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Di Chris Barlati
Approfittando delle numerose comparse televise che vedono protagonista l'ex collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, ripropongo un mio elaborato risalente al 2018, eseguito al tempo per arricchire la mia tesi di laurea, poi convertita in una pubblicazione dal nome ''Storie di Prima Repubblica''. A seguire, la testimonianza rilasciatami telefonicamente da Gaspare Mutolo, che ancora ringrazio per la sua disponibilità.
Intervista a Gaspare Mutolo, ex migliore amico di Totò Riina, uomo d'onore di Cosa Nostra, collaboratore di giustizia. Mutolo fu l'ultimo miliziano di Cosa Nostra che parlò con Borsellino prima del suo omicidio e fu sempre lui ad assistere alla famosa chiamata fatta dall'On. Mancino a Borsellino durante il proprio interrogatorio.
Quali erano i referenti che avevate all'epoca? Erano solo democristiani? O meglio, erano quelli 'famosi' della sinistra Dc, che sono assurti alle cronache del nostro tempo o anche socialisti, comunisti o figure ad essi collegati?
«Allora, senta. Almeno io per quello che ricordo i primi referenti con i quali i mafiosi avevano più contatto erano della Dc, ma non perché la sinistra non voleva entrare in contatto. Erano i mafiosi che non volevano a che fare con la sinistra perché avevamo l'appoggio della Chiesa, l'appoggio del Governo e quindi le sinistre non ci interessavano proprio. Ma non perché le sinistre non era predisposte. Qualcuno veniva per qualche voto, per qualcosa, ma c'era l'ordine tassativo di non dargli ascolto, poiché non ci servivano e facevano più danni che bene. Questo era il concetto che c'era negli anni '65-'70.»
E col tempo?
«Guardi, che io mi ricordi ci sono state molte critiche sia con la destra che con la sinistra. Anche con il papà di Piersanti Mattarella. Logicamente, in Sicilia i personaggi più ''importanti'' erano altri, ma perché crescevano nella terra propria, che li produceva. Era più che altro una cultura quella di essere vicino ai mafiosi.
I mafiosi però non è che uno li deve individuare come quelli degli anni '80-'90, perché questi hanno rovinato completamente la cultura mafiosa. La cultura mafiosa di allora erano i ''benpensanti'', quelli che pensavano bene, quelli che avevano cultura, quelli che facevano gli interessi del loro paese. Questo perché la Sicilia è stata sempre una terra di conquista: una volta c'erano gli Spagnoli, gli Arabi, i Greci, non è stata un terra completamente di siciliani. Cambiavano di cultura in cultura. Quello che ho capito è stato questo.
Se lei pensa a quando ci fu la seconda guerra mondiale, gli americani si rivolsero ai siciliani, ai mafiosi siciliani, perché non erano i mafiosi degli anni '80-'90, di quelli contro il governo. Erano personaggi che avevano delle responsabilità. Quindi, la cultura mafiosa di allora era una cultura completamente diversa. Tant'è che c'è stato un trattato a termine della guerra, precisamente perché gli americani rimasero contenti del loro sbarco in Sicilia, grazie alle agevolazioni della mafia, che quando se ne sono andati hanno fatto un trattato amichevole che prevedeva che i mafiosi non dovevano essere perseguiti in virtù dell'aiuto offerto nel perseguire a loro volta il nazismo.
L'unico governo che aveva cercato di combattere la mafia con una certa serietà è stato il governo Mori, con Mussolini. Io ho sentito parlare così i vecchi mafiosi, perché, logicamente, tra l'età che c'ho, quando ero giovane, ho conosciuto personaggi che erano mafiosi al tempo di Mussolini. Avevo il padre di un cognato mio che era stato confinato ad Augusta. Mussolini era uno che voleva comandare lui. La persecuzione di Mussolini, in questo caso, avviene, che io so, perché c'era un certo avvocato che aveva un parente che era di quei paraggi. C'era Mussolini che stava facendo un comizio, e lui gli dice a Mussolini: ''Compare, qua non si muove una foglia di albero se non c'è il mio consenso''. Ma quando Mussolini va via, dopo terminato il discorso, il primo che manda a confine era proprio lui. Questo per dire: ''Caro compare, in Italia devo comandare solo io''. Questa è una bella battuta che dimostra che Mussolini fu quello che effettivamente volle sconfiggere questo male. Ora, era un male? Era un bene? Era un bene questa azione, il confino, perché la mafia era una cultura che a Mussolini non ci andava bene. Però, bisogna dire, la cultura del mafioso è stata sempre quella di essere ubbidiente e accanto al governo. La mafia non ha mai combattuto il governo, solo Riina ha cercato di combattere il governo. E ciò l'ha portato alla rovina, perché sono nati i collaborati, ma con la mafia che c'è sempre.»
Riguardo Riina, questa trasformazione dall'essere un mafioso ideale a una bestia sanguinaria quando è successa? Cosa l'ha fatto cambiare così all'improvviso?
«No, guardi. Io sono stato uno degli uomini a cui Riina si era affezionato morbosamente. Di questo ho dato atto ultimamente e ho fatto un'interrogazione alla stampa estera organizzata da Marcella Padovani, in cui ho detto io ho conosciuto Riina negli anni '64 - '65. A Riina mi ci sono affezionato e grazie a lui sono ancora vivo, perché lui effettivamente mi ha salvato con quello che mi ha insegnato. A Riina l'ho incontrato diverse volte in quel periodo, e nonostante non fossi mafioso, lui aveva una... non lo so, riconoscenza verso di me. Forse perché negli anni in cui eravamo insieme all'Ucciardone c'è stato un palermitano, detto il ''fiorellino'', che era un bestione, che stava litigando con Riina. Ora Riina non era il tipo che sapeva litigare con le mani, io ho sentito che quello gridava a Riina e ho visto che Riina era tutto rosso rosso. Eravamo a passeggio, e ho capito che era per questione del sedersi, perché c'erano i sediolini e attraverso le fezioni spuntava il sole... Insomma, Riina ha evitato, non c'ha detto niente, è diventato rosso rosso e allora io ho capito. Dopo io ho chiamato a questo, l'ho preso a schiaffi, c'ho dato una testata, insomma la guardia ha suonato l'allarme, mi hanno portato alle celle di punizione, e mi sono fatto mezzo vitto e pancaccio: isolamento totale. E Riina, quindi, è rimasto molto soddisfatto. Contento!»
Come mai ha deciso di agire così?
«Riina aveva un fascino che mi attirava, anche nei confronti di tante persone, molto più anziane di lui. Allora, non era anziano Riina, era giovane e molti rischiavano la punizione, il rapportino, pur di venire a salutarlo. E mi ricordo che non ne faceva di ''discorsi'', anche negli anni in cui ci siamo visti noi due. Ho avuto modo di accompagnarlo mentre si stavano organizzando come mafia, negli anni '68 – '69, quando non ero ''combinato'' (mafioso ufficiale). Lui era di una dolcezza... Guardi, per esempio, quando si mangiava si brindava alle donne, a tutti i bambini del mondo. Insomma, così dolce, tranquillo e pacifico e non amava i soldi. Io allora rubavo, ero un ladro che con altri ragazzi palermitani in Italia avevamo delle basi a Milano e a Rimini, e io più di una volta gli ho regalato qualche oggettino, quindi lo so. Ma comunque, era un tipo così docile che quando l'accompagnavo nei paesi lui, a tutte le donne, anche giovani, giovanissime, quindici-sedici anni, le chiamava col ''vossìa''. Quando parlava, ci usciva dalla bocca il miele! Poi lui è cambiato, nel 1974. Io noto questo cambiamento così aggressivo e nel '74 sono già uomo d'onore. Io sono a sua disposizione, come tanti altri, che dopo alcuni anni in galera, chi è morto, chi all'ergastolo, perché hanno eseguito alla lettera tutto quello che diceva Riina. Io invece ho avuto la fortuna di allontanarmi un pochettino perché non ho voluto tradire il mio capo. Riina, in verità, non diceva di tradire il mio capo, ma di violare qualche regola. Cioè, qual era il discorso? Per fare un esempio, un giorno, lui, era arrabbiatissimo perché il compare dell'onorevole Mannino aveva mandato a dire in Canada che Gaetano Badalamenti era diventato il capo dei capi. Lui era andato su tutte le furie e mi mandò a chiamare e ci siamo visti in un garage di un altro mafioso, di un certo Marchetti Filippo, che da poco è scomparso, e mi dice: ''Gaspare, ma di che parla? Manda a dire che Gaetano Badalamenti è il capo dei capi? Vedi, io a Gaetano Badalamenti gli darei una scopa e una mazza e gli farei pulire i gabinetti dalla mattina alla sera.'' Dopo capii.
C'era anche un altro amico mio, che mi dice: ''Gaspare, tu hai capito che Riina ha avuto questo sfogo. Tienitelo per te.'' Qual era il tutto nella sostanza? Noi eravamo autorizzati, alcune persone, ad essere a disposizione di Riina, di Provenzano e di Luciano Liggio, ma principalmente di Luciano Liggio. Quello che comandava, insomma, era Luciano Liggio. Nel '74, poi, logicamente c'erano le simpatie personali. Io avevo le simpatie per Totò Riina, quello aveva le simpatie per Provenzano, ma come, diciamo, scala di comando allora comandava Luciano Liggio. Loro non contavano niente. Erano i suoi bracci destri.»
E Liggio? Era a conoscenza di questo ascendente carismatico che Riina aveva su di voi?
«Liggio in quel periodo era tra Napoli e Milano, perché appoggiato dai Nuvoletta. E per comodità la mafia cosa aveva fatto? Siccome nella mafia c'è l'ordine che una persona deve mettersi a disposizione di un altro, cioè se un mafioso c'ha di bisogno, l'altro mafioso deve mettersi a disposizione subito. Però ci sono delle regole. Allora, che cosa aveva fatto la ''commissione'' (élite dei capimafia)? Per alcuni personaggi aveva stabilito: ''voi sorvolate queste regole, mettetevi a disposizione, però quando finite, la sera che rientrate, raccontate quello che è successo. Se io vedevo a Riina o a Provenza o a Liggio che ne avevano di bisogno, io mi mettevo in macchina e li accompagnavo. Io non avvisavo il mio capo o il mio sottocapo o il mio rappresentante, però quando rientravo subito dovevo mettere le cose in regola. Mi spiego? Riina che cosa voleva? Che noi, quando andavamo a mangiare, allora sempre si facevano delle tavolate, si commentava, si sparlava di quello, si parlava di uccidere persone, perché era il periodo in cui ancora c'erano persone della vecchia mafia che avevano combattuto, che erano ai confini... c'era un po' fare. Riina cosa dice a me? E secondo me lo dice pure a tutti gli altri. Dice: ''Senti, quando noi andiamo a mangiare non ci dite niente ai vostri capi. Allora, io col mio amico avevo un rapporto particolare, un certo Riccobono. Io allora gli dico ''No, io son a disposizione. Però io quando la sera vedo a Riccobono'' - che abitavo assieme con la moglie e i bambini, avevamo tre ville, per non stare soli - ''come faccio io a non dirgli oggi sono andato a mangiare con Tizio, con Caio? Mi sembra un tradimento.'' E infatti sotto sotto c'era questo. Mi sembra un tradimento perché se ti dico ''io vengo'', però è giusto che io quando e se vedo Riccobono gli dico subito cosa ho fatto.»
Mentire avrebbe avuto gravi ripercussioni.
«Vabbé, come cosa era una cosa lecita, non impressionava, però si vede che anche a Luciano Liggio, a Milano, gli arrivò all'orecchio che Riina voleva fare questo discorso, che voleva tenere per sé quello che faceva. Allora si parlava di Santi, di mangiare, però secondo me nella testa Riina aveva qualche progetto. Tant'è che Liggio, dopo pochissimi mesi, da Milano mandò a dire alle famiglie di Palermo ''quando mi dovete parlare, non rivolgetevi più a Salvatore Riina, ma a Provenzano, perché Salvatore Riina alza il gomito, fa troppe minchiate, e con un colpo di pistola ne ammazza due, tre.'' Insomma, una chiacchiera. Secondo me Riina questo l'ha saputo, perché logicamente quello che mi ha detto Riina me lo sono tenuto per me, però personaggi come Liggio avevano anche i suoi informatori, i suoi segreti, e per quello stava attento. Intanto, Riina non si vede più per tre quattro- mesi e nel frattempo arrestano a Milano Luciano Liggio. Vengono uccisi due fratelli, perché Riina dice che erano stati questi a farlo arrestare. Mi ricordo che nella casa di un certo Pietro Vernengo, un grosso mafioso, con i figli che sono tutti mafiosi, un ergastolano, detto ''ù tistune'', e con lui c'era anche Contorno, c'era Gambino, c'era Riina, avevano pensato di andare a liberare Luciano Liggio perché l'avevano portato a Lodine, un carceretto piccolino. Era facile, insomma, per uno che dall'esterno voleva prendere un carceretto, come dimostrarono i brigatisti ed altri delinquenti comuni che fecero tante evasioni. Allora Riina ha sentito questi e ha detto: ''Non vi permettete. Liggio è un corleonese e ci dobbiamo pensare noi corleonesi a farlo uscire dal carcere.'' Comunque, appena hanno arrestato Liggio è ricomparso Riina con la sua politica, e piano piano è diventato quello che era. Tutti quelli che erano a disposizione, all'infuori di me, sono stati, tutti, persone che nell' '81 avevano tradito, diciamo, i loro capi e che avevano comandato loro. La stampa titola ''la seconda guerra di mafia'', però non è che c'è stato...»
Cosa? Un conflitto?
«Io ho detto sempre ''ma quale seconda guerra di mafia''. ''Seconda guerra di mafia'' non esiste, perché almeno uno della parte contraria deve morire. Ci sono state delle purghe, dei tradimenti, ci si è impossessato di tutto quello che si è detto. Soltanto la famiglia di Partanna-Mondello, alla quale io non ho voluto aderire perché ero a disposizione di Riina, poi tutti gli altri sono diventati i capomafia di Palermo.»
Ma ritorniamo a Riina...
«Riina perché è diventato così? Io ho conosciuti a tutti i parenti di Riina, il cognato, il fratello, le sorelle, insomma a tutti. Riina aveva un cugino, un certo Pino Liggio, Giuseppe Leggio, che è scomparso. Questo era un ragionatore, che io lo conoscevo da prima di Riina, dal '57-'58. Ho avuto occasione a Palermo di conoscerlo con un amico mio quando siamo andati a trovare lo zio di Riina, a Iacopo Riina, e abbiamo fatto amicizia con Pino Liggio. Questa amicizia è durata fino all'89. Lui, Riina, l'ha fatto strangolare, anche il cugino! Perché ormai non si fidava più di nessuno. Cioè, tutti i migliori amici suoi sono stati tutti eliminati, perché secondo me come operavano così li giudicava. Lui pensava – e lo dico siccome abbiamo fatto dei confronti - che quello che aveva fatto lui lo poteva fare qualche altro amico suo. Riina diceva, quando l'accompagnavo, ''Gaspare io non è per sfiducia, ma io cambio posto quando, dopo, tu te ne vai, perché se qualche nemico mio ti prende a te e sotto le torture ti fa dire dove io sono, io poi là non ci sono''. Lui, anzi, nella maniera benevole era uno 'guardino', ma non era aggressivo nel modo di parlare. Lui fu quello che inventò che un mafioso lo si uccideva dopo che aveva mangiato con lui: si mangiava, si scherzava e dopo c'erano due o tre che sapevano chi eliminare. I napoletani, a Riina, lo avevano come un dio. Come un inventore. ''Ma possibile che questo si inventa queste cose così?'' E in merito a quello che lei diceva, ho conosciuto i personaggi siciliani più importanti, che erano tutti mafiosi. Io, quando ero nella mafia, negli anni '70, ero orgoglioso. Ma non solo io, tutti perché tutte le persone venivano, cercavano posti di lavoro, eravamo in contatto con tutti i grandi magazzini. La mafia controllava tutto.»
E poi?
«La mafia si è incattivita. Un certo Madonia, Francesco Madonia, in una riunione mi disse: ''Ma perché noi dobbiamo chiedere i soldi ai costruttori? Noi dobbiamo entrare in società con i costruttori, che guadagniamo di più. Se non vogliono fare le società con noi, non costruiscono e se costruiscono senza di noi, vengono uccisi''. Ma questi erano tutti personaggi vicino a Riina, i più cattivi, che l'hanno incattivato a Riina e che si sono incattiviti. Dopo, secondo me, diciamo è il denaro che ha sconvolto un po' la mafia.»
Non è stata la droga che ha sconvolto un po' tutto?
«Sì, ma questi hanno incattivito molto, diciamo. Io, negli anni che non ero ancora mafioso, avevo due zii: uno di questi faceva il guardiano terriero, a Pallavicino, e aveva un appartamentino, una stanza da letto, una cameretta e un cortiletto piccolino piccolino. Quelli erano felici perché venivano salutati. Se c'era qualche persona che aveva il fidanzato che la maltrattava, subito si chiamava il mafioso. Se il marito si ubriacava, la moglie andava dal mafioso: ''vedete che mio marito si ubriaca''. Facevano anche queste opere pie i mafiosi. Dal momento in cui è entrata la droga, i mafiosi non è che pensavo più a queste cose. Hanno pensato subito alla villa al mare, al conto corrente, alla bella macchina. Cioè, gli ideali sono finiti.»
Per ritornare un attimo al discorso di prima, è possibile quindi che Riina abbia fatto arrestare Liggio?
«Sì, sì. Io feci un confronto a Mestre, mi sembra nel '93-'94, e infatti questo glielo dissi a Riina, ovvero che noi, che eravamo diversi mafiosi, pensavamo che Riina l'avesse fatto arrestare a Liggio. Liggio penso questo lo abbia capito e io di questo ne ho avuto la conferma: ''purtroppo'', tra i collaboratori, ho qualche amico collaboratore che è stato molto vicino a Bagarella e a Gambino. Mentre c'era il maxi processo, loro avevano l'ordine di controllare Liggio se si lamentava, e se si lamentava avevano persone pronte ad uccidere Liggio. Mi ricordo, un giorno, con un certo Mariano Agate, che era il capomafia di Mazala, molto amico di Riina, mentre si parlava Liggio ebbe uno scatto d'ira, dicendo: ''Appena esco, ce n'è per tutti'', perché il nipote c'era venuto a dire allo zio che avevano tagliato il grano, il fieno, e che avevano dovuto pagare 250 mila lire per la mietitrebbia. La rabbia non era per il discorso delle 250 mila lire, ma per il fatto che era un segnale per dire ''tu non sei nessuno. Tu ti sei preso sta cosa a noleggio e la devi pagare''. E Liggio ci rimase male. Dopo ho avuto la conferma, negli ultimi tempi, dopo che decisi di collaborare, perché mi dissero ''noi già eravamo pronti che se parlava doveva essere eliminato''. Il motivo c'era perché se Liggio fosse uscito avrebbe cercato di uccidere Riina, perché con le amicizie che c'erano... Allora, Liggio capii che lo tenevano in galera perché era uno dei tanti detenuti che aveva fatto un sacco d'anni di galera. All'epoca c'era la possibilità di uscire, e io mi ricordo quando lui fece la mossa dei dipinti, non so se lei sa questa...
Sì, che lui firmò tutti i quadri col suo nome.
«Si, bravo. Io allora ero insieme a Liggio, ci facevo il piantone, e passeggiava. Aveva la giacca, la cravatta, e io gli dissi: ''A quest'ora non si esce più dalla galera.'' Lui era talmente fissato che doveva uscire... Però, purtroppo, non è uscito.»
Mi scusi sign. Mutolo, volevo una delucidazione. Prima abbiamo accennato che un uomo di Mannino aveva mandato a dire che Badalamenti era il capo dei capo. Già c'era quindi un un contatto all'epoca?
«Allora, senti: Mannino, l'On. Mannino, ha un compare, che lui dice che non sa che quello fosse mafioso.»
E' un po' strano(rido maliziosamente).
«E' logico.»
Non poteva dire altro...
«Questo compare manda a dire in Canada, che si chiama Caruana, che Badalamenti era diventato capomafia. Questo fatto nel 1974, quindi questi personaggi politici erano in contatto con i capimafia. Era una cosa risaputa, era una cosa ...»
Normale, possiamo dire.
«Ma, normale? Normalissimo! C'erano pure affiliati, perché da quando era finita la Banda Giuliano, che volevano quasi la Sicilia indipendente, i personaggi più importanti, che volevano la Sicilia indipendente, fanno un pacchetto parapolitico. Infatti la Banda Giuliano non furono più banditi, ma militari. E chi comandava? Il barone La Motta e un sacco di personaggi con un certo appeal. L'Italia non ha ceduto, perché la Sicilia è una terra importantissima.»
Per l'economia, ovvio.
«Bhé, sì. Ma lei pensi... le faccio un paragone. Dopo lei ne deduce. Il conte Arturo Cassina aveva come suo braccio destro un certo Giovanni Teresi, nelle sue aziende. Questo Giovanni era il sottocapo della famiglia di Stefano Bontate. Quello dell'immondizia, il conte Vaselli, che è romano, in ogni Rione, per far pulire bene Palermo, aveva un mafioso: un mafioso qualificato. Non è che il mafioso sgobbava; il mafioso controllava e tutto era pulito. L'onorevole Marzotto, che aveva come referente Peppe di Cristina, un mafioso, e che era, a livello nazionale, uno di quei personaggi importanti che avevano i mafiosi come bracci destri. I cugini Ignazio e Nino poi, logicamente, che erano personaggi di una indescrivibile dolcezza... ma personaggi mafiosi. Ma non ci si deve scandalizzare. All'epoca si avevano questori che dicevano che la mafia non esisteva, o la chiesa che diceva che la mafia era un'invenzione giornalistica.»
E lei con Riina, all'inizio, non è stato solo un caso o interesse quindi.
«Io ho conosciuto a Riina perché mi ci ero affezionato. Io l'ho amato Riina. Qualcuno mi ha criticato che non mi ci sono messo contro, ma ormai Riina è morto. Come mi dovrebbe più interessare? Se la vede con il Signore. E' stato l'uomo più cattivo della Sicilia: ha rovinato la Sicilia. Io sono stato il primo uomo che ha fatto il confronto in visuale contro Riina. Non lo so, fu un caso. Non lo so. Ma per dire, lui in qualche modo non poteva non accettare che non mi conoscesse. Cercava di dire ''sì, ma poverino'' davanti ai giudici, e che io dicevo quelle cose per accusarlo, anche se dopo ci fu una cosa molto bella. Quando hanno spento le telecamere, questo dialogo è continuato tra me e Riina, con Riina che ha cercato di dirmi ''vedi che sei ancora in tempo per ritornare a essere quello che eri prima''. Ma io, insomma, ci ripetevo sempre le stesse cose. E lui, a un certo punto, perde proprio le staffe, perché capisce proprio che ero intenzionato a non tornare indietro, e mi fa: ''Farai la fine di Matteo lo Vecchio''. La corte entra e la dottoressa ci fa: ''Signor Riina, scusi, ma che fine ha fatto Matteo Lo Vecchio?''. Riina non mi dice verrai ammazzato, sparato, strangolato. No. Mi dice ''farai la fine di Matteo Lo Vecchio'', perché lui sapeva che io sapevo che fine aveva fatto Matteo Lo Vecchio: perché eravamo assieme. E quando la giudice gli domanda che fine avesse fatto, lui le dice ''non lo so''. E finì a ridere, insomma. Una battuta, così, simpatica. Comunque, io posso dire questo?»
Sì, certo. Ci mancherebbe.
«Che i personaggi più importanti della Sicilia, di tutta la Sicilia, non di Palermo, erano mafiosi. Palermo, nel mondo, fin quando non sono nati i collaboratori è stata la portabandiera.»
Sembra strano, ma gli ultimi uomini onorevoli sembra siano stati proprio i collaboratori più importanti. Come si spiega questo fenomeno? E, dopo, che trasformazioni hanno avuto l'ideologia, la cultura mafiosa e Cosa Nostra?
«Anche nella malavita ci sono alcuni codici. Alcune cose, per esempio, nella malavita è difficile che avvengano, come uno che violenta un bambino o che violenta una bambina: che fa delle cose brutte di questo tipo, capisce? La mafia era quella che aveva questa disciplina, e tra le tante era la più bella. Per esempio, anche quando ci fu il periodo dei sequestri di persona, quando Liggio era a Milano, la mafia non sequestra bambini o donne, la mafia sequestra soltanto uomini. Altri personaggi, i marsigliesi, i sardi prendevano donne, i bambini. Noi mafiosi, nel mondo, eravamo quelli che mantenevano la disciplina più corretta.»
Una morale da associazione segreta. Quasi da massoneria. Eppure vi era una distinzione netta, nonostante i tentativi di Bontate di inglobarla all'interno di Cosa Nostra.
«Perché tra la massoneria e la mafia c'era questa distinzione? Perché i massoni, per la mafia, avevano un rispetto particolare. Ci chiamavano ''i cugini cattivi'', perché se uno sbagliava veniva ucciso. Però sapevano che noi non facevamo delle cose orrende, anche perché in fin dei conti è la massoneria quella che comanda nel mondo e che dirige tutti i traffici del mondo. Tant'è forte che è autorizzata e non gli fanno niente.»
In quegli anni com'era la situazione al Nord? Se non sbaglio, avevate tentato anche di rapire Berlusconi?
«Allora, io le dico questo. Di quel periodo citiamo due batterie a Milano: ci sono quelli della, diciamo, corrente per bene, che sarebbe quella di Badalamenti e Stefano Bontate, e quella di Liggio, di Riina. Io faccio parte di quella di Badalementi e di Stefano Bontate. Noi già avevamo fatto due sequestri, perché eravamo una quindicina di persone con altri che erano là, a Milano, e che avevano dei punti vendita di maglieria e botteghe. Già avevamo fatto dei sequestri e ne dovevamo fare un altro che era già organizzato. Ogni sequestro che si faceva uno stava 15 giorni, un mese. Poi si saliva e si organizzava. Noi siamo saliti da Palermo, abbiamo organizzato tutto, si prendevano dei magazzini, perché a Milano c'erano tanti magazzini con le cantine, e c'erano i retrobottega, quindi, insomma, c'era sta facilitudine (tossisce)... Mi scusi.»
No, no. Stia tranquillo.
«E quindi, avevamo organizzato tutto e sapevamo che si doveva rapire un costruttore, uno che stava facendo Milano 2. Eravamo là già pronti da un momento all'altro e si sapeva pure che questo personaggio andava ogni tanto negli uffici a controllare, e già c'era tutto pronto, le macchine pronte, i furgoni pronti. Tutt'assieme, ci fu l'ordine di ritirare, di scendere in Sicilia. Al tempo ci voleva un po' per individuare una persona, perché non si prendeva uno così a caso. La cosa ci è sembrata un pochettino strana perché, insomma, abbiamo speso un sacco di soldi. Dopo abbiamo capito subito quando ci fu Mangano che andò a fare lo stalliere, perché logicamente Berlusconi aveva trovato l'aggancio di come salvarsi, per non farsi sequestrare. Ma non solo, fu così intelligente, diciamo, quella presenza di Mangano che nemmeno le altre bande poterono far più nulla. Siccome a Milano c'erano i calabresi, i sardi, c'era anche la banda di Francis Turatello che facevano i sequestri lampo, Mangano era là per dire ''qua ci sono i siciliani, non toccate a questo personaggio.''»
E a Berlusconi chi glielo ha detto? Dell'Utri, Cosa Nostra o è venuto a saperlo da solo?
«Dopo io e Mangano siamo stati in galera assieme, è stata una cosa risaputa. Purtroppo, Berlusconi è un uomo che sa come muoversi. Berlusconi non è un politico, Berlusconi quando scende in politica scende con un esercito. Non è che scende lui solo. Lui scende con i militari, con gli avvocati, con le guardie.
Quindi l'hanno avvisato?
«L'ha saputo, l'ha capito e subito ha trovato il rimedio. E logicamente questo rimedio è come quando è entrato in politica. A chi si è rivolto? Non si è rivolto ai calabresi, ma principalmente alla mafia. Io questo lo so non perché me l'ha detto qualcuno, ma perché in quel periodo ascolto delle intercettazione. Il periodo in cui collaboro. E ci sono delle intercettazione in cui si dice di votare per Forza Italia.»
Come con i socialisti?
«Quello è stato quando si è voluto uno spintone con il maxiprocesso perché si perdeva tempo, però, guardi, il discorso di Berlusconi è diverso. Le dirò, io sono stato uno che l'ha chiamato il pio Berlusconi, ma non ho niente di personale perché lo ammiro. Cioè, facendo un calcolo tra Berlusconi politico e altri politici io logicamente provo simpatia per Berlusconi, anche se ci sono quindici-sedici leggi che hanno fatto per Berlusconi. Però quando entra in campo aveva i migliori avvocati che erano messi tutti nei punti centrali. Berlusconi altro che massone e P2... Sono personaggi, purtroppo, che hanno il potere economico e intellettivo. Insomma, si sono saputi muovere.»
Per quanto riguarda invece la trattativa Stato Mafia, sarò franco, penso siano stati ambienti imprenditoriali massonici-finanziari ad aver avvicinato Riina e ad averlo spinto a muover guerra contro lo Stato. A guardar bene, questo ceto finanziario-imprenditoriale si è infiltrato nella mafia, nello Stato e nella politica. Lei pensa che Falcone sia stato ucciso perché aveva scovato, a ritroso, i fili che collegavano le matrice di questo sistema e che arrivavano addirittura al commercio della droga e a quello dei rifiuti? Nel merito, sia Cossiga che Rino Formica hanno parlato di supervisione dell’Fbi…
«Guardi, la mafia americana e, diciamo, anche se è indipendente ha dei legami di sangue completamente con i siciliani, quindi si può dire che è tutt'una, anche se sono due cose indipendenti. Per esempio, quando la mafia siciliana ha bisogno, raccomanda una persona agli americani e viceversa. Certe correnti, infatti, che c'erano in Sicilia, i palermitani, i trapanesi, i calabresi, c'erano anche in America. Io, inoltre, le posso dire questo: con i soldi che abbiamo guadagnati noi Siciliani, per rispondere ad un'altra domanda, almeno quello che ne so io, non abbiamo mai toccato l'immondizia. Noi avevamo il giro delle sigarette con i napoletani, però mentre noi facevamo le sigarette, già i napoletani lavoravano per l'immondizia. Forse per una questione di... territorio, forse perché Napoli è più vicina e la Sicilia più lontana. Tuttavia, noi sentivamo che c'era un grosso traffico dell'immondizia, con le grosse fabbriche che c'erano in Italia e a Napoli. Non so però se i siciliani erano disposti a fare quello che hanno fatto i napoletani, cioè ad avvelenare la terra, perché lei può dire ''ah, perché la droga non l'avete venduta per avvelenare i ragazzi?''. Bhé, la droga si poteva pensare. Mentre l'immondizia era tutta un'altra cosa, perché volutamente avvelenavano le loro terre e perché dopo generazioni future avrebbero pagato le loro conseguenze. In Sicilia non ho mai sentito parlare di immondizia. Traffici illeciti, sequestri, sì. Ma immondizia, mai. La droga sono stati i siciliani con gli americani, nel periodo degli anni '75 fino agli anni '80-'85. Dopo i marsigliesi, presero il possesso i siciliani delle raffinazioni. Il traffico mondiale è stato fatto evolvere con i siciliani, quindi i soldi che hanno guadagnato i siciliani con la droga sono stati immensi.»
A livello mondiale?
«A livello mondiale. Perché si passa dalle sigarette alla droga? Cioè, mentre prima erano tutte sigarette, in Italia, appena si conobbe cosa fosse questa raffinazione, vennero personaggi che(perché i soldi portano alle volte alla rovina?), come i francesi, come i marsigliesi, sono diventati ricchi e si sono messi ad ammazzare tra di loro. Ci fu un certo Gerlando Alberti che ingaggiò certi chimici per raffinare la droga e che quindi sono stati presi in Sicilia, tanto che è stato ucciso addirittura un giudice. Dopo questi(i marsigliesi), che sapevano fare la droga, la sapevano trasformare, hanno imparato dai siciliani. Un certo Mannoia, per esempio, ha lavorato con il cugino, uno detto il testone, e sono nate raffinerie tra le più grandi in Europa, che le avevano i corleonesi. A Trapani hanno trovato una raffineria che produceva un sacco.»
Quante raffinerie c'erano in Sicilia?
«Diciamo che quasi ogni capomandamento aveva la sua raffineria: arrivava la morfina e la trasformavano. Io ho avuto contatti con un certo Koh Bak Kin per la droga. Ci fu un periodo in cui tutti i cinesi che arrivavano in Italia mi portavano la droga, e mi portavano una droga che era bellissima, purissima, quasi al 97 per cento.»
L'eroina?
«L'eroina. E dopo, nell'83, è stata presa una nave a Suez, con un certo Palestini, una nave da record, che fece la traversata Giulianova - Jugoslavia, interessata da Falcone. Falcone, dopo aver preso questa nave, si meravigliò perché ci trovò solo sette persone greche e un italiano con 230 chili di droga più 50 chili nella stiva. Tutto questo inizialmente non l'ha convinto, e guarda guarda, studia studia, vede che a un certo punto io ero stato a Giulianova in semi libertà. Quindi mi interroga e mi dice: ''Gaspare, hanno sequestrato la nave''. Io gli dico: ''E mica sono armatore io?'' Lui mi risponde: ''C'era la droga dentro la nave.'' Quella era una prova per vedere quanta droga ci stava nella nave, perché in Thailandia avevano il solo il problema dell'acetone per raffinare la morfina che si doveva mandare in America e guadagnare i soldi che si guadagnavano, che erano tantissimi.»
Anche lei pensa che qualcuno abbia spinto Riina in quel giorno ad uccidere Falcone e Borsellino?
«No, no, no. Questo era nella sua mentalità che purtroppo conosco da tanto tempo. Qual era il concetto della mafia? Un personaggio che dava fastidio, tramite la politica, si faceva trasferire. Invece con la mentalità di Riina, ma anche di Liggio, anche se Riina dopo l'ha superato, è che se c'era una persona che dava fastidio, lo dovevano eliminare, perché pensavano che non c'era un altro che lo poteva sostituire. Non pensavano che morendo uno gli altri lo andavano per vendicare. Loro si sentivano così forti, anche politicamente, perché sapevano come si dovevano muovere.»
Ultima domanda. Cosa pensa che si sarebbe potuto fare per cambiare qualcosa, per impedire la degradazione e la degenerazione di Riina e di Cosa Nostra. Cosa si sarebbe potuto fare che non si è fatto?
«Guarda, l'unica cosa che si poteva fare era quella di ucciderlo. Però, oramai, Riina era blindato. Cioè, Riina diventò così pericoloso non perché si blindò, ma anche perché nel suo giro di personaggi, che ne aveva di fedeli intorno, a un certo punto, appena qualcuno diventava più importante degli altri, lui lo faceva eliminare, perché si preoccupava che gli rubasse il posto. Riina diventa così criminale non perché ha paura di qualche cosa, ma perché ha paura che l'ammazzano. E il motivo è il potere immenso che possiede. Dopo, quello che non ha senso, è quello che ha voluto fare contro lo Stato.»
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