Dell'ILVA se ne lavano tutti le mani
La multinazionale ArcelorMittal minaccia di abbandonare Taranto rescindendo il contratto per l'acquisizione dell'ex Ilva. Prescrizioni, tutele ambientali e lacci legali si legano male alla proliferazione del capitale.
Andrea Angelini
lintellettualedissidente
La multinazionale ArcelorMittal minaccia di abbandonare Taranto rescindendo il contratto per l'acquisizione dell'ex Ilva. Prescrizioni, tutele ambientali e lacci legali si legano male alla proliferazione del capitale.
Andrea Angelini
lintellettualedissidente
Sa Defenza
L’ex Ilva di Taranto è da tempo un ingombrante altoforno i cui gas non asfissiano solamente i lavoratori e la popolazione del capoluogo di provincia pugliese, bensì hanno la capacità di disperdersi nei gangli dei dicasteri governativi romani e di infiammare il dibattito politico come pochi altri temi sul lavoro. Al governo, che nel palio delle alleanze, delle rivalità e dei colori degli ultimi mesi ha conservato la sua componente gialla, non è evidentemente bastata la lezione di Whirlpool concernente l’unità produttiva di Napoli. Ha dovuto nuovamente sbattere la testa sul muro eretto dai padroni, sull’economia che detta le regole alla politica, sul capitale che giostra le regole del lavoro, perché non possiamo più nascondere l’ennesimo voltafaccia di un colosso industriale all’Italia dietro l’orpello dell’inesperienza di chi governa. Una minaccia non può essere frutto di una contingenza politica. Le mani che ora si passano la palla avvelenata dell’abrogazione dello scudo penale – il quale avrebbe fatto saltare il banco nelle stanze dei bottoni di ArcelorMittal– sono le stesse che firmavano accordi di riqualificazione e ambientalizzazione dello stabilimento tarantino, mani che gestivano le casse statali che erogavano ammortizzatori sociali per appagare i capricci industriali ed occupazionali dei padroni.
Quando esponenti apicali del governo ci raccontano di rivoluzioni gentili e ci comunicano, attraverso smorfie, la loro sorpresa nel non veder rispettati accordi con una multinazionale che ha un utile operativo di 6 miliardi e mezzo di dollari l’anno, abbiamo la consapevolezza che nessuno di loro è rimasto in una fonderia oltre il tempo necessario per un comizio tra gli operai. Nessuno di loro, prima di pensare se armare o meno la parte datoriale di uno scudo penale, ha mai pensato alle reali condizioni di lavoro dopo l’abolizione dell’articolo 18 e la defenestrazione del contratto a tempo indeterminato. Così come nel quartier generale lussemburghese della ArcelorMittal riescono benissimo a fare gli indiani, fingendo di non capire quale bomba sociale ed ambientale rappresenti la dismissione incontrollata dello stabilimento di Taranto, a Palazzo Chigi reiterano lo stesso comportamento, derubricando l’emergenza in una penosa individuazione di responsabilità cronologica nei confronti di chi ha portato sui banchi del Parlamento la norma sull’immunità penale ai gestori dell’acciaieria.
D’altra parte nel circo mediatico che viene allestito quando ballano diecimila posti di lavoro è più vendibile e ricreativo sbranarsi sotto gli occhi del domatore che offrire spettacoli edificanti, in un’ottica di unità nazionale. Che la rimozione dello scudo penale e le prescrizioni del tribunale di Taranto siano per la ArcelorMittal solo il casus belli per abbandonare un impianto non remunerativo come da aspettative, non ne parla quasi nessuno. La crisi di acciaio in Europa è già realtà: i grandi colossi che divorano capitale finanziario e umano hanno un’oggettiva difficoltà nel trovare manovalanza a basso costo in un continente dalle grandi tradizioni industriali e sindacali. In aggiunta, l’economia stagnante del Vecchio Continente ha compresso la richiesta di acciaio e permesso alla Via della Seta – anche nel settore della siderurgia – di diventare un’arteria radiale per l’ingresso dei suoi prodotti in Europa.
Malgrado ciò e i loschi tentativi di promuovere nuove cordate di acquirenti che succedano ad ArcelorMittal, in cambio di appoggio politico, lo scenario dell’ex Ilva sarebbe la tempesta perfetta per rispolverare l’ombrello costituzionale, in riferimento alla disciplina dei rapporti economici. L’articolo 43 della Costituzione Italiana detta chiaramente che “la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. L’ex Ilva non fa forse parte di questa categoria di imprese? Siamo sicuri che i lavoratori non sappiano gestire e realizzare un piano industriale – nel rispetto delle prescrizioni ambientali – meglio di manager prezzolati i quali, se non vengono debitamente assecondati nei loro bluff, buttano le carte e si siedono tranquilli su un altro tavolo da gioco? Sino a quando nelle politiche e nelle relazioni industriali non tornerà centrale l’assioma che è il lavoro ad essere in vendita e non il lavoratore, lo Stato Italiano giammai potrà essere in grado di affrontare seriamente il tema della gestione privata delle grosse imprese. Se nazionalizzare è un’utopia – o una distopia per i fan delle liberalizzazioni – bonificare il sito e salvaguardare i piani occupazionali rilanciando una produzione ecosostenibile deve essere il centro di gravità permanente su sui fissare il futuro di Taranto. Chi ha paura di lottare continua a morire ogni giorno invece che una volta sola.
L’ex Ilva di Taranto è da tempo un ingombrante altoforno i cui gas non asfissiano solamente i lavoratori e la popolazione del capoluogo di provincia pugliese, bensì hanno la capacità di disperdersi nei gangli dei dicasteri governativi romani e di infiammare il dibattito politico come pochi altri temi sul lavoro. Al governo, che nel palio delle alleanze, delle rivalità e dei colori degli ultimi mesi ha conservato la sua componente gialla, non è evidentemente bastata la lezione di Whirlpool concernente l’unità produttiva di Napoli. Ha dovuto nuovamente sbattere la testa sul muro eretto dai padroni, sull’economia che detta le regole alla politica, sul capitale che giostra le regole del lavoro, perché non possiamo più nascondere l’ennesimo voltafaccia di un colosso industriale all’Italia dietro l’orpello dell’inesperienza di chi governa. Una minaccia non può essere frutto di una contingenza politica. Le mani che ora si passano la palla avvelenata dell’abrogazione dello scudo penale – il quale avrebbe fatto saltare il banco nelle stanze dei bottoni di ArcelorMittal– sono le stesse che firmavano accordi di riqualificazione e ambientalizzazione dello stabilimento tarantino, mani che gestivano le casse statali che erogavano ammortizzatori sociali per appagare i capricci industriali ed occupazionali dei padroni.
Quando esponenti apicali del governo ci raccontano di rivoluzioni gentili e ci comunicano, attraverso smorfie, la loro sorpresa nel non veder rispettati accordi con una multinazionale che ha un utile operativo di 6 miliardi e mezzo di dollari l’anno, abbiamo la consapevolezza che nessuno di loro è rimasto in una fonderia oltre il tempo necessario per un comizio tra gli operai. Nessuno di loro, prima di pensare se armare o meno la parte datoriale di uno scudo penale, ha mai pensato alle reali condizioni di lavoro dopo l’abolizione dell’articolo 18 e la defenestrazione del contratto a tempo indeterminato. Così come nel quartier generale lussemburghese della ArcelorMittal riescono benissimo a fare gli indiani, fingendo di non capire quale bomba sociale ed ambientale rappresenti la dismissione incontrollata dello stabilimento di Taranto, a Palazzo Chigi reiterano lo stesso comportamento, derubricando l’emergenza in una penosa individuazione di responsabilità cronologica nei confronti di chi ha portato sui banchi del Parlamento la norma sull’immunità penale ai gestori dell’acciaieria.
D’altra parte nel circo mediatico che viene allestito quando ballano diecimila posti di lavoro è più vendibile e ricreativo sbranarsi sotto gli occhi del domatore che offrire spettacoli edificanti, in un’ottica di unità nazionale. Che la rimozione dello scudo penale e le prescrizioni del tribunale di Taranto siano per la ArcelorMittal solo il casus belli per abbandonare un impianto non remunerativo come da aspettative, non ne parla quasi nessuno. La crisi di acciaio in Europa è già realtà: i grandi colossi che divorano capitale finanziario e umano hanno un’oggettiva difficoltà nel trovare manovalanza a basso costo in un continente dalle grandi tradizioni industriali e sindacali. In aggiunta, l’economia stagnante del Vecchio Continente ha compresso la richiesta di acciaio e permesso alla Via della Seta – anche nel settore della siderurgia – di diventare un’arteria radiale per l’ingresso dei suoi prodotti in Europa.
Malgrado ciò e i loschi tentativi di promuovere nuove cordate di acquirenti che succedano ad ArcelorMittal, in cambio di appoggio politico, lo scenario dell’ex Ilva sarebbe la tempesta perfetta per rispolverare l’ombrello costituzionale, in riferimento alla disciplina dei rapporti economici. L’articolo 43 della Costituzione Italiana detta chiaramente che “la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. L’ex Ilva non fa forse parte di questa categoria di imprese? Siamo sicuri che i lavoratori non sappiano gestire e realizzare un piano industriale – nel rispetto delle prescrizioni ambientali – meglio di manager prezzolati i quali, se non vengono debitamente assecondati nei loro bluff, buttano le carte e si siedono tranquilli su un altro tavolo da gioco? Sino a quando nelle politiche e nelle relazioni industriali non tornerà centrale l’assioma che è il lavoro ad essere in vendita e non il lavoratore, lo Stato Italiano giammai potrà essere in grado di affrontare seriamente il tema della gestione privata delle grosse imprese. Se nazionalizzare è un’utopia – o una distopia per i fan delle liberalizzazioni – bonificare il sito e salvaguardare i piani occupazionali rilanciando una produzione ecosostenibile deve essere il centro di gravità permanente su sui fissare il futuro di Taranto. Chi ha paura di lottare continua a morire ogni giorno invece che una volta sola.
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