domenica 19 febbraio 2023

IL GRAFOLOGO romanzo di Mariano Abis parte seconda


 

IL GRAFOLOGO 

romanzo di Mariano Abis

parte seconda


La mia “evasione” avvenne ben oltre il tempo preventivato, in quanto i miei genitori quella notte andarono a letto più tardi del solito, e quando fui finalmente in strada, illuminata in maniera approssimativa, dovetti ricevere i rimproveri dei compagni, ormai stufi di aspettarmi, e decisi a giudicarmi in maniera non proprio favorevole, anche loro avevano rischiato punizioni per la strana uscita notturna. Ci avviammo verso la periferia estrema del paese, in una notte che diventava sempre più buia, man mano che ci lasciavamo alle spalle le ultime case, fino ad arrivare a ridosso di un muro che, viste le nostre stature, ci sembrava incredibilmente alto. Era il muro di recinzione del camposanto, eravamo arrivati a destinazione, mi aiutarono a scavalcarlo, lo feci senza problemi, ma il salto dall’altra parte era problematico, mi armai di coraggio e con un salto insicuro ero dall’altra parte, ora potevo contare solo sulle mie capacità, dovevo attraversare tutta l’area, a tentoni, e uscire dalla parte opposta, dove mi avrebbero aspettato i miei amici. Inciampai più volte al buio completo, ma finalmente arrivai a destinazione, chiamai tutti i nomi dei compagni, ma nessuno rispondeva, non mi preoccupai troppo, pensando che volessero ricambiare il favore di averli fatti aspettare in precedenza, e cercai un posto favorevole per scavalcare il muro, al buio scovai un albero quasi addossato al muro, e lo usai come appoggio per un’impresa che senza di esso sarebbe stata impossibile. Avevo finalmente quasi superato la prova, bastava un altro problematico salto verso la tranquillità, lo eseguii senza danni, ma con la speranza di atterrare in un posto senza ostacoli, visto che il buio era assoluto. Di amici nel circondario nemmeno l’ombra, mi avviai così da solo verso casa. Mi aspettavano a un centinaio di metri da casa mia, l’impresa era compiuta. Il nostro gruppo era uno dei meno numerosi, perché chi voleva entrare a farvi parte, doveva sottostare al severo giudizio dei componenti, e superare prove impegnative per venirne ammessi, la nostra fantasia veniva usata anche per inventare nuove prove. E così trascorrevo il mio tempo, mentre i miei compagni, a volte, erano costretti a qualche lavoro leggero in campagna, essendo tutti figli di agricoltori o pastori. Alcuni di loro, in tempo di mietitura, erano costretti a trascorrere notti intere a guardia dei covoni, altra prova di coraggio. Più di una volta è capitato di avere perso di vista qualche mio compagno per qualche giorno, specie se figlio di pastori, impegnato a trascorrere giornate e nottate in campagna, a custodire il gregge, o a non vederlo mai più a scuola, perché impegnato a dare una mano in famiglia. Vivevo in una società essenziale, dai bisogni semplici, una civiltà contadina che oggi è disprezzata e derisa, ma che racchiudeva dentro i suoi gesti e le sue peculiarità, una filosofia di vita, ben più positiva dell’andazzo a cui siamo obbligati ad assistere oggi. Il rispetto dei figli verso i genitori, se pure in presenza di disubbidienze generalizzate, era integra, l’anziano era, e non uso una parola a caso, venerato, e i suoi consigli messi in pratica, i suoi racconti, nei pressi dei portoni delle case, la sera, o di fronte al focolare, erano seguiti attentamente, in un mondo dove la tradizione orale aveva grande rilevanza, e se pure noi ragazzi compivamo qualche marachella, non ci saremmo mai sognati di effettuarla in presenza degli adulti, avremmo ricevuto sonore lezioni se pescati in “flagranza di reato”, mentre così, a volte, riuscivamo a scampare la punizione.

Il compito dei genitori era, allora, di istruire i figli sulla vita, sul giusto modo di relazionarsi, mettendo bene in chiaro quali fossero i doveri. Il rispetto costante e tassativo per le istituzioni statali o ecclesiastiche, un corretto comportamento scolastico, e quando capitava un problema, i genitori erano generalmente propensi a dare torto ai figli. Ma allora, chi aveva il compito di accompagnare i ragazzi verso la vita futura, era sicuramente conscio della responsabilità affidatagli, ed eseguiva il compito in maniera impeccabile, con un pizzico di passione, che ora in genere non viene messa in campo. Ricordo ancora con ammirazione la mia maestra elementare, un esempio irripetibile, penso, al giorno d’oggi, perché la competenza, la gentilezza, il farsi rispettare senza compiere gesti eclatanti, solo con la forza dell’esempio e delle parole giuste, veniva messo in campo con naturalezza, dedizione e coscienza, sapendo che stava formando giovani vite nel loro percorso verso il mondo dei grandi, in preparazione a comportamenti corretti. Una naturalità e uniformità di comportamenti che oggi riusciamo solo ad immaginare, e sognare; quando un genitore dovrebbe fidarsi di un’insegnante che probabilmente non possiede quelle caratteristiche, perché formato in un ambiente meno naturale di quello conosciuto da loro, allora nasce spontanea la domanda se l'insegnante sia all'altezza del compito.

Quando, parecchi anni dopo, mi apprestavo a frequentare le scuole di casteddu, avevo timore di abbandonare quel mondo rurale semplice, avevo la paura di incontrare gente dalla formazione differente, avrei dovuto “studiare” più dettagliatamente le persone con cui sarei venuto in contatto, predisposizione che però non mi pesava, anzi, che mi veniva spontanea, dato che ho sempre avuto l’abitudine di osservare il comportamento e la gestualità della gente, e in genere non avevo mai difficoltà a valutarla correttamente. Da allora, in quegli anni di studio nel capoluogo, raccoglievo scritti delle persone con cui venivo a contatto, e, a loro insaputa, ero riuscito a formare una specie di banca dati, che mi avrebbe consentito di valutare, seppure con metodi poco scientifici, empirici, la loro personalità osservando i segni che lasciavano sui fogli, e la gestualità che esprimevano nel tracciarli.

L’impressione generale che ricavavo, e i loro comportamenti successivi, mi consentirono di dare una parvenza di organicità alle mie conclusioni, e correlavo il loro comportamento a quelle scritture, che così diventavano funzionali alla valutazione delle persone. Certi segni, espressi con le mani o con la gestualità del corpo, oppure tracciati da una penna su un foglio, erano, per me, inequivocabili, e se qualcuno non aveva ancora esplicitato certe sue caratteristiche, ero sicuro che il tempo avrebbe confermato le mie impressioni, e certificato la bontà delle valutazioni. Se incontravo una persona, per esempio, che faceva del decisionismo una delle sue caratteristiche peculiari, immaginavo quale fosse a grandi linee il suo modo di scrivere. Così come, una volta constatata la predisposizione di un’altra persona alla bontà, e al naturale relazionarsi con gli altri, e osservando la sua gestualità, immaginavo quale fosse la sua scrittura, e molto raramente, una volta osservati i suoi scritti, sbagliavo. Ci doveva essere per forza di cose una parvenza di scientificità nella valutazione dei segni lasciati sul foglio, dato che avevo catalogato certe caratteristiche, e generalmente le mie valutazioni non si discostavano troppo dalla realtà dei fatti. E accanto ai miei studi, indirizzati a emulare la mia maestra elementare che tanto avevo ammirato in passato, erano presenti gli studi inconsapevoli di una materia di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, la psicologia. Ma il mio impegno era indirizzato esattamente in quella direzione, e allo studio di un’altra materia allora sconosciuta, ma ad essa correlata. Il gioco antico e inconsapevole che facevo sulla spiaggia cagliaritana, era indirizzato anch’esso verso quella materia che verrà catalogata in seguito come una scienza sperimentale, la grafologia.

Osservavo, quando possibile, gli scritti di persone famose o conosciute direttamente, dalla personalità certa, e correlavo quelle conoscenze, con i segni che lasciavano sui fogli, e pian piano le mie competenze in materia aumentarono, fino a catalogare infiniti parametri che mi risultavano evidenti, persino al primo, fugace sguardo. Non ero, però, in possesso di valutazioni atte a codificare esattamente tale lavoro, ma una considerazione mi veniva spontanea, e cioè che gestualità del corpo e soprattutto delle braccia e delle mani, corrispondevano alla gestualità necessaria alla funzione dello scrivere, più tardi altre valutazioni che allora non consideravo, mi avrebbero aiutato a codificare ancora meglio i segni lasciati sul foglio. Doveva pur esserci una correlazione tra loro, e mi impegnai a valutare con una parvenza di scientificità, i molti fattori che relazionavano tali azioni. In quel periodo raccoglievo in decine di cartelle gli scritti di persone conosciute o famose, di cui di queste ultime riproducevo la scrittura, ed ogni cartella conteneva scritti abbastanza simili tra loro, o con caratteristiche comuni, sia nello scrivere parole che segni. Mi allenavo, una volta venuto a contatto con una persona appena conosciuta, ad esaminare prima la sua gestualità, poi il suo carattere, ed infine immaginare quale stile di scrittura adottasse.

Una volta terminati gli studi cagliaritani, ed essendo abilitato ad insegnare nelle scuole elementari, cercai immediatamente lavoro, che non tardò ad arrivare, mi venne assegnata una cattedra, però, lontano da casa, e presi la decisione di non sprecare l’occasione, e attraversare il mare, in direzione delle marche, una regione di cui non immaginavo nemmeno lontanamente le caratteristiche. I giorni successivi furono dedicati a salutare gli amici di tante avventure, le mie conoscenze cittadine e paesane, tra cui la vecchia maestra, e i miei genitori e le mie sorelle. Sto compiendo un’azione che è la prima della mia vita, che pochi conterranei avevano avuto modo di eseguire, azione descritta ironicamente come lo sport preferito dai sardi, il salto del tirreno. A bordo del piroscafo mi sembra di essere un pioniere, diretto verso mondi sconosciuti, ma affascinanti, verso la conoscenza di una regione che mi hanno descritta come molto più ricca e sviluppata della mia, con gente dalle caratteristiche completamente dissimili dal carattere dei Sardi, a cui mi sono abituato finora. E se sulla nave ho avuto modo di sentire varie lingue, ma sostanzialmente simili alla mia, il campidanese, più qualche altroa lingua parzialmente sconosciuta, una volta sbarcato a civitavecchia, mi sono sentito spaesato, e se pure parlavo in italiano, non tutti mi rispondevano a tono, e molti si esprimevano con dialetti per me incomprensibili. Non voglio andare direttamente verso la regione che mi è stata assegnata, dato che ho ben una giornata di tempo libero, e mi dirigo verso roma, che ho sempre desiderato visitare, più di ogni altra città al mondo. Resto affascinato e stupito dalla maestosità dei vari monumenti, dalla larghezza delle strade, dalla grandezza fuori da ogni aspettativa delle piazze, dalle sue innumerevoli e affascinanti fontane, dalle strade lastricate in modo così particolare, e quando vengo a contatto visivo con i resti della sua antica civiltà, resto estasiato e perplesso, come può un antico popolo come quello Romano, autore di tante conquiste, che ha assoggettato tutto il mondo allora conosciuto, e aver lasciato tali bellezze architettoniche, essersi lasciato sgusciare dalle mani tanto potere?

Forza della storia in continua evoluzione, penso. Ma penso anche che la civiltà romana sia nata da altre precedenti civiltà, e a questo riguardo mi piace ricordare i miti raccontati dagli anziani, sulla civiltà dei sardi. Tutto è concatenato, tutto è una risultanza, e se è vero, come è vero, che gli antichi sardi hanno dominato in lungo e in largo sulla penisola, e oltre, anche le vestigia lasciate da roma provengono dalla civiltà sarda. Tutto quello che mi si presenta davanti agli occhi qui è maestoso, non ho più la capacità di valutare esattamente le giuste proporzioni, e quando vedo, per esempio, una costruzione in fondo alla strada che sto percorrendo, e decido di ammirarla da vicino, penso che in appena un quarto d’ora vi sarei arrivato, e invece è necessario il triplo del tempo per raggiungerla, tanto sono distanti le reali proporzioni da quelle che ho valutato. E accomuno la maestosità degli edifici romani, alla altrettanto maestosa imponenza dei nuraghi sardi. Mi sembra che sto vivendo un’avventura fuori dal tempo reale, i miei occhi fanno fatica ad osservare e il mio cervello a catalogare, sono certo che se tornassi ancora in questa città, e ci tornerò di certo, di quello che ho visto oggi, una parte sarà dimenticata, troppe visioni che si rincorrono, troppe sensazioni mai provate prima, come una persona obbligata a scrivere rapidamente, e rincorrere sul foglio il corso dei suoi pensieri, molto più rapidi della sua capacità di scrittura. Mi sembra di notare qualcosa di indecifrabile tra la gente, una frenesia inspiegabile, discussioni che hanno come comune denominatore la politica; quando riesco a captare frasi qua e là, da diversi gruppuscoli di persone, mi rendo conto che l’argomento è sempre lo stesso: politica, solo politica, possibile che la gente in questa città non parli d’altro? E se nella mia isola è un argomento secondario, qui sembra che tutti siano direttamente coinvolti, anche se devo dire che un nuovo movimento, sta facendo proseliti anche nella mia terra. Ma qui si rasenta la paranoia, e sembra che le problematiche semplici del trascinare la vita alla meno peggio, come da noi, in questa città non siano degne di attenzione.

Anche quando entro in un’osteria, per rifocillarmi un po’, la musica non cambia, e allora, decido di abbandonare la città, che reputo splendida, e lasciarmi alle spalle quella gente dai discorsi monocorde e inconcludenti, gente che si trascina nella noia di argomenti già abbondantemente trattati, e dalla valenza che giudico superficiale e insignificante. Senza nemmeno andare a visitare piazza San Pietro, e dopo aver solo intravisto da lontano il tevere, mi dirigo verso la stazione, con l’intenzione di abbandonare al più presto quella città abitata da gente noiosa che non mette in campo fantasia, quando si tratta di decidere quali argomenti trattare. Scelgo di effettuare il lungo viaggio verso le marche a bordo di una corriera, che mi avrebbe portato direttamente a destinazione, abbandonando l’idea iniziale di servirmi delle ferrovie. Trascorro tutto il viaggio in un continuo dormiveglia, spossato dalle lunghe camminate capitoline, del resto il primo tratto del viaggio non è molto dissimile dai paesaggi monotoni che offre il mio paese di origine. Quando termina la pianura mi sveglio per la prima volta, e mi riaddormento, un sonno leggerissimo che si interrompe spesso, intorno a me una miriade di colline, tanti alberi, qualche casolare, è un continuo addormentarmi e risvegliarmi fino a quando non vedo in lontananza montagne innevate, e la temperatura che sento è sensibilmente inferiore a quella che mi invogliava a riaddormentarmi. Strade contorte, qualche galleria oscura, e improvviso, il chiarore accecante della neve, proprio di fronte a me.

Sento che ci troviamo ad un’altezza rilevante, e le cime che vedo sono di un’altezza spropositata, mi domando come farà la corriera a superare ostacoli così ingombranti, e tra le ripide salite e qualche sporadica discesa arriviamo in un punto di ristoro, proprio quel che serviva per scacciare definitivamente quella sonnolenza fastidiosa e il senso di costrizione che accuso sulle gambe. Una volta finalmente fermata la corriera, l’autista ci dice che, come convenzione, il posto è considerato l’ombelico d’italia, una posizione che si potrebbe anche definire come una sorta di baricentro dello stivale.

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