È possibile essere  comunisti senza Marx? È evidente che sì. 
Ciò non toglie che mi capiti spesso di discuterne con compagni e con  intellettuali sovversivi di differenti estrazioni. Soprattutto in  Francia – e le considerazioni che seguono riguardano essenzialmente la  Francia. Debbo comunque confessare che spesso mi annoio a ragionare su  questi argomenti, ci son linee troppo diverse e contraddizioni che  raramente son condotte a confrontarsi con verifiche o soluzioni  sperimentali. Si tratta spesso di confrontarsi con retoriche che  astrattamente affrontano la pratica politica. E tuttavia, talora, ci si  scontra con posizioni che negano addirittura che ci si possa dichiarare  comunisti se si è marxisti. Da ultimo, ad esempio, un importante  studioso – che pure aveva sviluppato nel passato le ipotesi del  “maoismo” più radicale – mi diceva che, se ci si attenesse al marxismo  rivoluzionario, che prevedeva il “deperimento dello Stato”, la sua  “estinzione”, dopo la conquista proletaria del potere, e certo non ha  realizzato questa finalità, non ci si potrebbe più dichiarare  “comunisti”. Obiettavo che è come dire che il cristianesimo è falso  perché il Giudizio Universale non è arrivato nei tempi prossimi,  previsti dall’Apocalisse di Giovanni, e la “resurrezione dei morti” non  la si è proprio vista! Ed aggiungevo che nell’epoca del disincantamento,  la fine del secolo mondano per i cristiani e la crisi della escatologia  socialista equivocamente sembrano giacere sotto la stessa coperta,  meglio, subire eguali ingiunzioni epistemologiche – però, del tutto  fallaci. È certo infatti che il cristianesimo è falso – ma io credo che  lo sia per tutt’altre ragioni. E se anche il comunismo è falso, non lo è  certo perché la speranza escatologica non si è in questo caso  realizzata: non dico infatti che essa non fosse infatti implicita nella  premessa, ma solo che molte delle “profezie” (meglio, dei dispositivi  teorici) del comunismo marxiano si sono realizzate, al punto che oggi è  ancora impossibile – senza Marx – affrontare il problema della lotta  contro lo schiavitù del capitale. Proprio per questo, probabilmente,  sarebbe importante ritornare dal cristianesimo a Cristo e dal comunismo a  Marx…
E allora? Non si è data l’estinzione dello Stato, in Russia e in Cina lo  Stato è divenuto onnipotente ed il comune è stato organizzato (e  falsificato) nelle forme del pubblico: lo statalismo ha quindi vinto e,  sotto quest’egemonia, non il comune ma un capitalismo burocratico  sommamente centralizzato si è imposto. Tuttavia a me sembra che  attraverso le grandi esperienze rivoluzionarie comuniste del secolo  ventesimo, l’idea di una “democrazia assoluta”, e di un “comune degli  uomini”, sia stata dimostrata possibile. Ed intendo la “democrazia  assoluta” come un progetto politico che si costruisce oltre la  democrazia “relativa” dello Stato liberale, e dunque come l’indice di  una radicale rivoluzione contro lo Stato, di una pratica di resistenza e  di costruzione del “comune” contro il “pubblico”, del rifiuto  dell’esistente e dell’esercizio della potenza costituente da parte della  classe dei lavoratori sfruttati.
Qui interviene la differenza. Qualunque sia stata la conclusione, il  comunismo (quello che si è mosso secondo l’ipotesi marxista) si è  provato (anche senza realizzarsi) attraverso un insieme di pratiche che  non sono solo aleatorie, non solo transitorie: si è trattato di pratiche  ontologiche. La questione, dunque, se si possa esser comunisti senza  essere marxisti, dovrebbe prima di tutto confrontarsi con la dimensione  ontologica del comunismo, con la determinazione materialista di questa  ontologia, con i suoi residui effettivi, con l’irreversibilità di quel  episodio nella realtà e nel desiderio collettivo degli uomini. Il  comunismo è una costruzione, ci ha appreso Marx, un’ontologia, cioè la  costruzione di una nuova società da parte dell’uomo produttore, del  lavoratore collettivo, attraverso un agire che si rivela efficace perché  è diretto all’accrescimento dell’essere.
Questo processo si è aleatoriamente dato, quest’esperienza si è  parzialmente realizzata. Il fatto che sia stata sconfitta, non dimostra  che sia impossibile: anzi è effettualmente mostrato che essa è  possibile. Molti milioni di uomini e di donne hanno operato e pensato,  lavorato e vissuto dentro questa possibilità. Nessuno nega che l’epoca  del “socialismo reale” abbia ceduto a, e sia stata attraversata da,  orribili derive. Ma sono esse tali da avere determinato un annullamento  di quell’esperienza, da aver tolto quell’accrescimento dell’essere che  il realizzarsi del possibile e la potenza dell’evento rivoluzionario  avevano costruito? Se ciò fosse avvenuto, se il negativo che ha pur  pesantemente intaccato la vicenda del “socialismo reale”, avesse  prodotto una prevalente distruzione dell’essere, l’esperienza del  comunismo sarebbe scivolata via e si sarebbe dispersa nel nulla. Ma  questo non è avvenuto. Il progetto di una “democrazia assoluta”,  l’istanza di costruire il “comune degli uomini” restano attrattivi,  intatti nel nostro desiderio e nella nostra volontà. Non dimostra forse  questa permanenza, questo materialismo del desiderio, la validità del  pensiero di Marx? Non è perciò difficile, se non impossibile, essere  comunisti senza Marx?
All’obiezione sullo statalismo che “necessariamente” deriverebbe dalle  pratiche marxiste, occorre dunque rispondere riarticolando la nostra  analisi: assumendo cioè che l’accumulazione dell’essere, il progredire  della “democrazia assoluta”, l’affermazione della libertà e  dell’uguaglianza, passano attraverso e subiscono incessantemente soste,  interruzioni, catastrofi – ma che quest’accumulazione è più forte dei  momenti distruttivi che pur conosce. Questo processo infatti non è  finalistico, teleologico e neppure è una mossa di filosofia della  storia: non lo è perché quest’accumulazione di essere che pur vive  attraverso le vicende storiche, non è un destino e neppure una  provvidenza, ma è la risultante, l’intersezione di mille e mille  pratiche e volontà, trasformazioni e metamorfosi che hanno costituito i  soggetti. Quella storia, quest’accumulazione sono prodotti delle  singolarità concrete (che la storia ci mostra in azione) e produzioni di  soggettività. Noi le assumiamo e le descriviamo a posteriori. Non c’è  nulla di necessario, tutto è contingente ma concluso, tutto è aleatorio  ma compiuto, nella storia che raccontiamo. Nihil factum infectum fieri  potest: c’è forse filosofia della storia laddove i viventi desiderano  solo continuare a vivere e per ciò esprimono dal basso una teleologia  intenzionale della vita? La “volontà di vivere” non risolve i problemi e  le difficoltà del vivere ma ci si presente nel desiderio come urgenza e  potenza di costituzione del mondo. Se vi sono discontinuità e rotture,  esse si rivelano nella continuità storica – una continuità sempre  frastagliata, mai progressiva – ma neppure globalmente, ontologicamente  catastrofica. L’essere non può mai essere totalmente distrutto.
Altro tema: quell’accumulazione di essere costruisce del comune. Il  comune non è una finalità necessaria – è bensì un aumento dell’essere  perché l’uomo desidera essere molteplicità, stabilire relazioni, essere  moltitudine – non potendo star da solo, soffrendo soprattutto la  solitudine. In secondo luogo, quell’accumulazione di essere non sarà  neppure identità né origine: è essa stessa un prodotto di diversità e di  consensi/contrasti fra singolarità, articolazione di costruzioni  linguistiche e di determinazioni storiche, frutto di incontri e scontri.  Va qui soprattutto sottolineato che il comune non si presenta come  l’universale. Può contenerlo ed esprimerlo, ma non vi si riduce, è più  esteso e temporalmente dinamico. L’universale si può predicare di ogni e  di tutti gli individui. Ma il concetto di individuo autosussistente è  contraddittorio. Non c’è individualità ma solo relazione di singolarità.  Il comune ricompone l’insieme delle singolarità. Questa differenza del  comune dall’universale è qui assolutamente centrale: Spinoza la definì  quando, alla generica vuotezza dell’universale e all’inconsistenza  dell’individuo, oppose la concreta determinazione delle “nozioni  comuni”. Universale è ciò che nell’isolamento, nella solitudine, ogni  soggetto può pensare; comune è invece quello che ogni singolarità può  costruire, costituire ontologicamente a partire dal fatto che ogni  singolarità è molteplice ma determinata concretamente nella  molteplicità, nella comune relazione. L’universale è detto del  molteplice, mentre il comune è determinato, è costruito attraverso il  molteplice e qui specificato. L’universalità considera il comune come un  astratto e lo immobilizza nel corso storico: il comune sottrae  l’universale all’immobilità e alla ripetizione. E lo costruisce invece  concretamente.
Ma tutto questo presuppone l’ontologia. Ecco dunque dove il comunismo ha  bisogno di Marx: per impiantarsi nel comune, nell’ontologia. E  viceversa. Senza ontologia storica non c’è comunismo.
Si può essere comunisti senza essere marxisti? Diversamente dal  “maoismo” francese, che non ha mai frequentato Marx (ma su questo  ritorneremo), Deleuze e Guattari ad esempio furono comunisti senza  essere marxisti, ma lo furono in maniera estremamente efficace, fino al  punto che si favoleggiò di un Deleuze autore, in punctuo mortis, di un  libro intitolato “La grandeur di Marx”. Deleuze e Guattari costruiscono  il comune attraverso degli agencements collectifs e un materialismo  metodologico che li avvicina al marxismo ma li tiene distanti dal  socialismo classico, e comunque da ogni ideale organico di socialismo  e/o statalistico di comunismo. Sicuramente Deleuze e Guattari si  dichiararono tuttavia comunisti. Perché? Perché, senza essere marxisti,  furono implicati in quei movimenti di pensiero che si aprivano  continuamente alla pratica, alla militanza comuniste. In particolare, il  loro materialismo fu ontologico, il loro comunismo si sviluppò sui  mille plateaux della pratica trasformativa. Mancava loro la storia,  quella positiva che certo spesso può aiutare nel produrre e nel  comprendere la dinamica della soggettività (in Foucault, questo  dispositivo è finalmente reintegrato nell’ontologia critica): talora  tuttavia la storiografia positivista, certo, ma talora la storia può  essere iscritta all’interno della metodologia materialista, senza quegli  orpelli cronologici e quell’eccessiva insistenza sugli eventi, tipica  di ogni Historismus – e appunto ciò che avviene in Deleuze-Guattari.  Insisto sulla complementarietà di materialismo e ontologia perché la  storia (che nella prospettiva tanto dell’idealismo classico quanto del  positivismo era certo ricalcata dalla filosofia, ma per finalizzarla ad  ipostasi politiche o etiche e così a negarne la dimensione ontologica)  può, invece, essere talora tacitamente ma efficacemente sussunta –  quando l’ontologia costituisca dispositivi particolarmente forti, come  avveniva in Deleuze-Guattari. Non bisogna infatti dimenticare che il  marxismo non vive solo nella scienza ma piuttosto si svolge dentro  esperienze “situate”: il marxismo è spesso rivelato dai dispositivi  militanti.
Diversamente van le cose quando, ad esempio, si confronti il nostro  problema (comunismo/marxismo, storia/ontologia) alle numerose varianti  del socialismo utopistico, soprattutto a quello di derivazione  “maoista”. Nell’esperienza francese del “maoismo” si assistette al  diffondersi di una specie di “odio per la storia”, che – qui consistete  la sua spaventosa deficienza – rivelava un estremo disagio quando si  trattasse di produrre obiettivi politici. Così, infatti, evacuando la  storia, si evacuava non solo il marxismo ma anche la politica.  Paradossalmente si ripeteva, nella direzione opposta, quello che era  avvenuto in Francia nel periodo della fondazione della scuola degli  “Annales” di Marc Bloch e di Lucien Febvre: in quell’occasione il  marxismo venne introdotto nella discussione filosofica attraverso la  storiografia. E la storiografia divenne politica!
Altrettanto vale per il socialismo utopistico: si deve riconoscere che,  in talune delle sue esperienze (fuori dalle varianti maoiste), esso ha  offerto connessioni materialiste di ontologia e storia – non sempre, ma  sovente. Si pensi solo – per quel che riguarda l’esperienza francese –  ai formidabili contributi di Henri Lefebvre. Si tratterà allora di  comprendere se e fino a che punto, dentro questo variare di posizioni  diverse, emergono talora posizioni che (in nome dell’universalità del  progetto politico proposto) si oppongono alla praxis ontologica –  negando, ad esempio, la storicità di categorie come l’“accumulazione  originaria” e proponendo di conseguenza l’ipotesi di un comunismo come  pura restaurazione, immediata, dei commons, oppure svalutando le  metamorfosi produttive che configurano variamente la “composizione  tecnica” della forza lavoro (che è vera e propria produzione  materialista di soggettività nella relazione fra rapporti produttivi e  forze produttive), riconducendo in maniera radicale alla natura umana  (sempre uguale, sub forma arithmeticae) l’origine della protesta  comunista, ecc. ecc.: si tratta evidentemente di una riedizione ambigua  dell’idealismo nella sua figura trascendentale.
Per esempio: in Jacques Rancière abbiamo recentemente visto accentuarsi i  dispositivi che negano ogni connessione ontologica di materialismo  storico e comunismo. La prospettiva dell’emancipazione del lavoro si  sviluppa infatti, nella sua ricerca, in termini di autenticità della  coscienza, assumendosi conseguentemente la soggettività in termini  individuali, e quindi togliendo di mezzo – proprio prima di cominciare –  ogni possibilità di chiamare comune la produzione di soggettività.  Inoltre l’azione emancipatrice si stacca qui da ogni determinazione  storica e proclama la sua indipendenza dalla temporalità concreta: la  politica, per Rancière, è un’azione paradossale che stacca il soggetto  dalla storia, dalla società, dalle istituzioni, pur quando, senza quella  partecipazione (quell’inerenza che può essere radicalmente  contraddittoria), il soggetto politico non sarebbe neppure predicabile.  Il movimento di emancipazione, la “politica” perdono così ogni  caratteristica di antagonismo, non in astratto ma sul terreno concreto  delle lotte, e le determinazioni dello sfruttamento non si vedono più e  (parallelamente) non costituisce più problema l’accumulazione del potere  nemico, della “polizia” (sempre presentata in una figura indeterminata,  non quantitate signata). Quando il discorso di emancipazione non riposa  sull’ontologia, diviene utopia, sogno individuale e lascia il tempo che  trova.
Siamo così entrati in medias res, al punto di chiederci se (dopo il  sessantotto) ci sia mai stato un comunismo collegato al marxismo in  Francia. C’è stato certamente (e permane) nelle due varianti dello  stalinismo e del trotzkismo, l’una e l’altra ormai partecipanti di una  storia lontana ed esoterica. Quando invece si viene alla filosofia del  ’68, qui il rifiuto del marxismo è radicale. Vogliamo riferirci  essenzialmente alle posizioni di Badiou, che godono di una certa  popolarità.
Una breve precisazione. Quando Rancière, nelle immediate adiacenze del  ’68, sviluppava (dopo aver partecipato alla comune lettura de “Il  Capitale”) una critica pesante delle posizioni di Althusser, e metteva  in luce come nella critica dell’umanesimo marxista (che solo dopo il ’68  – con un certo ritardo, dunque! – si apriva in Althusser alla critica  dello stalinismo) permanessero in realtà gli stessi presupposti  intellettualisti dell’“uomo di partito” e l’astrazione strutturalista  del “processo senza soggetto” – aveva ragione da vendere. Ma non si  dovrebbe oggi, da parte di Rancière sollevare la stessa critica nei  confronti di Badiou? Anche per Badiou infatti è solo l’indipendenza  della ragione, la sua garanzia di verità, la sistematicità di  un’autonomia ideologica – è solo a queste condizioni che si determina la  definizione del comunismo. “N’est-ce pas, sous l’apparance du multiple,  le retour à une vieille conception de la philosophie supérieure?” – si  chiedono Deleuze-Guattari. È quindi molto difficile capire dove stiano  per Badiou le condizioni ontologiche del soggetto e della rottura  rivoluzionaria. Per lui, infatti ogni movimento di massa costituisce una  performance piccolo borghese, ogni lotta immediata, del lavoro  materiale o cognitivo, di classe o del “lavoro sociale”, è qualcosa che  mai toccherà la sostanza del potere – ogni allargamento della capacità  collettiva di produzione dei soggetti proletari non sarà altro che un  allargamento del loro assoggettamento alla logica del sistema – quindi,  l’oggetto è inarrivabile, il soggetto indefinibile, a meno che la teoria  non lo produca, a meno di disciplinarlo, di adeguarlo alla verità e di  innalzarlo all’evento – oltre la pratica politica, oltre la storia. Ma  tutto questo è ancor poco rispetto a quello che ci aspetta se seguiamo  il pensiero di Badiou: ogni quadro di lotta, specificamente determinato,  gli sembra (se la teoria e l’esperienza militante gli attribuiscono una  potenza di sovversione) solo un’allucinazione onirica. Insistere ad  esempio sul “potere costituente” sarebbe per lui sognare la  trasformazione di un immaginario “diritto naturale” in una potenza  politica rivoluzionaria. Solo un “evento” può salvarci: un evento che  sia fuori da ogni esistenza soggettiva che sappia determinarlo e da ogni  pragmatica strategica che ne rappresenti il dispositivo. L’evento per  Badiou (la crocifissione di Cristo e la sua resurrezione, la Rivoluzione  francese, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.) è sempre definito a  posteriori, è dunque un presupposto e non un prodotto della storia. Di  conseguenza, paradossalmente, l’evento rivoluzionario esiste senza Gesù,  senza Robespierre, senza Mao. Ma, privato di una logica interna di  produzione dell’evento, come si potrà mai distinguere l’evento da un  oggetto di fede? Badiou, in realtà, si limita con ciò a ripetere  l’affermazione mistica, normalmente attribuito a Tertulliano: “credo  quia absurdum” – credo, cioè, perché è assurdo. Qui l’ontologia viene  spazzata via. Ed il ragionamento comunista è ridotto o a un colpo di  matto o a un business dello spirito. Per dirla tutta, ripetendo  Deleuze-Guattari: “l’événement lui-même apparaît (selon Badiou), moins  comme une singolarità que comme un point aléatoire séparé qui s’ajout ou  se soustrait au site, dans la trascendance du vide ou la vérité comme  vide, sans qu’on puisse décider de l’appartenance de l’événement à la  situation dans laquelle se trouve son site (l’indécidable). Peut-être en  revanche y a-t-il une intervention comme un jet de dé sur le site qui  qualifie l’événement et le fait entrer dans la situation, une puissance  de « faire » l’événement”.
Ora, si comprendono facilmente alcuni dei presupposti di queste  posizioni teoretiche (che comunque partono da una sofferta e condivisa  autocritica di pratiche rivoluzionarie trascorse). Si trattava, infatti,  in primo luogo, di distruggere ogni riferimento alla storia di un  “socialismo reale”, sconfitto, sì, ma sempre e comunque infarcito di  premesse dogmatiche e di un’organica disposizione al tradimento. In  secondo luogo, si voleva evitare di stabilire qualsiasi relazione fra le  dinamiche dei movimenti sovversivi e i contenuti e le istituzioni dello  sviluppo capitalistico. Giocare con questi, dentro/contro, come la  tradizione sindacale proponeva, aveva infatti prodotto corruzione del  desiderio rivoluzionario ed illusione delle volontà in lotta. Ma trarre  da questi giusti obiettivi critici la conseguenza che ogni tentativo  politico, tattico e strategico di ricostruzione di una pratica comunista  e la fatica di questo esercizio, siano esclusi dalla prospettiva di  liberazione; che non possa darsi un progetto costituente, né alcuna  presa trasformativa dentro la dimensione materiale, immediatamente  antagonista delle lotte; e che ogni tentativo di render conto delle  forme attuali del dominio, in qualsiasi modo esso si sviluppi, sia  comunque subordinato ed assorbito dal comando capitalistico; che infine  ogni riferimento alle lotte all’interno di un tessuto biopolitico, a  lotte – dunque – che considerino in una prospettiva materialistica le  articolazioni del Welfare, non rappresentino altro che un rigurgito  vitalista – bene, tutto questo ha un solo significato: la negazione  della lotta di classe. E ancora: secondo l’“estremismo” badiousiano, il  progetto del comunismo non può darsi se non in maniera privativa e  dentro forme di sottrazione dal potere, e la nuova comunità non potrà  che essere il prodotto dei senza comunità (come d’altra parte sostiene  Rancière). Quello che offende, in questo progetto, è la purezza  giansenista che esso esibisce: ma quando le forme dell’intelligenza  collettiva sono a tal punto disprezzate – perché ogni forma  d’intelligenza prodotta nella storia concreta degli uomini è ricondotta  alla logica del sistema di produzione capitalista – allora, non c’è più  niente da fare. O, meglio, resta da riaffermare l’osservazione sopra già  fatta, e cioè che la pragmatica materialista (quella che abbiamo  conosciuto fra Machiavelli e Nietzsche, fra Spinoza e Deleuze), quel  movimento che vale esclusivamente per sé stesso, quel lavoro che rinvia  solo alla propria potenza, quell’immanenza che si concentra sull’azione e  sull’atto di produzione di essere – è in ogni caso più comunista di  ogni altra utopia che abbia un rapporto schizzinoso con la storia ed  incertezze formali con l’ontologia.
Noi non crediamo dunque possibile parlare di comunismo senza Marx.  Certo, il marxismo va profondamente, radicalmente riletto e rinnovato.  Ma anche questa trasformazione creativa del materialismo storico può  avvenire seguendo le indicazioni di Marx – arricchendolo con quelle che  derivano dalle correnti “alternative” vissute nella modernità, da  Machiavelli a Spinoza, da Nietzsche a Deleuze-Foucault. E se Marx  studiava le leggi di movimento della società capitalista, ora si tratta  di studiare le leggi del lavoro operaio, meglio, dell’attività sociale  tutta intera, e della produzione di soggettività dentro la sussunzione  della società nel capitale e l’immanenza della resistenza allo  sfruttamento sull’orizzonte globale. Oggi non basta più studiare le  leggi del capitale, bisogna lavorare all’espressione della potenza della  ribellione dei lavoratori ovunque. Sempre seguendo Marx: quello che ci  interessa “è il lavoro non come oggetto ma come attività; non come  valore esso stesso ma come sorgente viva del valore. Di fronte al  capitale, nel quale la ricchezza generale esiste oggettivamente, come  realtà, il lavoro è la ricchezza generale come sua possibilità, che si  conferma nell’attività come tale. Non è affatto una contraddizione  dunque affermare che il lavoro è, per un lato, la miseria assoluta come  oggetto, per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come  soggetto e come attività”. Ma come cogliere il lavoro in questo modo, e  cioè non come oggetto sociologico ma come soggetto politico? Questo è il  problema, questo è l’oggetto dell’inchiesta. Solo risolvendo questo  problema possiamo parlare di comunismo – se è necessario (e quasi sempre  lo è) sporcandoci le mani. Tutto il resto è chiacchiera  intellettualista.
fonte: UniNomade
Tratto da: controlacrisi.org
 




 
 
 
 
 
