Per una nuova indipendenza, le sfide del Partito dei Sardi
di GIORGIO PISANO
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Franciscu Sedda |
Trentasette anni, sposato a una militante (Ornella), una figlia (Soliana), un bel manifesto politico alle spalle ( I sardi sono capaci d'amare ), Sedda si lancia in questa avventura «con l'entusiasmo dell'evoluzione».
Che vuol dire?«Significa che mi sono liberato da un'idea vecchia e folcloristica di indipendentismo, dalla logica dei duri e puri che però non contano niente. Ai sardi dico che dobbiamo liberare la parte migliore di noi e diventare sovrani in casa nostra, come accade a Malta, in Scozia o in Catalogna».
Che significa sovrani?«Recuperare, per esempio, quei diritti sanciti dallo Statuto eppure ignorati. In questa logica si spiega la battaglia per creare un'Agenzia sarda delle Entrate. Dopo la raccolta di firme, aspettiamo che il Consiglio regionale la faccia diventare legge».
Andate soli alle elezioni?«Noi confidiamo di far parte del cartello di centrosinistra. Non credo ci siano problemi anche perché il nostro programma di governo ha molti punti in comune con quell'area».
Candidato presidente?«Quasi certamente Paolo Maninchedda».
Strana alleanza la vostra, no?«No. Maninchedda ed io siamo profondamente diversi ma il Partito dei Sardi non deve far le pulci a nessuno. È già una vittoria saper guardare oltre, verso il futuro. In fondo, chiediamo di liberare la parte migliore di noi stessi. Eppoi, Maninchedda è l'unico consigliere regionale che ha presentato una mozione sull'indipendentismo».
I compagni di ieri che ne dicono?«Ci siamo confrontati ma non c'è stato nulla da fare. Avremmo voluto unirli, fare fronte comune, ma ha prevalso la divisione: ognuno per conto proprio, ciascuno con certezze sacrali, inviolabili».
Cosa manca ai sardi per acquisire coscienza nazionale?«La capacità di guardare al presente e alla storia di questa terra. Già nel dodicesimo secolo Barisone parlava di sovranità dei sardi, sovranità di un popolo che decide il destino comune. Da allora non siamo cresciuti granché».
Però restiamo liberi di lamentarci.«Appunto. Non siamo riusciti a svezzarci da vizi antichi come quello del vittimismo. Non ci ha aiutato, negli anni, la classe politica: è rimasta inerte e passiva di fronte al governo di Roma anche nel caso, come succede per le entrate fiscali, di diritti sacrosanti».
E i sardisti, che dire dei fratelli coltelli?«Il Psd'Az ha fatto da tempo una scelta di centrodestra che noi non condividiamo. Ne prendiamo atto: il partito di Giacomo Sanna è una delle tante sfaccettature di un malinteso senso dell'indipendentismo. Non è un caso che Maninchedda sia separato in casa nel gruppo consiliare per evidente incompatibilità».
Piccoli e fragili: come pensate di superare lo sbarramento?«Faremo parte di una coalizione piuttosto ampia e questo ci metterà al riparo dal rischio di restare a bocca asciutta, fuori dal prossimo Consiglio regionale».
L'incognita 5 Stelle vi preoccupa?«Non più di tanto. Si tratta di un movimento che ha dato un forte segnale di rottura ma ha finito poi per perdersi in questioni di nessun valore. Ho la sensazione che dopo il boom elettorale alle Politiche, i grillini siano adesso in fase calante. La novità siamo noi».
Ugo Cappellacci vi ha deluso?«Ha governato il vuoto per quattro anni mentre negli ultimi dodici mesi ha riscoperto un attivismo sorprendente impadronendosi, tra l'altro, di battaglie che non gli appartengono. Sto parlando, giusto per capirci, di sovranità fiscale. Dovessi fare un bilancio direi che la giunta Cappellacci ha sprecato il suo tempo e, purtroppo, quello di tutti noi».
L'opposizione ha funzionato?«Poteva certamente fare di più. Si è trovata spesso in panne, divisa e polemica al suo interno. La mia impressione è che abbia svolto il suo ruolo per senso del dovere piuttosto che per convinzione. È mancata la grinta necessaria, la consapevolezza di quella che noi chiamiamo costante esistenziale».
Che sarebbe?«A differenza di quella resistenziale di cui parlava il professor Lilliu, la costante esistenziale è la conquista d'una consapevolezza: capire chi siamo, quali siano i nostri diritti, dove dovremmo puntare. Per questo vogliamo creare un Partito dei Sardi in Europa».
La variabile Michela Murgia?«È una libera cittadina, siamo in democrazia e dunque può fare quello che crede».
Non la sentite affatto vicina. Eppure è indipendentista.«Quando abbiamo avviato il nostro progetto, Paolo Maninchedda ed io abbiamo scommesso sull'unità, sul raggruppamento delle varie anime indipendentiste. Che però hanno scelto altre strade».
Lei, ad esempio, perché ha abbandonato Progres?«Perché non mi piace un indipendentismo che si parla addosso, che si chiude nel fortino della purezza ideologica per guardarsi allo specchio. Preferisco scendere in piazza per conquistarmi la fiducia di quelli che ancora indipendentisti non sono; preferisco parlare ai sardi, a tutti i sardi, senza fare le pagelle dei buoni e cattivi o la selezione sulle aree di provenienza».
Insomma, siete la differenza.«Non abbiamo questa pretesa. Più semplicemente usciamo da una logica che ci sembra superata. La sovranità che rivendichiamo non è diversa da quella scozzese che a settembre del 2014 vota un referendum per presentarsi in Europa come Stato membro».
E questo ha un senso?«Eccome. Vorrei che i sardi si rendessero conto delle condizioni in cui ci fanno vivere: penso a mia figlia e mi chiedo quale sarà il livello delle scuole che l'aspettano, quale sanità, perfino su quali strade dovrà camminare. Noi vogliamo costruire uno Stato, non vogliamo continuare a subire l'arbitrio della centralità romana su questioni per noi fondamentali. Eppoi, credo d'aver già vinto».
Già vinto?«Beh, molte tematiche di quindici anni fa oggi sono all'ordine del giorno. Quello che allora non avevamo capito è il rapporto con gli altri: non basta la qualità delle proposte, bisogna conquistare il consenso e, col consenso, il diritto a governare. Finora siamo rimasti trincerati su posizioni che avevano invece bisogno di una verifica popolare».
Per questo ha rinnegato i sacri padri, cioè Bellieni e Lussu?«Ci hanno fatto credere che l'autonomia fosse il massimo dei risultati possibili. Ed è sbagliato. Aveva ragione chi, come Antonio Gramsci, diceva che non si deve dissertare di politica ma viverla pragmaticamente. Uscire allo scoperto, insomma».
È questo che vi separa dagli altri?«Ci dividiamo su fatti concreti. La situazione muterebbe radicalmente se avessimo un'Agenzia che incassa i tributi pagati dai sardi e, una volta detratta la parte che spetta alla regione, versa il resto allo Stato. Oppure, visto che i soldi in cassa li abbiamo noi, riapre qualche contenzioso rimasto impiccato. Ci ritroveremmo il coltello dalla parte del manico. E questa è già una rivoluzione».
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