo difficile e confuso momento storico è stato difficile capire chi davvero detiene il potere nel nostro Paese. Ci ha provato nel suo ultimo saggio Chi comanda in Italia, edito da Guerini e Associati, Giulio Sapelli, uno dei più autorevoli storici italiani. Lo abbiamo sentito per farci raccontare la sua visione delle cose.

Professore iniziamo proprio dal titolo del suo ultimo saggio: chi comanda in Italia?
“L’Italia di oggi è un paese devertebrato ovvero un paese in cui il potere si è disgregato. I partiti e le grandi imprese di fatto non esistono più. In passato in circostanze simili sarebbero intervenuti i militari. Oggi questo non è più possibile e il potere è stato occupato dall’alta burocrazia e dalla magistratura”.

Non è eccessivo dire che i partiti non esistono più? A me sembra che siano più potenti che mai e un altro libro che parla di potere, l’intervista di Madron a Bisignani, conferma questo quadro.
“Quello di Bisignani è sostanzialmente un libro che manda dei segnali mafiosi. Un volume scritto per dire che può ricattare tutti. I partiti di oggi sono dei semplici comitati d’affari che perseguono interessi personali e lobbistici ma che di fatto non esercitano più un potere reale”.

Quindi mi sta dicendo che anche un personaggio del calibro di Silvio Berlusconi non ha potere?
“Berlusconi è potente ma non ha alleanze. E’ un uomo anti-establishment. Appena ha tirato su la testa per entrare nel salotto buono lo hanno massacrato. E’ vero che ha fatto di tutto per farsi massacrare però i miliardi spesi per intercettarlo credo siano un record mondiale”.

Secondo non pochi osservatori l’Italia sarebbe un paese a sovranità limitata ovvero sia il governo Monti che quello Letta in realtà prenderebbero ordini dall’Unione europea o peggio ancora da Berlino. Fantasie o realtà? 
“Purtroppo la mancanza di una vera sovranità nazionale è una costante del nostro paese. L’Italia è stata una costruzione geografica messa assieme dalla diplomazia inglese per contrastare il dominio francese nel Mediterraneo. Garibaldi, per esempio, venne assoldato direttamente dagli inglesi tramite la massoneria di rito scozzese. La realtà è che non abbiamo mai avuto la nostra autonomia nazionale e la nostra storia va sempre interpretata nell’ambito dei conflitti di potere internazionali”.

Mi scusi ma qui stiamo parlando del 1800. Da allora sono cambiate tantissime cose. 
“Se vuole degli esempi più recenti posso citarle lo smantellamento di alcuni settori industriali italiani voluti da potenze straniere come l’informatica, dove eravamo leader con l’Olivetti, e il nucleare con lo scandalo Ippolito. Per non parlare poi della chimica fine e delle privatizzazioni di Prodi con cui sono state svendute e chiuse intere filiere merceologiche”.

E in questo momento? Cosa sta succedendo?
“Che Francia e Germania stanno imponendo il loro potere su tutta l’Europa compresa l’Italia. Se ancora ci sono delle resistenze dobbiamo ringraziare gli Stati Uniti. Gli americani non vogliono che l’Italia cada completamente nelle mani dei tedeschi e dei francesi per il semplice motivo che sul nostro territorio hanno le loro basi militari. Fino a quando gli aerei americani partiranno dai nostri aeroporti siamo in buone mani. E’ meglio stare con gli Stati Uniti che non sotto il tallone dei tedeschi”.

Prima lei accennava al ruolo della massoneria nel processo di unificazione però non l’ha citata tra i poteri che oggi comandando in Italia. 
“Oggi la massoneria non ha più il peso di una volta. I grandi intellettuali, come era per esempio Spadolini, l’hanno abbandonata. Alcuni sono morti, altri si sono messi in sonno. La degenerazione di Gelli le ha dato un colpo terribile. Esiste ancora una buona massoneria patriottica raccolta attorno al rito scozzese ma, ripeto, non conta più come prima”.

Tornando all’aspetto internazionale, lei ha parlato di un potere franco-tedesco che domina in Europa a cui si oppongono gli Usa. Questa visione presuppone un ruolo molto importante dei singoli Stati e smentisce quanti affermano che il potere del mondo ormai non sarebbe più nelle mani della politica ma in quelle dei grandi gruppi finanziari transazionali.
“Le banche hanno sicuramente un enorme peso ma allo stesso tempo hanno anche un forte legame con gli Stati nazionali. Se la Deutsche Bank non avesse delle relazioni strette con il governo tedesco avrebbe già fatto una brutta fine come le banche americane. L’oligopolio finanziario mondiale condiziona gli Stati ma ha anche bisogno di loro. Il quadro è più complesso di quanto possa apparire”.

01 luglio 2013

martedì 2 luglio 2013

L’Iran pronto ad inviare in Siria 4.000 combattenti in aiuto alle forze del presidente Assad


L’Iran pronto ad inviare in Siria 4.000 combattenti in aiuto alle forze del presidente Assad
independent.co.uk
ROBERT FISK

La decisione di Washington di armare i ribelli musulmani sunniti della Siria ha fatto precipitare gli Stati Uniti nel grande conflitto tra Sunniti e Sciiti del Medio Oriente islamico, entrando in una lotta che ormai sta arrestando lo sviluppo delle rivoluzioni arabe che hanno rovesciato le dittature in tutta la regione. Per la prima volta, tutti gli “amici” dell’America nella regione sono musulmani Sunniti e tutti i suoi nemici sono Sciiti. Rompendo tutte le consuetudini di non-allineamento del presidente Barack Obama, ora gli Stati Uniti si sono pienamente impegnati a fianco di gruppi armati che comprendono i movimenti islamici sunniti più estremisti in Medio Oriente.


L’Independent di domenica ha appreso che in Iran è stata assunta una decisione militare - anche prima delle elezioni presidenziali della scorsa settimana - per inviare un primo contingente di 4.000 Guardie Rivoluzionarie iraniane in Siria, a sostegno delle forze del presidente Bashar al-Assad contro la rivolta in gran parte sunnita, che è costata quasi 100.000 vite in poco più di due anni. Secondo fonti filo-iraniane profondamente coinvolte nella sicurezza della Repubblica Islamica, l’Iran è ormai pienamente impegnato a preservare il regime di Assad, fino al punto di proporre l’apertura di un nuovo fronte “siriano” sulle alture del Golan contro Israele.
In anni a venire, gli storici si chiederanno come gli Stati Uniti - dopo il loro fallimento in Iraq e il loro ritiro umiliante dall’Afghanistan in programma per il 2014 - possano essersi tanto sconsideratamente allineati con una fazione in una lotta titanica islamica, che risale al VII secolo, alla morte del Profeta Maometto.
Gli effetti profondi di questo grande scisma, tra Sunniti che credono che il padre della moglie di Maometto fosse il nuovo califfo del mondo musulmano e gli Sciiti, che considerano il genero di Maometto, Ali, come suo legittimo successore - un conflitto che nel VII secolo ha inondato di sangue tutta l’area attorno alle attuali città irachene di Najaf e Kerbala – si fanno sentire a tutt’oggi in tutta la regione. Un arcivescovo di Canterbury del diciassettesimo secolo, George Abbott, ha paragonato questo conflitto musulmano a quello tra “papisti e protestanti”.
L’alleanza con gli Stati Uniti include ora gli Stati più ricchi del Golfo Arabo, i vasti territori sunniti tra l’Egitto e il Marocco, così come la Turchia e la fragile monarchia in Giordania, creazione dell’impero britannico. Re Abdullah di Giordania – paese invaso, come tante nazioni confinanti, da centinaia di migliaia di profughi siriani - potrebbe addirittura trovarsi sul fulcro del conflitto siriano. Si pensa che attualmente in Giordania siano presenti fino a 3.000 “consiglieri” statunitensi, e la creazione di una “no-fly zone” nella Siria meridionale – in opposizione alle batterie antiaeree controllate dall’esercito siriano - trasformerebbe questa crisi in una guerra “calda”.
Questo, per quanto riguarda gli “amici” degli Stati Uniti d’America.
I loro nemici comprendono gli Hezbollah libanesi, il regime sciita alawita di Damasco e, naturalmente, l’Iran. E l’Iraq, una nazione in gran parte sciita, che gli Stati Uniti hanno “liberato” dalla minoranza sunnita di Saddam Hussein nella speranza di bilanciare il potere sciita dell’Iran, e che - contro tutte le previsioni statunitensi - in gran parte è finita sotto l’influenza e il potere di Teheran. Gli Iracheni sciiti, così come i membri di Hezbollah, hanno insieme combattuto a fianco delle forze di Assad.


Le scuse e le motivazioni addotte da Washington per la sua nuova avventura in Medio Oriente – vale a dire che è indispensabile armare i nemici di Assad perché il regime di Damasco ha usato il gas nervino sarin contro di loro – non convincono nessuno in Medio Oriente.
La prova cruciale che una delle parti in conflitto in Siria abbia fatto uso di gas rimane quasi nebulosa, tanto quanto l’affermazione del presidente George W. Bush che l’Iraq di Saddam possedesse armi di distruzione di massa.
Il vero motivo per cui gli Stati Uniti d’America hanno disposto la loro potenza militare a fianco dei ribelli sunniti siriani è perché questi stessi ribelli stanno ora perdendo la loro guerra contro Assad. Questo mese, la vittoria del regime di Damasco nella città di Qusayr nel centro della Siria, a prezzo della vita di combattenti Hezbollah come quella di appartenenti alle forze governative, ha gettato la rivoluzione siriana nello scompiglio, minacciando di umiliare le pretese statunitensi e dell’Unione Europea per un abbandono del potere da parte di Assad.


Si dovrebbe presumere che i dittatori arabi dovrebbero essere deposti - a meno di non essere re o emiri del Golfo in relazioni amichevoli - e non di essere sostenuti. Eppure la Russia ha garantito il suo appoggio totale ad Assad, tre volte ponendo il veto su risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbero permesso all’Occidente di intervenire direttamente nella guerra civile.

In Medio Oriente, esiste un cinico scetticismo sulla presunzione statunitense che si possano distribuire armi – inclusi quasi certamente missili terra-aria - solo alle forze ribelli laiche sunnite rappresentate in Siria dal cosiddetto Esercito Libero Siriano. Il potentissimo Fronte al-Nusrah, alleato di al-Qaeda, domina il campo di battaglia a fianco dei ribelli ed è stato accusato di atrocità, tra cui l’esecuzione di governativi siriani prigionieri di guerra e l’omicidio di un giovane quattordicenne per blasfemia.
Costoro saranno in grado di appropriarsi delle nuove armi statunitensi strappandole con poco sforzo ai loro camerati dell’Esercito Libero Siriano. D’ora in poi, quindi, ogni attentato suicida dinamitardo a Damasco - ogni crimine di guerra commesso dai ribelli - verrà considerato nella regione di responsabilità di Washington. Gli stessi islamisti Sunniti-Wahabiti che hanno ucciso migliaia di cittadini americani negli attentati dell’11 settembre 2011 - che sono i più grandi nemici degli Stati Uniti così come della Russia - stanno per diventare alleati per procura dell’amministrazione Obama.

Questa terribile ironia può venire ancor più inasprita dal deciso rifiuto del presidente russo Vladimir Putin a tollerare una qualsiasi forma di estremismo sunnita.
La sua esperienza in Cecenia, la sua retorica anti-musulmana – Putin ha rilasciato considerazioni oscene circa gli estremisti musulmani in una conferenza stampa in russo - e la sua convinzione che il vecchio alleato della Russia in Siria si trova ad affrontare la stessa minaccia che Mosca ha combattuto in Cecenia, giocano un ruolo importantissimo nella politica di Putin nei confronti di Bashar al-Assad, quanto la permanenza della base navale concessa alla Russia presso la città mediterranea siriana di Tartous.
Per i Russi, naturalmente, il “Medio Oriente” non è affatto in “oriente”, ma è a sud di Mosca, e i dati statistici sono di somma importanza. La capitale cecena di Grozny è appena 500 miglia dalla frontiera siriana. Il quindici per cento dei Russi sono musulmani. Sei delle repubbliche comuniste dell’Unione Sovietica avevano una maggioranza musulmana, di cui il 90 per cento sunnita. E i Sunniti in tutto il mondo costituiscono forse l’85 per cento di tutti i Musulmani.
Visto l’intento della Russia  di riconquistare posizioni in un ampio territorio che comprende la maggior parte della ex Unione Sovietica, i suoi principali antagonisti sono gli Islamisti Sunniti sul tipo di quelli che ora stanno combattendo il regime di Assad.
Le fonti iraniane dicono di mantenere costantemente contatti con Mosca, e che, mentre il ritiro totale di Hezbollah dalla Siria probabilmente verrà completato al più presto – però con il mantenimento di formazioni di “intelligence” di questa milizia all’interno della Siria - il sostegno iraniano a Damasco crescerà più che inaridire. Questi informatori sottolineano che i Talebani hanno recentemente inviato una delegazione ufficiale per colloqui a Teheran, e che gli Stati Uniti avranno bisogno dell’aiuto dell’Iran nella conduzione del loro ritiro dall’Afghanistan.
Gli Stati Uniti, affermano gli Iraniani, non saranno in grado di portare i loro armamenti e le loro attrezzature fuori dal paese, con la guerra contro i Talebani ancora in corso, senza l’assistenza attiva dell’Iran. Una delle fonti ci ha dichiarato - non senza una qualche ilarità - che i Francesi furono costretti a lasciarsi alle spalle 50 carri armati nel momento del loro abbandono, perché non avevano ricevuto l’aiuto di Teheran. Questo è un segno del modello storico di cambiamento in Medio Oriente per cui, nel quadro delle vecchie rivalità da “guerra fredda” tra Washington e Mosca, la sicurezza di Israele è passata in secondo piano rispetto al conflitto in Siria.
In effetti, alle politiche di Israele nella regione si sono messe di traverso le rivoluzioni arabe, che hanno lasciato il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, disperatamente alla deriva in mezzo ai cambiamenti storici. Solo una volta nel corso degli ultimi due anni, Israele ha pienamente condannato le atrocità commesse dal regime di Assad, e mentre ha fornito aiuto medico per i ribelli feriti al confine israelo-siriano, teme l’insediarsi di un califfato islamico a Damasco molto più che una continuazione del governo di Assad. Un ex comandante dei servizi di spionaggio di Israele ha recentemente descritto Assad come “l’uomo di Israele a Damasco”.
Solo pochi giorni prima che il presidente Mubarak venisse rovesciato, sia Netanyahu che il re Abdullah dell’Arabia Saudita si appellavano a Washington per chiedere ad Obama di salvare il dittatore egiziano. Invano. Se il mondo arabo è stato a sua volta travolto da due anni di rivoluzioni, con l’andar del tempo nessuno più dei Palestinesi avrà sofferto tanto dalla guerra siriana e ne verrà più danneggiato. La terra che vorrebbero chiamare come loro Stato futuro è stata così occupata e popolata da coloni ebrei israeliani da non essere per i Palestinesi più sicura o “vivibile”.
I tentativi dell’inviato di “pace” Tony Blair per la creazione di un tale Stato sono stati risibili.
Una “Palestina” futura sarebbe una nazione di Sunniti. Ed oggi, Washington fa menzione appena ai Palestinesi. Un’altra delle ironie massime della regione è che Hamas, i presunti “super-terroristi” di Gaza, hanno abbandonato Damasco e ora sostengono la bramosia degli Arabi del Golfo di schiacciare Assad. Forze governative siriane denunciano che Hamas ha perfino addestrato i ribelli siriani nella fabbricazione e nell’uso di razzi fatti in casa.
Agli occhi degli Arabi, la guerra di Israele del 2006 contro gli Sciiti di Hezbollah era un tentativo di colpire al cuore l’Iran. L’appoggio dell’Occidente fornito ai ribelli siriani è un tentativo strategico di schiantare l’Iran. Ecco dunque che l’Iran sta preparandosi all’offensiva. Quindi, per il Medio Oriente è alta la posta in gioco e pesante l’ipoteca sul futuro.

In questo contesto terribile, la tragedia per i Palestinesi continua!

lunedì 1 luglio 2013

La bomba ecologica della Vinyls è innescata

La bomba ecologica della Vinyls è innescata
Stefano Deliperi

In questa nostra povera Sardegna sempre più Sardistàn, l’oscura isola nel bel mezzo del Mediterraneo, può anche accadere che 500 tonnellate di sostanze cancerogene e altamente pericolose per l’ambiente e per la salute pubblica siano formalmente abbandonate alla buona volontà di lavoratori senza stipendio e con la certezza del licenziamento dopo la dichiarazione di fallimento della propria azienda entro pochi giorni. Sembra follìa, è solo realtà e – come sempre – supera la fantasia.

Accade a Porto Torres, negli impianti della Vinyls, Gruppo Sartor, azienda chimica che sarà dichiarata fallita dal Tribunale di Venezia il 27 giugno 2013.
In fabbrica ci sono circa 500 tonnellate di dicloroetano e cloruro di vinile, sostanze altamente infiammabili, tossiche, cancerogene. In base al decreto legislativo n. 334/1999 sul controllo dei pericoli di incendi rilevanti connessi con sostanze “a rischio”, fra i vari obblighi di sicurezza c’è un presidio permanente 24 ore su 24 per prevenire gli incendi e ridurne al minimo i danni in caso di incidenti. Attualmente, però, nessuno se ne cura.

Eppure tutti sono stati avvertiti: il Governo, la Regione, l’Arpas, il Prefetto di Sassari, il Sindaco di Porto Torres, i Vigili del Fuoco.
Tutti sanno e tutti scrivono a tutti. Ma nessuno agisce.
La Vinyls ha già notificato a chiunque che non ha risorse finanziarie per occuparsene.

Fino ai giorni scorsi erano i novanta lavoratori che continuavano a presidiare, senza un soldo da cinque mesi, i serbatoi delle sostanze chimiche. Ora non più. Hanno segnalato il loro “abbandono di posto” Procuratore della Repubblica e al Sindaco di Porto Torres, ennesime tappe di un calvario.
La “loro” Vinyls è una tipica “industria orfana”, ormai ripudiata da tutti, anche se nel 2007 fatturava 247,6 milioni di euro, unica azienda italiana produttrice di pvc, con ben 370 dipendenti nei tre impianti di Porto Marghera, Ravenna e Porto Torres (130 dipendenti nel 2007).

I lavoratori le hanno tentate tutte per difendere la fabbrica, anche la “loro” Isola dei Cassintegrati è divenuta famosa. Ma tutto è stato inutile.
Eppure con 2 milioni di euro nell’arco di 7-8 mesi i lavoratori Vinyls potrebbero almeno effettuare i necessari lavori di messa in sicurezza e disinnescare una vera e propria “bomba ecologica” sulle rive del Golfo dell’Asinara.

Il minimo da fare in un sito di interesse nazionale (S.I.N. Sassari-Porto Torres, legge n. 179/2002) per la grave contaminazione di derivazione industriale.
Il minimo da fare in un‘area industriale dove fra i lavoratori, “sia per gli uomini sia per le donne sono presenti eccessi per il tumore del fegato … e la leucemia mieloide”, mentre nella popolazione residente dei Comuni interessati “sono stati osservati eccessi di mortalità per tutte le cause, le malattie dell’apparato digerente, i tumori maligni e il tumore del fegato”, inoltre “si trovano eccessi significativi per tumore del fegato, tumore polmonare e tumore della prostata”. E dove, dal locale Registro tumori, si riscontrano “sia negli uomini sia nelle donne, aumenti per tutti i tumori maligni e tumore del colon, fegato e polmone” (Rapporto S.E.N.T.I.E.R.I. – studio epidemiologico, Ministero della salute, aree industriali di Porto Torres, 2012).

Il minimo da fare, insieme alle altre bonifiche ambientali di impianti e aree industriali in disuso, prima anche solo di immaginare di avviare qualsiasi nuovo insediamento produttivo, con emissioni e immissioni connesse, come i nuovi impianti Matrìca della “chimica verde”.

E’ elementare e intuitivo: i pericoli per la sicurezza e la salute pubblica, i carichi inquinanti, in una zona a rischio ambientale e sanitario vanno diminuiti, non aumentati.

Non è necessario esser un super-esperto per capirlo. Basterebbe il banale buon senso, ma anch’esso è alla deriva.

Come la Vinyls.



domenica 30 giugno 2013

Debito e Euro: Cosa fare? Un manifesto


Debito e Euro: Cosa fare? Un manifesto
Various Authors - Versch. Autoren - AA.VV. - Auteurs div. -Από διάφορους συντάκτες - Muhtelif Yazarlar-Olika skribenter-Malsamaj aŭtoroj-مؤلفون مختلفين 
http://cadtm.org/
Tradotto da  Alba Canelli
Editato da  Raffaella Selmi




La crisi

L'Europa sta sprofondando nella crisi e nel declino sociale sotto il peso dell'austerità, della recessione e della strategia delle "riforme strutturali". Questa pressione è strettamente coordinata a livello europeo, sotto la guida del governo tedesco, della Banca Centrale Europea e della Commissione Europea. E’ ormai chiaro agli occhi di tutti che si tratta di politiche assurde , da "analfabeti": l'austerità fiscale non riduce il peso del debito, ma genera una spirale recessiva, aumento della disoccupazione, e semina disperazione tra i popoli europei.
Eppure, queste politiche sono giustificate dal punto di vista delle classi ricche. Si tratta di unmodo brutale - una terapia d'urto - per ripristinare i profitti, per garantire le rendite finanziarie, e attuare controriforme neoliberali. Quello che sta succedendo fondamentalmente è che gli Statistanno convalidando le pretese delle autorità finanziarie sulla futura produzione di  ricchezza degli Stati (PIL). Per questo la crisi prende la forma di una crisi del debito sovrano.

Il falso dilemma
Questa crisi dimostra che il progetto neoliberale in Europa non era sostenibile: presupponeva che le economie europee fossero più omogenee di quanto non siano in realtà. Esso presupponeva che le economie europee fossero più omogenee di quanto non lo siano in realtà. Le differenze fra i paesi  sono andate mano a man aumentando con l’ingresso nel mercato mondiale e l’esposizione  alle fluttuazioni dell’euro. I tassi d’inflazione disomogenei e i tassi d’interesse non sufficientemente remunerativi hanno favorito le bolle finanziarie e immobiliari e intensificato i flussi di capitale tra paesi. Tutte queste contraddizioni, aggravate dall'introduzione dell'unione monetaria, già presenti prima, sono esplose con gli attacchi speculativi ai debiti sovrani dei paesi più esposti.
Le alternative progressiste a questa crisi passano per una profonda rifondazione dell’Europa: è indispensabile a livello europeo la collaborazione, ma anche a livello internazionale, per la ristrutturazione industriale, la sostenibilità ecologica e lo sviluppo dell’occupazione. Una simile trasformazione sembra fuori portata negli attuali equilibri politici,  e perciò l'uscita dall'euro viene presentata in diversi paesi come la soluzione immediata. Il dilemma sembra essere tra una uscita rischiosa dalla zona euro e un ipotetica armonizzazione europea che dovrebbe emergere dalle lotte sociali. Si tratta a nostro avviso di una falsa dicotomia: è necessario elaborare una strategia politica praticabile di confronto immediato.
Qualsiasi trasformazione sociale implica la messa in discussione degli interessi sociali dominanti, dei loro privilegi e del loro potere, ed è vero che questo confronto si svolge principalmente in un quadro nazionale. Ma la resistenza delle classi dominanti e le misure di ritorsione cui sono in grado di ricorrere vanno al di là dei confini nazionali. La strategia di uscita dall’euro non contempla a sufficienza la necessità di un’alternativa europea, ed è per questo che occorre disporre di una strategia di rottura con l’“euro-liberismo” che consenta di fare emergere gli strumenti per un’altra politica. Non tratteremo qui  del programma, ma dei suoi mezzi  d’attuazione.

Che cosa dovrebbe fare un governo di sinistra? 
Siamo immersi in quella che può essere tecnicamente definirsi "crisi di bilancio". Questa crisi, che si protrae grazie al gioco combinato del “disindebitamento” del settore privato e delle politiche di austerità di bilancio, ha la sua origine nella passata accumulazione di attivi fittizi, non corrispondenti ad una crescita economica reale. In termini pratici, questo significa che i cittadini devono ora pagare il debito, quindi legittimando i prelievi della finanza sulla produzione e le entrate fiscali presenti e future. Gli Stati europei, con un’operazione rigorosamente coordinata a livello europeo – e mondiale – hanno deciso di nazionalizzare i debiti privati trasformandoli in debito sovrano e di imporre politiche di austerità e di trasferimento di capitali per pagarlo. Con questo pretesto vengono messe in atto  le "riforme strutturali", tipiche di un’economia neoliberale: riduzione dei servizi pubblici e del Welfare, tagli delle spese sociali e flessibilizzazione dei mercati del lavoro, per ridurre i salari diretti e indiretti.
Una strategia politica di sinistra dovrebbe concentrarsi, secondo noi, sulla conquista di una maggioranza favorevole a un governo di sinistra in grado di spazzare via tutte queste imposizioni. 
Liberarsi della presa dei mercati finanziari e controllare il deficit. Nel breve termine, uno dei primi passi di un governo di sinistra dovrebbe essere quello di trovare il modo di finanziare il deficit, in autonomia dai mercati finanziari.Questo è vietato dai regolamenti europei ed è invece la prima rottura da mettere in atto. Esiste un’ampia gamma di misure possibili, che non sono nuove e che sono state utilizzate in passato in diversi paesi europei: un prestito forzoso sui risparmi più consistenti, il divieto per i non residenti di concedere prestiti , l’obbligo per le banche di detenere una quota di obbligazioni pubbliche, una tassa sui trasferimenti internazionali di dividendi e sulle operazioni in conto capitale, ecc., e naturalmente una riforma fiscale radicale. Il modo più semplice sarebbe che la banca centrale nazionale finanziasse il deficit pubblico, come avviene negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Giappone, ecc. Sarebbe possibile creare un’apposita banca autorizzata a rifinanziarsi presso la Banca centrale, ma che avrebbe come principale funzione quella di acquistare obbligazioni pubbliche (ed quello che la BCE ha già fatto nella pratica).

Naturalmente, il problema non è una questione tecnica, in realtà si tratta di una rottura politica dell'ordinamento europeo. Senza questa rottura, ogni mossa politica suscettibile di non “tranquillizzare i mercati finanziari” verrebbe immediatamente contrastata attraverso l’aumento del costo del finanziamento del debito pubblico.

Liberarsi dai mercati finanziari e ristrutturare il debito
Questa prima serie di misure immediate non è sufficiente a ridurre il peso del debito e degli interessi accumulati. L'alternativa è la seguente: o un'austerità di bilancio eterna oppure una moratoria immediata sul debito pubblico seguita dalle misure di annullamento del debito. Un governo di sinistra dovrebbe dire: "Non possiamo pagare il debito sforbiciando salari e pensioni, e ci rifiutiamo di farlo".  Avviata la moratoria, occorrerebbe organizzare un audit dei cittadini per individuare il debito illegittimo, che in genere si riferisce a quattro elementi:
  • i"regali fiscali" concessi in passato alle famiglie più ricche, alle imprese e ai detentori di rendite,
  • i privilegi fiscali “illegali”: evasione fiscale, paradisi fiscali e amnistie,
  • i piani di salvataggio messi in atto dalle banche da quando è esplosa la crisi,
  • il debito generato dal debito stesso, per l’effetto valanga dovuto alla differenza tra il tasso d’interesse pagato per rimborsarlo e i tassi di crescita del PIL, erosi  invece dalle politiche di austerità e dalla disoccupazione.
L’audit apre la strada a una  negoziazione  forzosa dei titoli del debito che consentirebbe di annullarne gran parte. Questa è la seconda rottura.
Ma i debiti sovrani sono anche indissolubilmente legati al bilancio delle banche private; perciò il salvataggio di un paese è in realtà  un piano per salvare le banche. È necessaria una terza rottura rispetto all’ordinamento neoliberista, e questa passa per il controllo dei movimenti internazionali di capitali, il controllo del credito e l’appropriazione collettiva delle banche. È il solo modo razionale per districare il groviglio di debiti. Dopo tutto, questa è stata la scelta decisa in Svezia negli anni ’90 (anche se poi le banche sono state riprivatizzate).
Riassumendo, l’apertura di una strada alternativa richiede un insieme coerente di tre rotture:
  • il finanziamento dei titoli  del debito sovrano, passato e futuro,
  • l'annullamento del debito illegittimo,
  • la socializzazione (gestione collettiva, N.d.T.) delle banche per il controllo del credito.
Questi sono gli stumenti per una reale trasformazione sociale. Come attuarla?

E' necessario un governo di sinistra 
Questi tre punti di rottura, indispensabili per resistere al ricatto finanziario, non possono essere attuate che da un governo di sinistra. Nonostante la diversità delle condizioni sociali e politiche da paese a paese, l’intera Europa si è concentrata nell’estate 2012 sull’eventualità che Syriza potesse vincere le elezioni e costituire l’asse di questo governo in Grecia. Da allora, la campagna di Syriza verte sui temi essenziali che sosteniamo in questo Manifesto: un governo di sinistra costituisce un'alleanza per denunciare il memorandum della Troika e ristrutturare il debito in moda da  salvare il potere d’acquisto dei salari, le pensioni, la spesa per la sanità , l’istruzione e la sicurezza sociale. Il nostro approccio è in sintonia con quello di Syriza: «Niente sacrifici pro l’euro».  

Uscire  dall'euro non significa finirla  con l’“euro-liberismo”
È evidente che un governo di sinistra che adotti misure di questa portata deve essere deciso ad applicare un programma socialista e disporre di un largo sostegno popolare. E questo lo otterrà solo  ponendo, come obiettivi prioritari, la lotta contro gli interessi della finanza, la ricostruzione di un’economia di piena occupazione e la gestione collettiva dei beni comuni. Questa è la sola alternativa possibile: se lo scopo è l’annullamento del debito, non ci si deve allontanare da questo obiettivo. La coerenza e la chiarezza politica sono le condizioni per vincere – e per meritare di vincere. La prima misura di un governo di sinistra deve perciò essere la lotta contro il debito e l’austerità.

Affinché questa politica "contro" sia efficace, un governo di sinistra deve basarsi su un ampio sostegno popolare ed essere disposto a utilizzare tutti gli strumenti democratici necessari per far fronte alla pressione degli interessi finanziari, incluse misure di nazionalizzazione dei settori strategici, e a uno scontro diretto con il governo Merkel, la BCE e la Commissione Europea. La battaglia per la difesa della democrazia e delle conquiste sociali deve superare i confini  nazionali. Ma se la politica di Bruxelles si oppone, si dovrà operare nell’ambito dell’assetto nazionale esistente. Niente tabù sull’euro ,non si dovrebbe escludere nessuna ipotesi,  compresa quella dell’abbandono  della moneta unica, e questa dovrebbe essere l’ ultima  possibilità se nessun’altra   soluzione fosse praticabile nel quadro europeo, o se le autorità europee vi costringessero un paese.
Un governo di sinistra non potrebbe negare le conseguenze dell’uscita dall’eurozona. Innanzitutto il fatto che questo non comporterebbe senz’altro il recupero della sovranità democratica: il finanziamento del debito pubblico sfuggirebbe al controllo dei mercati finanziari, ma la pressione rimarrebbe  esercitabile  con manovre speculative sulla la nuova/vecchia moneta del paese in deficit di bilancio.

D'altronde, l'onere del debito non sarebbe ridotto. Al contrario aumenterebbe in proporzione al tasso di svalutazione, in quanto il debito è denominato in euro. In queste condizioni, il governo sarebbe costretto a convertire il debito pubblico nella nuova valuta, il che equivarrebbe ad un parziale annullamento: rientra nei poteri di uno Stato assumere una decisione del genere, ma bisogna mettere in conto  l’ipotesi un conflitto con gli altri Stati. Poiché le imprese private e le banche non dispongono dello stesso potere sovrano il valore dei debiti privati e finanziari espressi nella moneta nazionale aumenterebbe. In questo contesto, la nazionalizzazione delle banche sarebbe in ultima analisi necessaria per evitare il fallimento di tutto il settore del credito, ed il conseguente ulteriore aumento del debito nei confronti della finanza pubblica internazionale.
Inoltre, la svalutazione della nuova moneta scatenerebbe un processo inflazionistico che porterebbe all’aumento dei tassi d’interesse e all’aggravarsi dell'onere del debito e delle disuguaglianze dei redditi. Infine, l’uscita dall’euro viene in genere presentata come una strategia tendente a conquistare parti di mercato grazie a una svalutazione concorrenziale. Questo tipo d’approccio non rompe con la logica della concorrenza di "tutti contro tutti" e gira le spalle a una strategia di lotta europea comune contro l’austerità.
In ultima analisi un governo di sinistra che non stabilisse come priorità  l’uscita dall’euro e dall’UE avrebbe più  margini di manovra e rafforzerebbe il potere di negoziazione ampliando la base di consenso all’interno dei paesi membri. Si tratta dunque di una strategia progressista e internazionalista, contrapposta a una strategia isolazionistica e nazionale. 

Una politica unilaterale di rottura e di solidarietà
Le soluzioni progressiste si contrappongono al progetto neoliberista di “tutti contro di tutti”. La base, fondamentale, di cooperazione le rende tanto più efficaci quanto più sono le nazioni coinvolte. Ad esempio, una riduzione estesa ed uniforme dell’orario di lavoro e un’imposta uniforme sui redditi da capitale, non avrebbe l’effetto boomerang che si produce quando è un singolo stato ad adottarle. Per aprire questa strada di collaborazione, un governo di sinistra dovrebbe adottare unilateralmente una serie di misure:
  • Le “buone” misure vengono attuate unilateralmente come, ad esempio, il rifiuto dell'austerità o la tassazione delle transazioni finanziarie.
  • Esse sono accompagnate da misure protezionistiche, come ad esempio un controllo dei capitali.
  • L'attuazione unilaterale  di politiche in conflitto con le regole europee è un rischio politico calcolato. Il beneficio  sta in una logica di estensione, perché misure come il rilancio del budget  o la tassa sulle transazioni finanziarie vengano adottate da altri Stati membri.
    Tuttavia, lo scontro politico con l’UE e con le classi dirigenti di altri Stati europei, soprattutto il governo tedesco, è inevitabile e la minaccia di uscita dall’euro non va esclusa a priori dalle possibili opzioni.
Per questa politica alternativa la scelta di un  mercato unico europeo non è indispensabile.  Le eventuali misure di ritorsione contro un governo di sinistra vanno neutralizzate con contromisure, che effettivamente implicano il ricorso a dispositivi protezionistici. Ma l’orientamento non è protezionista nella comune accezione del termine, in quanto si protegge un processo di trasformazione sociale portato avanti dal popolo e non si proteggono gli interessi dei capitali nazionali nella loro concorrenza con altri capitali. Si tratta, dunque, di un “protezionismo d’estensione”, chiamato a scomparire una volta generalizzate attraverso l’Europa le misure sociali per l’occupazione e contro l’austerità.
La politica di rottura non è dunque un assioma, è legittimata da misure giuste ed efficaci, che rispecchiano gli interessi della  maggioranza e che perciò hanno vocazione ad essere estese ai paesi vicini. Solo così  può avvenire quella mobilitazione sociale che, attraversando tutti i paesi, è in grado di ribaltare i rapporti di forza e di mettere in discussione le istituzioni dell’UE. La recente esperienza dei piani di salvataggio neoliberisti elaborati  dalla BCE e dalla Commissione europea mostra come alcune disposizioni dei trattati dell’UE siano facili da aggirare , e come le autorità europee non abbiano ,purtroppo, esitato a farlo. Perciò rivendichiamo il diritto di adottare misure etiche, come il  controllo dei capitali e l’introduzione di meccanismi di tutela del potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Ancora una volta, l’uscita dall’euro è una minaccia o un’arma di ultima istanza.
La legittimità di questa politica progressista  sta nel concetto di classe a fondamento di un nuovo modello di Comunità: un bilancio europeo allargato, alimentato da una tassa comune sul capitale, che finanzia fondi di armonizzazione e investimenti socialmente ed ecologicamente utili. Ma non ci aspettiamo che un cambiamento simile avvenga da solo, e mettiamo all’ordine del giorno la lotta immediata contro il debito e contro l’austerità,  la  difesa dei salari e delle pensioni, delle politiche sociali e dei servizi pubblici. È questo il nostro orientamento strategico per un governo di sinistra.

Firmatari
Κύπρος: Stavros Tombazos
Britain: Giorgos Galanis, Özlem Onaran
Estado español: Daniel Albarracín, Nacho Álvarez, Bibiana Medialdea, Manolo Garí, Antonio Sanabria, Jorge Fonseca, Teresa Pérez del Río, Lidia Rekagorri Villar (Euskal Herria), Jérôme Duval, Andreu Tobarra, Ander Gorroño Bidaguren (Euskal Herria), Jorge Alaminosder Gorroño Bidaguren (Euskal Herria), Jorge Alaminos, Pedro A. García.
Portugal: Francisco Louçã, Mariana Mortagua
France: Gilles Orzoni, Jacques Rigaudiat, Philippe Zarifian, Gilles Raveaud, Jacques Cossart, Nicolas Béniès, Marc Bousseyrol, Mathieu Montalban, Samy Johsua, Catherine Samary, Dany Lang, Bruno Théret, Claude Calame, Jean-Marie Harribey, Ozgur Gun, Patrick Saurin, Antoine Math, Pierre Khalfa, Marc Mangenot, Jean Gadrey, Mireille Bruyère, Henri Philipson, Pierre Bitoun, Pierre Khalfa, Bernard Guibert, Robert Kissous, Guillaume Etievant, Jean-Marie Roux, Jakes Bortayrou (Paesi Baschi), Thomas Coutrot, Philippe Légé, Olivier Lorillu, Boris Bilia, Christiane Marty, Bertrand Rothé, Philippe Enclos, Xavier Girard, Gérard Streletski, Christophe Pébarthe, Pierre Cours-Salies, Yvette Krolikowski, Céline Martin, Michel Bréhier, Yann Merlevede, Dany Lang, Chantal Frattaruolo, Yves Chassin, Martial Picot, Gustave Massiah, Catherine Harmant, Christian ZanneMichel Bréhier, Yann Merlevede, Dany Lang, Chantal Frattaruolo, Yves Chassin, Martial Picot, Gustave Massiah, Catherine Harmant, Christian Zanne, Antoine Cantais, Geneviève Morenas, Jean-Michel Hérisson, Jean-Claude Salomon, Julien Sardou , Stephen Bouquin.
Belgique: Eric Toussaint, Pierre Vermeire, Gunter Breugelmans, Maurice Cramers, Filip De Bodt, Eric Goeman, Herman Michiel, Georges Spriet, Daniel Tanuro, Thomas Weyts, Helena Van der Vorst, David Dessers.
Sverige: Rodolfo Garcia, Örjan Appelqvist
Nederland: Willem Bos, Corrie van Willegen
Suisse: Jean Batou, Pierre Vanek, Juan Tortosa

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