domenica 31 ottobre 2010
L’indipendenza dei sudditi
Noam Chomsky
Mit di Boston
Tra tutte le “minacce” all’ordine mondiale, la più pericolosa per il potere imperiale è la democrazia, a meno che non rimanga sotto stretto controllo. È una minaccia qualsiasi affermazione di indipendenza. Nel corso della storia, le scelte di politica imperiale sono sempre state guidate da queste paure.
In Sudamerica, il tradizionale cortile di casa degli Stati Uniti, i sudditi stanno per esempio diventando sempre più disobbedienti. A febbraio hanno perfino creato la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che comprende tutti i paesi dell’emisfero ma non Stati Uniti e Canada.
Per la prima volta dall’arrivo dei conquistatori spagnoli e portoghesi cinquecento anni fa, il Sudamerica sta andando verso l’integrazione, un prerequisito necessario per l’indipendenza. E si sta anche rendendo conto di quanto sia scandaloso che un continente così ricco di risorse possa essere controllato da poche élite ricche circondate da un mare di povertà. Inoltre, i rapporti tra i paesi del sud del mondo si stanno sviluppando, e al loro interno la Cina sta svolgendo un ruolo importante, sia come consumatore di materie prime sia come investitore. La sua influenza sta rapidamente crescendo e in alcuni paesi ricchi di risorse ha superato quella degli Stati Uniti.
Alcuni cambiamenti significativi sono avvenuti anche in Medio Oriente. Sessant’anni fa il diplomatico Adolf Berle fu uno dei primi a dire che chi avesse controllato le incomparabili risorse energetiche della regione avrebbe avuto “il controllo del mondo”. Negli anni settanta i maggiori produttori di idrocarburi nazionalizzarono le loro riserve, ma l’occidente mantenne una forte inluenza su quei paesi.
Nel 1979 gli Stati Uniti “persero” l’Iran in seguito alla caduta dello scià, salito al potere nel 1953 con un colpo di stato appoggiato da Washington e Londra per garantire che il suo petrolio rimanesse nelle mani giuste. Ma oggi l’America non riesce più a controllare neanche i paesi tradizionalmente suoi amici.
Le maggiori riserve di petrolio sono in Arabia Saudita, che dipende dagli Stati Uniti da quando cacciarono via gli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga i maggiori investitori e partner commerciali dei sauditi, che a loro volta sostengono l’economia americana con i loro investimenti. Oggi, però, più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro ormai Riyad guarda a oriente.
La stessa cosa potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio, se riuscirà a risorgere dopo la distruzione causata dalle sanzioni e dall’invasione angloamericana. E la politica degli Stati Uniti sta spingendo anche l’Iran, il terzo produttore mondiale, nella stessa direzione.
Ormai la Cina ha sostituito gli Stati Uniti ed è la maggiore importatrice di petrolio dal Medio Oriente, mentre le sue esportazioni invadono la regione. Le possibili conseguenze di questa situazione per l’ordine mondiale sono importanti, come lo è la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che comprende quasi tutti i paesi asiatici ma esclude gli Stati Uniti e che, come osserva l’economista Stephen King, autore di Losing control: the emerging threats to Western prosperity, potrebbe diventare “un nuovo cartello energetico di cui farebbero parte sia i produttori sia i consumatori”.
Tra i politici occidentali il 2010 viene chiamato “l’anno dell’Iran”. Si ritiene che quel paese sia la più grande minaccia per l’ordine mondiale e per questo sia al centro della politica estera degli Stati Uniti e dell’Europa, che li segue educatamente come al solito. Il pericolo rappresentato dall’Iran non è di tipo militare, ma deriva dal suo desiderio di indipendenza. Per mantenere la “stabilità”, Washington ha imposto sanzioni severe a Teheran, ma al di fuori dell’Europa ben pochi le rispettano.
Turchia e Pakistan stanno costruendo nuovi oleodotti e intensiicando i rapporti commerciali con gli iraniani. L’opinione pubblica araba è contrariata per la politica occidentale e in gran parte favorevole al programma nucleare di Teheran. Questo conlitto va tutto a vantaggio della Cina. “Gli investitori e le imprese cinesi stanno andando a riempire il vuoto man mano che molti altri paesi, soprattutto europei, si ritirano dall’Iran”, ha scritto Clayton Jones sul Christian Science Monitor.
E Washington reagisce in modo disperato. In agosto il dipartimento di stato ha avvertito Pechino che “se vuole fare afari con il resto del mondo deve prima modiicare la sua immagine. Se hai la fama di essere un paese che sfugge alle sue responsabilità internazionali, questo alla lunga avrà delle conseguenze”. E ovviamente avere “responsabilità internazionale” consiste essenzialmente nell’obbedire agli ordini degli Stati Uniti.
È improbabile che i leader cinesi si lascino impressionare da questi discorsi, dal linguaggio di una potenza imperiale che cerca disperatamente di aggrapparsi a un’autorità che non ha più. Il modo sprezzante in cui la Cina ignora gli ordini degli Stati Uniti è molto più pericoloso per Washington delle minacce dell’Iran.
NOAM CHOMSKY insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale? (Il Saggiatore tascabili 2010). Oggi più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro Riyad guarda a oriente. Lo stesso potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio
sabato 30 ottobre 2010
Fine di un regime
Geof Andrews, Open Democracy, Gran Bretagna
Regolamenti di conti all’interno della maggioranza. Attacchi sempre più violenti agli oppositori. Tutto lascia pensare che Silvio Berlusconi si stia preparando allo scontro finale
La capacità di Silvio Berlusconi di tenere testa alle molte critiche rivolte alla sua leadership è stata messa a dura prova negli ultimi mesi. Anche se resta il primo ministro più longevo dell’Italia del dopoguerra, il Cavaliere si trova ad affrontare crescenti dificoltà.
Berlusconi è stato protagonista, negli ultimi mesi, di un duro scontro con il suo alleato storico Gianfranco Fini. Il governo è bersagliato ogni settimana da accuse di corruzione. E il costante conflitto tra i suoi interessi privati e il ruolo pubblico è diventato sempre più evidente, generando nuovi scontri con gli alleati, con la chiesa cattolica e perino con i suoi familiari.
Certo, Berlusconi ha già afrontato problemi di questo tipo nella sua carriera politica e sa come trarre profitto dalle diicoltà. Ma ora la situazione sembra essere più grave del solito, e il regime è in crisi.
Spinto a tentare di cambiare il paese da interessi sia personali sia politici, dal 1994 Berlusconi domina la vita politica italiana. Il berlusconismo, che nel corso degli anni si è affermato sempre più come una modalità di governo e di esercizio del potere e sempre meno come un’ideologia chiara, è riuscito almeno in parte a rimodellare il paese a immagine e somiglianza del Cavaliere.
Con un tipico connubio tra ricchezza, carisma e populismo, Berlusconi è riuscito spesso a convincere un numero sufficiente di italiani del fatto che la sua ricetta per conquistare denaro e potere – contrapporsi alla classe politica italiana e sconiggere il “sistema” – avrebbe funzionato anche per loro. Berlusconi è perfettamente a suo agio nel mondo mediatico e virtuale in cui vive e su cui cui esercita un dominio assoluto. Per questo il suo populismo postmoderno gli ha garantito un enorme vantaggio politico su un’opposizione passiva. Così, pur muovendosi ai margini della legalità e anche se ha bisogno di una nutrita squadra di avvocati per tenere in piedi il suo show, il premier è sempre riuscito ad anticipare le mosse degli avversari.
Ma ora che le crepe del berlusconismo sono sempre più evidenti, l’inclinazione all’intolleranza del premier risulta sempre più spudorata e lo spazio per il dissenso si riduce notevolmente. I mezzi d’informazione di proprietà di Berlusconi si sono scagliati con violenza contro gli ex alleati, mentre il sistema radiotelevisivo pubblico – sottoposto indirettamente al controllo del governo – ha tentato in più di un’occasione di allontanare le voci critiche (tra cui spicca quella del conduttore televisivo Michele Santoro). Le prepotenze che un tempo intimidivano gli avversari oggi sembrano meno efficaci, mentre le fratture interne al centrosinistra appaiono insanabili.
Guerra aperta
Il conflitto più grave è quello con il presidente della camera. Fini è un ex fascista che ha cercato di trasformare il suo partito, Alleanza nazionale, in una grande formazione politica conservatrice, prima di fonderlo nel 2008 con Forza Italia per dar vita al Popolo della libertà. Con il passare del tempo, Fini ha sviluppato un fastidio crescente verso la determinazione con cui Berlusconi ha cercato di garantirsi l’immunità, varando leggi ad hoc e sferrando attacchi continui alla magistratura.
La tensione è sfociata in un’accesa discussione durante il congresso del Popolo della libertà ad aprile, quando Fini, che è un sostenitore del modello centralista e che per tradizione ha un forte sostegno popolare nel sud del paese, ha criticato l’inluenza esercitata dalla Lega nord sul governo e si è scagliato contro il modo di governare di Berlusconi.
Le critiche mosse da Fini al premier hanno messo in difficoltà il governo. Il presidente della camera è uscito dal Pdl per dar vita a una sua formazione politica e molto probabilmente svolgerà un ruolo di primo piano in un’eventuale alleanza di centrodestra alternativa a quella attuale. Ma l’aspetto più grave, per Berlusconi, è che l’atteggiamento combattivo di Fini ha messo in discussione la sua carriera politica. Un’espressione del genere, riferita a un premier di 74 anni, può sembrare bizzarra, ma in Italia è raro che i politici si facciano da parte. E nel caso di Berlusconi sono in gioco altre questioni: secondo molti commentatori, la sua più grande ambizione è diventare, al termine dell’attuale mandato da premier, presidente della repubblica. La possibilità di continuare a occupare un’alta carica istituzionale alimenterebbe ulteriormente le sue insaziabili ambizioni politiche e lo metterebbe al riparo dai processi (soprattutto se dovesse essere approvato il lodo Alfano).
È in questo contesto che va interpretata la sida lanciata da Fini, oppositore emergente e potenziale successore di Berlusconi. La reazione del premier a questa minaccia è stata di un’intensità e di un’aggressività sorprendenti, tanto da far sembrare la rivalità tra Tony Blair e Gordon Brown una scaramuccia tra i danzatini.
Il Giornale, il quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi, ha lanciato violenti attacchi a Fini. Il presidente della camera è stato chiamato “compagno”, per via di alcune sue posizioni sui diritti civili. L’accusa più grave, formulata dal quotidiano nell’ambito di una vasta campagna denigratoria, è che Fini avrebbe venduto in modo poco chiaro un appartamento di proprietà di Alleanza nazionale, andato poi in affitto al fratello della sua partner.
Il Giornale ha rincarato la dose attaccando altre personalità che hanno criticato Berlusconi. Come emma Marcegaglia, presidente della Conindustria, che aveva messo in dubbio la visione ottimistica del premier sulla situazione economica italiana. Quando si è saputo che il quotidiano stava preparando una campagna diffamatoria contro Marcegaglia, la procura di napoli ha aperto un’inchiesta. sono tutti segnali della ine di un regime. l’economia ristagna e il governo perde progettualità.
Berlusconi continua a lanciare messaggi di fermezza, accanto al primo ministro russo Vladimir Putin, suo storico alleato, o esaltando il movimento dei tea party negli stati Uniti (con cui condivide la volontà di ridurre le tasse, la linea dura nei confronti dell’immigrazione e il fascino esercitato sull’elettorato femminile). Ma questo sforzo mostra quanto sarà diicile per lui recuperare il potere di un tempo. tuttavia chi si aspetta da Berlusconi una ritirata in punta di piedi o perino che compaia inalmente di fronte alla giustizia per rendere conto delle sue azioni – potrebbe restare profondamente deluso.
Un alleato determinante
L’opposizione continua a essere timida, incapace di proporre ai cittadini delle soluzioni per risolvere i loro problemi e di fornire al paese una prospettiva convincente per il dopo Berlusconi. È vero che le manifestazioni in difesa dei diritti dei lavoratori e della democrazia si stanno moltiplicando, ma la storia recente della sinistra fa pensare che Nichi Vendola, l’unica speranza di cambiamento all’interno dell’opposizione, verrà ostacolato dai grigi funzionari del Partito democratico. In mancanza di un forte movimento riformista, è molto probabile che Silvio Berlusconi rimanga ancora per qualche tempo la f igura centrale della politica italiana.
Il premier è sempre più dipendente dalla lega nord. la propaganda di Umberto Bossi contro gli immigrati comincia a fare presa sulla classe operaia settentrionale. Inoltre la lega nord sta consolidando la sua presenza nelle piccole imprese a gestione familiare. nella prossima campagna elettorale (forse si voterà nella primavera del 2011), il programma della lega potrebbe diventare ancora più radicale, e il partito potrebbe imporsi come una forza politica determinante anche per la prossima legislatura.
Berlusconi attingerà di nuovo all’immensa risorsa dei suoi mezzi d’informazione per restare al potere, e la storia insegna che il Cavaliere ottiene quasi sempre quello che vuole. Allo stesso tempo, la crisi politica ed economica dell’Italia sta spostando l’attenzione non solo sui possibili successori del premier, ma sul futuro stesso del paese. Un accordo si troverà, ma a che prezzo per l’Italia?
Geof Andrews è un giornalista e scrittore britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è slow Food. Una storia tra politica e piacere (Il Mulino 2010).
giovedì 28 ottobre 2010
È il momento di passare all’azione Un’ampia maggioranza bipartisan ha approvato una legge presentata dal deputato Sander Levin.
New York Times
Sander M. Levin
Le persone per bene sono rimaste inorridite dal voto del 29 settembre alla camera dei rappresentanti di Washington. Un’ampia maggioranza bipartisan ha approvato una legge presentata dal deputato Sander Levin.
Il provvedimento potrebbe porre le premesse per sanzioni commerciali contro la Cina legate alla politica monetaria del paese asiatico. La legge non è molto dura, ma di fronte alle allarmanti voci di guerre commerciali e altre catastroi economiche, gli opinionisti più moderati ritengono che sia meglio non fare chiasso e privilegiare la diplomazia.
Queste persone per bene, che da quando è cominciata la crisi si sono sbagliate su tante cose (per esempio, dicevano che il deicit pubblico statunitense avrebbe fatto impennare i tassi d’interesse e l’inflazione), si sbagliano anche questa volta.
Per quanto riguarda la politica monetaria cinese, la diplomazia non otterrà niente inché non sarà accompagnata da qualche minaccia di ritorsione.
L’isteria sulla possibile guerra commerciale è ingiustificata, e comunque ci sono cose peggiori dei conlitti commerciali.
In un periodo come questo, con una disoccupazione di massa aggravata dalla politica predatoria della Cina in campo valutario, la possibilità di qualche nuovo dazio dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni statunitensi. Ma facciamo un passo indietro.
Le grandi economie industrializzate subiscono ancora gli effetti della bolla immobiliare e della crisi finanziaria. I loro attività. La recessione sarà anche finita, ma il tasso di disoccupazione è molto alto e non dà segni di voler tornare ai livelli normali.
La situazione delle economie emergenti è diversa: hanno resistito alla tempesta economica e ofrono molte opportunità d’investimento. Com’è naturale, quindi, i capitali provenienti dai paesi più ricchi ma in crisi si dirigono verso i paesi emergenti, che quindi potrebbero essere decisivi nell’uscita dalla recessione globale. La principale economia emergente, la Cina, ostacola invece questo processo naturale.
Pechino ha limitato l’aflusso di capitali privati per mezzo di restrizioni sugli investimenti stranieri e mantiene artiicialmente basso il valore dello yuan. Questo aiuta le esportazioni cinesi, ma danneggia l’occupazione nel resto del mondo. La fata turchina Le autorità cinesi difendono questa politica con argomenti poco convincenti e al tempo stesso incoerenti.
Pechino nega di manipolare deliberatamente il tasso di cambio. Forse vorrebbe farci credere che è stata la fata turchina ad accumulare riserve per 2.400 miliardi di dollari e a mettergliele sotto il cuscino mentre dormiva. Ma esponenti di primo piano dell’élite cinese dicono che le riserve non contano, perché il surplus commerciale della Cina non c’entra niente con il tasso di cambio.
Eppure il primo ministro Wen Jiabao ha dichiarato: “Non possiamo immaginare quante fabbriche cinesi fallirebbero, e quanti operai perderebbero il lavoro, se lo yuan si rivalutasse troppo rapidamente”. Allora il valore dello yuan conta qualcosa. Pechino fa di tutto per ostentare il suo disprezzo nei confronti dei negoziatori statunitensi. A giugno i cinesi avevano detto di essere disposti a lasciar finalmente determinare dal mercato il valore cinese. Invece in questi mesi il valore dello yuan è cresciuto appena del 2 per cento rispetto al dollaro, per lo più solo nelle ultime settimane, cioè con l’avvicinarsi del voto sulla proposta di legge di Levin,
A cosa servirà dunque questa nuova legge? Permette – ma, si badi bene, non impone – alle autorità statunitensi di applicare dazi sulle esportazioni cinesi che sfruttano il valore artificialmente basso dello yuan. Ora, l’esperienza ci insegna che Washington non passerà all’azione. Anzi, continuerà a trovare scuse e a vantare progressi del tutto immaginari sul terreno diplomatico.
Insomma sarà confermato quello che i cinesi pensano delle autorità statunitensi: che sono delle tigri di carta. Quindi la legge Levin può essere considerata al massimo un segnale rivolto ai cinesi. In ogni caso, è un passo nella direzione giusta. Perché la verità è che finora, di fronte ai comportamenti inaccettabili della Cina, i politici statunitensi sono stati incredibilmente e scandalosamente passivi. Specialmente se si considera che, visto l’ostruzionismo dei repubblicani, una delle poche possibilità che restano all’amministrazione Obama per afrontare il problema della disoccupazione è dar battaglia alla Cina.
Probabilmente la legge Levin non basterà a modificare questo atteggiamento passivo, ma almeno comincerà a mettere sotto pressione i politici statunitensi. E questo ci avvicinerà al mo- mento in cui saranno inalmente pronti ad agire.
Paul Krugman è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times. Il suo ultimo libro Finora l’azione diplomatica non ha prodotto risultati. Le maniere forti convinceranno Pechino a rivalutare lo yuan È il momento di passare all’azione Paul Krugman, The New York Times, Stati Uniti
mercoledì 27 ottobre 2010
LE TERRE RARE .... MOTIVO DI GUERRE FUTURE?
Il loro sfruttamento (terre rare), è basato sullo sfruttamento selvaggio delle risorse minerarie della nostra amata terra, inoltre abbiamo l'impressione che ciò che accade è di un interesse talmente elevato che ci sfugge anche di che portata siano gli interessi delle nuove (o vecchie) multinazionali dell'assoggettamento della moltitudine soggettiva delle natzioni universali...
Ecco come guardando nel torbido e ofuscato mondo dell'economia mineraria si scoprono futuri di guerra inimmaginabili fino ad oggi..
Sa Defenza pubblica una serie di articoli di giornali specializzati sull'argomento affinchè le soggettività della moltitudine abbiano uno strumento di osservazione tale da non farci cogliere impreparati agli eventi futuri...
sadefenza
L'India rafforza i legami con il Giappone e rilancia la sfida alla Cina nel grande gioco asiatico
di Marco Masciaga
ilsole24ore
NEW DELHI – Il primo ministro indiano Manmohan Singh ha incontrato lunedì il premier giapponese Naoto Kan con l'obiettivo di rafforzare i legami economici tra i due colossi asiatici in una fase in cui i rapporti diplomatici tra Tokyo e l'altro gigante regionale, la Cina, sono pessimi. Il vertice è in corso a Tokyo, la prima tappa di un viaggio che nei prossimi giorni porterà Singh anche in Malesia e Vietnam prima di vederlo tornare a Delhi in tempo per ospitare, ai primi di novembre, la prima visita indiana del presidente americano Barack Obama.
Dietro il tour de force diplomatico del 78enne leader indiano c'è il tentativo di rafforzare il ruolo indiano in Estremo Oriente in una fase in cui l'influenza cinese nella regione e le dispute commerciali, valutarie e territoriali che stanno accompagnando l'ascesa di Pechino sono più accese che mai. Gli obiettivi di breve-medio termine di Singh e Kan sono principalmente l'abbattimento di alcune delle barriere, tariffarie e non, che stanno frenando gli scambi tra New Delhi e Tokyo e lo sblocco di un accordo di cooperazione nucleare che consenta alle imprese giapponesi del settore atomico di costruire nuovi reattori in India. Almeno ufficialmente non sono in agenda discussioni sui temi valutari che hanno monopolizzato il dibattito politico internazionale nelle ultime settimane.
«Io credo fermamente – ha detto Singh davanti a una platea di imprenditori di entrambi i paese – che si possano e si debbano creare delle sinergie tra le nostre complementarietà per ridare nuovo slancio all'Asia e alla ripresa economica». Lo scorso settembre India e Giappone hanno siglato una prima bozza di accordo per rendere meno macchinosa l'esportazione di prodotti come componenti auto, da Tokyo verso Delhi, e farmaci generici, nella direzione opposta. Queste e altre barriere stanno mantenendo artificiosamente basso il livello degli scambi tra i due paesi, fermi a 11,55 miliardi di dollari all'anno, circa il 4% di quelli tra Tokyo e Pechino.
Cifre ancora modeste, ma destinate a crescere. Soprattutto se i due paesi sigleranno un accordo di cooperazione nucleare simile a quelli che New Delhi ha già finalizzato o si appresta a siglare con Stati Uniti, Francia e Russia. Su questo terreno gli ostacoli sono però di natura più politica che strettamente economica. Il Giappone, l'unico paese al mondo che sia stato vittima di un attacco nucleare, chiede che eventuali accordi bilaterali possano venir considerati nulli in caso di nuovi test atomici indiani. Una clausola che per il momento New Delhi non sembra disposta a sottoscrivere perché esporrebbe il governo a pesanti critiche su un terreno estremamente sdrucciolevole come quello della sicurezza nazionale.
L'altro fattore in gioco ha poco a che fare, almeno direttamente, con l'India. Se i rapporti tra Cina e Giappone continuassero a essere caratterizzati da dispute territoriali, come quella sulle isole Senkaku/Diaoyu, e ritorsioni commerciali, come quella sulle terre rare che la Cina ha cessato di esportare verso le industrie elettroniche e automobilistiche giapponesi, sarebbe probabilmente inevitabile un rafforzamento dei rapporti tra Tokyo e New Delhi.
Non solo perché un raffreddamento dei rapporti commerciali tra la prima e la seconda potenza economica asiatica finirebbe inevitabilmente per accrescere il ruolo giocato dalla terza. Ma anche perché New Delhi condivide da tempo le preoccupazioni giapponesi per la crescente assertività territoriale cinese, al punto da guardare con estremo sospetto le opere infrastrutturali di Pechino nelle regioni himalayane vicine ai propri confini e gli investimenti e i prestiti cinesi per la costruzione di nuovi porti in paesi affacciati sull'Oceano Indiano come Myanmar, Sri Lanka, Bangladesh e Pakistan.
Dopo Tokyo, il primo ministro indiano Singh volerà a Kuala Lumpur per incontrare la sua controparte malese e di lì ad Hanoi per partecipare all'ottavo India-Asean Summit e al quinto East Asia Summit dove è anche in programma un faccia a faccia con il premier cinese Wen Jiabao.
Quindi sarà il momento di tornare in patria dove tra il 5 e l'8 novembre è prevista la visita del presidente americano Barack Obama che cercherà di rafforzare gli scambi tra i due paesi, in particolare nel settore della difesa, facendo contemporaneamente pressione perché New Delhi rilassi alcune regole sugli investimenti diretti dall'estero che stanno frenando la presenza delle imprese americane sul mercato indiano. Dopo i rapporti straordinariamente buoni tra il governo Singh e l'amministrazione di George W. Bush, la prova che aspetta Obama, descritto talvolta in India come un nemico dell'industria dell'outsourcing, non si annuncia delle più semplici.
Lo sporco gioco delle «terre rare»
Roberto Capezzuoli
Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2010
Oggi sono le "terre rare" a mettere in allarme i produttori di hi-tech e a spingerli verso fornitori alternativi con cui soddisfare quella domanda che la Cina non accoglie più.
Le aree "sensibili" però sono numerose, anche se non sembra che si possa manifestare una sorta di cartello per qualche metallo strategico. A dire il vero, il Kazakhstan si compiace di definirsi «l'Arabia saudita dell'uranio», ma un'Opec nel settore è impensabile. I maggiori produttori, alle spalle di Astana, sono nell'ordine Canada, Australia, Namibia, Russia e Niger, con prospettive di espansione concentrate proprio in Canada e Australia.
È vero però che il mercato dello yellow cake, l'ossido di uranio necessario per le centrali nucleari, può dare brutte sorprese agli utilizzatori dal punto di vista del prezzo. All'inizio del millennio le quotazioni oscillavano intorno a 7 dollari per libbra e dopo il 2005 un'impennata le portò fino ai 136 dollari del 2007. Solo la crisi e i piani di sviluppo minerario (lunghi e costosi) hanno mantenuto i livelli attuali sotto i 50 dollari, cifra abbordabile per i 438 reattori nucleari che nel 2008 hanno assorbito 59mila tonnellate di uranio (44mila provenienti dalle miniere, il resto da stock e dal riciclo). L'equilibrio però potrebbe rivelarsi fragile quando la domanda salirà per effetto dei piani energetici in Cina e altrove.
Nelle stime della Rbc Capital Markets, un deficit d'offerta rischia di presentarsi fin dal 2012.
Un'altra incognita riguarda il palladio, oggi utilissimo nelle marmitte catalitiche. I vertici della russa Norilsk, primo produttore mondiale, all'inizio di ottobre hanno allarmato gli utilizzatori affermando che «gli stock accantonati nelle riserve russe (che per un ventennio hanno invaso il mercato, ndr) potrebbero esaurirsi nel 2011». Senza queste scorte, il cui ammontare è un segreto di stato, si svilupperebbe un deficit di palladio capace di gonfiare i prezzi ben oltre il massimo di 601 dollari per oncia registrato nei primi giorni di ottobre a Londra.
Va da sé che la carenza di palladio per le marmitte non sarà più un problema quando le auto saranno elettriche. Le preoccupazioni in quel caso si sposteranno sulle terre rare, di cui si discute oggi, e sul litio, il metallo più leggero, da maneggiare con molta cura, ma considerato il toccasana per batterie ricaricabili.
Chi produce oggi batterie a ioni litio trova il carbonato di litio dalla cilena Sqm, dall'australiana Talison, dalle americane Rockwood e Fmc. Ma se l'espansione dovrà accelerare il suo ritmo, la corsa ad approvvigionarsi si sposterà verso il boliviano Salar de Uyuni, che contiene la metà delle risorse del pianeta.
L'importanza della Cina si riaffaccia invece per il gallio, byproduct dell'alluminio, usato per diodi e led, rincarato del 60% da inizio anno, anche se ancora molto lontano dal picco di 1.700 dollari per chilogrammo visto nel 2001. Pechino è il primo fornitore anche di indio, sottoprodotto dello zinco, indispensabile per gli schermi piatti di tv e computer, oggi quotato intorno a 560 dollari al chilogrammo.
Dipende dal Congo invece la preoccupazione di chi usa tantalite (industrie aerospaziali, computer), perché Kinshasa ha bloccato fino al 4 novembre le esportazioni, facendo salire i prezzi quest'anno del 140 per cento.
Il più pressante allarme-costi viene però dal selenio, usato nelle fotocellule e per produrre manganese elettrolitico, raddoppiato in poco più di un anno, a 43 dollari alla libbra. Questo mese non si è fatto mancare nemmeno un record storico: è quello dell'antimonio, rincarato di 10 volte in 10 anni e del 70% solo nel 2010. A 10,40 dollari al chilogrammo i produttori di vernici ignifughe possono solo lamentare il graduale calo dell'offerta. Che naturalmente, anche in questo caso, vede la Cina in prima fila.
Cercasi Wto su terre rare
Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2010
Così come Usa e Giappone, l'Unione Europea sta prendendo in considerazione la possibilità di portare davanti alla Wto il caso delle quote cinesi all'export di "terre rare", i minerali utilizzati per le nuove applicazioni industriali. Ma il vigile del commercio internazionale sembra avere perso il fischietto. Le trattative del Doha Round tengono in stallo la Wto ormai da nove anni, riducendone il prestigio di organizzazione chiamata a prevenire le distorsioni degli scambi mondiali. Anche nel caso delle terre rare, il ruolo della Wto rischia di essere poco incisivo, se non altro perché ci vorrà molto tempo prima di avere un verdetto. E nel frattempo, la vicenda rischia di essere dirompente. La mossa di Pechino è forse preventiva: innervosita dai continui inviti a rivalutare lo yuan, la Cina monta la guardia alle terre rare per scoraggiare possibili ondate di protezionismo in America ed Europa. Ma è certo che l'Occidente non può tollerare che la Cina faccia delle commodity un problema non negoziabile. Se questa ipotesi dovesse trovare conferma, le terre rare, prima ancora delle valute, potrebbero essere il detonatore di una dura guerra commerciale.
questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2010
Il «China Daily», citando fonti del ministero del Commercio, preannuncia per le "terre rare" una riduzione delle quote esportabili fino al 30% nel 2011. Anche se nessuna conferma ufficiale è venuta da Pechino, si tratta di un'ipotesi credibile e molto preoccupante.
La drastica riduzione dell'offerta dei 15 metalli noti come lantanidi o terre rare, cui per analogie chimico-fisiche si associano anche ittrio e scandio, mette in difficoltà gli utilizzatori, che ne sfruttano le caratteristiche magnetiche. Auto ibride, turbine eoliche, armamenti e high tech avevano nella Cina l'unico importante fornitore, tanto economico da mettere nell'angolo le poche miniere occcidentali che offrissero alternative.
Non è più così. Nel semestre in corso Pechino ha ridotto del 72% le esportazioni, limitandole a 8mila tonnellate e mettendo in crisi soprattutto i clienti giapponesi, i maggiori utilizzatori fuori dalla Cina. Da inizio anno sono volati verso l'alto i prezzi (tra il 22% e il 720%) e con essi le azioni dei due maggiori produttori occidentali, l'americana Molycorp, salita a New York del 154% in meno di tre mesi, e l'australiana Lynas, che a Sydney da fine luglio ha guadagnato il 125%.
Il caso ora minaccia di approdare alla World Trade Organization. La Cina sottolinea che le sue riserve di terre rare erano il 43% del totale mondiale nel '96 e con il successivo forte sfruttamento sono calate al 30% nel 2009. Ma la considerazione, notava ieri un editoriale del Wall Street Journal, è solo il grimaldello per ottenere il trasferimento di tecnologia verso Pechino.
Lo sporco giogo delle "terre rare"
Roberto Capezzuoli
Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2010 alle ore 06:36.
La progressiva riduzione delle esportazioni cinesi di "terre rare", i metalli sempre più utilizzati per le loro caratteristiche fisiche e magnetiche, sta diventando un caso politico, economico e commerciale.
Ieri da Ginevra Sun Zhenyu, ambasciatore cinese alla World Trade Organization, in un'intervista alla Reuters ha gettato acqua sul fuoco, ma ha anche giustificato i limiti alle vendite e soprattutto ha lanciato agli Stati Uniti un messaggio molto chiaro.
Il nuovo piano quinquennale di Pechino, ha detto Sun, non inciderà sulle quote esportabili di terre rare. Però il rapido sfruttamento delle miniere cinesi, oltre a creare problemi di inquinamento, sta impoverendo una risorsa importante, trend che la Cina contrasta.
Infine, due frecciate: da un lato, Pechino sollecita gli altri paesi a sviluppare le risorse che hanno in casa e che hanno abbandonato per avvantaggiarsi dell'offerta cinese a basso costo, dall'altro lato, non ci sarà alcun embargo su questi metalli, ma «è auspicabile» che gli Stati Uniti allentino presto le restrizioni sui prodotti high tech che hanno applicazioni sia commerciali, sia militari e che potrebbero rilanciare l'export americano in Cina.
Il casus belli è il rapido taglio delle forniture di metalli noti come "terre rare" o lantanidi. Oggi la Cina ne produce poco più di 120mila tonnellate annue, il 97% del totale mondiale, e ne consuma il 51%.
Da diversi mesi Pechino ha ridotto l'offerta, una volta con la scusa dell'inquinamento (paradossalmente, questi metalli sono essenziali per la green economy, ma estrarli è complicato dal punto di vista dell'ecologia), un'altra volta con la scusa dell'eccessivo deperimento delle risorse interne.
Il primo a soffrirne le conseguenze è Tokyo, che consuma il 17% del totale mondiale e che ha messo in relazione il blocco delle forniture cinesi con la vertenza sulle acque territoriali, recentemente riacutizzata.
C'è però un timore strisciante, che da diversi mesi toglie il sonno ai vertici di case automobilistiche come Toyota e Honda. Senza lantanio e neodimio, i loro modelli di auto ibrida Prius e Insight sarebbero facilmente sorpassati da vetture cinesi. Il New York Times lo scriveva già lo scorso anno: nei piani di Pechino c'è da parecchio tempo la costruzione di almeno 500mila auto ibride o elettriche, una cifra che in futuro potrebbe essere moltiplicata per rendere respirabile l'aria delle metropoli (su cui tuttavia pesa sempre il fumo delle centrali elettriche a carbone).
La posizione di Pechino emerge con chiarezza anche dal sito del Quotidiano del Popolo, www.people.com.cn, che denuncia le richieste occidentali di lantanidi a basso prezzo come «irragionevoli e ipocrite». La Cina ha diritto di decidere quanto esportare delle proprie risorse, dice il giornale del Partito, sottintendendo che è giusto che le industrie locali possano contare su una posizione di forza nell'accesso a questi metalli. Anzi, la conseguenza più ovvia è che le società interessate finiscano per trasferire tecnologie a Pechino pur di ottenere gli approvvigionamenti necessari.
L'allarme riguarda molti settori industriali, ma è quantitativamente più rilevante per l'auto: le vetture ibride rappresentano una scommessa importante e attirano molti giocatori, quindi avere le terre rare è come conoscere in anticipo i numeri estratti in un colossale Bingo ipertecnologico.
Non è però un disastro annunciato e irreparabile. Sia perché il ministro del Commercio Wen Jiabao continua a ribadire che un rallentamento delle vendite non significa un blocco, sia perché la Commissione Ue ha appena affermato di non aver evidenza di un qualche tipo di embargo.
In ogni caso, anche in Occidente c'è chi trae vantaggio dalla situazione. Sono le piccole società minerarie che vantano licenze in siti conosciuti e, ai prezzi attuali, decisamente promettenti. I cacciatori di occasioni hanno già fatto la loro parte: la canadese Rare Element è più che triplicata in due mesi alla borsa di Vancouver, mentre sono raddoppiate di valore nello stesso periodo l'americana Molycorp, che riprenderà a sfruttare una grande miniera in California, e l'australiana Lynas, che ha già investito molto in Western Australia. La corsa non ha trascurato le canadesi Avalon, Great Western, Quest Rare, Neo Material, né le australiane Alkane, Greenland, Arafura.
Una bonanza che promette di portare alla luce tutti i depositi di monazite e bastnasite, le rocce che contengono le terre rare, i cui nomi stanno diventando più conosciuti: lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, gadolinio, terbio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, scandio, ittrio ed europio. Quest'ultimo, utile nelle applicazioni laser, lo tocchiamo spesso nelle banconote in euro. Non è per merito del nome, ma per la fluorescenza, usata in microscopiche quantità nelle filigrane anticontraffazione.
Tensione tra Cina e Giappone, giallo sul blocco all'export delle terre rare
Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2010
La Cina avrebbe sospeso l'esportazione di "terre rare" in Giappone, secondo quanto riporta il New York Times, come segno dell'escalation della tensione tra i due stati, dopo l'arresto del capitano di una nave cinese da parte delle autorità giapponesi, al largo di un isola contesa tra i due Stati nel Mar della Cina. Le "terre rare" (i lantanoidi insieme a scandio e ittrio), sono utilizzate come componenti per i veicoli ibridi, il sistema di difesa e le turbine eoliche. La Cina produce,a livello mondiale, il 93% di questi minerali. Pechino e la Cina stanno attraversando la più grave crisi diplomatica dal 2006. Da parte cinese la notizia viene seccamente smentita.
La Cina ha però smentito la notizia riportata dal New York Times. «Non abbiamo mai messo alcun ostacolo alle esportazioni di "terre rare" verso il Giappone», ha detto Chen Rongkai, addetto stampa al ministero del Commercio cinese. «Devono essere solo voci» ha risposto invece un altro funzionario governativo presso le miniere di Baotou nella Mongolia Interna, uno dei maggiori centri di estrazione di terre rare. «Bloccare le esportazioni viola le regole del Wto (Organizzazione del commercio mondiale, ndr) e non penso che la Cina sia intenzionata a farlo»
martedì 26 ottobre 2010
Nassiriya, Wikileaks accusa gli italiani
il manifesto .it
Giuliana Sgrena
Non avevano sparato contro gli italiani gli occupanti dell'ambulanza colpita dai Lagunari sul ponte di Nassiriya nella notte tra il 5 e il 6 agosto del 2004. L'ambulanza, che trasportava una donna incinta, la madre, la sorella e il marito diretti all'ospedale, era stata attaccata dai lagunari che l'avevano fatta esplodere. Tutti morti gli occupanti. Questa la versione pubblicata dal sito di Wikileaks a proposito di uno dei fatti più sanguinosi che hanno coinvolto gli italiani a Nassiriya, dopo l'attentato del novembre 2003 che aveva provocato la morte di 19 soldati italiani. La versione di Wikileaks (che sulla guerra in Iraq e Afghanistan rivela fonti segretate americane) contrasta con la versione ufficiale degli italiani, secondo la quale i lagunari avrebbero risposto al fuoco partito da un'auto che portava esplosivo. E' tuttavia questa una versione che era già stata contestata da giornalisti presenti a Nassiriya al momento dell'attacco.
La stessa notte vi era stato un secondo scontro a fuoco sui ponti di Nassiriya: un furgone non si era fermato a un posto di blocco, ne erano scesi uomini armati che avevano aperto il fuoco e gli italiani avevano risposto ingaggiando una battaglia nella quale «diversi insorti rimasero uccisi e altri feriti». Il problema è che i due fatti, avvenuti a circa un'ora di distanza 3,25 e 4,25 nella notte tra il 5 e il 6 agosto, probabilmente non erano stati riferiti distintamente. Anzi il rapporto del colonnello dei lagunari Emilio Motolese, redatto tre giorni dopo i fatti, si riferisce evidentemente al secondo scontro, trascurando il primo che era risultato anche il più clamoroso con l'attacco di civili. La ricostruzione del primo attacco, pubblicata da Wikileaks, sarebbe confermata da una inchiesta giudiziaria.
Gli italiani a quei tempi erano addetti alla difesa dei tre ponti di Nassiriya sull'Eufrate e spesso si scontravano con l'esercito di al Mahdi (le milizie di Muqtada al Sadr) che controllava la città.
Un altro file pubblicato dal sito - che ha mandato su tutte le furie americani, britannici e ora presumibilmente anche gli italiani - si riferisce alla morte di Salvatore Marracino, il militare morto durante una esercitazione il 15 marzo del 2005. Secondo la versione ufficiale italiana il soldato sarebbe morto accidentalmente mentre stata disinceppando la propria arma. Ora invece secondo un rapporto americano risulta che Salvatore Marracino è stato colpito accidentalmente alla testa da «fuoco amico» mentre si stava preparando ad una esercitazione. Era stato poi trasferito all'ospedale di Camp Mittica (registrato come incidente) e poi trasferito all'ospedale navale di Kuwait city, dove è morto. Salvatore Marracino di San Severo (Foggia) aveva 28 anni, otto trascorsi nell'esercito dove faceva parte di un reparto d'élite, il 185.o Rao (Reggimento acquisizione obiettivi) della Folgore.
I documenti rivelati sono numerosi e oltre a quelli sui 150.000 civili uccisi (di cui abbiamo già riferito) ieri ne sono usciti anche sulla consegna di prigionieri da parte dei soldati americani a una unità speciale irachena nota per le torture. Si tratta della Wolf brigade, commandos del ministero degli interni, creata con il sostegno degli Stati uniti.
Questi sono documenti segretati americani che a volte possono contribuire a fare chiarezza sugli avvenimenti mentre altre volte si limitano a dare una versione, quella dei servizi segreti americani.
Salvatore Marracino
___________________________________
GUERRE USA
Si agitano i fantasmi della guerra irachena. Con Wikileaks nuove rivelazioni sulla battaglia dei ponti di Nassiriya. L'Iran - influente anche a Kabul - sostiene la formazione di un nuovo governo sciita religioso in Iraq con l'appoggio di Siria e degli Hezbollah libanesi. Le reazioni del fronte sunnita con in testa i sauditi
Secondo i documenti diffusi da WikiLeaks il sergente Marracino fu ucciso da fuoco amico
Alberto Negriilsole24ore
Continua lo stillicidio di rivelazioni dal sito WikiLeaks, che da sabato ha diffuso, dopo le anticipazioni di al Jazeera una enorme mole di documenti top secret sulla guerra in Irak. dopo i particolari sulla liberazione della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, durante la quale fu ucciso l'agente dei servizi Nicola Calipari, nuove rivelazioni sono giunte lunedì sulla morte del militare italiano Salvatore Marracino, sulle minacce alla base di Nassiriya e sulla «battaglia dei Lagunari» dell'agosto 2004.
La morte di Salvatore Marracino. Salvatore Marracino, il militare italiano morto nel corso di una esercitazione il 15 marzo 2005 in Iraq, «è stato colpito accidentalmente», si legge nella documentazione pubblicata da Wikileaks. Secondo l'ipotesi più accreditata all'epoca, invece, il 28enne di San Severo (Foggia) si sparò alla fronte con la sua stessa arma, che si era inceppata poco prima. In un rapporto americano datato il 15 marzo 2005, classificato segreto e pubblicato da Wikileaks con diversi omissis, si legge che «alle ore 13, un (militare italiano) stava prendendo parte a un'esercitazione di tiro a Nassiriya. È stato accidentalmente colpito (alla testa). È stato trasferito all'ospedale in Camp (Mittica) e classificato come incidente. È stato trasferito all'Ospedale navale di (Kuwait City). È morto alle 16.45 circa», ora locale.
La notizia della morte a Nassiriya del sergente Marracino arrivò nell'Aula della Camera proprio mentre si stava per votare il rifinanziamento della missione italiana in Iraq. A informare il Parlamento fu il vicepremier Marco Follini spiegando che Marracino, «durante un'attività regolarmente programmata di tiro con le armi portatili, nel tentativo di risolvere un inceppamento della propria arma, è stato raggiunto da un colpo alla testa». Nel tempo la ricostruzione è apparsa sempre più sfocata: non si è più parlato esplicitamente di un colpo esploso dall'arma impugnata dallo stesso Marracino. Durante i funerali, la madre del ragazzo lanciò un appello ai commilitoni del figlio perchè la aiutassero a «fare chiarezza» su quanto accaduto.
Le minacce contro la base di Nassiriya. Reiterate minacce contro la base italiana di Nassiriya in Iraq - almeno tre gli attentati pianificati dal 2004 al 2006 - successivamente alla strage del novembre 2003 emergono nei file pubblicati da Wikileaks. Il 2 febbraio 2004, a Nassiriya gli insorti iracheni pianificavano un attacco contro la base italiana, colpita due mesi prima dall'attentato che costò la vita a 19 soldati.
Nuova minaccia nel maggio del 2005: gli insorti pianificano un attacco in grande stile contro la base di Nassiriya e quella britannica a Bassora. L'attacco, a colpi di mortaio, razzi, mine e Ied, era previsto per l'ultima settimana di maggio, di sera. Un anno dopo, i gruppi radicali di Nassiriya erano pronti a fomentare le violenze nel corso di manifestazioni popolari ostili alla coalizione in concomitanza con il ritiro italiano, iniziato formalmente il 16 giugno 2006 con il passaggio di consegne all'esercito iracheno. Il piano prevedeva l'utilizzo di ordigni artigianali da far esplodere lungo le strade nei pressi degli oleodotti e delle stazioni di carburante.
La battaglia dei Lagunari. Non sparavano gli occupanti del mezzo di soccorso iracheno colpito durante la «battaglia dei Lagunari», nell'agosto 2004 sui ponti di Nassiriya, in Iraq, e poi esploso perchè raggiunto dai colpi dei soldati italiani: lo si legge nella documentazione messa online da Wikileaks. I militari italiani dissero di aver risposto al fuoco proveniente dal veicolo iracheno.
WikiLeaks: non siamo antiamericani. WikiLeaks, che venerdì ha pubblicato circa 400.000 documenti riservati Usa sul conflitto iracheno, si difende dalla accuse di antimericanismo. "Non siamo anti-americani", ha dichiarato il portavoce Kristinn Hrafnsson alla radio Bbc4 e ha definito "assolutamente false" le accuse secondo le quali WikiLeaks potrebbe fare il gioco della propaganda dei fondamentalisti islamici. "Noi e tutti coloro che ci sostengono abbiamo a cuore solamente i principi che costituiscono le fondamenta della società americana, il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti", quello che garantisce la libertà di espressione, ha spiegato Hrafnsson.
«Si tratta di una coincidenza che i documenti rivelati in questi ultimi mesi riguardino l'esercito americano», ha aggiunto, ricordando che in passato il sito ha pubblicato dossier su altri Paesi. I documenti, che coprono il periodo compreso dall'inizio del 2004 al 1 gennaio 2010, riferiscono di 285.000 vittime della guerra in Iraq, tra cui almeno 109.000 decessi: di questi, 66.000 sono civili, pari a quasi i due terzi del totale. Dai rapporti stilati sul campo dagli americani emergono anche centinaia di denunce di abusi commessi sui detenuti dalle forze irachene.
lunedì 25 ottobre 2010
L'Ungheria sfida il Fondo monetario internazionale
Jérôme Duval
Fonte: http://www.cadtm.org/La-Hongrie-defie-le-FMI
Tradotto da Raffaella Selmi
L'Ungheria, che dal 1° gennaio 2011 assumerà per sei mesi la presidenza dell'UE , subisce pesantemente le conseguenze di una crisi finanziaria che sembra non finire. Pur non essendo così distante dai parametri di Maastricht in materia di deficit pubblico (3,8% nel 2008), l'Ungheria è il primo paese dell'Unione europea ad aver ottenuto il sostegno finanziario della Troika costituita da: Fondo Monetario Internazionale, UE e Banca Mondiale.
L'estrema destra entra in Parlamento
Viktor Orbán, visto da Marian Avramescu, Romania |
Non appena insediatosi, il governo ha diffuso dichiarazioni allarmistiche sulla situazione finanziaria del paese, chiamando in causa una sottostima dei conti da parte del precedente esecutivo che, in realtà, avrebbe portato al 7,5 % il rapporto tra il deficit e il PIL, ben al di sopra quindi del 3,8% previsto dal Fondo monetario internazionale. Bluff o falsificazione dei conti? In seguito a queste dichiarazioni, il 5 giugno 2010, il panico fa crollare le Borse di Londra, Parigi, Budapest ... e l'euro si deprezza nel timore di una crisi simile a quella della Grecia. Il governo sotto pressione, nel tentativo di recuperare, diffonde comunicati per tentare di calmare gli speculatori.
Tassazione del capitale o del lavoro ?
E’ evidente che il piano di tassazione delle banche, vero pomo della discordia tra Ungheria e Fmi, costituisce l’ostacolo al proseguimento del prestito. Il Fondo ritiene che il paese dovrebbe adottare misure in linea con il dogma corrente neoliberista: col che s’intende tassare i poveri prima delle banche. Certamente i poveri hanno pochi soldi…ma ce ne sono tanti!... A qualcuno sfugge il cinismo?
Inoltre, la previsione di un tetto agli stipendi dei dipendenti pubblici, compreso il governatore della banca centrale, è in netto contrasto con le raccomandazioni del Fondo che preferisce un livellamento “dal basso” attraverso la riduzione o il congelamento dei salari, com’è avvenuto in Grecia o in Romania. Attenzione a non farsi illusioni su un partito di governo che già nel 1990 aveva favorito l’ingresso del neoliberismo...
« O la tassa sulle banche, o l’austerità»
Ancora una volta il Fondo monetario internazionale si appresta a riesaminare la copia del governo e interviene direttamente nella definizione del bilancio ungherese a dispetto dalla sua sovranità. Nell’attesa, il FMI stima che il paese dovrà prendere "misure supplementari" di austerità per raggiungere gli obiettivi di disavanzo che si è dato. Dal canto suo il ministro dell'Economia, Gyorgy Matolcsy ha dichiarato in un’intervista che: "Abbiamo detto (ai nostri partner N.d.T.) che non c’è modo di aggiungere ulteriori misure di rigore a quelle già prese [...].: da cinque anni stiamo applicando un piano di austerità , e quindi è fuori questione”.
"Applicheremo la tassa sulle banche, sappiamo che si tratta di un fardello pesante, ma sappiamo anche che possiamo raggiungere (l'obiettivo), del 3,8% di disavanzo ". “O la tassa sulle banche, o l'austerità" Ha anche aggiunto (3). Per contenere un’estrema destra in continua ascesa, la destra conservatrice al potere vuole evitare misure impopolari in vista delle prossime elezioni comunali previste per ottobre e respinge qualsiasi ulteriore negoziato con il Fondo.
Rottura delle trattative tra Ungheria e FMI ?
Il 17 luglio il FMI ha sospeso le trattative e, di conseguenza, l’utilizzo della parte residua del credito. La reazione dei mercati non si è fatta attendere, e il fiorino, la moneta nazionale, ha perso circa il circa il 2,4% in apertura, mentre la Borsa ha subito una perdita di oltre il 4%. Il primo ministro, Viktor Orbán, ringraziando il FMI per il suo "aiuto durante i tre anni" ha indicato che "l’accordo sul prestito è scaduto nel mese di ottobre, e quindi non c'era niente da sospendere.”
"Le banche sono all’origine della crisi mondiale, è normale che contribuiscano a ripristinare la stabilità", ha sottolineato (4).
Il 22 luglio la nuova legge della tassa sulle banche, che prevede inoltre la riduzione del prelievo fiscale sulle piccole e medie imprese (PMI) dal 16 al 10 %, è stata approvata con una larga maggioranza (301 voti a favore e 12 contrari) dal Parlamento guidato dal Fidesz di Orbán . Non sorprende che il giorno dopo, le agenzie di rating Moody's e Standard and Poor's abbiano messo sotto osservazione l’Ungheria per un possibile declassamento del rating. Il ruolo di queste agenzie, giudici e parti di un sistema speculativo strangolatore, è presto detto: si alza il rating del governo conservatore salito al potere che aderisce al programma di austerità capitalista, si abbassa quando ci si rende conto che le misure non sono in linea con il dogma neoliberista.
Il quotidiano “Le Monde” sostiene i creditori
Diversamente da quanto sostiene il quotidiano francese Le Monde (5) nella sua edizione del 20 luglio, occorre appoggiare l’insubordinazione manifesta del governo ungherese al FMI,e sostenere l'idea che anzi deve fare lo stesso con l’altro suo creditore, l'Unione europea. Prendere le distanze da tali creditori non è un torto al popolo ungherese, per il quale pagare un debito alle condizioni imposte dal FMI e dalla UE è già un pesante fardello.
Naturalmente occorre andare oltre una semplice rottura diplomatica, proponendo, ad esempio, un fronte dei paesi a favore della cancellazione del debito, perché, come ha detto giustamente Sankara , ex presidente del Burkina Faso, pochi mesi prima di essere assassinato: "Il debito non può essere rimborsato innanzitutto perché ,se non paghiamo , i nostri creditori non moriranno, stiamone pur certi. Mentre, se paghiamo, siamo noi che moriremo .E anche di questo possiamo essere certi…(... ) Se solo il Burkina Faso si rifiuta di pagare il debito, non sarò qui alla prossima conferenza. Ma, con il sostegno di tutti, di cui ho bisogno (applausi), con il sostegno di tutti possiamo evitare di pagare. Ed evitando di pagare potremo impiegare le nostre scarse risorse per il nostro sviluppo." (6)
Solo una mobilitazione popolare che pretenda la verità sulla destinazione del denaro preso in prestito così come anche la soddisfazione delle richieste in termini di salari, occupazione o garanzie sociali, potrà ottenere che i veri responsabili della crisi ne paghino il costo.
Perciò è di vitale importanza per i popoli d'Europa e altrove, contestare questi debiti macchiati d’illegalità e rifiutarne il pagamento. E’ un primo passo verso la sovranità che permetterebbe di dirottare gli enormi fondi dedicati al rimborso del debito verso i bisogni reali della popolazione, la salute, l'istruzione, le pensioni, e (permetterebbe) di tutelare il servizio pubblico e non delegarlo ad aziende private.
Note
|1| Hongrie : Fitch salue le résultat électoral, Le Figaro, 26 aprile 2010
|2| Krisztina Than e Marton Dunai, L'UE et le FMI suspendent les consultations avec la Hongrie, Reuters, 17 luglio 2010
|3| Gergely Szakacs et Krisztina Than, La Hongrie exclut de nouvelles mesures d'austérité, Reuters, 19 luglio 2010
[4] « Hongrie : la taxe sur les banques est "juste et nécessaire" selon le Premier ministre », AFP, 22 luglio 2010.
[5] « En Hongrie, les curieuses manières de M. Orbán », editoriale di Le Monde
|6| Discorso di Thomas Sankara ad Addis-Abeba, il 29 luglio 1987, tre mesi prima della sua morte.
Per concessione di CADTM
Fonte: http://www.cadtm.org/La-Hongrie-defie-le-FMI
Data dell'articolo originale: 29/07/2010
URL dell'articolo: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=2098
domenica 24 ottobre 2010
BALLE DI STATO Guerra sui rifiuti, Bertolaso anti-Ue
NAPOLI
Dopo un'altra giornata di guerriglia urbana, il governo «congela» Cava Vitiello, la seconda discarica nel Parco nazionale del Vesuvio. Il commissario Ue all'Ambiente bacchetta il governo italiano: «Insufficienti le misure adottate dal 2007». E il capo della Protezione civile reagisce in malo modo: «Facciano il loro mestiere» «La Ue faccia il proprio mestiere». Guido Bertolaso ter tira fuori il mantello da commissario ad acta con i superpoteri pulenti e parte all'attacco della Commissione europea, ostinata nel ripetere che la Campania non è stata dotata di un piano smaltimento rifiuti credibile e l'inceneritore di Acerra non funziona a regime. «L'Unione europea - dichiara Bertolaso - farebbe bene a fare il proprio mestiere, invece di dare giudizi. Con l'Ue abbiamo un rapporto estremamente costruttivo, a sollevare perplessità è stata una parlamentare olandese che appartiene a un partito politico evidentemente poco amico del nostro Paese».
A finire sulla black list del capo della Protezione civile è l'eurodeputata laburista Judith Merkies, che aveva dichiarato: «In Campania la situazione è seria. Si possono scordare che siano sbloccati i fondi attualmente congelati dalla Commissione europea». Si tratta di 145,4 milioni di euro erogati dal Fondo per lo Sviluppo regionale che avrebbero dovuto finanziare piani per lo smaltimento rifiuti, congelato da tre anni e mezzo in virtù della procedura d'infrazione aperta il 26 aprile 2007. Un mini «editto bulgaro» quello di Bertolaso, che vorrebbe scegliere chi inviare a controllare il suo operato: «Mi auguro che mandino una delegazione seria, corretta e oggettiva, visto che da quando è divenuto presidente Josè Manuel Barroso non siamo stati contattati da nessuno dei membri della Commissione europea».
Immediata la risposta di Joseph Hennon, portavoce del commissario Ue all'Ambiente Janez Potocnik: «Le misure adottate dal 2007 in poi per risolvere la questione dei rifiuti in Campania sono insufficienti e potrebbero esserci sanzioni per l'Italia. Siamo pronti a fare il necessario nei contatti con lo Stato membro perché si adegui alle normative comunitarie».«A questo punto sarebbe necessario che l'Unione europea commissariasse Bertolaso». È il commento di Angelo Bonelli, presidente nazionale dei Verdi, tra quelli che hanno inviato a Bruxelles un'ampia documentazione sullo scempio di cava Sari.
Bonelli è convinto che lasciare all'uomo della Protezione civile mano libera a Terzigno equivale a preparare un nuovo disastro. È tutto il film raccontato da Bertolaso venerdì che non convince, a cominciare dall'immondizia per le strade di Napoli che sarebbe da addebitare alla gestione degli ultimi mesi della discarica di Terzigno, cioè tutta colpa dell'Asìa. «Un'ipotesi surreale - sostiene Bonelli - visto che lo sversatoio è stato realizzato dalla Protezione civile. Se nella falda acquifera la provincia di Napoli ha rilevato metalli pesanti e policlorobifenili, cioè diossine, è colpa di chi ha fatto l'impianto e non di chi l'ha gestito». Il Presidente del consiglio e il suo braccio destro si sono presentati con una lista delle cose da fare assurdamente identica a quella di tre anni fa. Una replica del disastro. «Nel 2007 - prosegue Bonelli - per convincere le popolazioni in rivolta il governo mise sul piatto 270 milioni di euro per bonifiche, compensazioni e raccolta differenziata. Non è arrivato un solo euro. Oggi offrono 14 milioni per la sola Terzigno, giustamente rifiutati dai cittadini».
Attraversati tre governi, da Berlusconi a Berlusconi passando per Prodi, il capo della Protezione civile sempre in cabina di regia non ha trovato modo di fare un solo sito di compostaggio, l'unica cosa che, eliminando la frazione umida, avrebbe impedito la fermentazione dei rifiuti in discarica, facendo sparire così il cattivo odore che ammorba i paesi vesuviani. Niente soldi per la differenziata. I fondi ci sono solo per altri tre termovalorizzatori. «In un solo anno - spiega ancora Bonelli - si sarebbero potuti convertire gli impianti di cdr, mal progettati dalla Fibe, in impianti per il trattamento meccanico biologico a bassissimo impatto ambientale senza dover incenerire a oltranza. E invece avanti con altre discariche, ma la cava Vitiello è inserita nel Piano evacuazione del Vesuvio come invaso per trattenere la lava in caso di eruzione, se la riempiono di immondizia poi ci devono spiegare come intendono fare se il vulcano si risveglia».
Termovalorizzatori per ampliare il giro di affari delle multiutility del nord, come la lombarda A2A già insediata ad Acerra, dove nessuno fornisce dati precisi sul monitoraggio dell'aria. Discariche che, invece, sono manna per la camorra. Business dei trasporti, vendita di terreni ma soprattutto la grande specialità dei clan: «Miscelare i rifiuti in modo da smaltire l'illecito con il lecito - conclude Bonelli - I militari mi hanno bloccato perché stavo fotografando cava Sari, tengono lontani i comitati che cercano di vigilare sulla salute delle comunità ma nessuno controlla cosa finisce in discarica, mancano addirittura le bolle di accompagnamento. Bertolaso venerdì ha detto che vigilerà, e cosa ha fatto fino a ora?».
145,4 MILIONI DI EURO Sono i fondi congelati dall'Unione europea, che giudica inadeguate le misure messe in campo dal governo italiano per risolvere l'emergenza rifiuti in Campania
sabato 23 ottobre 2010
È il momento di passare all’azione
New York Times
L e persone per bene sono rimaste inorridite dal voto del 29 settembre alla camera dei rappresentanti di Washington. Un’ampia maggioranza bipartisan ha approvato una legge presentata dal deputato Sander Levin. Il provvedimento potrebbe porre le premesse per sanzioni commerciali contro la Cina legate alla politica monetaria del paese asiatico. La legge non è molto dura, ma di fronte alle allarmanti voci di guerre commerciali e altre catastrofi economiche, gli opinionisti più moderati ritengono che sia meglio non fare chiasso e privilegiare la diplomazia. Queste persone per bene, che da quando è cominciata la crisi si sono sbagliate su tante cose (per esempio, dicevano che il deficit pubblico statunitense avrebbe fatto impennare i tassi d’interesse e l’inflazione), si sbagliano anche questa volta. Per quanto riguarda la politica monetaria cinese, la diplomazia non otterrà niente inché non sarà accompagnata da qualche minaccia di ritorsione. L’isteria sulla possibile guerra commerciale è ingiustificata, e comunque ci sono cose peggiori dei conlitti commerciali. In un periodo come questo, con una disoccupazione di massa aggravata dalla politica predatoria della Cina in campo valutario, la possibilità di qualche nuovo dazio dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni statunitensi. Ma facciamo un passo indietro. Le grandi economie industrializzate subiscono ancora gli effetti della bolla immobiliare e della crisi inanziaria. I consumi sono calati e quindi le aziende non hanno incentivi a espandere le loro attività. La recessione sarà anche finita, ma il tasso di disoccupazione è molto alto e non dà segni di voler tornare ai livelli normali. La situazione delle economie emergenti è diversa: hanno resistito alla tempesta economica e offrono molte opportunità d’investimento. Com’è naturale, quindi, i capitali provenienti dai paesi più ricchi ma in crisi si dirigono verso i paesi emergenti, che quindi potrebbero essere decisivi nell’uscita dalla recessione globale. La principale economia emergente, la Cina, ostacola invece questo processo naturale. Pechino ha limitato l’aflusso di capitali privati per mezzo di restrizioni sugli investimenti stranieri e mantiene artiicialmente basso il valore dello yuan. Questo aiuta le esportazioni cinesi, ma danneggia l’occupazione nel resto del mondo. La fata turchina Le autorità cinesi difendono questa politica con argomenti poco convincenti e al tempo stesso incoerenti. Pechino nega di manipolare deliberatamente il tasso di cambio. Forse vorrebbe farci credere che è stata la fata turchina ad accumulare riserve per 2.400 miliardi di dollari e a mettergliele sotto il cuscino mentre dormiva. Ma esponenti di primo piano dell’élite cinese dicono che le riserve non contano, perché il surplus commerciale della Cina non c’entra niente con il tasso di cambio. Eppure il primo ministro Wen Jiabao ha dichiarato: “Non possiamo immaginare quante fabbriche cinesi fallirebbero, e quanti operai perderebbero il lavoro, se lo yuan si rivalutasse troppo rapidamente”. Allora il valore dello yuan conta qualcosa. Pechino fa di tutto per ostentare il suo disprezzo nei confronti dei negoziatori statunitensi. A giugno i cinesi avevano detto di essere disposti a lasciar finalmente determinare dal mercato il valore della moneta. Questo avrebbe comportato un netto apprezzamento della valuta cinese. Invece in questi mesi il valore dello yuan è cresciuto appena del 2 per cento rispetto al dollaro, per lo più solo nelle ultime settimane, cioè con l’avvicinarsi del voto sulla proposta di legge di Levin. A cosa servirà dunque questa nuo- va legge? Permette – ma, si badi bene, non impone – alle autorità statunitensi di applicare dazi sulle esportazioni cinesi che sfruttano il valore artificialmente basso dello yuan. Ora, l’esperienza ci insegna che Washington non passerà all’azione. Anzi, continuerà a trovare scuse e a vantare progressi del tutto immaginari sul terreno diplomatico. Insomma sarà confermato quello che i cinesi pensano delle autorità statunitensi: che sono delle tigri di carta. Quindi la legge Levin può essere considerata al massimo un segnale rivolto ai cinesi. In ogni caso, è un passo nella direzione giusta. Perché la verità è che finora, di fronte ai comportamenti inaccettabili della Cina, i politici statunitensi sono stati incredibilmente e scandalosamente passivi. Specialmente se si considera che, visto l’ostruzionismo dei repubblicani, una delle poche possibilità che restano all’amministrazione Obama per afrontare il problema della disoccupazione è dar battaglia alla Cina. Probabilmente la legge Levin non basterà a modiicare questo atteggiamento passivo, ma almeno comincerà a mettere sotto pressione i politici statunitensi. E questo ci avvicinerà al momento in cui saranno inalmente pronti ad agire.
Paul Krugman è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times.
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La coscienza di un liberal (Laterza 2009). Finora l’azione diplomatica non ha prodotto risultati. Le maniere forti convinceranno Pechino a rivalutare lo yuan
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