L’ESTATE, IL VIAGGIO, LA RICERCA DI
DIO
Sa Defenza |
L’estate è un tempo metafisico non solo per chi sceglie come meta la bellezza solitaria delle montagne o il silenzio degli eremi (sempre più ricercati) o la tranquillità degli agriturismi.
E’ un tempo metafisico perché è la stagione del viaggio, del sogno, dell’altrove, dell’uscita dal tempo e dallo spazio consueti. Perciò è anche il tempo della fuga, di una parvenza di liberazione dalle catene e dai pesi del quotidiano. O magari – in tempi di ristrettezze economiche – è (quantomeno) la fantasia della fuga (che non costa niente).
In ogni caso il viaggio è la migliore metafora della vita. Tanto è vero che la troviamo nel linguaggio corrente della gente comune, ma pure all'origine (letteraria) della nostra civiltà giudaico-cristiana e greco-latina.
Gli archetipi sono il viaggio di ritorno a casa di Ulisse, il viaggio di Enea con una grande missione da compiere (la fondazione di Roma). Oppure il viaggio verso l'ignoto di Abramo, chiamato da Dio, cioè dal Mistero, dal Destino, verso un orizzonte sconosciuto e più grande (lui che era un uomo ricco e benestante).
Nel primo caso (Ulisse, che parte da Itaca e lì ritorna) si riflette la nozione circolare del tempo che avevano i greci e in genere le civiltà antiche, un'idea ripresa dai cicli della natura, che in fin dei conti è percepita dagli uomini come una trappola mortale. Alimenta la triste sensazione dell'inutilità dell'esistenza.
Perché il cuore dell’uomo – diversamente dagli alberi, dalle stagioni e dagli animali – reclama un fine, uno scopo, una felicità che non trova, cerca una terra promessa, brama il compimento, desidera scoprire il proprio vero io.
Tutti gli esseri animati trovano sulla terra ciò di cui hanno bisogno. Noi – come già notava Leopardi – siamo le sole creature del mondo perennemente insoddisfatte, le uniche che non trovano in natura ciò che le appaga, le sole per cui la vita è un problema da risolvere. Perciò il viaggio significa ricerca.
Ed è infatti lineare (non più ciclico) il tempo della rivelazione biblica e cristiana: la vita ha un inizio e guarda verso l’annuncio e l'attesa di una terra promessa, di un salvatore, di un grande Amore, di un compimento per sempre, di qualcosa di straordinario che deve accadere e che finalmente colmerà il desiderio del cuore con una Felicità inimmaginabile.
Ma forse per noi moderni del dopoguerra e soprattutto per le generazioni laicizzate post-sessantottine, il vero archetipo del viaggio è “On the Road” (Sulla strada) di Jack Kerouac(che fu pubblicato nel 1957).
C’è uno scambio di battute nel libro che è spesso citato, ma poco compreso: “Dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo”, dice il primo personaggio. Risponde l’altro: “Per andar dove, amico?”. Replica: “Non lo so, ma dobbiamo andare”.
Così qualcuno ha creduto di dedurne che la meta sia il viaggio stesso, l'andare senza significato, una fuga verso il nulla, ma per Kerouac non era così.
La stessa Fernando Pivano, a proposito del libro di Kerouac, scriveva:
“Era inevitabile che ai critici superficiali questa corsa affannosa verso una meta così poco definibile sembrasse una fuga; ma è chiaro che in realtà essa è soltanto una ricerca. Si è detto che il dramma più disperato della beat generation è quello di trovare una realtà trascendente in cui poter credere, tale da soppiantare la realtà terrena ormai superata dalla scienza moderna e in cui non possono credere più. Questi drogati, questi alcolizzati, questi edonisti, sono forse dei mistici che lottano contro le spiegazioni offerte loro dagli adulti e inadeguate a colmare lo spacco tra il mondo di ieri e il mondo di domani, per trovare una giustificazione alla loro vita di uomini… È il loro misticismo a creare la grande differenza tra la beat e la lost generation”.
Probabilmente il viaggio di Kerouac da costa a costa voleva rivivere anche l’epica marcia verso il West dei pionieri, simbolo dell'umana corsa verso la felicità, ma riscrivendo quel sogno americano senza il trionfalismo vorace di Walt Whitman, piuttosto con gli occhi smarriti di una generazione che era uscita dalla Guerra e dalla grande Depressione, che aveva conosciuto il dolore e cercava se stessa, non la grande abbuffata al consumismo che era appena iniziata.
Ci sarebbe da ricordare anche il piccolo viaggio del “Giovane Holden” che – negli stessi anni – raccontava in modo simpatico e struggente un’adolescenza in cerca di autenticità, in fuga dall'ipocrisia del mondo adulto e alla scoperta della propria vocazione umana.
Poi arrivò il ’68 e furono macerie. L'utopia politica (utopia significa “nessun luogo”) occupò tutto l’immaginario del viaggio umano e divenne presto distopia.
La generazione che ne fu protagonista e che ha preso il potere decise che – siccome loro non l’avevano trovato – il senso della vita non esisteva, ci si doveva astenere dal cercarlo e ci si poteva sistemare a Palazzo con una buona dose di ipocrisia e di arroganza (cioè continuando a sentirsi migliori).
Così “l'isola non trovata”, cantata con delicata e religiosa intelligenza da Guido Gozzano ai primi del Novecento (“Ma più bella di tutte l'isola non trovata… L'isola esiste. Appare talora di lontano…”) fu riscritta da Francesco Guccini con l’inchiostro della delusione e lo scetticismo del post ‘68 (“quell'isola non c’era/ e mai nessuno l'ha trovata:/ svanì di prua dalla galea/come un’ idea,/ come una splendida utopia,/ è andata via e non tornerà mai più”).
Eppure è finito anche il disincanto dei Sessantottini e oggi si continua a viaggiare e a vivere scrutando l’orizzonte, cercando quell'isola sognata dove potremmo ritrovare la felicità, la nostra anima, le nostre radici e il nostro destino.
Questa ricerca non caratterizza solo l'uomo occidentale, ma connota la stessa natura umana. Una scrittrice giapponese, Mahoko Yoshimoto, scrive: “Non capivo perché ma venivo presa da una nostalgia così lancinante che, anche se mi trovavo a casa mia, sentivo che esisteva un posto, da qualche parte, dove dovevo tornare”.
La casa, la vera patria, che poi è la terra del Padre, il luogo della Bellezza e della Felicità. Non è questo che si sogna ad ogni partenza e ad ogni ritorno?
Appena “On the Road” divenne un best seller, Kerouac fu intervistato nel celebre programma televisivo di John Wingate, Nightbeat, e alla domanda: “Si è detto che la beat generation è una generazione alla ricerca di qualcosa. Che cosa state cercando?”, lui rispose lapidario: “Dio! Voglio che Dio mi mostri il suo volto”.
Nel suo Diario annotò:
“Fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia (una delle tante), Santa Giovanna d’Arco a Lowell, e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola ‘Beat’, la visione che la parola Beat significava beato…”.
In un articolo del 1957 Kerouac spiegò che il fenomeno beat esprime “una religiosità profonda, il desiderio di andarsene, fuori da questo mondo (che non è il nostro regno), ‘in alto’, in estasi, salvi, come se le visioni dei santi claustrali di Chartres e Clairvaux tornassero a spuntare come l'erba sui marciapiedi della Civiltà stanca e indolenzita dopo le sue ultime gesta”.
Tutti sappiamo che siamo viaggiatori insoddisfatti, sappiamo che abbiamo sostituito gli antichi pellegrinaggi con il turismo e l'andare con il girovagare, ma intuiamo qual è la vera meta del viaggio. Lo sappiamo. Sapremmo anche dirne il nome. Pochi però conoscono la strada.
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