Tutti ricordano le immagini michelangiolesche della Cappella Sistina e tutti sanno che Dio Padre, nelle scene della creazione, è rappresentato come un austero e potente vegliardo con barba e capelli bianchi (VEDI IMMAGINE).
E’ la tipica iconografia della prima Persona della SS. Trinità e la ritroviamo in tante altre raffigurazioni. Ma non è sempre stato così, anzi: nei primi tredici secoli dell’era cristiana Dio Padre non poteva neanche essere rappresentato.
La Chiesa infatti si era trovata davanti al divieto veterotestamentario di raffigurare Dio: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo” (Esodo 20,4).
Tale comandamento divino era stato dato a Israele contro l’idolatria delle altre religioni. Il Dio di Israele, l’unico vero Dio, era totalmente trascendente.
Tuttavia un tale divieto – acquisito e rispettato dai cristiani – non impedì loro di ricorrere alle immagini per illustrare le vicende evangeliche che sono terrene e non impedì loro di venerare quelle immagini sacre.
Se ne trova spiegata la ragione teologica nella Summa di san Tommaso d’Aquino :
“Del Dio vero, essendo esso incorporeo, non si poteva fare alcuna immagine materiale, poiché come dice il Damasceno ‘è cosa sommamente stolta ed empia raffigurare ciò che è divino’. Ma poiché nel nuovo Testamento Dio si è incarnato, può essere adorato nella sua immagine corporea ”.
Il cristianesimo si fonda infatti sull’annuncio di Dio fatto uomo: la sua storia salvifica è un insieme di avvenimenti che si narrano nei Vangeli e che si possono rappresentare, per questo nella Chiesa le immagini acquisteranno una funzione fondamentale e la civiltà cristiana, nel corso dei secoli, sarà una vera e propria esaltazione delle immagini.
Restava fermo tuttavia il veto sulla rappresentazione di Dio Padre, il quale dai cristiani fu raffigurato, per tredici secoli, con il volto e l’aspetto di Cristo, perché, nel Vangelo, Gesù stesso proclama la sua perfetta comunione con il Padre: “Chi vede me vede il Padre” (Gv. 14,9), “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv. 10,30). Infatti san Paolo commenta: “Egli è l‘immagine di Dio invisibile” (Colossesi 1, 15; 2 Corinzi, 4, 4).
“E’ su queste autorità” scrive Alessandra Gianni “che i teologi e i padri della Chiesa consentiranno la rappresentazioni di Dio cristo morfo”.
Un esempio meraviglioso è costituito dai mosaici di Monreale (XII secolo) dove Dio Padre viene raffigurato, nei diversi giorni della creazione, con il volto di Gesù (VEDI IMMAGINE).
Per secoli, nel mondo bizantino e in quello latino, Dio Padre è stato rappresentato attraverso Gesù oppure ricorrendo al simbolo della mano che si affaccia dal cielo, la dextera Patris, segno di Dio che interviene nella storia umana, che dunque diventa sacra.
Ma allora quando e perché Dio Padre ha assunto l’aspetto di un vegliardo con barba e capelli bianchi? E com’è stato possibile, per l’arte sacra, superare totalmente un divieto che affonda addirittura in un comandamento biblico e che era stato osservato fedelmente per secoli nella Chiesa?
Alessandra Gianni affronta precisamente queste domande nel saggio “L’inizio dell’iconografia di Dio Padre”, pubblicato su “Iconographica. Studies in the History of Images” (XVII/2018).
Seguendo questa indagine si scopre che le prime rappresentazioni di Dio Padre come vegliardo si trovano in alcune miniature bolognesi del quarto decennio del XIV secolo.
Progressivamente la nuova iconografia comincerà ad affacciarsi anche nella pittura destinata al popolo, si affermerà definitivamente nel quarto decennio del XV secolo e “sostanzialmente non si troverà più il cristo morfismo dal quinto decennio del Quattrocento in avanti”.
Qual è la ragione di una svolta così importante nell’iconografia cristiana, considerata la sua delicata implicazione biblica?
Per quanto possa apparire sorprendente non c’è nessun pronunciamento ufficiale della Chiesa che autorizzi direttamente una tale svolta iconografica e nei tanti studi degli storici dell’arte che l’hanno analizzata non è mai stata fornita una spiegazione.
Il merito del saggio di Alessandra Gianni è quello di proporre delle ipotesi che finalmente potrebbero storicamente spiegare perché la nuova iconografia si è pian piano affermata e alla fine si è imposta.
L’autrice ne ricerca le ragioni nella storia della Chiesa di quegli anni, non essendo neanche immaginabile che una tale “innovazione” possa essere dovuta all’estro di qualche miniatore o qualche pittore.
La committenza ecclesiastica infatti era ben consapevole delle implicazioni teologiche delle rappresentazioni sacre e della loro delicata funzione catechetica e liturgica (basti ricordare la vicenda dell’iconoclastia).
L’autrice trova che proprio nella storia della Chiesa di quegli anni accaddero eventi che, in effetti, potrebbero spiegare perché, nel giro di pochi lustri, si ha una tale svolta epocale nella rappresentabilità di Dio Padre.
“L’inizio sperimentale della rappresentazione di Dio Padre nelle miniature bolognesi degli anni Trenta” osserva “può essere collegato all’ istituzione della festività della SS. Trinità voluta nel 1334 da papa Giovanni XXII, ma ancor più alla disputa sulla visione beatifica, cioè sul destino delle anime elette dopo la morte, che dal 1331 al 1336 coinvolse tutta la cristianità.
La controversia fu scatenata da alcuni sermoni pronunciati da papa Giovanni XXII nella cattedrale di Notre-Dame-des-Doms per la festività di Ognissanti nei quali egli sosteneva che le anime dei beati in cielo non vedevano e non avrebbero visto Dio faccia a faccia prima del Giudizio universale e che avrebbero goduto soltanto della contemplazione dell’umanità di Cristo secondo l’autorità delle scritture (Apocalisse 6, 9).
Questa ipotesi veniva a contrapporsi alla riflessione teologica precedente basata sui testi biblici che aveva stabilito invece che esse vedono subito il volto di Dio così come egli è.
Papa Giovanni fu costretto a ritrattare questo pronunciamento ritenuto eretico e il successivo papa Benedetto XII il 29 gennaio 1336 emise ad Avignone la costituzione Benedictus Deus con la quale stabiliva che i santi ‘videro e vedono l’essenza divina con visione intuitiva e facciale’”.
E’ significativo che “esattamente negli stessi anni in cui si svolgeva questo dibattito, che vide contrapporsi papi, re, imperatore, teologi nella curia pontificia e nelle università e predicatori dai pulpiti, si abbiano in codici di diritto canonico le prime testimonianze del cambiamento nel modo di raffigurare Dio Padre”.
L’affermazione definitiva della nuova iconografia di Dio Padre, poi, è concomitante, nel secolo successivo, con un altro straordinario evento ecclesiale: il Concilio di Ferrara Firenze (1438-39) che intendeva addirittura risolvere lo scisma con la chiesa greca.
Com’è noto uno dei nodi era rappresentato dalla disputa relativa al “Filioque” del Credo, che concerneva la definizione teologica dei rapporti fra le Persone della Santissima Trinità e i rispettivi “ruoli”.
Vi fu un eccezionale sforzo teologico documentato dalle bolle di unione delle diverse chiese emanate da Eugenio IV, dove fra l’altro si leggono passi in cui si sottolineache “il Padre non è il Figlio o lo Spirito santo, che il Figlio non è il Padre o lo Spirito santo, che lo Spirito santo non è il Padre o il Figlio; ma che il Padre è soltanto Padre, il Figlio è soltanto Figlio, lo Spirito santo è soltanto Spirito santo”.
“E’ lecito pensare che la ridefinizione puntuale dei rapporti fra le Persone della Trinità, esito delle discussioni del concilio” osserva Alessandra Gianni “abbia spinto le committenze negli anni successivi a differenziare l’iconografia del Padre e del Figlio per rendere più comprensibile la diversità nell’unità delle Persone”.
E’ probabilmente da questi eventi ecclesiali che viene l’immagine artistica di Dio Padre come oggi la conosciamo.
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Antonio Socci
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Da “Libero”, 18 febbraio 2019
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1 commento:
Sempre e comunque con questo jehova. Svegliati un pochino Socci, sei diventato peggio di Biglino. Basta fare raccolta di dei in carne ed ossa.
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