sabato 20 agosto 2016

RENZI E LO STATO DI DELITTO

RENZI E LO STATO DI DELITTO

Di comidad



La settimana scorsa vi è stata una polemica a distanza tra il presidente turco Erdogan e Renzi sulla vicenda del figlio dello stesso Erdogan indagato dalla Procura di Bologna per riciclaggio. Alla battutaccia di Erdogan, secondo il quale l’Italia farebbe bene ad occuparsi di mafia invece di perseguitare suo figlio, Renzi ha risposto con la barzelletta dell’anno, cioè che in Italia vige lo “Stato di Diritto”.




Non è questione solo dell’Italia, dato che lo Stato di Diritto è una di quelle fiabe che ignorano allegramente il carattere criminogeno di molte leggi, e Renzi dovrebbe saperlo bene. Quando si parla di “diritti del lavoro” si pensa a chissà che cosa, mentre invece si tratta solo di non essere minacciati, ricattati, ingiuriati e torturati. Non esiste un modo “legalitario” di abolire, o anche solo limitare, i diritti del lavoro, come dimostra appunto il renziano “Jobs Act”. Di recente il governo ha improvvisamente scoperto ciò che già si sapeva, e cioè che i famosi “voucher” sono diventati un modo per legalizzare a posteriori rapporti di lavoro in nero, ad esempio in caso di infortuni. La stampa proclama trionfalmente che arriva la “tracciabilità” dei voucher e l’obbligo del preavviso; si minacciano inoltre multe “salate” dai quattrocento ai duemila quattrocento euro ai trasgressori. Il “consigliere economico di Palazzo Chigi” dice che il cambiamento della normativa servirà a contrastare gli abusi evidenti ma che comunque occorrerà aumentare i controlli. Ma non ci si fa sapere quanto si stanzia per questi controlli, che rimangono quindi un vago annuncio. Quale possa essere poi l’effetto di dissuasione di multe di questa entità per aziende che abusano di questa forma di precariato, è evidente a chiunque; perciò l’istigazione a delinquere insita nell'istituzione dei voucher continua pressoché indisturbata.


Lo stesso discorso vale per l’istruzione pubblica, dato che non esistono mezzi legalitari per sabotarla. Per quanto possano essere squallidi gli insegnanti e distratti, chiacchieroni e maleducati gli studenti, alla fine qualcosa si fa. Per impedire quel “qualcosa” non esiste altro mezzo che la violenza fisica e morale nei confronti degli insegnanti. Una “legge” come la “Buona Scuola” non è importante per ciò che dice, ma per il messaggio implicito di onnipotenza e impunità che lancia ai dirigenti scolastici, incaricati di farsi allevatori e mallevadori della criminalità studentesca e del mobbing reciproco tra docenti. I media di regime hanno parlato di “preside sceriffo”, mentre in effetti si tratta di presidi demagoghi, signori feudali, boss mafiosi, che con il loro accentramento di potere delegittimano automaticamente l’intero corpo docente. Il dirigente scolastico come garante dell’impossibilità di insegnare. Lo scopo non è solo di favorire la privatizzazione dell’istruzione, ma anche la spremitura finanziaria della Scuola pubblica come cliente di consulenze e collaborazioni da parte di aziende esterne. A proposito di “tracciabilità”, presidi naif lasciano dietro di sé una scia di prove documentali delle proprie efferatezze, ma l’impunità amministrativa e giudiziaria è ugualmente assicurata. Per la serie “indipendenza della magistratura”.


E a proposito di Stato di Diritto, si è anche assistito allo spettacolo di un governo che ha applicato un provvedimento, il “bail in”, prima che entrasse legalmente in vigore. Lo stesso “bail in” costituisce anche l’esempio di come il sistema del lobbying sia congegnato in modo tale da scalzare il lobbismo più “lecito” a vantaggio di quello più apertamente criminale. Le grandi banche italiane si sono trovate spiazzate da una legge che affossa la loro raccolta di risparmio (chi sottoscriverebbe oggi una obbligazione bancaria?) e le consegna ad operazioni di “salvataggio” da parte di opere pie come JP Morgan; un “salvataggio” che si pretenderebbe di attribuire al mitico “mercato”, ma che invece il governo vorrebbe finanziare utilizzando illegalmente i fondi della Cassa Depositi e Prestiti, fondi soggetti a precisi vincoli statutari. Spacciato come soluzione “interna” alle crisi bancarie, il “bail in” in realtà le ha accelerate, accentuando i rischi di contagio per quelle che sembravano fortezze inattaccabili come Cassa Depositi e Prestiti. Nel frattempo, lo stesso “bail in” serve anche ad indirizzare i piccoli e medi risparmiatori verso l’offshore. Un bel regalo per le banche svizzere.


Renzi ha potuto vincere facilmente la sua battaglia contro Bersani, un politico indottrinato dal Fondo Monetario Internazionale ma ancora troppo legato al territorio ed agli interessi delle piccole-medie aziende e delle municipalizzate del Centro-Nord. Per un’oligarchia il radicamento si rivela uno svantaggio; più è invece sradicata e irresponsabile, più un’oligarchia può farsi agevolmente complice del lobbying sovranazionale. Dopo la caduta del Muro di Berlino si è visto il gruppo dirigente dell’ex PCI staccarsi dalla sua tradizionale base sociale e levitare come una bolla che è andata a cavalcare l’euro, cioè gli interessi deflazionistici della grande finanza. Dopo l’euro sono arrivate partnership lobbistiche anche più inconfessabili, come dimostra il “bail in”. Ai governi basta poi spacciare il loro lobbismo come attivismo ed atteggiarsi a vittime e incompresi di fronte alle critiche. Meno male che ci sono quelli come Erdogan ad addossarsi l’etichetta mediatica del volto criminale del potere.


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