L’ex giudice Luciano Violante svolge nell’attuale Partito Democratico il ruolo di una sorta di ideologo, perciò è stato proprio lui a fornire al partito gli slogan per la campagna per il sì al referendum sulla revisione costituzionale. Secondo Violante nel mondo globalizzato occorre una “democrazia decidente” per poter governare la stessa globalizzazione e non subirla. Lo slogan si presenta auto-contraddittorio, poiché se si cambia la Costituzione in funzione della globalizzazione, non è più la democrazia a decidere ma la globalizzazione. Un testo costituzionale vale l’altro, tanto non se ne è mai rispettato nessuno, perciò parrebbe proprio che il vero scopo di questa “revisione costituzionale” sia quello di elevare alla gloria degli altari il moloc della globalizzazione a cui sacrificare tutte le regole della convivenza civile (comprese le regole della grammatica, a giudicare dagli strafalcioni sintattici del testo sottoposto a referendum).
La contraddizione però, oltre che teorica, è anche pratica, dato che da alcuni anni la globalizzazione è sotto attacco proprio da parte di coloro che l’hanno promossa. In altri termini, nulla assicura che la globalizzazione costituisca un processo irreversibile. Del resto la globalizzazione non ha mai costituito una novità, visto che negli ultimi tre secoli si sono avvicendate fasi di libero scambio con fasi protezionistiche. Chi, come il PD, prende sul serio le esibizioni della Trilateral o del Bilderberg rischia di farsi la falsa impressione che le oligarchie posseggano una “visione” del futuro che in effetti non è né nelle loro corde, né tantomeno nelle loro capacità. La propaganda ufficiale presenta ogni volta il quadro imposto dagli interessi dei ricchi come la tappa fondamentale dei destini dell’umanità, ma gli interessi dei ricchi possono cambiare e così anche i presunti “destini”.
Donald Trump ha condotto gran parte della sua campagna elettorale all’insegna della denuncia dei guasti del Trattato NAFTA, l’area di libero scambio tra USA, Canada e Messico, che ha causato la deindustrializzazione di enormi aree degli Stati Uniti. Trump ha scaricato su Bill Clinton la responsabilità di quel trattato, ma in realtà il NAFTA fu una creatura di Bush padre, che ne fu anche il firmatario.
Clinton non ha potuto smentire Trump poiché, una volta pervenuto alla presidenza, non solo non abolì il trattato, come invece gli chiedevano i sindacati americani, ma ne divenne il lobbista più zelante. Fu così che i Clinton, da famiglia di piccoli lobbisti immobiliari dell’Arkansas, si trovarono lanciati nel grande giro, sino a proiettarsi verso i talami nuziali di Goldman Sachs.
I Democratici non hanno creato il NAFTA ma ora rimangono col cerino acceso in mano, mentre i Repubblicani mandano avanti Trump per defilarsi dalle proprie responsabilità e per spacciarsi come i difensori dei lavoratori. Ovviamente a Trump ed ai Repubblicani non frega nulla del fatto che gli operai perdano il lavoro. C’è anche da dubitare di quell'adesione plebiscitaria degli operai alla candidatura Trump che ora i media cercano di accreditare.
Il protezionismo torna di moda, si forma una lobby dei dazi e la globalizzazione viene messa sotto accusa perché gran parte dell’oligarchia statunitense si trova a fare i conti con un deficit ormai cronico della bilancia commerciale; un deficit che vota al declino l’apparato industriale statunitense. La posizione “in God we Trump” di una gran parte della destra “sovranista” europea non tiene conto del fatto che si tratta di un protezionismo ad uso dei ricchi e delle multinazionali, perciò le ricadute positive del “trumpismo” per Paesi deboli come il nostro risultano del tutto aleatorie. La politica effettiva del nuovo presidente USA non sarà ovviamente quella degli slogan della campagna elettorale, bensì quella dettata dai rapporti di forza tra le lobby.
Trump non è affatto il miliardario spregiudicato e incontrollabile che i media ci hanno raccontato, dato che è un businessman la cui sopravvivenza dipende in tutto e per tutto dai fidi bancari. La vicenda del Buffone di Arcore ha dimostrato ancora una volta che la ricchezza non è affatto sinonimo di indipendenza, semmai di assoluta ricattabilità. Trump è soltanto il nuovo addetto alle pubbliche relazioni dell’imperialismo USA. Via il gagà Obama e largo al tamarro Trump, l’uomo la cui sguaiataggine comunicativa serve a mettere in discussione le certezze che la destra ha imposto un quarto di secolo fa e che ora la sinistra della parodia del “politically correct” si è trovata ad ereditare e ad accreditare come vangelo. L’abito smesso del capitale è diventato la livrea di una sinistra sempre più servile.
Mentre Trump ha lanciato aperture a Putin, Hillary Clinton, e lo stesso Obama, hanno condotto questa campagna elettorale all'insegna dello scontro con la Russia. D’altra parte questa politica di scontro frontale era stata avviata da un’amministrazione repubblicana. Fu infatti l’amministrazione di Bush figlio a decidere nel 2008 di dislocare in Polonia i missili Patriot. Obama si accodò a quella scelta firmando il relativo trattato con un governo polacco che non chiedeva altro per poter andare a riscuotere privilegi nell'Unione Europea grazie alla patente di figlio prediletto della NATO.
Si sa però che il viso pallido parla con lingua biforcuta. Trump ha lasciato ad Hillary il ruolo della guerrafondaia e si è spacciato per amicone di Putin soltanto perché la Russia si è rivelata un osso più duro del previsto, ma i toni concilianti servono agli USA ad avere il tempo di recuperare una posizione di forza.