Pio d'Emilia
ilmanifesto.it
KESENNUMA (TOHOKU)
Peccato. Peccato davvero, perché invece della finta trasparenza, invece della voglia di distinguere il suo governo da quelli passati, noti per omertà e menzogne,il premier Naoto Kan sta perdendo una grande occasione. Invece di rassicurare, fingendo una trasparenza che non può esserci per via degli enormi interessi economici e politici della questione atomica, potrebbe approfittare di questo disastro annunciato per passare alla storia. Basta con il nucleare. Una scelta difficile, come la pena di morte, ma diventata indispensabile.
Lo chiedono in tanti, ormai, in Giappone, e non solo i vecchi rompiballe intellettuali di sinistra. Per la prima volta sabato 20 marzo, ci sarà una manifestazione nazionale, autogestita, contro il nucleare. «Facciamo di Kasumigaseki (il quartiere della «politica», ndr) la nostra piazza Tahrir», si legge sul sito che l'ha lanciata.
Per ora, purtroppo, Kan resiste, e assieme al suo fido portavoce Yukio «Dumbo» Edano insiste nel dire che tutto è a posto, che sì qualche problema, un paio di esplosioni, un po' di zozzerie radioattive in circolazione, ma poca roba.
L'apparente «trasparenza» del governo divide anche gli stranieri e le loro ambasciate. Americani e italiani gettano acqua sul fuoco, francesi e tedeschi invitano invece i loro cittadini ad abbandonare i paese. Il rischio di una nuova Chernobyl c'è, eccome. Una nuvoletta che se il vento ci aiuta finisce dritta nel Pacifico. Blowin in the wind: basta soffiare nel vento e tutto passa. E se cambia rotta?
Ammesso e non concesso che il nocciolo dei reattori sia ancora integro, che la fusione non sia già avvenuta.
Ma di questo si parla a Tokyo, capitale del Giappone del sud e sempre più «città aperta», vibrante e creativo melting pot che separa i due Giapponi. Quello del sud, dove la vita scorre tranquilla come se nulla fosse, con i bambini che vanno a scuola, la gente in ufficio, treni e aerei in perfetto orario. E quello del nord, che sta collassando giorno dopo giorno. A partire dalla benzina, esaurita ovunque.
Qui a Kesennuma, nello sfigato e distrutto Giappone del Nord, ci sono altri problemi. «Le centrali? Che le riaprissero in fretta, così torna la corrente». Wakagi ha 71 anni, fa il pescatore, o meglio lo faceva, perché è difficile che un governo incapace di portargli dell'acqua e una ciotola di riso dopo tre giorni riesca a ridargli una barca. Del rischio nucleare e delle radiazioni se ne frega. Ha altro a cui pensare, e un po' di energia elettrica, che manca da tre giorni, gli farebbe comodo. Lo tsunami ha portato via tutto a Wakagi, casa, barca e famiglia. Tranne la dignità. I veri samurai, oggi, sono questi pescatori e contadini del Tohoku.
Sono tre giorni che vanno avanti da soli, senza l'ombra di un soccorso, senza lanentarsi e lagnarsi, che in giapponese suona come una parolaccia. Di notte si rannicchiano su una stuoia, il giorno lo passano a rovistare tra le macerie e a fare la fila per un po' acqua piovana. Senza sapere, perché nessuno glielo dice, che in questi giorni forse è meglio ubriacarsi di sake piuttosto che bere quell'acqua. A Kesennuma, una delle roccaforti delle musciare indigene, i pescherecci che cacciano i tonni, siamo arrivati prima noi dell'esercito giapponese. Noi all'alba, dopo un viaggio allucinante attraverso l'Appennino giapponese, loro a mezzogiorno. Noi costretti a peripli assurdi, tra deviazioni improvvise e incomprensibili blocchi stradali. Loro usando le autostrade lasciate libere per facilitare i soccorsi (ed eventuali evacuazioni).
Ma quali soccorsi? L'esercito arriva, fa un paio di giri nell'inferno di Kesennuma, quattro inchini con le autorità locali e poi via, per continuare il giro di perlustrazione. Scrivono, annotano, fotografano, fischiano. Tutti perfetti, tutti ordinati. Non un sorriso, non una parola. Sembra un'esercitazione più che un'emergenza, una operazione di soccorso. Niente tendopoli, niente ospedali da campo, niente pasti caldi, un paio di coperte. E qui non c'è la Caritas, e ai volontari (ammesso che ci siano) il governo ha detto chiaramente di starsene a casa per non intralciare i soccorsi. Ma intanto tutti si arrangiano. Tanto lo sanno come andrà a finire. I giapponesi si sa, non chiedono e tantomeno non pretendono. E qui non siamo a Kobe, teatro del grande terremoto del 1995, quando furono le cosche della Yamaguchi Gumi, la yakuza, a mobilitarsi e dare una mano. Kesennuma è nel Tohoku, il mezzogiorno del Giappone. Una regione oramai separata dal resto del paese. Aereoporti chiusi, treni fermi, strade intasate. Quei pochi che ci arrivano, tra i quali il sottoscritto, rischiano di restarci chissà fino a quando.
Persone esposte alla radiazioni in seguito all'esplosione nella centrale di Fukushima (Credit: AP/Daisuke Tomita)
Difficile capire, anche venendo fin qui, le dimensioni di questa catastrofe, e forse il paragone è scorretto. Ma appena arrivi pensi a Hiroshima, a quelle foto dove tutto è raso al suolo tranne il famoso Palazzo delle Esposizioni. Qui è lo stesso, lo tsunami ha risparmiato solo un paio di edifici in cemento armato, oltre al municipio e una chiesa protestante, che però sono appollaiati su una collina. Il resto è stato spazzato via, strizzato e risputato fuori senza alcun ordine e ritegno. Un peschereccio è finito su un tetto, una moto è appesa a un palo del telefono, resti umani spuntano dal baule di una macchina. Di gente in giro ce n'è, chi viene a cercare, a controllare, semplicemente a guardare. Ma non senti un pianto, un grido, un lamento, una imprecazione, un insulto.
Tutti sereni, tranquilli nel loro dolore, pronti ad eseguire le istruzioni delle autorità, anche quelle senza senso, senza discutere e lamentarsi, come è stato insegnato loro sin da piccini. Quattro persone sono indaffarate ad attaccare un cartello sulla porta di un edificio distrutto. La filiale di una banca. «Causa il terremoto, siamo temporaneamente chiusi». Basta rispettare le forme, e anche la più tragica delle realtà diventa più sopportabile. Un vecchio ci guarda, ci chiede da dove veniamo. Dall'Italia. «Siete come noi, avete perso la guerra, ma vi siete rimbiccati le maniche». Lo rifarà, certo, anche ora... «Non so. Quella volta il futuro era nostro, eravamo fiduciosi. Ora non so. Mio figlio non ha più voglia di far nulla. Io nemmeno. Non so voi, ma noi giapponesi abbiamo perso l'entusiasmo». Speriamo lo ritrovino. Ne hanno proprio bisogno. Per ricostruire il paese. E bandire il nucleare.
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