New York Times
L e persone per bene sono rimaste inorridite dal voto del 29 settembre alla camera dei rappresentanti di Washington. Un’ampia maggioranza bipartisan ha approvato una legge presentata dal deputato Sander Levin. Il provvedimento potrebbe porre le premesse per sanzioni commerciali contro la Cina legate alla politica monetaria del paese asiatico. La legge non è molto dura, ma di fronte alle allarmanti voci di guerre commerciali e altre catastrofi economiche, gli opinionisti più moderati ritengono che sia meglio non fare chiasso e privilegiare la diplomazia. Queste persone per bene, che da quando è cominciata la crisi si sono sbagliate su tante cose (per esempio, dicevano che il deficit pubblico statunitense avrebbe fatto impennare i tassi d’interesse e l’inflazione), si sbagliano anche questa volta. Per quanto riguarda la politica monetaria cinese, la diplomazia non otterrà niente inché non sarà accompagnata da qualche minaccia di ritorsione. L’isteria sulla possibile guerra commerciale è ingiustificata, e comunque ci sono cose peggiori dei conlitti commerciali. In un periodo come questo, con una disoccupazione di massa aggravata dalla politica predatoria della Cina in campo valutario, la possibilità di qualche nuovo dazio dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni statunitensi. Ma facciamo un passo indietro. Le grandi economie industrializzate subiscono ancora gli effetti della bolla immobiliare e della crisi inanziaria. I consumi sono calati e quindi le aziende non hanno incentivi a espandere le loro attività. La recessione sarà anche finita, ma il tasso di disoccupazione è molto alto e non dà segni di voler tornare ai livelli normali. La situazione delle economie emergenti è diversa: hanno resistito alla tempesta economica e offrono molte opportunità d’investimento. Com’è naturale, quindi, i capitali provenienti dai paesi più ricchi ma in crisi si dirigono verso i paesi emergenti, che quindi potrebbero essere decisivi nell’uscita dalla recessione globale. La principale economia emergente, la Cina, ostacola invece questo processo naturale. Pechino ha limitato l’aflusso di capitali privati per mezzo di restrizioni sugli investimenti stranieri e mantiene artiicialmente basso il valore dello yuan. Questo aiuta le esportazioni cinesi, ma danneggia l’occupazione nel resto del mondo. La fata turchina Le autorità cinesi difendono questa politica con argomenti poco convincenti e al tempo stesso incoerenti. Pechino nega di manipolare deliberatamente il tasso di cambio. Forse vorrebbe farci credere che è stata la fata turchina ad accumulare riserve per 2.400 miliardi di dollari e a mettergliele sotto il cuscino mentre dormiva. Ma esponenti di primo piano dell’élite cinese dicono che le riserve non contano, perché il surplus commerciale della Cina non c’entra niente con il tasso di cambio. Eppure il primo ministro Wen Jiabao ha dichiarato: “Non possiamo immaginare quante fabbriche cinesi fallirebbero, e quanti operai perderebbero il lavoro, se lo yuan si rivalutasse troppo rapidamente”. Allora il valore dello yuan conta qualcosa. Pechino fa di tutto per ostentare il suo disprezzo nei confronti dei negoziatori statunitensi. A giugno i cinesi avevano detto di essere disposti a lasciar finalmente determinare dal mercato il valore della moneta. Questo avrebbe comportato un netto apprezzamento della valuta cinese. Invece in questi mesi il valore dello yuan è cresciuto appena del 2 per cento rispetto al dollaro, per lo più solo nelle ultime settimane, cioè con l’avvicinarsi del voto sulla proposta di legge di Levin. A cosa servirà dunque questa nuo- va legge? Permette – ma, si badi bene, non impone – alle autorità statunitensi di applicare dazi sulle esportazioni cinesi che sfruttano il valore artificialmente basso dello yuan. Ora, l’esperienza ci insegna che Washington non passerà all’azione. Anzi, continuerà a trovare scuse e a vantare progressi del tutto immaginari sul terreno diplomatico. Insomma sarà confermato quello che i cinesi pensano delle autorità statunitensi: che sono delle tigri di carta. Quindi la legge Levin può essere considerata al massimo un segnale rivolto ai cinesi. In ogni caso, è un passo nella direzione giusta. Perché la verità è che finora, di fronte ai comportamenti inaccettabili della Cina, i politici statunitensi sono stati incredibilmente e scandalosamente passivi. Specialmente se si considera che, visto l’ostruzionismo dei repubblicani, una delle poche possibilità che restano all’amministrazione Obama per afrontare il problema della disoccupazione è dar battaglia alla Cina. Probabilmente la legge Levin non basterà a modiicare questo atteggiamento passivo, ma almeno comincerà a mettere sotto pressione i politici statunitensi. E questo ci avvicinerà al momento in cui saranno inalmente pronti ad agire.
Paul Krugman è un economista statunitense. Nel 2008 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia. Scrive sul New York Times.
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La coscienza di un liberal (Laterza 2009). Finora l’azione diplomatica non ha prodotto risultati. Le maniere forti convinceranno Pechino a rivalutare lo yuan
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