Il sito di Enrico Mentana ha rilanciato notizie senza verificarle.
Elisabetta Burba
Eschilo diceva che «in guerra la verità è la prima vittima». A 2.500 anni di distanza, l'aforisma del drammaturgo greco deve essere moltiplicato all'ennesima potenza. Soprattutto se a propagare la presunta verità sono i social media.
Emblematico il caso di Open, il giornale online fondato da Enrico Mentana che dal 12 ottobre 2021 è il partner italiano di Facebook «nella lotta alla disinformazione». La sezione fact-checking di Open fa parte della rete degli oltre 80 fact-checkers indipendenti che, come si legge sul sito, monitora «le notizie false o fuorvianti diffuse in Italia e all’estero, fornendo un costante servizio di corretta informazione».
Un grande potere, quello che Facebook ha attribuito a Open: quando il giornale di Mentana definisce una notizia «falsa», il sito che la ospita viene pesantemente penalizzato e talora anche bloccato. «Rendiamo i contenuti con disinformazione visibili a meno persone: una volta etichettato come Falso, Alterato o Parzialmente falso, questo tipo di contenuti sarà mostrato più in basso nella sezione Notizie, sarà escluso dalla sezione Esplora su Instagram e messo meno in evidenza nel feed e nelle Storie» spiegano le «Informazioni sul fact-checking su Facebook». «In questo modo, il numero di persone che lo vedono è notevolmente ridotto. Rifiutiamo inoltre le inserzioni con contenuti valutati dai fact-checker».
Ebbene, forse Open dovrebbe fare un po' di fact-checking anche alle notizie che pubblica sul proprio sito. Nel giro di tre giorni, il giornale online ha pubblicato quattro notizie di fonti ucraine prive di pezze d'appoggio.
Il primo caso riguarda un'immagine raccapricciante: il cadavere di una donna sfregiato da una svastica incisa sul ventre. La prima a postare questa foto su Twitter è stata una deputata di Kiev, Lesia Vasylenko, il 3 aprile: «Il corpo torturato di una donna uccisa e stuprata». Il 4 aprile la foto è stata ritwittata da Oleksiy Arestovych Consigliere del Capo dell'ufficio del Presidente dell'Ucraina, che ha scritto: «Il corpo di una ragazza che è stata torturata a morte a Gostomel» spiegando che la svastica è realizzata con delle bruciature. E il sito Open la ha pubblicata il 5 aprile alle ore 20.10. L'immagine è finita all'interno di un post intitolato «Le storie di donne e bambini torturati a Irpin».
Apriti cielo. Il web è insorto: la storia di quella donna torturata e poi sfigurata con il simbolo nazista è nota, anche perché l'hanno fotografata nella scuola numero 25 di Mariupol giornalisti occidentali come Maurizio Vezzosi e Patrick Lancaster. Come ha testimoniato Maurizio Vezzosi, «nel sotterraneo di una scuola di Mariupol utilizzata fino a pochi giorni fa come base dal battaglione Azov ho fotografato insieme a un collega il corpo esanime di una donna - la cui identità è per il momento ignota - a cui sono state inflitte numerose torture. Sul ventre della donna - tra i trenta e quaranta anni - c'è una svastica realizzata tramite numerose ferite da taglio ed evidenti ustioni».
Il giornalista, che Panorama conosce, ha aggiunto: «Sul basso costato della donna si nota un ematoma da compressione con la forma di uno scarpone: il particolare suggerisce che le torture siano state inflitte mentre la donna era viva e che i torturatori fossero almeno due. Le braccia della donna sono state legate dietro la sua schiena con del nastro isolante: il particolare non è visibile in questa foto, ma osservabile dal fianco sinistro della donna. Il sacco di plastica e il nastro isolante sul collo della donna suggeriscono che sia stata uccisa per soffocamento».
A quel punto, a Open non è restato che rettificare: il 6 aprile ha rimosso il tweet e ha ammesso che la foto è stata scattata a Mariupol. Il sito che fa fact-checking sorvola però sul fatto che la donna si trovava all'interno di una base del battaglione neo-nazista Azov. Anche Oleksiy Arestovych, consigliere di Volodymyr Zelensky, cancella il tweet.
Ma non è finita. Nello stesso articolo del 5 aprile è comparsa un'altra notizia non verificata. «Repubblica racconta in un articolo di Brunella Giovara la testimonianza di una donna, Alina, sui suoi vicini di casa: “I grandi sono stati fucilati dai russi. Sono rimasti un bambino e sua sorella, che sono stati violentati a lungo, poi uccisi. I corpi sono stati recuperati, e hanno fatto l’autopsia anche per raccogliere le tracce organiche degli stupratori”. Alina racconta che a una ragazza è stata disegnata una Z sul ventre».
Da dove viene quest'altra storia dell'orrore? Dalla pagina Facebook della giornalista Alina Dubovksa, giornalista della testata ucraina Public, che ha postato una notizia di cui ammette di non aver controllato la veridicità: «Non ero un testimone. La storia si basa esclusivamente sulle parole di un mio parente». E denuncia: «Hanno inciso la lettera Z sul petto di Angel e le hanno squarciato la pancia. Il mio odio non bolle più! Brucia come un razzo al fosforo!» scrive la giornalista, che poi conclude: «Tutta la Russia deve rispondere di questo!».
La notizia fa il giro del mondo e sono in tanti a volerne sapere di più. A quel punto, la giornalista ucraina fa un passo indietro e nasconde il post. Il 6 aprile Alina Dubovksa ne pubblica un secondo, in cui ammette che la fonte è suo cugino: «Ho dovuto nascondere sulla mia pagina un post su una famiglia smarrita e una ragazza stuprata per la risonanza di questa storia». E, con un'excusatio non petita, aggiunge: «Per favore non giudicate mio cugino che non è ancora pronto a parlare. Ci sono ragioni per questo, compresa la paura per la vita». In questo caso, Open non si sente in dovere di informare i lettori della retromarcia della sua fonte.
Sempre il 5 aprile, Open pubblica un altro articolo. Titolo: «Asanbekovich e l’unità 51460: chi sono il comandante e la brigata accusati del massacro di Bucha». Il sito spiega che gli attivisti di InformNapalm «hanno detto che Asanbekovich, che ha circa 40 anni, fa parte dei buriati, la più grande minoranza etnica di origine mongola della Siberia. Per muovere guerra all’Ucraina l’unità 51460 è partita da Knyaze-Volkonskoye, nel territorio di Khabarovsk, nell’estrema Russia orientale».
Open pubblica anche una foto di gruppo degli additati massacratori dell’unità 51460. Nell'immagine compaiono una ventina di ragazzi giovanissimi in divisa con l'aria contenta: qualcuno ride apertamente, uno fa «ciao» con la mano. In poco tempo salta fuori che la foto è del 2019. E il giornalista del Manifesto Luigi De Biase trova e intervista alcuni dei soldati raffigurati, scoprendo che si tratta di un gruppo di coscritti.
«Quelli nella foto dovrebbero essere gli autori della strage di Bucha. La foto l'hanno pubblicata molti quotidiani martedì» spiega De Biase. «Sono riuscito a parlare con due di loro. Vivono in Yakutia. Hanno lasciato l'esercito da mesi. Non hanno mai messo piede in Ucraina. Neanche da civili. Uno dei militari nell'immagine, Vladimir Osipov, vent'anni, mi ha detto che la foto l'hanno scattata a Khabarovsk nel 2019 all'inizio della leva. Lo hanno congedato a dicembre. Da allora è tornato in Yakutia. Vive con la famiglia». Il giornalista del Manifesto aggiunge: «Osipov ha servito nella 64esima brigata fra il 2019 e il 2021. Quelli nella foto sono coscritti yakuti. Mi ha detto che, per quel che ne sa, tutti hanno lasciato l'esercito a dicembre. Un altro dei soldati, Andrey, mi ha chiesto di essere indicato soltanto con il nome». Nessuno si sente in dovere di smentire: né Open, né i quotidiani che avevano evocato le orde asistiche e sparato contro i «macellai» della Yakutia.
E arriviamo al 7 aprile. Come altri giornali, anche Open denuncia: «La Russia sta usando forni crematori per bruciare i corpi di donne e bambini». E specifica qual è la fonte: «A dirlo è stata ieri la vicepremier dell’Ucraina Irina Vereshchuck in un intervento a Sky Tg 24». In questo caso, Open non pubblica immagini. Sui social ucraini, invece, circola la foto di un camion aperto sul retro che viene definito un forno crematorio ambulante. «Questo è quello che i crimini di guerra russi usano a Mariupol per nascondere i loro crimini. Il culmine dell'orrore» twitta il pugile Volodymyr Klitschko. Sulla stessa lunghezza d'onda, la pagina ufficiale del ministero della Difesa ucraino: «Hanno distrutto i corpi di centinaia di cittadini torturati e assassinati». E, citando il sindaco di Mariupol, aggiunge: «Il mondo non ha mai visto una tragedia della scala di Mariupol dai tempi del campi nazisti».
Anche qui i dubbi sorgono subito. Nel giro di poco salta fuori che la foto è in realtà il fermo immagine di un video, pubblicato su YouTube il 26 agosto 2013, postato da Turmalin, un’azienda che produce inceneritori. «Test di un impianto unico per la distruzione termica (incenerimento) di rifiuti biologici – un crematorio mobile IN-50.1K» recita la didascalia. In altre parole, si tratta di un inceneritore di rifiuti animali e vegetali.
Nella sezione «Truth or Fake» della rete televisiva France 24, la giornalista Catalina Marchant de Abreu ha analizzato la vicenda, giungendo alla conclusione che «non c'è una segnalazione indipendente che questi forni crematori siano stati usati». I fact-checker di Open, invece, hanno pubblicato la notizia fornita dalla vicepremier ucraina senza verificarla. E non si sono sentiti in dovere di intervenire neanche quando sono divampate le polemiche. Con buona pace di Eschilo.
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