venerdì 6 settembre 2013

Antonio Gramsci e il comunismo nazionale


Antonio Gramsci e il comunismo nazionale


di Michele Marsonet. Si è molto discusso nel passato anche recente di una presunta diversità del comunismo italiano dovuta alla lettura gramsciana del marxismo. Nessuno – e meno che mai il sottoscritto – intende contestare la grandezza di Gramsci il quale, non a caso, gode oggi di molta notorietà all’estero, e in particolare negli Stati Uniti. Tuttavia alcune delle parole chiave del suo pensiero sono quanto meno ambigue, per esempio “egemonia”. Gramsci parla apertamente nei Quaderni di un “apparato egemonico” da istituire. D’accordo, l’egemonia si fonda sulla convinzione. Resta tuttavia il fatto – davvero essenziale – che al proletariato spetta l’egemonia perché esso, ed esso solo, possiede la Verità. Agli altri non resta che riconoscerlo.
In Francia è stato detto che lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e un’etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune. Si noti inoltre che, secondo il pensatore sardo, senza l’intellettuale organico, ossia senza il partito politico come strumento di elaborazione, diffusione e sperimentazione filosofica, non è possibile costruire un “blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa”. Ne consegue che “i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità integrali e totalitarie, cioè il crogiolo dell’unificazione di teoria e pratica”.
Siamo dunque in presenza di alcuni che possiedono la giusta visione del mondo, e di altri che debbono essere convinti ad adottarla mediante una “pedagogia” che deve puntare più sulla persuasione che sulla forza. Non è detto, ovviamente, che l’operazione riesca. Che cosa succede in caso di fallimento? Gramsci parla di costruire il consenso mostrando qual è la via giusta. Tra la conoscenza della politica e la lotta per trasformare la filosofia della prassi in una “filosofia di massa”, che sia al contempo strumento di trasformazione culturale e di critica della civiltà capitalistica, non esiste una vera differenza.
Ecco quindi che il marxismo di Gramsci si propone di diventare globale e capace di dar vita a una nuova civiltà. Istituire un legame privilegiato tra filosofia e politica significa definire le condizioni di una trasformazione culturale completa, che riguarda proprio i rapporti delle masse col loro modo di vita inteso nell’accezione più vasta. Secondo alcuni, in carcere Gramsci rielabora gli elementi teorici e pratici di una nuova strategia, tendente a investire le contraddizioni dei paesi capitalistici avanzati e quelle del loro Stato, per fare della politica una “scienza totale”. Ma proprio questo è il punto. La politica non può mai essere una scienza totale, poiché è sempre agganciata a ben precise circostanze storiche ed è sempre racchiusa nei limiti della nostra condizione di esseri fallibili e portati all’errore.
“D’altronde – sostiene Gramsci ne Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce – l’organicità di pensiero e la saldezza culturale poteva aversi solo se tra gli intellettuali e i semplici ci fosse stata la stessa unità che deve esserci tra teoria e pratica, se cioè gli intellettuali fossero stati organicamente gli intellettuali di quelle masse”. Molti si sono poi chiesti cosa avrebbero fatto dei comunisti gramsciani al potere nel 1948, oppure come si sarebbero comportati se l’Italia fosse stata inclusa nel blocco sovietico. Ma se si mettono le carte in tavola, e ci si domanda perché Gramsci attribuisse agli intellettuali organici proprio “quelle” funzioni, non si può fare a meno di rispondere che è così poiché essi possiedono lagiusta – e unica – visione della società e della storia.
Snaturare Gramsci facendolo passare per un democratico o, addirittura, per un liberale significa in fondo rendergli un cattivo servizio.
Scriveva Giorgio Bocca nella sua celebre biografia di Palmiro Togliatti: “Togliatti e Gramsci hanno pronunciato nell’occasione (1924) due paragoni destinati a durare nella storia dell’Internazionale, raccolti da Stalin, conditi in tutte le salse conformistiche. Togliatti ha ancora una volta parlato in termini sprezzanti del socialismo riformista, ma precisando l’accusa di ‘ala sinistra della borghesia’, da cui verrà la teoria del socialfascismo. E Gramsci, parlando di Bordiga, ha stabilito per la prima volta l’assioma che tutti gli oppositori di sinistra sono dei trotskisti, ha legato per la prima volta una vicenda del partito italiano a quello russo ‘L’atteggiamento di Trotsky in un primo periodo può essere paragonato a quello attuale di Bordiga, una opposizione – anche mantenuta nei limiti della disciplina formale – da parte di personalità spiccate del movimento operaio può non solo impedire lo sviluppo della situazione rivoluzionaria ma può mettere in pericolo le stesse conquiste della Rivoluzione. Un Gramsci dalla logica staliniana, che anticipa i rischi mortali dell’autoritarismo e che andrebbe ricordata da chi ama dare di lui un’immagine esclusivamente democraticistica”.
In realtà Gramsci riprende il tema del ruolo degli intellettuali affrontato pure da Karl Mannheim, ma pervenendo a una conclusione opposta. Mannheim aveva attribuito all’intelligentsia una funzione mediatrice nei confronti delle ideologie in conflitto, resa possibile dal carattere “distaccato” proprio degli intellettuali. Gramsci li vedeva coinvolti nella lotta di classe, e pertanto organici al partito e alla classe da esso rappresentata. Da un lato dovevano contribuire alla costruzione di una visione del mondo che riflettesse gli interessi della propria classe. Dall’altro avevano il compito di criticare le concezioni del mondo che esprimono gli interessi delle classi avversarie. L’intellettuale era un organizzatore del consenso e un critico delle ideologie concorrenti nello stesso tempo. E, com’è noto, la differenza essenziale tra il marxismo e le visioni del mondo alternative risiede nella scientificità del primo.
Tale scientificità si è poi dimostrata illusoria. Alla storicizzazione dell’economia politica faceva da contrappunto il tentativo di costruire una scienza della società che ne individuasse le leggi oggettive di sviluppo e consentisse quindi di spiegarne i processi e di predire la direzione dello sviluppo futuro. In seguito si è visto che il nesso tra scienza della società e concezione generale della storia, da cui derivava la pretesa di determinare la direzione dello sviluppo storico, era basato su fondamenti illusori. Ora si può più facilmente capire che era proprio quel nesso a generare da un lato la forza del marxismo, e dall’altro la sua grande capacità di suggestione. Ma è pressoché impossibile assegnare alle suggestioni il ruolo di linee guida della ricerca, dal momento che le ipotesi interpretative non si possono equiparare a verità acquisite.
Featured image, Antonio Gramsci nel 1922.

Nessun commento:

► Potrebbe interessare anche: