domenica 31 ottobre 2010

L’indipendenza dei sudditi


Noam Chomsky
Mit di Boston

Tra tutte le “minacce” all’ordine mondiale, la più pericolosa per il potere imperiale è la democrazia, a meno che non rimanga sotto stretto controllo. È una minaccia qualsiasi affermazione di indipendenza. Nel corso della storia, le scelte di politica imperiale sono sempre state guidate da queste paure.

In Sudamerica, il tradizionale cortile di casa degli Stati Uniti, i sudditi stanno per esempio diventando sempre più disobbedienti. A febbraio hanno perfino creato la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, che comprende tutti i paesi dell’emisfero ma non Stati Uniti e Canada.

Per la prima volta dall’arrivo dei conquistatori spagnoli e portoghesi cinquecento anni fa, il Sudamerica sta andando verso l’integrazione, un prerequisito necessario per l’indipendenza. E si sta anche rendendo conto di quanto sia scandaloso che un continente così ricco di risorse possa essere controllato da poche élite ricche circondate da un mare di povertà. Inoltre, i rapporti tra i paesi del sud del mondo si stanno sviluppando, e al loro interno la Cina sta svolgendo un ruolo importante, sia come consumatore di materie prime sia come investitore. La sua influenza sta rapidamente crescendo e in alcuni paesi ricchi di risorse ha superato quella degli Stati Uniti.

Alcuni cambiamenti significativi sono avvenuti anche in Medio Oriente. Sessant’anni fa il diplomatico Adolf Berle fu uno dei primi a dire che chi avesse controllato le incomparabili risorse energetiche della regione avrebbe avuto “il controllo del mondo”. Negli anni settanta i maggiori produttori di idrocarburi nazionalizzarono le loro riserve, ma l’occidente mantenne una forte inluenza su quei paesi.

Nel 1979 gli Stati Uniti “persero” l’Iran in seguito alla caduta dello scià, salito al potere nel 1953 con un colpo di stato appoggiato da Washington e Londra per garantire che il suo petrolio rimanesse nelle mani giuste. Ma oggi l’America non riesce più a controllare neanche i paesi tradizionalmente suoi amici.

Le maggiori riserve di petrolio sono in Arabia Saudita, che dipende dagli Stati Uniti da quando cacciarono via gli inglesi durante la seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti rimangono di gran lunga i maggiori investitori e partner commerciali dei sauditi, che a loro volta sostengono l’economia americana con i loro investimenti. Oggi, però, più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro ormai Riyad guarda a oriente.

La stessa cosa potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio, se riuscirà a risorgere dopo la distruzione causata dalle sanzioni e dall’invasione angloamericana. E la politica degli Stati Uniti sta spingendo anche l’Iran, il terzo produttore mondiale, nella stessa direzione.

Ormai la Cina ha sostituito gli Stati Uniti ed è la maggiore importatrice di petrolio dal Medio Oriente, mentre le sue esportazioni invadono la regione. Le possibili conseguenze di questa situazione per l’ordine mondiale sono importanti, come lo è la nascita dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, che comprende quasi tutti i paesi asiatici ma esclude gli Stati Uniti e che, come osserva l’economista Stephen King, autore di Losing control: the emerging threats to Western prosperity, potrebbe diventare “un nuovo cartello energetico di cui farebbero parte sia i produttori sia i consumatori”.

Tra i politici occidentali il 2010 viene chiamato “l’anno dell’Iran”. Si ritiene che quel paese sia la più grande minaccia per l’ordine mondiale e per questo sia al centro della politica estera degli Stati Uniti e dell’Europa, che li segue educatamente come al solito. Il pericolo rappresentato dall’Iran non è di tipo militare, ma deriva dal suo desiderio di indipendenza. Per mantenere la “stabilità”, Washington ha imposto sanzioni severe a Teheran, ma al di fuori dell’Europa ben pochi le rispettano.

Turchia e Pakistan stanno costruendo nuovi oleodotti e intensiicando i rapporti commerciali con gli iraniani. L’opinione pubblica araba è contrariata per la politica occidentale e in gran parte favorevole al programma nucleare di Teheran. Questo conlitto va tutto a vantaggio della Cina. “Gli investitori e le imprese cinesi stanno andando a riempire il vuoto man mano che molti altri paesi, soprattutto europei, si ritirano dall’Iran”, ha scritto Clayton Jones sul Christian Science Monitor.

E Washington reagisce in modo disperato. In agosto il dipartimento di stato ha avvertito Pechino che “se vuole fare afari con il resto del mondo deve prima modiicare la sua immagine. Se hai la fama di essere un paese che sfugge alle sue responsabilità internazionali, questo alla lunga avrà delle conseguenze”. E ovviamente avere “responsabilità internazionale” consiste essenzialmente nell’obbedire agli ordini degli Stati Uniti.

È improbabile che i leader cinesi si lascino impressionare da questi discorsi, dal linguaggio di una potenza imperiale che cerca disperatamente di aggrapparsi a un’autorità che non ha più. Il modo sprezzante in cui la Cina ignora gli ordini degli Stati Uniti è molto più pericoloso per Washington delle minacce dell’Iran.

NOAM CHOMSKY insegna linguistica all’Mit di Boston. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Sulla nostra pelle. Mercato globale o movimento globale? (Il Saggiatore tascabili 2010). Oggi più della metà del petrolio saudita esportato va in Asia e per il suo futuro Riyad guarda a oriente. Lo stesso potrebbe fare l’Iraq, che è al secondo posto nel mondo per le riserve di greggio



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