Biodiversità e l'ambiente: Silenziosa primavera per noi?
By Dr. Paul Craig Roberts
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Global Research, 20 giugno 2012 | |
paulcraigroberts.org | |
URL di questo articolo: www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=31503
tradusiu e imprentau de Sa Defenza | |
Con il suo libro del 1962, Silent Spring, Rachel Carson, sui pesticidi sintetici DDT e altri, banditi per salvare la vita degli uccelli. Oggi è l'uomo che è direttamente minacciato dalle tecnologie progettate per estrarre il massimo profitto al minor costo privato e sociale, il costo massimo è pagato dalle risorse naturali.
Una volta abbondante l'acqua pulita è diventata una risorsa scarsa. Le falde acquifere e le acque superficiali degli Stati Uniti sono inquinate e rese inutilizzabili dalle miniere in cima alla montagna, dal fracking e altre "nuove tecnologie". Ranchers nella parte orientale del Montana, per esempio, sono stati costretti ad abbandonare allevamento da acqua inquinata.
La trivellazione petrolifera in mare aperto e l'agricoltura chimica hanno distrutto la pesca nel Golfo del Messico. In altre parti del mondo, esplosivi usati per massimizzare nel breve periodo delle quote di pesca hanno distrutto la barriera corallina e la vita dei pesci http://aquatek-california.com/coral-reef-destruction/ la deforestazione nel breve periodo, i risultati di produzione agricola e la sostituzione di biodiversità delle foreste pluviali rende arida la terra. La " attuale generazione" sta lasciando un pianeta con scarse risorse per le generazioni future.
A school of Pennant coralfish, Pyramid and Millet butterflyfishes, and others at the Rapture Reef, French Frigate Shoals; Wikipedia: Coral Reef
Le centrali nucleari sono sconsideratamente costruite in zone sismiche e soggette agli tsunami. Barre di combustibile esaurito sono stoccaati all'interno delle centrali, una pratica che consente di aggiungere al loro potenziale distruttivo un incidente catastrofico o di un altra natura.
La nuova minaccia arriva da semi geneticamente modificati che producono colture resistenti agli erbicidi. Il principio attivo dell'erbicida Roundup della Monsanto è il glifosato, un elemento tossico che contamina le acque sotterranee in Spagna e secondo l'US Geological Survey ora "si trovano comunemente nella pioggia e nei ruscelli del bacino del fiume Mississippi."
Nel 2011 Don Huber, un ricercatore patologo vegetale e microbiologo del suolo, ha scritto al Segretario dell'Agricoltura degli Stati Uniti (Secretary of Agriculture) sulle conseguenze inaspettate degli OGM e gli erbicidi di accompagnamento. Ha citato gli effetti negativi sui micronutrienti, critici per fertilità del suolo, e il valore nutrizionale degli alimenti. Ha citato la compromissione delle vie metaboliche che impediscono l'accumulo delle piante di immagazzinare minerali, come ferro, manganese e zinco, minerali importanti per la funzione epatica e la risposta immunitaria negli animali e nelle persone. Ha citato gli effetti tossici sui microrganismi del suolo che hanno disturbato l'equilibrio della natura e portato a forti aumenti delle malattie nelle piante. Ha citato morti di bestiame da botulismo, invecchiamento precoce degli animali, e un aumento infertilità animale e umana.
In un'intervista, Huber ha detto che il potere degli agro-business ha reso quasi impossibile fare ricerca sugli OGM e che le agenzie di regolamentazione con responsabilità di protezione del benessere pubblico dipendono dagli studi delle industrie produttrici, non hanno studi indipendenti obiettivi su cui basare una decisione da regolamentare.
In breve, al fine di garantire raccolti abbondanti per molti anni, stiamo distruggendo la fertilità del suolo, degli animali e della vita umana.
L'uomo sta distruggendo il mondo da lungo tempo. Nel suo affascinante libro, 1493, Charles C. Mann descrive gli effetti negativi per l'ambiente, le persone e le civiltà dal globalismo scatenato da Cristoforo Colombo. Questi includono il trasferimento internazionale di malattie umane e vegetali, la deforestazione, distruzioni di popoli e di imperi, e l'impatto sulla lontana Cina del nuovo mondo spagnolo.
Mann offre una lezione di storia e le conseguenze impreviste e inattese derivanti dalle azioni di élite, e da quelle delle élite dominanti. La tassazione del governo cinese fissa in termini di quantità di argento, ma l'importazione dei prezzi gonfiati dall'argento spagnolo (ha diminuito il valore di una determinata quantità di argento) ha lasciato il governo senza entrate sufficienti.
Un governo o successore della dinastia cinese sfrattata dalla costa, al fine di privare i pirati di risorse. I milioni di persone sfollate hanno disboscato montagne, al fine di sostenere se stessi con l'agricoltura a terrazza. Il risultato della deforestazione sono inondazioni che hanno spazzato via non solo le terrazze, ma anche le colture delle fertili valli sottostanti. Di conseguenza, le inondazioni in Cina è diventato uno delle più grandi sfide per il suo approvvigionamento alimentare.
I primi schiavi furono i nativi del Nuovo Mondo, ma gli "indiani" non erano immuni alle malattie europee. La seconda ondata di schiavi erano bianchi europei, ma gli europei non avevano alcuna immunità alla malaria e alla febbre gialla. Per impostazione predefinita la schiavitù è scesa ai neri, molti dei quali avevano l'immunità alla malaria e febbre gialla. Così, si rivalarono una forza di lavoro che potrebbe sopravvivere negli ambienti infetti e nelle zone umide di nuova creazione in cui poter aumentare il lavoro da canna da zucchero, le zone umide che erano case ideali per la malaria e la febbre gialla delle zanzare imuno-portatrici. Mann, naturalmente, si limita a riferire, non a giustificare lo schiavo nero o qualunque altra schiavitù.
Mann fa notare che la zanzara ha avuto un grande impatto sulla storia americana. La linea Mason-Dixon divide grosso modo la East Coast in due zone, il Sud in cui la malattia delle zanzare portatrici erano una minaccia endemica, e il nord in cui la malaria non era una minaccia. Nel Sud, una persona sopravvissuta all'infanzia ed è cresciuta, da adulto aveva acquisito l'immunità. I Nordisti invece non avevano acquisito tale protezione.
Ciò ha avuto conseguenze enormi sugli eserciti del Nord quando invasero il sud. Mann riporta che "la malattia ha ucciso due volte di più le truppe dell'Unione di quanto hanno fatto le pallottole confederate." Tra le estati del 1863 e il 1864, il tasso ufficiale di infezione annuale per quella che veniva chiamata "febbre intermittente" è stato del 233%. Il soldato medio del Nord
è stato abbattuto più di due volte. In un anno 361.968 soldati sono stati infettati. La maggior parte delle morti per malaria sono state indirette. La malattia ha talmente indebolito le truppe che sono morti di dissenteria, morbillo o infezione da streptococco.
La zanzara è il più potente alleato del Sud e così ha prolungato la guerra, nonostante la grande superiorità numerica delle forza dell'Unione, Lincoln è stato costretto a prendere atto da chi si oppose a dichiarare l'emancipazione degli schiavi. Così, Mann scrive, non è azzardato concludere che i neri sono stati liberati dalla zanzara della malaria stessa che aveva causato che i neri fossero la forza di lavoro preferito.
Mann dimostra che molto prima della nascita del capitalismo, l'avidità ha spinto gli uomini ad un trattamento barbaro sui loro compagni. Egli mostra anche che le politiche, siano guidate dall'avidità o da un disegno di buone intenzioni socio-politiche, inevitabilmente hanno avuto conseguenze inaspettate. La sua poliedrica storia illustra bene il vecchio adagio, "i piani ben definiti e spesso hanno un'incognita, la fine d'essi non sempre è quella attesa." “the well laid plans of mice and men often go awry.”La citazione è di Robert Burns)
Il vecchio mondo colonizzazione del nuovo mondo ha devastato i popoli del nuovo mondo, ma il mondo nuovo indietro con la diffusione della peronospora della patata in Europa e all'inflazione spagnola e europea.
La distruzione ambientale causata principalmente dalla deforestazione e dai terreni spazzati via dalle inondazioni conseguenti. Prima delle moderne tecnologie e dei prodotti chimici tossici, il pianeta è sopravvissuto all'umanità.
Oggi le prospettive per il pianeta sono diverse. La popolazione umana è vasta rispetto alle precedenti volte, ed esercita una pressione molto alta sulle risorse che sono disastrose ,le conseguenze delle nuove tecnologie non sono note nel momento in cui sono impiegate, quando il focus è sui benefici attesi. Inoltre, tali costi sono esterni all'azienda, alla società o unità economica. I costi sono inflitti sull'ambiente e sugli esseri umani o di altra vita animale. I costi non sono inclusi quando l'azienda calcola l'utile e il ritorno sugli investimenti. I costi esterni del fracking, estrazione o rimozione minerale, dell'agricoltura chimica e degli OGM potrebbero superare il valore dei prodotti commerciabili.
Le aziende non hanno alcun incentivo a prendere in considerazione questi costi, perché per farlo dovrebbe ridurre i loro profitti e in modo da indicare che l'intero costo di produzione supera il valore della produzione. I governi hanno dimostrato di essere in gran parte inefficaci nel controllo dei costi esterni, a causa della capacità degli interessi privati di influenzare le decisioni del governo. Anche se un paese dovesse confrontarsi con questi costi, in altri paesi avrebbero approfittato della situazione. Le aziende che esternalizzano alcuni dei loro costi possono svendere le aziende che internalizzano i costi della loro produzione. Così, il pianeta può essere distrutto dagli interessi a breve termine dal profitto e dalla convenienza di una sola generazione.
La lezione principale che emerge dal libro molto leggibile di Mann è che le persone oggi non hanno una migliore comprensione delle conseguenze delle proprie azioni rispetto alle persone superstiziose e non a-scientifiche di secoli fa. L'uomo moderno tecnologico è altrettanto facilmente ingannato dalla propaganda, come l'uomo antico lo era dalla superstizione e dall'ignoranza.
Se avete dei dubbi che i popoli della civiltà occidentale vive in una realtà artificiale creata dalla propaganda, guardate il documentario su PSYOPS
GUERRA PSICOLOGICA: IL CAMPO DI BATTAGLIA REALE E' LA TUA MAENTE
La "guerra psicologica", documentario
CMD con il fondatore John Stauber,
by Metanoia Films - Il film esplora l'evoluzione dei rapporti pubblici e la propaganda negli Stati Uniti, con l'accento sulla "teoria elitista della democrazia" e il rapporto tra guerra, propaganda e di classe. Include interviste originali con un certo numero di studiosi dissidenti tra cui Noam Chomsky, Howard Zinn, Michael Parenti, Peter Phillips ("Project Censored"), John Stauber ("PR Watch"), Christopher Simpson ("The Science of coercizione") e altri. Il film esplora l'uso delle corporazioni aziendali e delle relazioni pubbliche e di propaganda
del governo nella
manipolazione del popolo americano. Il film esplora come il governo degli Stati Uniti inscena eventi di manipolazione dell'opinione pubblica sulla guerra in Iraq, oppure come il salvataggio del soldato Jessica Lynch, la folla apparentemente spontanea che ha tirato contro la statua di Saddam Hussein in Iraq. Si discute anche dello scandalo del Pentagono, e le attività nascoste della Rendon Group, una società di PR specializzata nella filiera della guerra. Il film espone le attività statali e aziendali per sfocare i confini tra notizie vere e notizie false, così come lo sviluppo nel tempo di campagne di disinformazione nelle pubbliche relazioni, campagne strategiche aziendali per generare la percezione delle buone opere, l'uso della fotografia di scena, e altri strumenti di manipolazione di PR che hanno trasformato la terra dei liberi e la patria dei coraggiosi in un luogo dove i cittadini sono ora manipolati con grande efficienza, e su vasta scala.
Il documentario fa un buon lavoro, nonostante il vagare in un paio di questioni collaterali nella quale prende posizioni unilaterali. E 'un po' pesante denunciare i ricchi, e si affaccia a Stalin, per esempio, faceva un sacco di propaganda ma non ha cercato di farsi miliardario. Non tutti i ricchi sono contro il popolo. Miliardari come Roger Milliken e Sir James Goldsmith hanno combattuto contro l'esternalizzazione dei posti di lavoro e il globalismo, che aumenta l'impotenza della gente nei confronti delle élite. Entrambi parlavano a favore delle persone ma senza alcun risultato.
Il documentario accusa anche la Costituzione che limita la partecipazione della massa popolare a governare, senza riconoscere che la Costituzione limita il potere del governo e delle libertà civili garantite dalla legge facendo da scudo per il popolo invece di un'arma nelle mani del governo. Non è colpa della Costituzione, o la colpa del Padre Fondatore James Madison, che il popolo americano ceduto alla propaganda di Bush e Obama e ha dato loro la libertà civile, al fine di essere "sicuri" dai "terroristi musulmani".
Il documentario mostra che la propaganda è una forma di controllo mentale, e le menti controllate sono oggi la difficile situazione Americana.
Nel 1962 Rachel Carson Monsanto ci ha colto alla sprovvista e così ha guadagnato un pubblico. Oggi lei non avrebbe avuto la stessa attenzione. discreditare. Ho appena letto un articolo di un economista che ha scritto che gli economisti hanno deciso che l'ambientalismo è una religione, in altre parole, un sistema di credenze non scientifica che predica " valori religiosi." Questo dimostra che gli economisti attribuiscono poca importanza ai costi esterni e alla capacità esteriorizzata dai costi distruttivi nella capacità produttiva del pianeta.
Così, la "Primavera silenziosa è per noi?" La questione non è solo retorica. E 'verità.
Ultimo libro Dr. Roberts 'è economie al collasso: il fallimento del globalismo, vengono pubblicati in Europa, a giugno, 2012.
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domenica 24 giugno 2012
Biodiversità e l'ambiente: Silenziosa primavera (Silent Spring) noi?
giovedì 21 giugno 2012
SARDINYA Quirra: «Ora giustizia e verità»
Le aspettative delle popolazioni locali dopo l'inchiesta della magistratura Quirra: «Ora giustizia e verità» Vogliono il lavoro ma non lo barattano con la salute
Stefano Lenza
www.unionesarda.it
VILLAPUTZU ...L'industria di Capo San Lorenzeo (150 dipendenti) è specializzata in produzioni legate alle attività militari. «Che hanno subito un rallentamento, compensato però da altre commesse in Italia e all'estero. L'azienda sta facendo la sua parte. Investe e ha assunto 12 giovani. Un caso forse unico in Sardegna. È pronta a impegnarsi nella riconversione tecnologica».
Chi ha visto parenti o amici morire di cancro pretende, ovviamente, che eventuali responsabilità vengano accertate e punite. Voglia di giustizia ma soprattutto di verità.
«Prima negavano in blocco, ora si è scoperto che il problema riguarda una zona limitata», dice Franco Anedda, presidente di un consorzio cui aderiscono commercianti, artigiani e operatori turistici.
«L'inchiesta è servita e la cosiddetta cattiva pubblicità ha inciso pochissimo sul calo degli affari. I turisti sono diminuiti qui come ovunque per via della crisi e del caro-traghetti. Noi, inoltre, scontiamo la mancanza di servizi: la gente arriva e se ne va perché non trova niente»
Don Gianni Cuboni, cappellano dell'ospedale di Muravera e parroco di San Priamo è uomo di fede, votato al perdono ma non all'indifferenza. Semmai alla diffidenza. «Risposte vere non ne sono arrivate anche se tante persone le hanno cercate con passione», dice a proposito delle indagini sul rapporto tra tumori e attività militari. «Noi che qui siamo nati, abbiamo il diritto - rivendica - di sapere come lo Stato ha usato il nostro territorio e fino a che punto è stato onesto nel riferire quel che si faceva nel Poligono».
Il neo sindaco dispensa qualche certezza in più. «La realtà ambientale è stata certificata dalla relazione degli esperti presentata il 15 giugno 2011», sostiene Fernando Codonesu. Alle comunali ha sconfitto il suo predecessore, il consigliere provinciale Gianfranco Piu, che di sindrome di Quirra non voleva neppure sentir parlare, tanto meno leggere, e annunciava al mondo richieste di danni contro chiunque osasse ricorrere a quelle tre parole.
Codonesu non ha dubbi sul quadro delineato dagli esperti, lui compreso come fisico e ingegnere. «In alcune aree - riferisce - sono stati riscontrati inquinamenti significativi e direttamente collegati alle esercitazioni e agli esperimenti nel Poligono. In altre sono stati individuati metalli pesanti nei vari strati del terreno, rimessi in circolo per effetto della cosiddetta risospensione». Ovvero, le nano particelle provocate dalle esplosioni e poi sparse dal vento e dalle piogge. «Complessivamente, tutto ciò interessa tra gli 800 e i mille dei 13 mila ettari del Poligono. Nel resto - ritiene il sindaco - si può continuare a fare quel che si è sempre fatto nelle nostre tradizioni produttive e identitarie, come l'agricoltura e la pastorizia».
Parole che valgono oro per Francesca Locci e vorrebbe vederle nero su bianco con tanto di timbro delle autorità sanitarie. Lei e il marito hanno un allevamento di capre. «Circa 230 capi - racconta - ma ormai inutili. Non possiamo vendere il latte e neppure la carne». Non ce l'ha con il procuratore Fiordalisi e con le sue ordinanze di sgombero. «Lui non c'entra nulla. Ha fatto il suo lavoro. La politica invece no». Rischia di essere travolta da silenzi devastanti. «Un anno fa hanno analizzato latte, fieno, acqua e pascoli. I risultati? Ancora li aspettiamo». Nel frattempo sono stati lasciati soli. «Ci avevano promesso indennizzi ma non ci hanno dato neppure un centesimo. La Regione è totalmente assente sia a livello economico che politico. Il settore è in ginocchio e nessuno se ne occupa. Non vogliamo elemosine ma certezze, cioè una certificazione sanitaria che rassicuri gli acquirenti».
Il sindaco Codonesu ha fatto della chiarezza e della legalità i cardini della sua campagna elettorale e ora intende mantenere le promesse. «È finito il tempo delle lamentele inutili. Siamo consapevoli del ruolo pubblico e intendiamo assicurare ai cittadini il rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione.
Dei 13 mila ettari del Poligono, il 58 per cento (7.500) appartiene a Villaputzu che ha servitù militari sul 41 per cento del territorio comunale. «Numeri - annuncia il primo cittadino - da ridiscutere, ridefinire e che richiedono un riequilibrio in termini politici, economici e sociali». Non è che voglia cacciare i militari. Tutt'altro. «Siamo per una convivenza che non impatti sulla salute pubblica e sull'ambiente. Ci presenteremo a schiena dritta con proposte condivise e conosciute da tutte la comunità». Una novità chiamata trasparenza. Non è più tempo di patti segreti a porte chiuse.
Stefano Lenza
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Chi ha visto parenti o amici morire di cancro pretende, ovviamente, che eventuali responsabilità vengano accertate e punite. Voglia di giustizia ma soprattutto di verità.
«Prima negavano in blocco, ora si è scoperto che il problema riguarda una zona limitata», dice Franco Anedda, presidente di un consorzio cui aderiscono commercianti, artigiani e operatori turistici.
«L'inchiesta è servita e la cosiddetta cattiva pubblicità ha inciso pochissimo sul calo degli affari. I turisti sono diminuiti qui come ovunque per via della crisi e del caro-traghetti. Noi, inoltre, scontiamo la mancanza di servizi: la gente arriva e se ne va perché non trova niente»
Don Gianni Cuboni, cappellano dell'ospedale di Muravera e parroco di San Priamo è uomo di fede, votato al perdono ma non all'indifferenza. Semmai alla diffidenza. «Risposte vere non ne sono arrivate anche se tante persone le hanno cercate con passione», dice a proposito delle indagini sul rapporto tra tumori e attività militari. «Noi che qui siamo nati, abbiamo il diritto - rivendica - di sapere come lo Stato ha usato il nostro territorio e fino a che punto è stato onesto nel riferire quel che si faceva nel Poligono».
Il neo sindaco dispensa qualche certezza in più. «La realtà ambientale è stata certificata dalla relazione degli esperti presentata il 15 giugno 2011», sostiene Fernando Codonesu. Alle comunali ha sconfitto il suo predecessore, il consigliere provinciale Gianfranco Piu, che di sindrome di Quirra non voleva neppure sentir parlare, tanto meno leggere, e annunciava al mondo richieste di danni contro chiunque osasse ricorrere a quelle tre parole.
Codonesu non ha dubbi sul quadro delineato dagli esperti, lui compreso come fisico e ingegnere. «In alcune aree - riferisce - sono stati riscontrati inquinamenti significativi e direttamente collegati alle esercitazioni e agli esperimenti nel Poligono. In altre sono stati individuati metalli pesanti nei vari strati del terreno, rimessi in circolo per effetto della cosiddetta risospensione». Ovvero, le nano particelle provocate dalle esplosioni e poi sparse dal vento e dalle piogge. «Complessivamente, tutto ciò interessa tra gli 800 e i mille dei 13 mila ettari del Poligono. Nel resto - ritiene il sindaco - si può continuare a fare quel che si è sempre fatto nelle nostre tradizioni produttive e identitarie, come l'agricoltura e la pastorizia».
Parole che valgono oro per Francesca Locci e vorrebbe vederle nero su bianco con tanto di timbro delle autorità sanitarie. Lei e il marito hanno un allevamento di capre. «Circa 230 capi - racconta - ma ormai inutili. Non possiamo vendere il latte e neppure la carne». Non ce l'ha con il procuratore Fiordalisi e con le sue ordinanze di sgombero. «Lui non c'entra nulla. Ha fatto il suo lavoro. La politica invece no». Rischia di essere travolta da silenzi devastanti. «Un anno fa hanno analizzato latte, fieno, acqua e pascoli. I risultati? Ancora li aspettiamo». Nel frattempo sono stati lasciati soli. «Ci avevano promesso indennizzi ma non ci hanno dato neppure un centesimo. La Regione è totalmente assente sia a livello economico che politico. Il settore è in ginocchio e nessuno se ne occupa. Non vogliamo elemosine ma certezze, cioè una certificazione sanitaria che rassicuri gli acquirenti».
Il sindaco Codonesu ha fatto della chiarezza e della legalità i cardini della sua campagna elettorale e ora intende mantenere le promesse. «È finito il tempo delle lamentele inutili. Siamo consapevoli del ruolo pubblico e intendiamo assicurare ai cittadini il rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione.
Dei 13 mila ettari del Poligono, il 58 per cento (7.500) appartiene a Villaputzu che ha servitù militari sul 41 per cento del territorio comunale. «Numeri - annuncia il primo cittadino - da ridiscutere, ridefinire e che richiedono un riequilibrio in termini politici, economici e sociali». Non è che voglia cacciare i militari. Tutt'altro. «Siamo per una convivenza che non impatti sulla salute pubblica e sull'ambiente. Ci presenteremo a schiena dritta con proposte condivise e conosciute da tutte la comunità». Una novità chiamata trasparenza. Non è più tempo di patti segreti a porte chiuse.
mercoledì 20 giugno 2012
Sardinya, Biddesatu: CRABAXUS E AINAS, Caprari e strumenti di lavoro
Gianni Agus
www.unionesarda.it
VILLASALTO. BIDHESATU.
Libro e sito internet in sardo illustrati nella biblioteca comunale Storie di vita dei caprari I racconti e le curiosità del mondo agropastorale
FATICA E PASSIONE
Un amore sfrenato per un mestiere faticoso. Lo spiega alla platea Simona Axana con le parole di un pastore. «Una vita difficile, fatta di sacrifici, di sudore. Pastasciutta po Totu is Santus, petza non di biestis mai ». Eppure i caprari, dal primo all'ultimo, non hanno mai avuto dubbi. «Rifarebbe questa vita? Sì». Storie di 25 caprari, soprattutto anziani.
Qualcuno ha fatto la vita del servo pastore. «Sa vida furiat lègia pròpiu», è il ricordo di Giuseppe Aledda, 74 anni. «Fiant civraxu de oxu chi fiat a ddu tirai a frunda, tostau, una cosa de no crei». Non meglio d'estate. «Minestra de crocuriga o de pedringianu, e furiat a mi bociri». Ci sono anche caprari donna come Gesuina Floris, 49 anni, che usa le coccole; e i più giovani, quelli che usano le tecnologie moderne. Ma dagli anziani non sono visti di buon occhio. «Immoi alle otto del mattino funti ancora in bidda. E vanno a dormire in ovile con il pigiama», spiega Amos Cardia citando un vecchio capraro.
RICORDI DI GUERRA
Altri tempi quelli della guerra. Descritti nel libro con le sue Domandas e arrexonamentus de i crabaxus e de sa genti . Per ora solo di quelli di Villasalto. «Nel Gerrei è stato il Comune che si è mostrato più sensibile per questo tipo di lavoro», ha detto ancora Cardia. Alla presentazione - in prima fila anche don Stefano che ha anticipato la messa pur di esser presente - il sindaco Leonardo Usai, l'antropologo Carlo Maxia e alcuni esperti del settore caprino come l'imprenditrice della lana sarda Daniela Ducato e la food designer e allevatrice Monica Saba. Il Comune regalerà una copia del libro a ogni famiglia del paese.
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VILLASALTO. BIDHESATU.
Il bellissimo"pitiolu" de craba (campanaccio) di copertina è stato concesso alle stampe dal sig. Francesco Congiu
Libro e sito internet in sardo illustrati nella biblioteca comunale Storie di vita dei caprari I racconti e le curiosità del mondo agropastorale
Pitiolus, ainas dd'e's crabas, de Franciscu Congiu "Doxi"
C'era chi restava anche due giorni senza mangiare, chi si doveva accontentare de su Civraxiu d'orzo «tostau, una cosa de no crei», chi si ritrovava a ospitare gli sfollati cagliaritani durante la seconda guerra mondiale. Caprari di Villasalto che si raccontano, che svelano i segreti e le curiosità del mondo agropastorale del Gerrei in Crabaxus e Ainas de Biddesatu , il libro e il sito internet in lingua sarda (crabaxus.biddesatu.net) curato da Amos Cardia e Simona Axana e presentato sabato pomeriggio in una biblioteca comunale ricostruita a mo' di ovile di fronte a oltre trecento persone. «Sono stata più di un anno in giro per gli ovili e ho capito quanto i caprari amino le capre ed il loro lavoro», ha spiegato la giovane ricercatrice di Villasalto. FATICA E PASSIONE
Un amore sfrenato per un mestiere faticoso. Lo spiega alla platea Simona Axana con le parole di un pastore. «Una vita difficile, fatta di sacrifici, di sudore. Pastasciutta po Totu is Santus, petza non di biestis mai ». Eppure i caprari, dal primo all'ultimo, non hanno mai avuto dubbi. «Rifarebbe questa vita? Sì». Storie di 25 caprari, soprattutto anziani.
Franciscu Congiu "Doxi" crabaxu
«A sette anni il mio maestro mi tirò la bacchetta e mi fece un buco in testa», è la testimonianza di Francesco Congiu, 77 anni. «Poi mi curò e disinfettò, ma a scuola non ritornai più». Meglio pascolare le capre. Poi i ricordi della guerra. «Da Cagliari arrivavano gli sfollati, ci aiutavano e in cambio gli davamo un pezzo di pane. In su '45 beniant a bidda po si sravai ».
Qualcuno ha fatto la vita del servo pastore. «Sa vida furiat lègia pròpiu», è il ricordo di Giuseppe Aledda, 74 anni. «Fiant civraxu de oxu chi fiat a ddu tirai a frunda, tostau, una cosa de no crei». Non meglio d'estate. «Minestra de crocuriga o de pedringianu, e furiat a mi bociri». Ci sono anche caprari donna come Gesuina Floris, 49 anni, che usa le coccole; e i più giovani, quelli che usano le tecnologie moderne. Ma dagli anziani non sono visti di buon occhio. «Immoi alle otto del mattino funti ancora in bidda. E vanno a dormire in ovile con il pigiama», spiega Amos Cardia citando un vecchio capraro.
RICORDI DI GUERRA
Altri tempi quelli della guerra. Descritti nel libro con le sue Domandas e arrexonamentus de i crabaxus e de sa genti . Per ora solo di quelli di Villasalto. «Nel Gerrei è stato il Comune che si è mostrato più sensibile per questo tipo di lavoro», ha detto ancora Cardia. Alla presentazione - in prima fila anche don Stefano che ha anticipato la messa pur di esser presente - il sindaco Leonardo Usai, l'antropologo Carlo Maxia e alcuni esperti del settore caprino come l'imprenditrice della lana sarda Daniela Ducato e la food designer e allevatrice Monica Saba. Il Comune regalerà una copia del libro a ogni famiglia del paese.
lunedì 18 giugno 2012
Euskadi: Lander Askatu, Lander Libero!
Lander Askatu, Lander Libero!
APPELLO PER LA LIBERAZIONE DI LANDER FERNANDEZ
Dopo la vittoria ottenuta il 15 giugno 2012 con la scarcerazione di Lander Fernandez Arrinda, la campagna per la definitiva liberazione del giovane attivista basco non si ferma.
Il trasferimento dal carcere di Regina Coeli agli arresti domiciliari rimane comunque un insensato atto di interdizione delle libertà fondamentali di Lander, reo di aver vissuto alla luce del sole nell’ultimo anno e mezzo in cui si è stabilito a Roma - rendendo ridicole le diffamanti illazioni scaricate sulle sue spalle dalle autorità giudiziarie spagnole.
La battaglia per la liberazione di Lander, quindi, assume una valenza che esula dalla sua situazione personale. Chiedere la liberazione di Lander equivale a smontare il teorema di giustizia emergenziale cui ricorre il governo di Madrid, un modello di condotta politico e giurisprudenziale che rende norma lo stato d’eccezione vigente, regolamentando abusi di potere, culto del sospetto e della delazione forzata, oltre a ricorrere abitualmente alla tortura come strumento coatto di informazione politica.
Facciamo appello alle realtà sociali e democratiche, italiane ed internazionali; le stesse che hanno già fatto molto per la scarcerazione di Lander. Ci appelliamo a questo senso civico per destituire un’assurda pratica che viola, da anni ormai, le libertà degli attivisti baschi nella penisola iberica.
domenica 17 giugno 2012
Prof Paolo Savona: «L'euro? Una rovina per l'Italia: bisogna tornare alla vecchia lira»
di GIORGIO PISANO
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Fuggire dall'euro. Quella del professor Paolo Savona è certamente una proposta-choc ma ben argomentata, seria, rigorosa, sofferta. Dice che è l'unica via di salvezza per l'Italia e gli italiani, compreso l'infernale futuro che nella primissima fase ci aspetterebbe. Sbaglia clamorosamente oppure ha ragione?
Gli ha risposto un boato di silenzio. A cominciare dal premier Mario Monti (che conosce molto bene) per proseguire con gli editorialisti più quotati e concludere con i leader di partito. Silenzio assoluto. E se fosse imbarazzo?
Aggiustandosi il pince-nez di tartaruga sul naso, Savona allarga le braccia e propone un sorriso vagamente afflitto. Detesta il melodramma, le parole forti, il vocabolario da mercato televisivo. «Perché non rispondono? Non so». Pur essendo uno dei più autorevoli economisti italiani, un made in Italy di garanzia in Europa e nel mondo, avverte da tempo un'arietta fetida. Parlare di ghettizzazione è probabilmente eccessivo ma di sicuro l'establishment lo snobba. Come mai? «Me lo sono chiesto tante volte. La sola risposta che riesco a darmi è che do fastidio per la mia insistenza a non tollerare che le cose vadano male. Mi giudicano, credo, incapace di adattarmi al sistema». Poco elastico. Insomma uno di quelli che in piena cerimonia di regime grida che il re è nudo.
Cagliaritano, 76 anni, due figli, Paolo Savona abita a Roma da mezzo secolo. Si definisce un emigrante di successo e confessa di aver mantenuto intatta la sua sarditudine. Fino a farla diventare protagonista nell'arredo delle sue due case, nella collezione di artisti sardi che mostra con soddisfazione insieme al debole - felice e conclamato - per le pietre sonore di Pinuccio Sciola.
La sua carriera divora intere pagine di giornale: ha esordito in Bankitalia e da lì ha spiccato il volo. Docente universitario di Politica economica, co-fondatore della Luiss, ministro negli anni '90, presidente della Banca di Roma, di Impregilo, degli Aeroporti di Roma, vice dell'Aspen Institute e molto altro ancora. Studi e specializzazioni alla Federal Reserve di Washington. Su suggerimento di Francesco Cossiga, uno dei suoi due punti di riferimento (l'altro è Ugo La Malfa), ha riscritto il Piano di Rinascita della Sardegna, collaborato con giunte di centrodestra e centrosinistra. Racconta tuttavia che il suo incontro con la politica è stato «salvo eccezioni, deludente: molta impreparazione e troppa voglia di pensare solo a se stessi».
Rifiuta l'etichetta di conservatore, giura d'avere «nel sangue» grande capacità reattiva e preferisce dirsi progressista anche se «questa definizione non coincide con la destra o la sinistra di oggi». È per questo che quando scrive sui giornali, lo ha fatto l'anno scorso sul Foglio annunciando la disfatta d'Italia, preferisce qualificarsi economista indipendente .
Abbiamo uno spaventoso debito pubblico: di chi è la colpa?«Ora è facile dare la colpa ai gruppi politici. L'indebitamento pubblico è stata una corrente di pensiero che ha investito l'Italia degli anni '70 e che ha trovato negli economisti il viatico per farlo».
I colpevoli, quindi, sono molti.«Ricordo un dibattito con tutti i numeri uno dell'economia italiana, Mario Monti compreso. L'unica controvoce sull'indebitamento è stata la mia. Avevo imparato sui libri che l'indebitamento non è altro che una tassa differita. Prima o poi si paga. Non lo dico io ma Ricardo, Inghilterra del diciottesimo secolo».
Gli economisti non lo sapevano?«Gli economisti hanno una grave responsabilità. Avevano deciso che il debito pubblico, in piena crisi petrolifera, era assolutamente sostenibile. Abbiamo visto i risultati».
Diciassette anni di governo Berlusconi hanno portato l'Italia allo sfascio?«Non do un giudizio così duro. La colpa di Berlusconi è che, investito di una carica fondamentale per lo sviluppo e il prestigio del Paese, ha avuto un atteggiamento troppo superficiale nei rapporti internazionali. C'è una frase di Giolitti, anno 1898, che sembra descrivere l'Italia di oggi: a riprova che la crisi parte da lontano».
Gli rimprovera la mancanza di requisiti per fare lo statista?«Non intendo dire questo. Il peccato originale di Berlusconi è politico: una coalizione con Fini da una parte e Bossi dall'altra non poteva funzionare. Il programma era giusto, l'elettorato gli ha dato fiducia ma lui non poteva in alcun modo realizzarlo».
Dicono che quello di Mario Monti sia un team di rianimazione. Giusto?«Magari fosse. Per la prima volta nella mia vita coltivo la speranza di avere torto, di sbagliarmi. Ma se io ho torto e Monti ragione, le cose nel Paese andrebbero diversamente. Il governo dei tecnici, e lo sono stato anch'io nella veste di ministro con Carlo Azeglio Ciampi, non funziona».
Perché?«Se funzionasse, vorrebbe dire che la gente ha perso fiducia nella democrazia elettiva. E sarebbe gravissimo. Se funzionasse, acquisirebbe in via definitiva fiducia nella tecnocrazia. E sarebbe terribile: è il popolo che deve decidere chi deve governarlo».
Stiamo a Monti: dove ha sbagliato?«C'è un problema che viene prima di lui: l'Europa che non funziona. E noi ci siamo legati, mani e piedi. In assenza di un'unione politica, quella monetaria non può andare avanti. Ci era rimasto un minimo di sovranità fiscale ma ci hanno levato anche quello».
Che significa?«L'Europa è un'unione monetaria ma non politica. Tanto è vero che gli inglesi si sono sfilati e conservano la loro sterlina».
D'accordo, ma l'errore di Monti?«Ha scelto la via della tassazione. Bisognava invece avviare la cessione del patrimonio pubblico, rotta che ha imboccato tardivamente e parzialmente solo ora. Speriamo che serva a contrastare la speculazione e a dare fiato a consumi e investimenti. È un bel pasticcio».
Di positivo, nulla?«Ha restituito l'immagine internazionale che Berlusconi aveva appannato».
L'Imu, come sostiene qualcuno, si poteva evitare?«Certo. Il gettito sulla prima casa è di cinque miliardi di euro, cifra che poteva essere recuperata cedendo patrimonio pubblico. Manterrei l'Imu su seconde e terze case ma sulla prima non ce n'era affatto bisogno».
Il 90 per cento della manovra-Monti colpisce pensionati e lavoratori dipendenti.«I pensionati non li ha colpiti, li colpirà. Questo per dire che la riforma era necessaria ma c'era tutto il tempo per studiarla più seriamente di come hanno fatto».
E il resto?«La scelta di tassare anziché cedere porzioni di patrimonio pubblico non è un disegno premeditato per colpire i poveri e favorire i ricchi. È semplicemente un modo sbagliato di gestire l'economia del Paese».
Intanto pagano i più poveri.«Come insegnava Guido Carli, non esiste tassazione che non colpisca anche i più piccoli. Ma, visto com'è stata congegnata, è evidente che la manovra venga percepita come socialmente ingiusta».
Ha detto che l'euro è un cappio al collo dell'Italia: perché?«Quando abbiamo creato l'euro, noi economisti sapevamo che avrebbe avuto conseguenze nei Paesi più deboli. È un sistema che funziona arricchendo sempre più chi va bene e impoverendo sempre più chi va male».
Allora?«Se l'euro fosse stato preceduto dall'unione politica, avremmo avuto un governo sovrannazionale che avrebbe dovuto occuparsi di tutti, compresi i più deboli. La sola unità monetaria non garantisce questa protezione, che è poi l'essenza della democrazia. Le cosiddette politiche compensative si sono rivelate insufficienti a sanare le disparità».
Le intenzioni erano diverse.«Lo so. Difatti il loro slogan era Money first , prima la moneta. Erano convinti che poi tutto si sarebbe aggiustato e l'unione politica sarebbe diventata l'ovvia conseguenza. Peccato che non sia andata così».
E ora?«Si tratta di decidere che fare. Avrebbero dovuto, come ho suggerito a Carli, stare fuori dall'euro e nel frattempo investire in cultura, cioè preparare gli italiani al grande salto verso la moneta unica. C'è chi dice che aspettando aspettando avremmo finito per non entrarci mai nell'euro. Beh, pazienza: significa che non era fatto per noi».
Oggi siamo vittime di decisioni che vengono prese sull'asse Berlino-Parigi.«Purtroppo sì. Abbiamo prestato il fianco aumentando il debito pubblico e rendendoci quindi vulnerabili. Il nostro è un sistema di piccole industrie, abbiamo necessità della flessibilità del cambio quando le cose vanno male».
Invece?«Pian piano la situazione è degenerata. Non solo: senza una vera politica di compensazione, non siamo in grado di attivare misure corrette per riprendere la rotta».
Tornerebbe alla lira, vero?«Primo: io non sarei entrato nell'euro. Secondo, sarei tornato alla lira l'anno scorso sulla scia del fallimento della Lehman brothers . La gente non ha capito la portata del disastro finanziario internazionale. Ci siamo comportati come se la faccenda non ci riguardasse».
E se fossimo usciti dall'euro?«Ma non eravamo affatto pronti per quello che io chiamo il piano B. Essere pronti significa innanzitutto che devi avere idee molto chiare, sapere ad esempio come riconvertire il debito pubblico, come trasformare le passività finanziarie del sistema e avere infine le alleanze internazionali giuste».
Sono stati compiuti errori strategici.«Certo. Che stiamo pagando ora. Mi rendo conto che sto salendo in cattedra, e non ne ho gran voglia. Vorrei fosse chiaro però che queste sono le cose che io penso, non necessariamente la verità».
Ci sono vantaggi immediati nel ritorno alla lira?«In questo momento, no. Ho fatto calcoli grossolani: ritengo che nella fase iniziale ci sarebbe un'inflazione del 30 per cento legata alla svalutazione euro-dollaro, crollerebbero le rendite dei titoli e si deprezzerebbe il resto. Oggi come oggi tornare alla lira sarebbe una soluzione disperata e molto rischiosa».
Sbagliato definire il sistema bancario un'associazione a delinquere legalizzata?«Fortemente sbagliato. Se stiamo al gioco delle accuse reciproche non salviamo nessuno. La responsabilità delle banche è una parte della responsabilità collettiva: che è della politica e di chi l'ha scelta (cioè degli elettori), degli economisti e delle imprese. Troppo facile sparare sulle banche dimenticando che finora sono riuscite a stare in piedi da sole, senza l'aiuto del governo».
Però si guardano bene dal sostenere gli investimenti.«Il capitale oggi rende due punti e mezzo, cioè meno di quanto non diano i titoli pubblici. Il governo chiede alle banche di assumersi più rischi ma le banche non possono farlo, sarebbe folle».
L'antipolitica è la conseguenza del crollo di fiducia nei partiti?«Dire antipolitica fa pensare che la politica, quella vera, non sia più amata da nessuno. Sbagliato. L'antipolitica è soltanto una reazione alla cattiva politica, un preciso messaggio che bisogna raccogliere».
Quale messaggio?«A differenza di altri Paesi, noi italiani abbiamo la curiosa abitudine che dopo ogni crisi le facce dei politici restano quelle di sempre, immutabili. Altrove succede esattamente il contrario: i partiti restano, i politici che hanno sbagliato se ne vanno».
Crescita. Arriverà?«Io batterei il pugno sul tavolo dell'Europa per liberarmi dalle strette fiscali imposte a Bruxelles. Lo scopo? Creare centomila posti di lavoro per i giovani. È l'unica strada, insieme alla cessione del patrimonio pubblico, che può farci arrivare, sia pure faticosamente, alla salvezza».
pisano@unionesarda.it
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Fuggire dall'euro. Quella del professor Paolo Savona è certamente una proposta-choc ma ben argomentata, seria, rigorosa, sofferta. Dice che è l'unica via di salvezza per l'Italia e gli italiani, compreso l'infernale futuro che nella primissima fase ci aspetterebbe. Sbaglia clamorosamente oppure ha ragione?
Gli ha risposto un boato di silenzio. A cominciare dal premier Mario Monti (che conosce molto bene) per proseguire con gli editorialisti più quotati e concludere con i leader di partito. Silenzio assoluto. E se fosse imbarazzo?
Aggiustandosi il pince-nez di tartaruga sul naso, Savona allarga le braccia e propone un sorriso vagamente afflitto. Detesta il melodramma, le parole forti, il vocabolario da mercato televisivo. «Perché non rispondono? Non so». Pur essendo uno dei più autorevoli economisti italiani, un made in Italy di garanzia in Europa e nel mondo, avverte da tempo un'arietta fetida. Parlare di ghettizzazione è probabilmente eccessivo ma di sicuro l'establishment lo snobba. Come mai? «Me lo sono chiesto tante volte. La sola risposta che riesco a darmi è che do fastidio per la mia insistenza a non tollerare che le cose vadano male. Mi giudicano, credo, incapace di adattarmi al sistema». Poco elastico. Insomma uno di quelli che in piena cerimonia di regime grida che il re è nudo.
Cagliaritano, 76 anni, due figli, Paolo Savona abita a Roma da mezzo secolo. Si definisce un emigrante di successo e confessa di aver mantenuto intatta la sua sarditudine. Fino a farla diventare protagonista nell'arredo delle sue due case, nella collezione di artisti sardi che mostra con soddisfazione insieme al debole - felice e conclamato - per le pietre sonore di Pinuccio Sciola.
La sua carriera divora intere pagine di giornale: ha esordito in Bankitalia e da lì ha spiccato il volo. Docente universitario di Politica economica, co-fondatore della Luiss, ministro negli anni '90, presidente della Banca di Roma, di Impregilo, degli Aeroporti di Roma, vice dell'Aspen Institute e molto altro ancora. Studi e specializzazioni alla Federal Reserve di Washington. Su suggerimento di Francesco Cossiga, uno dei suoi due punti di riferimento (l'altro è Ugo La Malfa), ha riscritto il Piano di Rinascita della Sardegna, collaborato con giunte di centrodestra e centrosinistra. Racconta tuttavia che il suo incontro con la politica è stato «salvo eccezioni, deludente: molta impreparazione e troppa voglia di pensare solo a se stessi».
Rifiuta l'etichetta di conservatore, giura d'avere «nel sangue» grande capacità reattiva e preferisce dirsi progressista anche se «questa definizione non coincide con la destra o la sinistra di oggi». È per questo che quando scrive sui giornali, lo ha fatto l'anno scorso sul Foglio annunciando la disfatta d'Italia, preferisce qualificarsi economista indipendente .
Abbiamo uno spaventoso debito pubblico: di chi è la colpa?«Ora è facile dare la colpa ai gruppi politici. L'indebitamento pubblico è stata una corrente di pensiero che ha investito l'Italia degli anni '70 e che ha trovato negli economisti il viatico per farlo».
I colpevoli, quindi, sono molti.«Ricordo un dibattito con tutti i numeri uno dell'economia italiana, Mario Monti compreso. L'unica controvoce sull'indebitamento è stata la mia. Avevo imparato sui libri che l'indebitamento non è altro che una tassa differita. Prima o poi si paga. Non lo dico io ma Ricardo, Inghilterra del diciottesimo secolo».
Gli economisti non lo sapevano?«Gli economisti hanno una grave responsabilità. Avevano deciso che il debito pubblico, in piena crisi petrolifera, era assolutamente sostenibile. Abbiamo visto i risultati».
Diciassette anni di governo Berlusconi hanno portato l'Italia allo sfascio?«Non do un giudizio così duro. La colpa di Berlusconi è che, investito di una carica fondamentale per lo sviluppo e il prestigio del Paese, ha avuto un atteggiamento troppo superficiale nei rapporti internazionali. C'è una frase di Giolitti, anno 1898, che sembra descrivere l'Italia di oggi: a riprova che la crisi parte da lontano».
Gli rimprovera la mancanza di requisiti per fare lo statista?«Non intendo dire questo. Il peccato originale di Berlusconi è politico: una coalizione con Fini da una parte e Bossi dall'altra non poteva funzionare. Il programma era giusto, l'elettorato gli ha dato fiducia ma lui non poteva in alcun modo realizzarlo».
Dicono che quello di Mario Monti sia un team di rianimazione. Giusto?«Magari fosse. Per la prima volta nella mia vita coltivo la speranza di avere torto, di sbagliarmi. Ma se io ho torto e Monti ragione, le cose nel Paese andrebbero diversamente. Il governo dei tecnici, e lo sono stato anch'io nella veste di ministro con Carlo Azeglio Ciampi, non funziona».
Perché?«Se funzionasse, vorrebbe dire che la gente ha perso fiducia nella democrazia elettiva. E sarebbe gravissimo. Se funzionasse, acquisirebbe in via definitiva fiducia nella tecnocrazia. E sarebbe terribile: è il popolo che deve decidere chi deve governarlo».
Stiamo a Monti: dove ha sbagliato?«C'è un problema che viene prima di lui: l'Europa che non funziona. E noi ci siamo legati, mani e piedi. In assenza di un'unione politica, quella monetaria non può andare avanti. Ci era rimasto un minimo di sovranità fiscale ma ci hanno levato anche quello».
Che significa?«L'Europa è un'unione monetaria ma non politica. Tanto è vero che gli inglesi si sono sfilati e conservano la loro sterlina».
D'accordo, ma l'errore di Monti?«Ha scelto la via della tassazione. Bisognava invece avviare la cessione del patrimonio pubblico, rotta che ha imboccato tardivamente e parzialmente solo ora. Speriamo che serva a contrastare la speculazione e a dare fiato a consumi e investimenti. È un bel pasticcio».
Di positivo, nulla?«Ha restituito l'immagine internazionale che Berlusconi aveva appannato».
L'Imu, come sostiene qualcuno, si poteva evitare?«Certo. Il gettito sulla prima casa è di cinque miliardi di euro, cifra che poteva essere recuperata cedendo patrimonio pubblico. Manterrei l'Imu su seconde e terze case ma sulla prima non ce n'era affatto bisogno».
Il 90 per cento della manovra-Monti colpisce pensionati e lavoratori dipendenti.«I pensionati non li ha colpiti, li colpirà. Questo per dire che la riforma era necessaria ma c'era tutto il tempo per studiarla più seriamente di come hanno fatto».
E il resto?«La scelta di tassare anziché cedere porzioni di patrimonio pubblico non è un disegno premeditato per colpire i poveri e favorire i ricchi. È semplicemente un modo sbagliato di gestire l'economia del Paese».
Intanto pagano i più poveri.«Come insegnava Guido Carli, non esiste tassazione che non colpisca anche i più piccoli. Ma, visto com'è stata congegnata, è evidente che la manovra venga percepita come socialmente ingiusta».
Ha detto che l'euro è un cappio al collo dell'Italia: perché?«Quando abbiamo creato l'euro, noi economisti sapevamo che avrebbe avuto conseguenze nei Paesi più deboli. È un sistema che funziona arricchendo sempre più chi va bene e impoverendo sempre più chi va male».
Allora?«Se l'euro fosse stato preceduto dall'unione politica, avremmo avuto un governo sovrannazionale che avrebbe dovuto occuparsi di tutti, compresi i più deboli. La sola unità monetaria non garantisce questa protezione, che è poi l'essenza della democrazia. Le cosiddette politiche compensative si sono rivelate insufficienti a sanare le disparità».
Le intenzioni erano diverse.«Lo so. Difatti il loro slogan era Money first , prima la moneta. Erano convinti che poi tutto si sarebbe aggiustato e l'unione politica sarebbe diventata l'ovvia conseguenza. Peccato che non sia andata così».
E ora?«Si tratta di decidere che fare. Avrebbero dovuto, come ho suggerito a Carli, stare fuori dall'euro e nel frattempo investire in cultura, cioè preparare gli italiani al grande salto verso la moneta unica. C'è chi dice che aspettando aspettando avremmo finito per non entrarci mai nell'euro. Beh, pazienza: significa che non era fatto per noi».
Oggi siamo vittime di decisioni che vengono prese sull'asse Berlino-Parigi.«Purtroppo sì. Abbiamo prestato il fianco aumentando il debito pubblico e rendendoci quindi vulnerabili. Il nostro è un sistema di piccole industrie, abbiamo necessità della flessibilità del cambio quando le cose vanno male».
Invece?«Pian piano la situazione è degenerata. Non solo: senza una vera politica di compensazione, non siamo in grado di attivare misure corrette per riprendere la rotta».
Tornerebbe alla lira, vero?«Primo: io non sarei entrato nell'euro. Secondo, sarei tornato alla lira l'anno scorso sulla scia del fallimento della Lehman brothers . La gente non ha capito la portata del disastro finanziario internazionale. Ci siamo comportati come se la faccenda non ci riguardasse».
E se fossimo usciti dall'euro?«Ma non eravamo affatto pronti per quello che io chiamo il piano B. Essere pronti significa innanzitutto che devi avere idee molto chiare, sapere ad esempio come riconvertire il debito pubblico, come trasformare le passività finanziarie del sistema e avere infine le alleanze internazionali giuste».
Sono stati compiuti errori strategici.«Certo. Che stiamo pagando ora. Mi rendo conto che sto salendo in cattedra, e non ne ho gran voglia. Vorrei fosse chiaro però che queste sono le cose che io penso, non necessariamente la verità».
Ci sono vantaggi immediati nel ritorno alla lira?«In questo momento, no. Ho fatto calcoli grossolani: ritengo che nella fase iniziale ci sarebbe un'inflazione del 30 per cento legata alla svalutazione euro-dollaro, crollerebbero le rendite dei titoli e si deprezzerebbe il resto. Oggi come oggi tornare alla lira sarebbe una soluzione disperata e molto rischiosa».
Sbagliato definire il sistema bancario un'associazione a delinquere legalizzata?«Fortemente sbagliato. Se stiamo al gioco delle accuse reciproche non salviamo nessuno. La responsabilità delle banche è una parte della responsabilità collettiva: che è della politica e di chi l'ha scelta (cioè degli elettori), degli economisti e delle imprese. Troppo facile sparare sulle banche dimenticando che finora sono riuscite a stare in piedi da sole, senza l'aiuto del governo».
Però si guardano bene dal sostenere gli investimenti.«Il capitale oggi rende due punti e mezzo, cioè meno di quanto non diano i titoli pubblici. Il governo chiede alle banche di assumersi più rischi ma le banche non possono farlo, sarebbe folle».
L'antipolitica è la conseguenza del crollo di fiducia nei partiti?«Dire antipolitica fa pensare che la politica, quella vera, non sia più amata da nessuno. Sbagliato. L'antipolitica è soltanto una reazione alla cattiva politica, un preciso messaggio che bisogna raccogliere».
Quale messaggio?«A differenza di altri Paesi, noi italiani abbiamo la curiosa abitudine che dopo ogni crisi le facce dei politici restano quelle di sempre, immutabili. Altrove succede esattamente il contrario: i partiti restano, i politici che hanno sbagliato se ne vanno».
Crescita. Arriverà?«Io batterei il pugno sul tavolo dell'Europa per liberarmi dalle strette fiscali imposte a Bruxelles. Lo scopo? Creare centomila posti di lavoro per i giovani. È l'unica strada, insieme alla cessione del patrimonio pubblico, che può farci arrivare, sia pure faticosamente, alla salvezza».
pisano@unionesarda.it
sabato 16 giugno 2012
SARDINYA: Sovranità, opera in Progres; «Ora atti concreti di autodeterminazione»
Esponenti del movimento in molte giunte: «Ora atti concreti di autodeterminazione»
Sovranità, opera in Progres
Giuseppe Meloni
www.unionesarda.it
Adesso hanno la bicicletta. Gli indipendentisti volevano essere messi alla prova del governo locale: la prima occasione arriva dopo le elezioni amministrative. Specie per quelli di Progres-Progetu Republica, che piazzano alcuni eletti nei Comuni di seconda fascia (nelle grandi città l'appuntamento è ancora rimandato). E ora si candidano a ruoli di responsabilità nelle giunte.
GLI ELETTI
Non sono grandi exploit, più che altro un'avanzata graduale. Progressiva, verrebbe da dire. Però riguarda un partito che fino a sedici mesi fa neppure esisteva. Due consiglieri eletti a Lanusei, nella lista del nuovo sindaco: uno è il leader di Progres, Salvatore Acampora, l'altro è Nadir Congiu. A Terralba c'è una performance personale clamorosa: Stefano Siddi, con 613 preferenze, è il più votato in assoluto tra i consiglieri eletti nei 62 Comuni che non andranno al ballottaggio. Solo ad Alghero qualcuno ha superato quella soglia, neppure sfiorata invece in centri come Oristano e Selargius: e dire che Terralba non arriva a 10mila elettori.
Nel centro dell'Oristanese, Progres dovrebbe avere addirittura due assessorati su quattro: oltre a Siddi toccherà anche ad Alessandro Murtas, che ha ottenuto 174 preferenze. La buona prestazione degli indipendentisti, nella lista del sindaco Pietro Paolo Piras, è completata dai 63 voti di Federico Putzolu.
C'è il marchio Progres a Oniferi, con Maurizio Caddori e Daniela Daga, mentre in liste civiche sparse qua e là ci sono nomi vicini al partito ma non ancora ufficialmente tesserati. E Frantziscu Sanna è il più votato di “Aristanis noa”, che a Oristano ha riunito le varie anime dell'indipendentismo fermandosi però poco oltre il 4 per cento.
LA RIVOLUZIONE
È l'esito della svolta di un gruppo accusato, in passato, di essere troppo snob, non volendosi mescolare con altri partiti. Stavolta invece Progres non ha fatto liste in solitario, con propri candidati sindaci, ma ha disseminato i propri esponenti in progetti “civici” capaci di proporsi per amministrare le comunità locali.
In fondo è stata una presa d'atto di una realtà evidente: almeno per ora, l'indipendentismo di testimonianza da solo non vince. Omar Onnis, presidente del partito, la spiega così: «Noi non facciamo politica per il partito, ma per i sardi. Abbiamo scelto, scientemente, di partecipare come cittadini a progetti condivisi a vantaggio delle nostre città e dei nostri paesi».
Onnis parla di «contaminazione», ed è chiaro che contaminarsi comporta anche qualche problema. Per esempio le critiche per le intese con i partiti «italiani». «È proprio perché non crediamo all'indipendentismo settario», riflette il presidente di Progres: «Per cambiare la Sardegna bisogna partire dalle realtà locali. Vogliamo costruire pratiche di sovranità reale, per dimostrare che l'indipendentismo è in grado di assumersi responsabilità di governo e per creare la nuova classe dirigente che dovrà farsene carico».
LE PROPOSTE
Aver partecipato «da cittadini» alle liste civiche non vuol dire, spiegano dal partito, che non si siano sviluppate linee comuni. «Tutti i candidati - precisa il segretario Acampora - hanno nei programmi gli incentivi per i prodotti a chilometri zero, a partire dalle mense scolastiche, in una filiera corta dell'agroalimentare; e poi l'esaltazione delle risorse storico-culturali dei territori, il turismo sostenibile, il plurilinguismo. Ora gli eletti, come primo atto concreto, proporranno il ritiro delle deleghe a Equitalia per il recupero dei crediti», altro impegno enunciato in campagna elettorale.
Ci sarà comunque un confronto continuo col partito tramite l'Istituzione nazionale sarda, cioè l'assemblea degli eletti di Progres. Che si affianca, nella non semplice articolazione interna, all'assemblea degli attivisti: questi ultimi sono 157 e a loro volta si distinguono dai circa 200 sostenitori perché hanno superato il percorso formativo che dà diritto a pagare i ben 60 euro dell'iscrizione («un modo per evitare che qualcuno compri pacchetti di tessere», spiega Acampora).
Regole bizzarre? Può darsi, ma Progres è un esperimento molto originale, quasi una democrazia diretta interna. Un po' la trasposizione politica dell'opera prima di un romanziere americano, Joshua Ferris, “E poi siamo arrivati alla fine”: scritta tutta alla prima persona plurale, con un “noi narrante” anziché un “io”. Anche Progres punta sul collettivo, in rifiuto del leaderismo: scommessa non facile da vincere, nel terzo millennio, e forse ancora più complicata da gestire dopo i successi elettorali. Ma hanno fortemente voluto la bicicletta, e sanno di dover pedalare assai.
www.unionesarda.it
Adesso hanno la bicicletta. Gli indipendentisti volevano essere messi alla prova del governo locale: la prima occasione arriva dopo le elezioni amministrative. Specie per quelli di Progres-Progetu Republica, che piazzano alcuni eletti nei Comuni di seconda fascia (nelle grandi città l'appuntamento è ancora rimandato). E ora si candidano a ruoli di responsabilità nelle giunte.
GLI ELETTI
Non sono grandi exploit, più che altro un'avanzata graduale. Progressiva, verrebbe da dire. Però riguarda un partito che fino a sedici mesi fa neppure esisteva. Due consiglieri eletti a Lanusei, nella lista del nuovo sindaco: uno è il leader di Progres, Salvatore Acampora, l'altro è Nadir Congiu. A Terralba c'è una performance personale clamorosa: Stefano Siddi, con 613 preferenze, è il più votato in assoluto tra i consiglieri eletti nei 62 Comuni che non andranno al ballottaggio. Solo ad Alghero qualcuno ha superato quella soglia, neppure sfiorata invece in centri come Oristano e Selargius: e dire che Terralba non arriva a 10mila elettori.
Nel centro dell'Oristanese, Progres dovrebbe avere addirittura due assessorati su quattro: oltre a Siddi toccherà anche ad Alessandro Murtas, che ha ottenuto 174 preferenze. La buona prestazione degli indipendentisti, nella lista del sindaco Pietro Paolo Piras, è completata dai 63 voti di Federico Putzolu.
C'è il marchio Progres a Oniferi, con Maurizio Caddori e Daniela Daga, mentre in liste civiche sparse qua e là ci sono nomi vicini al partito ma non ancora ufficialmente tesserati. E Frantziscu Sanna è il più votato di “Aristanis noa”, che a Oristano ha riunito le varie anime dell'indipendentismo fermandosi però poco oltre il 4 per cento.
LA RIVOLUZIONE
È l'esito della svolta di un gruppo accusato, in passato, di essere troppo snob, non volendosi mescolare con altri partiti. Stavolta invece Progres non ha fatto liste in solitario, con propri candidati sindaci, ma ha disseminato i propri esponenti in progetti “civici” capaci di proporsi per amministrare le comunità locali.
In fondo è stata una presa d'atto di una realtà evidente: almeno per ora, l'indipendentismo di testimonianza da solo non vince. Omar Onnis, presidente del partito, la spiega così: «Noi non facciamo politica per il partito, ma per i sardi. Abbiamo scelto, scientemente, di partecipare come cittadini a progetti condivisi a vantaggio delle nostre città e dei nostri paesi».
Onnis parla di «contaminazione», ed è chiaro che contaminarsi comporta anche qualche problema. Per esempio le critiche per le intese con i partiti «italiani». «È proprio perché non crediamo all'indipendentismo settario», riflette il presidente di Progres: «Per cambiare la Sardegna bisogna partire dalle realtà locali. Vogliamo costruire pratiche di sovranità reale, per dimostrare che l'indipendentismo è in grado di assumersi responsabilità di governo e per creare la nuova classe dirigente che dovrà farsene carico».
LE PROPOSTE
Aver partecipato «da cittadini» alle liste civiche non vuol dire, spiegano dal partito, che non si siano sviluppate linee comuni. «Tutti i candidati - precisa il segretario Acampora - hanno nei programmi gli incentivi per i prodotti a chilometri zero, a partire dalle mense scolastiche, in una filiera corta dell'agroalimentare; e poi l'esaltazione delle risorse storico-culturali dei territori, il turismo sostenibile, il plurilinguismo. Ora gli eletti, come primo atto concreto, proporranno il ritiro delle deleghe a Equitalia per il recupero dei crediti», altro impegno enunciato in campagna elettorale.
Ci sarà comunque un confronto continuo col partito tramite l'Istituzione nazionale sarda, cioè l'assemblea degli eletti di Progres. Che si affianca, nella non semplice articolazione interna, all'assemblea degli attivisti: questi ultimi sono 157 e a loro volta si distinguono dai circa 200 sostenitori perché hanno superato il percorso formativo che dà diritto a pagare i ben 60 euro dell'iscrizione («un modo per evitare che qualcuno compri pacchetti di tessere», spiega Acampora).
Regole bizzarre? Può darsi, ma Progres è un esperimento molto originale, quasi una democrazia diretta interna. Un po' la trasposizione politica dell'opera prima di un romanziere americano, Joshua Ferris, “E poi siamo arrivati alla fine”: scritta tutta alla prima persona plurale, con un “noi narrante” anziché un “io”. Anche Progres punta sul collettivo, in rifiuto del leaderismo: scommessa non facile da vincere, nel terzo millennio, e forse ancora più complicata da gestire dopo i successi elettorali. Ma hanno fortemente voluto la bicicletta, e sanno di dover pedalare assai.
mercoledì 13 giugno 2012
Sardinya: Michela Murgia «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»
Celestino Tabasso
www.unionesarda.it
La scrittrice di Cabras racconta per Einaudi uno scorcio di infanzia sullo stagno «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»
Un'estate allo stagno. Tre preadolescenti che vanno, sotto il solleone di Cabras, alla scoperta dell'amicizia e dell'appartenenza a un gruppo, a un quartiere, a una parrocchia. A una comunità.
E intanto si divertono, scherzano e si spaventano come dei Tom Saywer aromatizzati alla bottarga.
Si intitola “L'incontro” (112 pagine, 10 euro) il libro di Michela Murgia che Einaudi manda oggi nelle librerie e che l'autrice presenterà venerdì a Cagliari insieme a Francesco Abate nella biblioteca provinciale di Monte Claro, «perché è giusto andare nelle biblioteche, che oggi vivono un pessimo momento».
Michela Murgia, abbiamo consumato ettari di carta e fontane d'inchiostro per raccontare al mondo che il sardo è un solitario, un individualista, e lei scrive un romanzo su un ragazzino isolano che scopre il fascino del pronome “noi”.«Quella dell'individualismo è una leggenda nera e falsissima: la cultura sarda è coesa e comunitaria. Certo, ci piace molto descriverci come degli orsi delle caverne, ma è l'opposto della realtà. Giusto per fare un esempio: in nessun'altra regione d'Italia esiste un'associazione di librai, categoria di “singoli” per eccellenza. A volte non ce ne rendiamo conto, ma da noi regna il presente plurale».
Che cosa è?«Un verbo specifico che ho inventato per indicare quel fenomeno tipicamente nostro... che so, mi fallisce l'azienda e dico:“Eh, noi sardi non siamo imprenditori”, litigo con qualcuno e commento: “ Siamo sempre i soliti, pocos, locos y malunidos”, Marco Carta vince a Sanremo e andiamo tutti in estasi per il nostro trionfo. Insomma: il disastro del singolo è un fallimento collettivo, e il successo del singolo è il riscatto di un popolo. Dopo che ho vinto il Campiello, per strada i lettori italiani mi dicevano “brava”, i sardi mi dicevano “grazie”».
E dopo aver scoperto il “noi”, i tre amici del racconto arrivano a definire il “loro”: gli altri, gli estranei. È una metafora della misteriosa e vessatissima questione dell'identità sarda? Il sardo che si definisce a contrario, in quanto non romano, non italiano?«Il punto è quello, ma non è in questi termini che lo porrei. È pacifico che il sardo non è romano né italiano. La categoria dell'alterità è chiara, perfettamente comprensibile. Il problema è quando l'altro viene da dentro, non da fuori. Alla fine del libro dichiaro il mio debito verso l'antropologo Benedetto Caltagirone per il suo “Identità sarde”. La sua inchiesta lo porta a girare per il Barigadu - e non a caso sceglie un'area meno definita, meno nitida della Barbagia o del Campidano - alla ricerca del Cab'e Susu, il Settentrione. Nel primo centro gli spiegano che per arrivare al Cab'e Susu deve andare pochi chilometri più a Nord: è lì che comincia quella famosa area. Ma una volta arrivato gli spiegano che il Cab'e Susu comincia un po' più su, deve salire ancora un po'. E va avanti così, all'inseguimento di questo Altrove che è sempre altrove, fino a quando una vecchia gli spiega con più precisione degli altri: il Cab'e Susu è dove noi non siamo . È da questa scintilla che nasce il mio racconto».
Il differenziarsi.«Sì. Dentro una comunità si può essere tutti diversi ma il confine, il distinguo, non si nota finché qualcuno non si incarica di evidenziarlo».
Nel libro non c'è solo un'analisi, metaforica, dell'identità sarda e dei meccanismi di circoscrizione di una comunità. Il suo libro per qualche pagina fa resuscitare gli acquisti fatti su Postal Market, il ghiacciolo Lemonissimo, la benda di Capitan Harlock... Sembrava impossibile avere nostalgia degli orridi anni Ottanta.«Sono stufa di sentir dire che gli Ottanta furono orridi: sono stati anni meravigliosi che oggi vengono ingiustamente criticati, perché tutti attribuiscono a quel periodo pecche e guai nati in altri momenti. Io chiedo ufficialmente il riscatto degli Anni Ottanta».
Vabbè. E comunque per essere un'autentica estate Anni Ottanta, manca un elemento fondamentale.«Sarebbe?».
La tivù.«Perché, lei nelle estati degli Anni Ottanta guardava la televisione?».
Non si usava?«Ma quando mai. L'estate '80 funzionava così: compiti fino alle tre, massimo tre e mezza, e poi via in strada. C'erano da organizzare gli agguati con le cerbottane, bisognava scegliere il posto sui gelsi per gli appostamenti... Aveva voglia Bimbumbam a trasmettere cartoni animati: eravamo noi, i cartoni animati, e non c'era Paolo Bonolis capace di tenerci in casa».
Si dice che per far funzionare un racconto vanno benissimo il sesso e/o la violenza. Ma anche i topi, un bel branco di topi in agguato nel buio, funzionano alla perfezione.«Non so. Di sicuro è stata un'esperienza molto forte da vivere, più che da raccontare. Ma non ho sviluppato la fobia, ed è già qualcosa».
“L'incontro” si legge di slancio. Significa che è stato laborioso scriverlo?«È stato così. Anche perché, come dire, questa storia ha una storia. La trama l'avevo in testa da molto tempo, e quando il Corriere della Sera, più o meno un anno fa, mi chiese un racconto per una collana di inediti decisi di raccontare le vicende di quell'estate. Il fatto è che una volta arrivata al numero di cartelle che mi chiedeva il Corriere, mi resi conto che non avevo né il tempo né lo spazio per raccontare molte delle cose che avevo in mente. A quel punto ho consegnato quel che avevo scritto, anche se a malincuore, ma ho tenuto i diritti e dopo averne parlato con Einaudi ho ripreso in mano il testo e in qualche settimana ho reso giustizia ai personaggi scomparsi nella prima versione».
www.unionesarda.it
La scrittrice di Cabras racconta per Einaudi uno scorcio di infanzia sullo stagno «La mia estate Anni Ottanta e la scoperta del sardo plurale»
Michela Murgia e “L'incontro”, da oggi nelle librerie
E intanto si divertono, scherzano e si spaventano come dei Tom Saywer aromatizzati alla bottarga.
Si intitola “L'incontro” (112 pagine, 10 euro) il libro di Michela Murgia che Einaudi manda oggi nelle librerie e che l'autrice presenterà venerdì a Cagliari insieme a Francesco Abate nella biblioteca provinciale di Monte Claro, «perché è giusto andare nelle biblioteche, che oggi vivono un pessimo momento».
Michela Murgia, abbiamo consumato ettari di carta e fontane d'inchiostro per raccontare al mondo che il sardo è un solitario, un individualista, e lei scrive un romanzo su un ragazzino isolano che scopre il fascino del pronome “noi”.«Quella dell'individualismo è una leggenda nera e falsissima: la cultura sarda è coesa e comunitaria. Certo, ci piace molto descriverci come degli orsi delle caverne, ma è l'opposto della realtà. Giusto per fare un esempio: in nessun'altra regione d'Italia esiste un'associazione di librai, categoria di “singoli” per eccellenza. A volte non ce ne rendiamo conto, ma da noi regna il presente plurale».
Che cosa è?«Un verbo specifico che ho inventato per indicare quel fenomeno tipicamente nostro... che so, mi fallisce l'azienda e dico:“Eh, noi sardi non siamo imprenditori”, litigo con qualcuno e commento: “ Siamo sempre i soliti, pocos, locos y malunidos”, Marco Carta vince a Sanremo e andiamo tutti in estasi per il nostro trionfo. Insomma: il disastro del singolo è un fallimento collettivo, e il successo del singolo è il riscatto di un popolo. Dopo che ho vinto il Campiello, per strada i lettori italiani mi dicevano “brava”, i sardi mi dicevano “grazie”».
E dopo aver scoperto il “noi”, i tre amici del racconto arrivano a definire il “loro”: gli altri, gli estranei. È una metafora della misteriosa e vessatissima questione dell'identità sarda? Il sardo che si definisce a contrario, in quanto non romano, non italiano?«Il punto è quello, ma non è in questi termini che lo porrei. È pacifico che il sardo non è romano né italiano. La categoria dell'alterità è chiara, perfettamente comprensibile. Il problema è quando l'altro viene da dentro, non da fuori. Alla fine del libro dichiaro il mio debito verso l'antropologo Benedetto Caltagirone per il suo “Identità sarde”. La sua inchiesta lo porta a girare per il Barigadu - e non a caso sceglie un'area meno definita, meno nitida della Barbagia o del Campidano - alla ricerca del Cab'e Susu, il Settentrione. Nel primo centro gli spiegano che per arrivare al Cab'e Susu deve andare pochi chilometri più a Nord: è lì che comincia quella famosa area. Ma una volta arrivato gli spiegano che il Cab'e Susu comincia un po' più su, deve salire ancora un po'. E va avanti così, all'inseguimento di questo Altrove che è sempre altrove, fino a quando una vecchia gli spiega con più precisione degli altri: il Cab'e Susu è dove noi non siamo . È da questa scintilla che nasce il mio racconto».
Il differenziarsi.«Sì. Dentro una comunità si può essere tutti diversi ma il confine, il distinguo, non si nota finché qualcuno non si incarica di evidenziarlo».
Nel libro non c'è solo un'analisi, metaforica, dell'identità sarda e dei meccanismi di circoscrizione di una comunità. Il suo libro per qualche pagina fa resuscitare gli acquisti fatti su Postal Market, il ghiacciolo Lemonissimo, la benda di Capitan Harlock... Sembrava impossibile avere nostalgia degli orridi anni Ottanta.«Sono stufa di sentir dire che gli Ottanta furono orridi: sono stati anni meravigliosi che oggi vengono ingiustamente criticati, perché tutti attribuiscono a quel periodo pecche e guai nati in altri momenti. Io chiedo ufficialmente il riscatto degli Anni Ottanta».
Vabbè. E comunque per essere un'autentica estate Anni Ottanta, manca un elemento fondamentale.«Sarebbe?».
La tivù.«Perché, lei nelle estati degli Anni Ottanta guardava la televisione?».
Non si usava?«Ma quando mai. L'estate '80 funzionava così: compiti fino alle tre, massimo tre e mezza, e poi via in strada. C'erano da organizzare gli agguati con le cerbottane, bisognava scegliere il posto sui gelsi per gli appostamenti... Aveva voglia Bimbumbam a trasmettere cartoni animati: eravamo noi, i cartoni animati, e non c'era Paolo Bonolis capace di tenerci in casa».
Si dice che per far funzionare un racconto vanno benissimo il sesso e/o la violenza. Ma anche i topi, un bel branco di topi in agguato nel buio, funzionano alla perfezione.«Non so. Di sicuro è stata un'esperienza molto forte da vivere, più che da raccontare. Ma non ho sviluppato la fobia, ed è già qualcosa».
“L'incontro” si legge di slancio. Significa che è stato laborioso scriverlo?«È stato così. Anche perché, come dire, questa storia ha una storia. La trama l'avevo in testa da molto tempo, e quando il Corriere della Sera, più o meno un anno fa, mi chiese un racconto per una collana di inediti decisi di raccontare le vicende di quell'estate. Il fatto è che una volta arrivata al numero di cartelle che mi chiedeva il Corriere, mi resi conto che non avevo né il tempo né lo spazio per raccontare molte delle cose che avevo in mente. A quel punto ho consegnato quel che avevo scritto, anche se a malincuore, ma ho tenuto i diritti e dopo averne parlato con Einaudi ho ripreso in mano il testo e in qualche settimana ho reso giustizia ai personaggi scomparsi nella prima versione».
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