Perché è pur necessario, per l’etica 
della responsabilità, che si dia un giudizio sulle responsabilità dei 
governanti della Regione, in primo luogo, della lunga stagione della 
Autonomia; in secondo luogo, del ceto dirigente della società sarda, del
 quale, in fin dei conti, il ceto politico è espressione. Sto chiamando 
in causa l’intellettualità sarda, gli imprenditori, i formatori delle 
giovani generazioni, il sindacato e le rappresentanze di impresa. Fatta 
salva la principale responsabilità dei dirigenti politici e degli 
amministratori regionali.
Responsabilità per lo stato attuale della Sardegna.
La quale si è trovata ad affrontare la stagione della globalizzazione senza la pur possibile attrezzatura.
In
 primo luogo senza una intellettualità impegnata nella elaborazione di 
un progetto di modernità che avesse, contemporaneamente, una forte 
elaborazione identitaria, una consapevolezza degli strumenti necessari 
per la sua affermazione, una visione istituzionale capace di piena 
rappresentanza per la affermazione degli interessi del popolo sardo.
E una attività di governo che avesse orizzonti larghi e visioni lunghe. Le due cose si intrecciano, evidentemente.
Non
 si è realizzata in Sardegna la necessaria e possibile accumulazione di 
forza democratica per deficit nella accumulazione dei saperi, dei 
poteri, delle produzioni, delle innovazioni e di giustizia sociale
Sinteticamente, c’è stato un deficit di sardismo.
Intendo
 il sardismo come soggettività politica di un popolo che pretende di 
affermare contemporaneamente giustizia e libertà. Questo era l’azionismo
 originario dei padri fondatori del P.S. d’Az., coniugato con la forte 
determinazione a conquistare i poteri necessari per l’autogoverno del 
popolo sardo.
E
 collocavano, i padri fondatori, la Sardegna in un orizzonte europeo, 
proponendo, già allora, l’unità dell’Europa dei popoli, federale, 
solidale, e specialmente per Lussu, socialista.
Intorno
 all’obiettivo della conquista dello statuto di Autonomia si è 
realizzata una forte mobilitazione di consapevolezze e di popolo.
Come
 pure, in attuazione dell’articolo 13 dello statuto si è realizzata una 
battaglia rivendicativa della rinascita che, pur con limiti, ha 
conquistato impegno di risorse e ha consentito una importante 
implementazione dei poteri, per qualche parte normativa, per altre parti
 di esercizio di fatti di altri poteri.
Valga per tutti la limitazione dei poteri della Cassa per il Mezzogiorno, allora onnipotente.
Ma
 è stato scelto un modello di sviluppo incentrato sulla industria di 
base, poi fallita, che non ha portato all’accumulazione della 
produzione, nè alla nascita e affermazione di un sistema di imprese 
sarde del settore industriale. E in quel frangente storico non si è 
realizzata la necessaria e possibile apertura verso le innovazioni che 
nel mondo si andavano realizzando.
La
 carica identitaria si è indirizzata prevalentemente verso un 
rivendicazionismo e una vertenzialità economica e istituzionale durante 
la quale però, alla fin fine, lo stato italiano, i suoi governi si sono 
sottratti all’impegno per la Rinascita, progressivamente riducendo la 
presenza delle partecipazioni statali, introducendo la pratica tutta 
assistenzialistica della cassa integrazione a vita per la giovane classe
 operaia.
In
 gran parte della Sardegna non si è conosciuta la seconda generazione 
operaia. Responsabilità, certo, dello stato italiano e dei suoi governi.
 Ma responsabilità, anche dei governi regionali e del ceto dirigente 
tutto. Ciascuno per quanto gli compete.
E
 nel frattempo è nata la società dell’informazione. E la quantità della 
nostra scolarizzazione e la qualità della nostra formazione, non sono 
state adeguate. Non perché non si siano spese risorse: è mancata la 
finalizzazione a un progetto di sviluppo adeguato ai tempi. Che anzi i 
fatti innovativi che si sono proposti sono stati osteggiati perché 
mettevano in discussione gli equilibri di potere. Lo stesso fenomeno del
 turismo è nato come corpo sostanzialmente esterno e la nascita e la 
crescita delle imprese turistiche sarde hanno tardato e non hanno 
costituito ancora oggi sistema. E le tematiche ambientali sono state 
vissute come ostacolo all’imprenditoria e le questioni dell’acqua e 
dell’energia sono state vissute come fatti non combinabili come 
occasione per organizzare un nuovo modello di sviluppo.
E
 la riforma agropastorale estesa fin in tutte le zone irrigue ha dato 
importanti risultati nel settore primario, abbandonato però alla logica 
predatoria degli industriali del latte; ma di fatto ha orientato gli 
investimenti e le attenzioni quasi esclusivamente verso la pecora e non 
per le colture ortofrutticole per le quali siamo rimasti completamente 
dipendenti.
La
 Regione Autonoma aveva i poteri per fare questo o altro. Non è stato 
fatto l’altro necessario e possibile. E’ stato creato un sistema 
regionale centralistico e ministerializzato. Ma la Regione, di norma, 
avrebbe dovuto operare attraverso gli Enti locali. E’ stato creato un 
sistema di bilancio finalizzato alla gestione centralistica che non ha 
consentito agli amministratori locali di esercitare la propria 
autonomia, riducendo in questo modo la possibilità di ricambio del ceto 
politico regionale. Si potrebbe continuare.
L’etica
 della responsabilità vuole che chi ha avuto ruolo politico, per la 
parte che gli compete, se ne assuma le responsabilità. Anche senza 
assolvere lo stato italiano, l’Europa, e i relativi governi.
Nel
 1975 il Consiglio Regione ha nominato una commissione speciale per 
riscrivere lo statuto di Autonomia. Non è stato riscritto. E’ stato solo
 delegittimato lo statuto esistente non è stato elaborato e adottato il 
nuovo. Siamo a questo punto.
Una visione sovranista, indipendentista, autonomista, oggi non può sostanziarsi di passato.
Ne si può lontanamente pensare che non si debba prendere atto di quanto di nuovo è sopravvenuto.
Esiste
 l’Unione Europea che decide sulla gran parte dei nostri interessi. Gli 
stati nazione di stampo ottocentesco sono finiti e le ultime feroci 
resistenze messe in campo per tenerli in vita in quella forma stanno 
solo facendo danno all’idea di Europa e ai cittadini tutti.
I
 migranti che cercano condizioni di vita migliore, mantenendo la propria
 identità culturale e religiosa, sono una realtà della quale bisogna 
prendere atto positivamente.
La
 finanziarizzazione dell’economia, e la impossibilità e incapacità degli
 stati nazione a contrastarla rende necessaria altre culture rispetto a 
quelle che abbiamo ereditato e conosciute.
Le
 relazioni con questa nuova realtà pretendono che la consapevolezza di 
essere popolo e nazione (nobile eredità sardista) si trasformi in scelte
 e atti che consentano a questo popolo e a questa nazione di essere 
riconosciuti dagli altri popoli e dalle altre nazioni.
E
 ben per questo serve oggi affermare che l’identità del popolo sardo, 
oltre le radici e la cultura ereditata è costituita e sostanziata per 
quello che siamo.
E per quanto, materialmente, è necessario fare va detto che la sovranità si conquista, per intanto, esercitandola.
Servono partiti di Sardegna, sovrani. Servono governi e parlamentari sardi non subalterni a chicchessia.
Serve uno statuto di sovranità, costituzionalmente riconosciuto in Europa e in Italia.
Serve una costituzione Europea per l’esercizio della sovranità del popolo europeo, federalista.
Serve una costituzione italiana federalista.
Serve
 che la costituzione federalista europea e italiana prevedano il 
principio di allargamento interno che possa consentire la politica 
pacifica della autodeterminazione.
E serve dire con chiarezza che la Sardegna ha come orizzonte politico e istituzionale permanente l’Europa.
Serve
 anche che nella congiuntura non breve della battaglia per la sovranità i
 ceti dirigenti di questo popolo sardo sappiano coniugare la pratica 
dello statuto come fatto costituito e la innovazione di una consapevole 
fase costituente.
Democratica, partecipata, generosa.